La mia sosta forzata di Carla Chiappini Ristretti Orizzonti, 28 febbraio 2015 In merito alla chiusura della redazione del giornale "Sosta Forzata" dopo undici anni di attività la direttrice del carcere motiva con una difficoltà di approccio e di relazione con la direttrice della testata, cioè con me. Come replicare? La dottoressa Zurlo dice proprio la verità. È evidente che abbiamo due visioni del mondo non solo divergenti ma proprio opposte. Può darsi che abbia ragione lei e, in ogni caso, è lei che comanda. Questo è chiarissimo. A Napoli dicono che chi tiene in mano vince! E io in mano non ho niente. Anche questo è chiarissimo. Posso contare solo su una grande passione, tanto lavoro, tanto studio e una coscienza molto serena. Ho lavorato un anno nel carcere di Bollate, spesso frequento il Gruppo della Trasgressione nel carcere di Opera, ancor più spesso la redazione di Ristretti Orizzonti a Padova. All'inizio del mio impegno sono andata a formarmi sul carcere e sulla pena dai Gesuiti del Centro San Fedele a Milano, la scuola del Cardinale Martini. Un percorso lungo e molto denso in cui ho incontrato testimoni straordinari. Non ho trascurato nulla nel tentativo di svolgere al meglio il mio compito. Tratto le persone come persone ovunque e, quindi, anche in carcere. Accolgo con grande rispetto e cura le loro storie, i loro pensieri e le loro paure. Non sono mai stata compiacente nei confronti delle loro scelte criminali. Affronto la discussione a viso aperto e non ho paura della replica. C'è anche chi mi ha contestato e ha smesso di frequentare la redazione. Pochi per la verità ma è successo. Ho alcune bellissime lettere di scuse che sono solo mie. Per il resto sono molto dispiaciuta ma anche consapevole di quanto di buono ha fatto il nostro piccolo, piccolissimo giornale nello sforzo di mantenere un dialogo tra le persone ristrette e i cittadini in libertà. Questa a mio avviso è la sola strada per crescere: conoscersi, confrontarsi, parlarsi. Con onestà. E con grande rispetto. Dò rispetto, pretendo rispetto. Per le tante persone che nel corso degli anni si sono fidate, hanno scritto di sé con coraggio e generosità e per me che ho camminato con loro. Questo è tutto. Il resto troverà risposta in altra sede. Formazione di se stessi di Alessandro Bergonzoni La Repubblica, 28 febbraio 2015 Facile, e non lo sarà mai veramente, dire delle carceri italiane (lo scontato di pena) dei "loro" suicidi, del senso lato e largo del termine tortura, o del lavoro esasperato ed esasperante degli agenti di custodia, della loro vita-non vita, a torto o ragione. Semplice denunciare, pur credendo forsennatamente nel continuare a farlo. Credo invece ora sia fondamentale dire della "formazione del personale". Non solo come preparazione ai mestieri, ma del personale come intima parte di noi, che pur non prescindendo dal lavoro, viene prima e va oltre la professionalità o l'etica stessa. Parlo del personale nostro, da elevare, far crescere e nutrire: le mele marce ci son dappertutto? Ospedali, polizia, impresa... Va bene, ma quando si comincerà a parlar dell'albero e soprattutto della "terra dentro", da coltivare diversamente, ora per ora, gesto per gesto, pensiero per pensiero? Neanche tanto nascosti, dietro ai social ci sono uomini (e non mi riferisco solo a quelli denunciati) che continuano a parlare di vita, morte o colpa solo dal punto di vista di utilità, economia, amministrazione, politica o legislazione; che continuano a vedere suicidi, condannati, pazienti o diversi, e mai esseri in natura. Non c'è giuramento di Ippocrate o alla patria, che prescinda da una preparazione d'altro genere, genere sovrumano, superiore. Si può studiare una nuova "formazione interiore" fatta di parole, atti e sensi d'altra portata, forza? Una forza nata dalla trasformazione del sentire, non più solo comune, ma trascendentale, sacro? La terra dove cresce ancora certa mentalità, va rimossa, dissodata, scavata, arata e seminata con altre intenzioni: darà altro cibo, alberi, mele. Per non perdere mai più un uomo che dovevamo salvare prima che punire, dobbiamo nascere, crescere e allevarci come uomini che sappiano provare e rispettare, non che deridano o vogliano la morte di nessuno, né a parole, né a pensieri. La formazione del personale, (che ovvio non prescinde dalle norme, per detenuti di un carcere che uccide, o per categorie di lavoratori dello Stato) dobbiamo farla noi tutti i giorni, cambiando le regole di ingaggio delle nostre mancanze o incapacità, dei nostri rapporti col male, l'insostenibile, l'inconcepibile. Non si può solo aspettare che i colpevoli siano assicurati alla giustizia (?) da una parte o dall'altra, ma si può cominciare ad educarci da soli, sempre, a capire dove siamo colpevoli quando non dissodiamo la nostra terra secca, e perché non pretendiamo di più, non dalle istituzioni, ma dalla portata della nostra costituzione interiore, che richiede l'uso d'arti differenti, arti della bellezza ulteriore (non quella di cui parliamo a sproposito nei posti più inutili) ma quella interiore; spesso suicida anch'essa per mancanza di spazio esistenziale, tra i troppi muri della comunicazione mediatica che ha perso "conoscenza". Vale per qualsiasi mestiere, o qualunque tragedia più grande di noi: è proprio quel più grande di noi che urla d'essere riconosciuto, amato, abitato. Scuole di polizia o professionali? Forse anche, ma prima formazione di sé, corso di anima, grande come dobbiamo essere. La politica faccia un passo in alto! Giustizia: così Magistratura Democratica ha "invaso" il Governo di Giovanni Maria Jacobazzi Il Garantista, 28 febbraio 2015 La scorsa settimana, alla vigilia del Comitato Direttivo Centrale dell'Associazione Nazionale Magistrati convocato per decidere quali forme di protesta mettere in capo per contrastare l'approvazione della legge di riforma della responsabilità civile delle toghe, i direttivi di Area e di Magistratura Indipendente si erano vicendevolmente accusati, con due comunicati al vetriolo, di quello che il codice penale definirebbe "intelligenza con il nemico". Area, la corrente di sinistra che comprende Magistratura Democratica e Movimento per la Giustizia, accusava Magistratura Indipendente, favorevole allo sciopero e alla linea dura, di avere sulla questione responsabilità civile un atteggiamento "paradossale". Paradossale", avendo all'interno dell'esecutivo che "approva e continua a proporre provvedimenti drasticamente peggiorativi delle condizioni dei magistrati e della giurisdizione" il proprio "esponente più rappresentativo", cioè il sottosegretario Cosimo Maria Ferri. Per anni segretario generale di Magistratura Indipendente. Piccata era stata la risposta del direttivo di Magistratura Indipendente arrivata a stretto giro. "Comprendiamo che ad Area può sembrare "paradossale" che il gruppo di Magistratura Indipendente possa richiedere non solo a parole, ma anche con i fatti forme di protesta estrema contro il Governo quando un suo ex Segretario Generale svolge un ruolo di primaria importanza nell'Esecutivo, ma la ragione è semplice - anche se per Area possa essere inaccettabile ed impraticabile - perché, a differenza di Loro (che hanno molteplici aderenti al loro gruppo in posti chiave di diretta collaborazione con il Governo), riusciamo senza alcun imbarazzo a sostenere le nostre idee ed a tutelare gli interessi prioritari dei Nostri Colleghi". Per curiosità, dopo una piccola ricerca sulle caselline dell'organigramma del ministero della Giustizia, abbiamo scoperto che il direttivo di Magistratura Indipendente non aveva tutti i torti quando faceva riferimento ai "molteplici aderenti di Area in posti chiave di diretta collaborazione con il Governo". Le sorprese non sono infatti mancate. Il ministero di via Arenula, senza possibilità di smentita alcuna, è saldamente presidiato da Magistratura Democratica, che può contare sul Capo di Gabinetto del Guardasigilli, Giovanni Melillo con i sui suoi due vice, Francesco Cascini e Barbara Fabbrini. È di Magistratura Democratica il direttore generale degli Affari penali, Raffaele Piccirillo, come pure il direttore generale per i Sistemi informativi automatizzati, Giuseppe Liccardo. Lo stesso Ufficio legislativo è in mano ad un esponente di Area, Domenico Carcano. L'intera "filiera" dell'organizzazione giudiziaria è, dunque, coperta. Ma il bello deve ancora venire. Magistratura Democratica presidia con il capo, Elisabetta Cesqui, ed il suo vice, Giulio Sarno, anche l'Ispettorato del ministero: il posto ricoperto per anni da Arcibaldo Miller, il castiga toghe ai tempi del governo Berlusconi (chiedete a Luigi De Magistris quando era pubblico ministero a Catanzaro). E non finisce qui. Oltre alle toghe che controllano le altre toghe, appartengono a Magistratura Democratica anche vice capo dipartimento Affari di Giustizia, Anna Maria Palma Guarnieri, e il rappresentante permanente dell'Italia all'Onu, Luigi Marini. Dulcis in fundo, proprio per non farsi mancare nulla, anche la presidente della Commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti, è una iscritta ad Md. E gli altri? Unicost si difende molto bene: oltre al capo dipartimento Organizzazione Giudiziaria e dei Servizi, Mario Barbuto, ed al suo vice Claudio Petrelli, ha ben tre direttori generali: Marco Mancinetti, direttore generale Giustizia civile, Antonio Mungo, direttore generale Servizi, Emilia Fargnoli direttore generale del Personale e della Formazione. Per la cronaca, alla direzione della Giustizia civile, schiera anche Giovanna Ciradi. In questa overdose di magistrati fuori ruolo che non scrivono sentenze, Mi è la cenerentola. Potendo schierare come pezzo forte solo il capo del Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria, Santi Consolo e il suo direttore generale, Calogero Piscitello. Ma a parte i detenuti, che comunque non interessano a nessuno e sono solo fonte di problemi, nei posti che contano ha unicamente Paolo Porreca, vice capo ufficio legislativo. Se è sfuggito qualcuno, chiediamo scusa. Giustizia: tutti in carcere e zero diritti… il vangelo secondo Matteo (Salvini) di Damiano Aliprandi Il Garantista, 28 febbraio 2015 Liste di proscrizione per chi esercita la sua professione di avvocato, anatemi contro ogni decreto definito a torto "svuota carcere", attacchi contro la depenalizzazione per i reati minori, disprezzo per gli immigrati rinchiusi in carcere e la richiesta di rimandarli nei propri paesi di origine, leggi dure e più repressione. Sono le battaglie principali, securitarie e legalitarie di Matteo Salvini, il capo della Lega che oggi manifesterà a Roma. Gli anatemi del leader leghista che riguardano la sua visione carcerocentrica e di annientamento dello stato di diritto della nostra società. La vicenda del pakistano bolzanino espulso dall'Italia con un provvedimento diretto del ministero dell'Interno nell'ambito delle precauzioni anti terroristiche, aveva amplificato le spinte xenofobe di alcuni partiti e movimenti che del razzismo ne hanno fatto una battaglia principale. La settimana scorsa il segretario della Lega ha richiamato l'attenzione sui possibili sviluppi del ricorso depositato al Tar del Lazio dall'avvocato trentino Nicola Canestrini, difensore del giovane pakistano. Salvini sulla sua pagina Facebook ha scritto parole di indignazione sul fatto che il giovane pakistano abbia trovato un avvocato italiano disposto a curargli un ricorso davanti al Tar del Lazio per cercare di ottenere la sospensiva del provvedimento di espulsione ed in seguito il totale annullamento. "Inneggiano all'Isis e poi ricorrono alla giustizia italiana", il titolo del post, Salvini in pratica ha espresso la sua contrarietà al fatto che uno straniero si rivolga alla giustizia italiana per la tutela dei suoi diritti, scandalizzandosi perché un avvocato italiano lo difenda. A quel punto ne sono seguiti centinaia di commenti intimidatori, i quali hanno attaccato l'avvocato per aver accettato questa difesa, lanciando gravissime minacce a lui e alla sua famiglia, negando il diritto di ogni persona a difendere i suoi diritti e di ogni avvocato di assumere la difesa di ogni soggetto colpito da provvedimenti ritenuti ingiusti e illegittimi. L'associazione degli avvocati "Legal Team Italia" ha prontamente emanato un comunicato contro la lista dì proscrizione di Matteo Salvini, esprimendo che "l'attacco all'avv. Canestrini è un attacco al diritto di difesa, regolato dalla Costituzione e dalle norme, anche internazionali, a tutela del libero esercizio dell'attività professionale forense". Il comunicato poi prosegue spiegando che "tali norme stabiliscono che non è lecito identificare l'avvocato con le posizioni del proprio cliente; che l'attacco alla libertà dell'avvocato è un attacco non solo alla sua posizione, ma colpisce direttamente anche i diritti fondamentali delle persone colpite da provvedimenti emessi dall'autorità giudiziaria o amministrativa, perché rende più difficile la difesa contro tali provvedimenti; che la libertà dell'avvocato è presidio fondamentale della libertà di tutti i cittadini e di tutti i corpi sociali". La nota di "Legal Team Italia" continua denunciando la situazione imbarazzante dello stato di diritto che colpisce l'intero continente europeo: "Pur senza giungere ai livelli di efferatezza esistenti in molti paesi, gli attacchi agli avvocati che sì stanno verificando in Europa (tra cui la ventilata possibilità di intercettare le comunicazioni tra avvocato e cliente) sono un motivo di grave allarme e preoccupazione". E conclude: "Questi attacchi non intimidiranno gli avvocati democratici che rinnovano il loro impegno per la difesa e il rafforzamento dei diritti fondamentali, tra cui quello di assicurare ad ogni cittadino, di qualsiasi nazionalità, la possibilità di difendere nelle sedi giudiziarie i propri diritti". Matteo Salvini, sempre nella stessa settimana, ha perfino approfittato dell'interessante dossier sugli immigrati in carcere redatto dall'associazione "Antigone" per creare indignazione attraverso Facebook: "Ormai più di un terzo dei detenuti nelle carceri italiane è composta da immigrati con punte che superano il 50% al nord - scrive Salvini sulla sua pagina - e molti di questi si lamentano perché non c'è un cibo differenziato per religioni, non ci sono luoghi di culto per tutti, non c'è Skype. Io comincerei a farli lavorare tutti e a rimandare al loro paese i detenuti stranieri che possono essere espulsi. Prima lavorano, poi (forse) si lamentano". Pronta è stata la risposta di Patrizio Gonnella, il presidente di Antigone: "Ho l'impressione che Matteo Salvini abbia capito poco (e quel poco lo ha pure capito male) del nostro rapporto sugli stranieri detenuti. Noi siamo per i diritti di tutti, compresi i suoi. E i diritti alla salute, religiosi, al lavoro valgono suo malgrado proprio per tutti. Comunque quando al governo il ministro della Giustizia era Castelli, suo compagno di Lega, c'erano quelli che facevano affari, il sovraffollamento cresceva e l'Italia ha dovuto dopo pagarne i danni". Ma per Salvini - e ovviamente non solo - l'Italia è diventata il paradiso dei delinquenti. Lo disse all'indomani della depenalizzazione dei reati minori passato per decreto. Sempre su Facebook aveva chiosato: "Il governo ha depenalizzato alcuni reati lievi, per cui niente galera per chi commette furto, danneggiamento, truffa e violenza privata". E aveva aggiunto: "Con la sinistra al potere l'Italia diventa il paradiso dei delinquenti. Non mi rassegno, la Lega farà opposizione totale a questa follia". Peccato che sia stato smentito perfino da Rodolfo Sabelli, il capo dell'associazione nazionale magistrati: "Da sempre siamo favorevoli alla non punibilità per la tenuità del fatto: riusciremo a liberare i tribunali per fatti di scarso allarme e tutto passerà al vaglio di un giudice con tutte le garanzie. Non credo si debba spingere con troppa enfasi sulla sicurezza". Salvini è la perfetta incarnazione del più basso populismo e risulta in salita con i sondaggi: in Italia sta nascendo un blocco reazionario contro l'austerità che non è da sottovalutare. Per arginare ciò probabilmente ci vorrebbe una sinistra libertaria, capace di difendere lo stato di diritto, contro una visione dello Stato etico. Ma ancora non se ne vede traccia. Giustizia: i primi a non fidarsi dei giudici… sono gli stessi magistrati di Davide Giacalone Libero, 28 febbraio 2015 Il focoso dibattito sulla responsabilità civile dei magistrati troverà posto negli annali. Ma non di diritto, bensì di psichiatria. Sembriamo tutti matti, impegnati a suppore oscuri disegni del fronte avverso, ma totalmente incapaci di attenerci alla realtà. Da una parte c'è rigoverno, che pretende di avere rivoluzionato il mondo spostando tre virgole e non cambiando un accidente. Dall'altra c'è la magistratura associata che si sente minacciata dall'ipotesi d'essere giudicata da dei colleghi, considerandoli pericolosi. Se si prende sul serio il loro allarme se ne deduce che i primi a non fidarsi dei magistrati sono i magistrati. Osservate questi numeri: dal 1988 a oggi, in virtù della legge sulla responsabilità civile dei magistrati (che non è stata inventata ora, ma è il frutto del tradimento di un referendum del 1987, voluto da radicali, liberali e socialisti) ci sono state 7 condanne, una ogni tre anni e mezzo; dal 1991 a oggi, solo per ingiusta detenzione cautelare, ben 23.226 cittadini sono stati risarciti, con un costo, per lo Stato, di 580 milioni (il danno che hanno subito è imparagonabilmente maggiore); a questi si aggiungono altri 32 milioni, pagati per ingiuste condanne. Sono numeri veri, ma fra loro incompatibili. Possono convivere solo perché la legge sulla responsabilità civile dei magistrati è stata un fallimento. Ora la si cambia. È un bene? No, perché non cambia nulla di serio. A giudicare il collega che sbaglia sarà sempre un altro collega, che già i magistrati prevedono che sbagli (altrimenti si fiderebbero e si metterebbero quieti). Il magistrato, del resto, come dice il ministro della giustizia, Andrea Orlando, "è chiamato a rispondere soltanto quando si prova la negligenza ine-scusabile, quando, ad esempio, si è dimenticato una persona in galera". Roba da matti: chi si dimentica in galera qualcuno non è che debba pagare, se ne deve andare. Per il resto sono responsabili in caso di dolo, vale a dire nel caso in cui hanno arrecato dei danni ad altri sapendo e volendolo fare. Ma chi agisce in questo modo non deve fare il magistrato. Per il resto no, non pagano. E questa sarebbe l'aggressione all'autonomia della magistratura? Prima lo Stato poteva rivalersi sul magistrato, quando provocava danni, ora è tenuto a farlo. Rivoluzione? No, presa in giro: deve rivalersi nei casi di cui sopra, altrimenti nisba. Pensate che un conducente di autobus che abbatte una panchina deve pagare i danni, anche in caso di semplice svista o incidente. Se lo fa con dolo, nel senso che ha puntato la panchina, giustamente gli tolgono il lavoro, perché è un pazzo. E neanche esisterebbe la responsabilità dei medici, se si dovesse dimostrare il dolo, ovvero che ti hanno volutamente e sadicamente asportato il rene sbagliato. Dice Orlando che le norme sono state discusse e concordate sia con il Quirinale che con l'Associazione nazionale magistrati. Non faccio fatica a crederci. Faccio fatica a immaginare il dialogo. Non si sono messi a ridere? Dice Orlando che nella relazione il governo chiarirà cosa significa "travisamento del fatto e delle prove", vale a dire che neanche è emanata è già la legge va interpretata. Dice anche che dopo tre mesi faranno il tagliando: se non funziona la cambiano. Le altre leggi, tutte, invece, restano in vigore anche se ciofeche. Così imparate, oh cittadini, a non avere fatto i magistrati. Tutto questo chiacchiericcio è pazzotico, perché l'interesse collettivo è che la giustizia funzioni al meglio, non potendosi eliminare l'errore, ma potendosi e dovendosi allontanare gli incapaci. Supponendo che i disonesti siano puniti, non solo allontanati. Tale interesse non è tutelato dalla responsabilità civile, che oltre a non funzionare giunge a valle dell'errore. Dovrebbe esserlo dalla procedura, che in Italia non funziona e non funzionerà mai perché il nostro è il solo Paese civile al mondo in cui è così smodato l'incesto fra chi accusa e chi giudica. Non se ne esce, se non con separazione delle carriere e fine dell'obbligatorietà azione penale. È chiaro che se il procuratore continua a accusare chi poi viene assolto, e se il giudice continua a scrivere sentenze poi riformate, entrambi devono cambiare mestiere. Si obietta: con la separazione l'accusa perde la cultura della giurisdizione e diventa troppo potente. Bene, la voglio potentissima e cattivissima, dato che la pago per perseguire i presunti criminali. Ma voglio che a giudicare non ci siano dei loro colleghi. Fuori da tale elementare ovvietà c'è solo la follia del dibattito in corso. Giustizia: quanto spende l'Italia per gli errori giudiziari? Nel 2014 ha risarcito 1,6 milioni di Chiara Rizzo Tempi, 28 febbraio 2015 Mentre non si sopiscono le polemiche nella magistratura per la legge sulla responsabilità civile dei giudici, vale la pena ricordare che da due anni a questa parte, la relazione annuale presentata dalla direzione generale del ministero della Giustizia per il contenzioso e per i diritti umani inizia sempre allo stesso modo. "La materia dei ritardi della giustizia ordinaria costituisce la gran parte del contenzioso seguito. Per altro il numero e l'entità delle condanne (allo Stato di risarcimento ai cittadini, ndr.) rappresentano annualmente una voce importante del passivo del bilancio della Giustizia, voce la cui eliminazione dovrebbe porsi come prioritario obiettivo dell'amministrazione". E poi quantificano una cifra che, invece, puntualmente, di anno in anno diventa sempre più ingente. Solo per i risarcimenti legati alla ragionevole durata dei processi, lo Stato italiano ha "un debito che a metà del 2014 ammontava ad oltre 400 milioni di euro". Una cifra a cui vanno ulteriormente aggiunti vari milioni di euro di risarcimento per altri danni causati dalla magistratura italiana ai cittadini, tra cui l'ingiusta detenzione o l'errore giudiziario. La relazione della direzione generale del ministero evidenzia un particolare che farebbe sorridere, se non piangere. Oltre all'ammontare del debito dovuto dallo Stato per i processi lumaca, nel solo 2014 a questa cifra si sono aggiunti "mille ricorsi presentati alla Corte europea dei diritti dell'uomo per lamentare il pagamento ritardato degli indennizzi" già fissati per i cittadini che hanno subìto un danno per l'eccessivo ritardo dei processi. Pur non quantificando gli eventuali risarcimenti dovuti né la loro conclusione, la relazione resa pubblica all'inizio di quest'anno certifica anche che nel 2014 sono stati presentati 37 nuovi ricorsi per la responsabilità civile dei magistrati (ancora regolamentati dalla vecchia legge). Questi ricorsi vanno a sommarsi agli oltre tremila ricorsi presentati tra il 1989 e il 2012. Bisogna passare ad un'altra relazione di un'altra direzione generale, quella dei servizi del Tesoro che si occupa materialmente di liquidare i risarcimenti pecuniari, per comprendere quanto sia enorme la piaga degli errori giudiziari in Italia. Con questo termine sono indicati tutti quei casi di persone condannate con una sentenza divenuta definitiva e che poi stati assolti da un processo di revisione. Nel 2014 si è registrato per gli indennizzi di questi casi un vero e proprio record: si è passati dai 4mila euro dovuti nel 2013 per 4 casi di errore agli 1,6 milioni di euro dovuti per i 17 nuovi errori giudiziari. Di questi indennizzi, in particolare, 1 milione è stato disposto come risarcimento per la vittima di un errore a Catania, mentre gli altri 600 mila euro sono andati a 12 persone di Brescia, due di Perugia, una di Milano, una di Catanzaro. Dal 1991, quando con la legge Vassalli sono stati erogati i primi risarcimenti, fino al 2012 lo Stato ha pagato 575 milioni 698 mila euro per i casi di malagiustizia. Tra i nuovi casi che si stanno discutendo nei tribunali, a Catania spicca quello di Giuseppe Gulotta, ingiustamente condannato al carcere per 22 anni e poi assolto perché il fatto non sussiste, che ha chiesto 69 milioni di euro di risarcimento. La legge prevede che vengano risarciti anche tutti quei cittadini che sono stati ingiustamente detenuti, anche solo nella fase di custodia cautelare, e poi assolti magari con la formula piena. Nel solo 2014 sono state accolte 995 domande di risarcimento per 35,2 milioni di euro, con un incremento del 41,3 per cento dei pagamenti rispetto al 2013. Dal 1991 al 2012 lo Stato per questo motivo ha dovuto spendere 580milioni di euro per 23.226 cittadini ingiustamente sbattuti dietro le sbarre negli ultimi 15 anni. Tra le città con un maggior numero di risarcimenti nel 2014, in pole position c'è Catanzaro (146 casi), seguita da Napoli (143 casi). Giustizia: si è aperta la stagione di caccia al magistrato di Gian Carlo Caselli Il Fatto Quotidiano, 28 febbraio 2015 Il problema della responsabilità civile dei giudici comporta scelte di vera e propria civiltà, essendo in gioco il rispetto della libertà dei magistrati contro le intimidazioni di questo o quel soggetto che voglia difendersi non tanto "nel" ma "dal" processo. Una volta funzionavano bene, al riguardo, le leggi ad personam. Oggi abbiamo la nuova disciplina della responsabilità, che apre praterie sconfinate alle azioni di disturbo o di rappresaglia di chi non accetta la giurisdizione. Ma in un modo o nell'altro sono sempre - appunto - questioni di civiltà. Che in quanto tali non si possono ridurre in pillole propagandistiche a colpi di slogan e tweet. Tanto più se abbondano frasi fatte o ipocrisia. Tipo: la giustizia sarà meno ingiusta; i cittadini saranno più tutelati; finalmente chi sbaglia paga. Purtroppo, oggi come oggi la giustizia è già strutturalmente ingiusta. Una decina di anni fa, in epoca "non sospetta", non ancora influenzata dalle polemiche sulla responsabilità, scrivevamo (Lettera ad un cittadino che non crede nella giustizia, Caselli-Pepino, Laterza 2005) che il nostro sistema penale si caratterizza ormai per la compresenza di due distinti codici. Uno per i "galantuomini", le persone giudicate "per bene" comunque e a prescindere, in base al censo e alla condizione socio-politica: per loro vige di fatto un sistema pensato per misurare il tempo occorrente a che la prescrizione cancelli i processi, così da favorire la richiesta dei "potenti" di essere sciolti dalle regole. E un altro codice per cittadini "qualunque", capace pur sempre - anche se con molte differenze - di segnare la vita e i corpi delle persone. Ora, la nuova disciplina della responsabilità, nel momento in cui elimina ogni filtro dell'azione civile (invece di affinare e perfezionare quelli esistenti), offre ancor più opportunità di intorbidare le acque processuali alle parti economicamente forti, cioè proprio ai "galantuomini" che già godono di una situazione privilegiata. E sono opportunità non da poco, perché si consente l'azione sia per "violazione della legge" sia per "travisamento del fatto e delle prove", che sono formule incerte (tali anche a fronte ad aggettivi come "macroscopico" o "evidente", più che altro squilli di tromba che fanno rumore ma non sciolgono i nodi): formule sufficientemente equivoche perché soggetti processuali spregiudicati e senza scrupoli, assistiti da avvocati agguerriti e perciò costosi, scatenino un vero e proprio fuoco di sbarramento contro i giudici per loro "scomodi". Tutto il contrario, in definitiva, di una giustizia meno ingiusta e di una maggior tutela per i cittadini. A guadagnarci, ancora una volta, saranno solo i "galantuomini". Se l'azione civile contro il giudice sarà la regola o comunque potrà essere massicciamente esercitata in maniera temeraria a scopo intimidatorio, non si sbaglia di certo ad ipotizzare che molti magistrati saranno portati a scegliere le iniziative e le opzioni interpretative meno rischiose, vale a dire che diverranno più insicuri e paurosi in generale e nei confronti dei soggetti processuali "forti" in particolare. Il che significa che privilegeranno una lettura burocratica del proprio ruolo, perché la nuova legge a questo li spinge se vogliono ripararsi dalla tempesta delle cause strumentali ormai senza argini. Col paradosso che si tratta di una direzione tutt'affatto contraria a quella indicata dal capo dello Stato nel suo discorso di martedì alla scuola di formazione dei magistrati, là dove (citando Calamandrei) ha detto che in democrazia il pericolo maggiore per i giudici "è quello dell'assuefazione, dell'indifferenza burocratica, dell'irresponsabilità anonima". E non è questo l'unico paradosso, se si pensa che i magistrati più incattiviti per la riforma (che avrebbero voluto scioperare subito per protesta) sono quelli che fanno capo alla "corrente" di fatto guidata da un magistrato prestato al governo come... sottosegretario alla Giustizia! Quanto allo slogan "chi sbaglia paga" va bene per uno spot, ma non regge a un'analisi seria. Il punto non è certamente se pagare o meno, ma "come" pagare e per "quali" sbagli. Cioè pagare sì, non ci piove, ma senza compromettere l'indipendenza dei magistrati, come invece inesorabilmente avverrà con la nuova legge. Posto infine che tale indipendenza non è un patrimonio della casta dei giudici (figuriamoci, altro slogan...), ma dei cittadini tutti, perché altrimenti non si potrebbe neppure sperare in una giustizia più giusta, almeno tendenzialmente uguale per tutti. Giustizia: Orlando ci ripensa "sì, c'è il rischio di infiltrazioni terroristiche nelle carceri" Secolo d'Italia, 28 febbraio 2015 "Il rischio di proselitismo nelle carceri per le organizzazioni terroristiche è effettivo: abbiamo percentuale alta di detenuti che proviene da paesi in cui sono attive organizzazioni jihadiste". Lo ha detto a Radio24 il ministro della Giustizia Andrea Orlando. "Dobbiamo fare in modo - ha aggiunto il Guardasigilli - che non vi siano violazioni dei diritti che possano far aumentare il consenso della popolazione islamica che non è legata a questa visione e può diventarlo di fronte a forme di discriminazione". Un passo indietro, quindi, dopo polemiche dei giorni scorsi che avevano visto il ministro accusato di voler dare "la priorità" ai musulmani. "Io mi riferivo al diritto di culto, che nelle nostre carceri è garantito a tutti. Bisogna fare attenzione -a non consentire che si produca un brodo di cultura in cui i reclutatori possono trovare uno spazio di manovra significativo. E fare attenzione a che la rete stessa del culto non possa essere usata in questo modo". La magistratura e la giustizia stanno attraversando "un passaggio storico", ha detto ancora Orando, "stanno cambiando alcune funzioni, c'è una difficoltà dovuta alle carenze organizzative, di organico, alle nuove tecnologie: è una passaggio complicato". Il ministro della Giustizia ci tiene a sottolineare che sulla riforma della responsabilità dei giudici c'è la tendenza "a scaricare anche questo malessere, con letture che vanno al di là dai contenuti della legge stessa". Donzelli (Fdi): rischio proselitismo nelle carceri "C'è il rischio concreto che le organizzazioni terroristiche facciano proselitismo nelle carceri italiane fra gli immigrati detenuti. Gli stranieri devono scontare la loro pena nel Paese d'origine perché c'è il pericolo che da delinquenti si trasformino addirittura in jihadisti". Lo afferma Giovanni Donzelli, membro dell'esecutivo nazionale di Fratelli d'Italia-Alleanza Nazionale e candidato governatore in Toscana. "Come il ministro della Giustizia sa - continua Donzelli - ci sono tanti detenuti che provengono da paesi in cui le organizzazioni terroristiche sono molto attive. Sia nel caso che questi detenuti siano pericolosi criminali, ma anche nel caso che siano dei disperati arrestati per reati cosiddetti minori, sta di fatto che molti di loro non hanno nulla da perdere e quindi sono facilmente disponibili ad abbracciare il terrorismo. Bisogna assolutamente evitarlo e l'unico modo che c'è è di rimandarli nei loro Paesi d'origine a scontare la pena". Giustizia: amianto in carcere, doppia condanna dietro le sbarre da Alessandria a Trapani Adnkronos, 28 febbraio 2015 L'amianto è presente nel 14% dei penitenziari italiani. Lo rivela una mappatura in possesso dell'Adnkronos. Dietro le sbarre con un killer silenzioso e il rischio, per i detenuti, di una doppia condanna. Sono 28 le carceri italiane dove è ancora presente l'asbesto, il minerale cancerogeno usato comunemente nelle costruzioni fino al 1992 quando una legge, la 257, lo ha bandito dal nostro Paese. Grondaie, tettoie, pannelli, cassoni, parti di impianti di depurazione, canne fumarie, manufatti all'interno dei vecchi penitenziari continuano a minacciare la salute di chi in galera sconta una pena e di chi ci lavora. Da Alessandria a Trapani sono tante le carceri ancora imbottite di amianto. Ventotto secondo il ministero della Giustizia, di più stando alle segnalazioni che arrivano dai sindacati di polizia penitenziaria e che aggiungono altri istituti a quelli già presenti nell'elenco fornito dal ministero. Come nel caso di Orvieto, dove "all'interno di un magazzino c'è un deposito di eternit rimosso molto tempo fa e in eternit sono due canne fumarie funzionanti", dice Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto del sindacato di polizia penitenziaria Sappe. La mappatura che l'Adnkronos è riuscita ad ottenere è stata anche oggetto di un'interrogazione parlamentare presentata dal deputato del Movimento 5 Stelle Alessio Villarosa l'11 febbraio scorso. Il ministero chiarisce che nei casi segnalati "le direzioni hanno da tempo avviato le procedure per lo smaltimento" e dunque "tali situazioni sono sotto controllo, riguardano manufatti esterni alle strutture detentive e comunque in corso di rimozione". Nello stesso prospetto fornito dal ministero si legge, per esempio, della presenza di "pannelli in eternit presso l'impianto di depurazione e nella canna fumaria della centrale termica" del carcere di Catania Bicocca, un complesso penitenziario dove ha sede anche l'istituto per i minori. E ancora a Catania, nel carcere di piazza Lanza, di una "tettoia nel cortile di passeggio per un totale di 110 metri quadri". Per quanto riguarda poi la bonifica, nella tabella in almeno sei casi si legge, nero su bianco, che "si provvederà nel corrente esercizio finanziario, compatibilmente con le risorse disponibili". "La situazione è veramente drammatica - dice all'Adnkronos Alessandro De Pasquale, segretario generale del Sippe - noi come segreteria generale abbiamo scritto a vari organi dell'amministrazione penitenziaria" e, aggiunge De Pasquale, "la cosa strana è che sempre nelle lettere dell'amministrazione penitenziaria c'è questo tentativo di minimizzare il problema perché si legge sempre piccolo quantitativo, non pericoloso per i lavoratori ma l'amianto è comunque un pericolo per la salute pubblica. I colleghi quotidianamente ci segnalano le problematiche ma c'è una scarsa informazione sul pericolo costituito dall'eternit o comunque dalle fonti di amianto". "L'amministrazione statale, il nostro datore di lavoro, ai sensi del decreto legislativo 81 del 2008 ha anche un obbligo di informazione nella propria unità amministrativa. Deve informare i lavoratori - aggiunge De Pasquale - sui rischi che ci sono all'interno della struttura ed è chiaro che molto spesso questo non avviene. Dobbiamo sempre ricordare che all'interno di una struttura penitenziaria ci sono i detenuti che devono scontare una pena, ma non è che devono scontare anche una pena di morte". Medici penitenziari: fra i detenuti più alta incidenza tumori "Non tranquillizza sapere che l'amianto è presente nel 14% dei penitenziari italiani. Si tratta di un rapporto che ignoravamo, e che vorremmo studiare per valutare l'entità di questa presenza. Invece sappiamo che negli istituti penitenziari l'incidenza di neoplasie è superiore a quella della popolazione generale". Lo afferma all'Adnkronos Salute Giulio Starnini, segretario generale Simspe (Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria), alla notizia dei risultati della mappatura sull'amianto nelle Carceri, in possesso dell'Adnkronos. "Come società scientifica - rileva Starnini, direttore dell'Unità operativa di Medicina protetta del Belcolle di Viterbo - ignoravamo questo rapporto, e davvero vorremmo poterlo esaminare per valutare l'entità e la presenza di questa sostanza nei penitenziari. C'è inoltre un aspetto importante di cui tener conto: l'elevata incidenza delle neoplasie fra i detenuti. Un fenomeno cui concorrono varie cause, come il fumo. Ma certo sapere che esistono anche aspetti ambientali che potrebbero contribuire a innescare patologie tumorali non rasserena. Finora, comunque, le patologie dei detenuti non sono mai state messe in correlazione con l'asbesto. E che io sappia casi di asbestosi o mesotelioma non sono stati diagnosticati in questa particolare popolazione". Nelle carceri, inoltre, "lavorano anche 50 mila operatori. Per la loro sicurezza e quella dei detenuti, se il dato contenuto nella mappatura fosse confermato, il passo successivo deve essere la bonifica". M5S: numeri su amianto nelle carceri spaventosi, 20 anni di promesse disattese Amianto presente nel 14% dei penitenziari italiani, 28 carceri abitate dal killer silenzioso. "Possono sembrare numeri piccoli, percentuali irrisorie invece sono spaventose", dice all'Adnkronos Alessio Villarosa, il deputato M5S che nel febbraio scorso presentò un'interrogazione sul tema. La mappatura in possesso dell'Adnkronos "mostra numeri - osserva Villarosa - che si avvicinano molto a quelli delle caserme". Numeri "da brividi perché da 20 anni - rimarca il grillino - si promette ai carcerati, così come ai nostri militari, di farli vivere in luoghi sicuri per la loro salute, nonché per la salute dei lavoratori che prestano servizio in penitenziari e caserme per conto dello Stato. Cosa si sta aspettando? - chiede Villarosa - Vogliamo perdere ancora tempo ? Così avremo nuovi malati e nessuno che pagherà il conto a causa della prescrizioni già sopravvenuta nel processo del principale responsabile", dice il deputato 5 Stelle con un chiaro riferimento alla sentenza Eternit. Poi la frecciatina sulla mappatura, arrivata all'Adnkronos prima che a Villarosa che ne aveva fatto richiesta in un'interrogazione ad hoc. "Rimango stupito ma contento di avere finalmente i dati - dice il presidente del gruppo M5S alla Camera - perché, come al solito, se uno vuole le informazioni anziché chiederle ai ministri deve rivolgersi ai giornalisti". Sappe: basta scuse, mettere a norma istituti contro rischio amianto "Gli istituti penitenziari vanno messi a norma. Basta con le scuse delle amministrazioni che tergiversano con il pretesto della mancanza di fondi". Così Donato Capece, segretario generale del Sappe, commenta la presenza di amianto nei penitenziari italiani, rivelata da una mappatura diffusa dall'Adnkronos. Che l'amianto sia presente nel 14% delle carceri italiane "è una questione già fatta emergere dalla polizia penitenziaria tempo addietro", sottolinea Capece evidenziando come sia arrivato il momento di agire prendendo i fondi messi a disposizione dalla legge svuota-carceri. Risorse, ricorda Capece, pari a "465 milioni destinati alla costruzione di nuovi padiglioni e la ristrutturazione di padiglioni preesistenti. L'amministrazione - incalza il segretario generale del Sappe - si deve fare carico del problema e mettere mano a una riforma che preveda una ristrutturazione seria possibilmente chiudendo quelle carceri che non sono a norma. Adesso che si registra un calo di detenuti, è il momento di avviare i lavori". Sottosegretario Ferri: avviata rimozione amianto negli istituti penitenziari "Sono state avviate tutte le procedure di rimozione dell'amianto presente nelle strutture carcerarie. La tutela della salute dei detenuti, delle forze di polizia penitenziaria e dei soggetti pubblici e privati che lavorano all'interno degli istituti è, infatti, una priorità da salvaguardare". È quanto afferma il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Maria Ferri, commentando all'Adnkronos i dati diffusi dall'agenzia di stampa in merito alla presenza dell'amianto nelle carceri italiane. "La salute - prosegue Ferri - è un bene costituzionale e primario sul cui rispetto non è possibile permetterci cali di attenzione e vuoti di tutela. La situazione è però sotto controllo ed è costantemente monitorata tanto che sono state avviate tutte le procedure di rimozione dei materiali nocivi". "Evidenzio, infine - conclude il sottosegretario alla Giustizia - che il ministero sta ponendo in essere interventi di ristrutturazione e di miglioramento delle strutture, all'interno del più generale programma di edilizia carceraria, finalizzato a mettere in sicurezza gli istituti penitenziari". Giustizia: dal Dap mappa sulla presenza amianto nelle carceri e sui lavori di smaltimento Ansa, 28 febbraio 2015 In alcune carceri italiane ci sono ancora strutture o materiali in eternit o presenza di amianto, per il quale sono state avviate verifiche e procedure di smaltimento. È quanto emerge da una mappatura aggiornata al gennaio 2015 resa nota dallo stesso Dap, il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. "Attualmente - comunica il Dap - sono in corso tutti i controlli e le opere necessarie per rimozione, smaltimento e messa in sicurezza. Il Dipartimento, in continuità con il passato, assicura massima attenzione e tempestività negli interventi futuri". Questo il quadro della situazione che si evince dalla tabella fornita. Nelle carceri del Piemonte, il Dap segnala ad Alessandria coperture di un locale tecnico con lastre ondulate tipo eternit; a Fossano, presso la Direzione lastre di cemento-amianto ricoperte da tegole e controllate periodicamente. A Novara sono imminenti lavori per la bonifica della copertura della caserma agenti e della palestra. A Torino sono in corso verifiche del materiale coibente presso i piani interrati di Direzione e II Caserma. Nelle carceri della Toscana, risultano da verificare due canne fumarie a Grosseto; a Lucca è in corso lo smaltimento di manufatti in eternit; a Massa e a Pisa la direzione ha chiesto alla Asl la verifica della pericolosità di alcuni manufatti; a Montelupo Fiorentino dopo l'eliminazione di manufatti nel 2013 è stata avviata un'altra procedura di smaltimento; a Prato sono presenti due coperture in eternit e la direzione sta valutando due possibili soluzioni. In Umbria rimangono da risanare dei locali nella struttura di Spoleto. Nelle carceri sarde sono in corso lavori di rimozione di manufatti in amianto a Isili e Is Arenas con termine previsto entro il primo trimestre 2015; a Mamone si è in attesa del nulla osta dei Beni culturali per la demolizione di un fabbricato; ad Alghero in fase di programmazione gli appalti per la rimozione. Nelle carceri siciliane ci sono presenze a Castelvetrano, con due recipienti (a breve lo smaltimento), a Catania Piazza Lanza con una tettoia, e Catania Bicocca, con pannelli presso l'impianto di depurazione e nella canna fumaria della centrale termica, per cui "si provvederà nel corrente esercizio compatibilmente con le risorse", segnala il Dap; segnalazione che vale anche per Enna, dove vi sono materiali accantonati da smaltire, nell'istituto dismesso di Favignana, dove ci sono 50 pannelli in eternit; a Giarre, per piccoli manufatti in eternit; a Noto, dove sono presenti 10 contenitori in eternit; e a Trapani, dove c'è amianto nelle coperture del magazzino. All'Ucciardone di Palermo è in corso la rimozione di materiale in eternit; a San Cataldo esiste una quantità non precisata di eternit su cui è stata avviata una verifica. In Emilia Romagna, nella scuola di formazione della polizia penitenziaria di Parma, c'è una tettoia nel parcheggio automezzi con presenza di amianto sotto soglia; nel carcere di Piacenza si è in attesa dei risultati delle analisi commissionate sulle fibre presenti nella pavimentazione di un locale. In Calabria, nel carcere di Lamezia Terme, temporaneamente chiuso si sta valutando la rimozione di un manufatto in amianto. Non si registra infine presenza di amianto nelle strutture di Lombardia, Basilicata, Lazio, Puglia, Campania, Veneto e Liguria. Giustizia: "l'avvocato era in sciopero", così la Cassazione cancella condanna a 10 anni di Andrea Priante Corriere Veneto, 28 febbraio 2015 "L'astensione proclamata in sede collettiva è un diritto di libertà garantito". All'avvocato è stato negato il diritto a scioperare, e quindi il condannato torna libero. La corte di cassazione, in una sentenza depositata due giorni fa, ha disposto l'annullamento della condanna a dieci anni di carcere di un tunisino che era stato arrestato a Padova nell'ambito di una grossa operazione contro il traffico di droga. La vicenda prende le mosse nel 2005, quando la squadra mobile fermò cinque persone che stavano trattando la cessione di un grosso quantitativo di sostanze stupefacenti. Tra loro, il tunisino Hichem Ben Abdelhami Rahali, che all'epoca aveva 30 anni e abitava a Selvazzano. Vennero sorpresi al casello di Padova Ovest, mentre armeggiavano intorno a una vettura che, si scoprì, aveva il motore e i sedili imbottiti di droga. La polizia sequestrò sedici chili di cocaina e nove chili di hashish, suddivisi in 44 panetti: una volta immessi sul mercato della movida padovana avrebbero fruttato oltre un milione di euro. Hichem Ben Abdelhami Rahali, difeso dall'avvocato Carlo Bermone, in seguito venne condannato dal tribunale della città del Santo a dieci anni di carcere e centomila euro di multa. Una sentenza contro la quale il tunisino decise di presentare ricorso, e la corte d'Appello fissò l'udienza il 20 settembre del 2013, cinque anni dopo la condanna di primo grado. Proprio per quel giorno, però, l'Unione delle camere penali aveva proclamato l'astensione collettiva per protestare "contro una politica sempre più debole sulla Giustizia e inadempiente sull'emergenza carceri". Il giorno prima dell'udienza, la Corte d'Appello informò l'avvocato Bermone che la discussione si sarebbe comunque svolta, in base al principio che una decisione che incide sulla libertà di un imputato è preponderante rispetto al diritto a protestare degli avvocati. "Quando sono arrivato in aula - racconta il legale - ho subito spiegato ai magistrati che intendevo aderire alla giornata di astensione indetta dalle camere penali e che quindi l'udienza andava rinviata. Ma i giudici hanno deciso di proseguire ugualmente, anche senza la mia presenza". Risultato: confermata la condanna a dieci anni per il trafficante di droga. Ma l'avvocato Bermone ha deciso di ricorrere in Cassazione, sostenendo che la sentenza era stata pronunciata "in violazione della legge", vista la scelta dei giudici di procedere nonostante la sua assenza. Ora arriva la decisione della Suprema Corte, che ha dato ragione al legale sulla base dei più recenti indirizzi dettati dalle Sezioni Unite: "L'adesione del difensore all'astensione dalle udienze proclamata in sede collettiva costituisce l'esercizio di un diritto di libertà costituzionalmente garantito", si legge nel dispositivo della nuova sentenza. Per questo motivo "dev'essere rilevata la nullità dell'intero giudizio di appello, siccome illegittimamente celebrato in assenza del difensore avente diritto". In altre parole, la condanna di Hichem Ben Abdelhami Rahali viene annullata e lui - che nel frattempo, vista la lentezza della Giustizia italiana, era uscito di galera in attesa della sentenza definitiva - se ne resta in libertà. L'intera vicenda ora tornerà alla Corte d'Appello che dovrà ricominciare tutto. Un errore di procedura che da un lato fissa il diritto, anche per gli avvocati, di "scioperare", ma dall'altro cancella con un colpo di spugna la condanna di un pericoloso criminale. "È una sentenza importante perché ribadisce che anche ai difensori degli imputati va garantita la libertà di manifestare le proprie idee", spiega Daniele Grasso, già componente di giunta dell'Unione delle camere penali. "Resta l'amarezza perché una iniziale valutazione sbagliata da parte dei giudici ha provocato un danno sociale conseguente alla mancata definizione del processo nei tempi che avrebbero dovuto essere fisiologici". Giustizia: 6 mesi di sospensione dalla professione… solo un buffetto al "dottor Bolzaneto" di Katia Bonchi Il Manifesto, 28 febbraio 2015 G8. Sospeso per sei mesi il medico che "visitava" in mimetica i manifestanti brutalizzati: L'ordine dei medici di Genova, quattordici anni dopo i fatti, esclude Toccafondi appena fino a ottobre. L'amarezza delle parti civili. "Alla Diaz dovevano fucilarvi tutti". Così nella caserma-carcere di Bolzaneto il dottor Giacomo Toccafondi, responsabile dell'infermeria durante il G8 di Genova, accolse una manifestante arrivata dalla scuola Pertini dove la polizia aveva appena compiuto quella che oggi è universalmente definita la "macelleria messicana". Ad altri diede dei "bastardi". A una ragazza tedesca, a cui la polizia alla Diaz aveva fatto saltare la metà dei denti, puntò il manganello alla bocca mentre altri cantavano "Manganello, manganello". Oggi, a distanza di quasi quattordici anni, l'Ordine dei medici di Genova ha sospeso Toccafondi per sei mesi. A ottobre potrà tornare a lavorare, quantomeno come libero professionista, poiché l'ex ufficiale della Croce Rossa, che oggi ha 61 anni, nel marzo 2014 è stato licenziato dalla Asl 3 genovese per il "venir meno del rapporto fiduciario in seguito ai fatti accertati dalla magistratura sotto il profilo deontologico, morale e professionale". Toccafondi ha così perso il suo posto da chirurgo all'ospedale di Pontedecimo ma non è detto che, allo scadere della sospensione, non possa riacquistare anche quello visto che a giorni è prevista la sentenza del giudice del lavoro sul ricorso presentato contro il licenziamento. Secondo i beninformati ci sarebbero alcuni problemi di natura formale che potrebbero portare alla sua riassunzione. Tornando al provvedimento disciplinare, la sospensione di sei mesi dall'esercizio della professione "non è certo stata un buffetto sulla guancia" commenta l'avvocato Alessandro Vaccaro, che lo ha difeso nel processo penale e anche davanti alla commissione di disciplina dei medici: "I suoi colleghi hanno fatto le loro valutazioni sui comportamenti deontologici utilizzando come base le carte del procedimento penale che si è concluso con la prescrizione". "Abbiamo una legge istitutiva che prevede direttamente il passaggio dalla censura di sei mesi alla radiazione" si difende il presidente dell'ordine dei medici di Genova Enrico Bartolini. "Era indubbio che meritava una sanzione pesante e la commissione, formata da tre professionisti super partes, ha scelto una delle più gravi". Perché non la radiazione allora? "Perché sono stati valutati tanti elementi negativi, ma anche alcuni positivi. È stata una valutazione laboriosa durata oltre un anno e mezzo". Se sugli elementi positivi, in assenza del testo del provvedimento, è arduo lavorare di fantasia, gli elementi negativi sono tanti e per ognuno di loro, come sancito dalla Corte di Appello di Genova, Toccafondi dovrà risarcire le sue vittime. Come per "l'aver costretto o consentito che le persone stessero nude nell'infermeria oltre il tempo necessario, che le persone di sesso femminile rimanessero nude anche davanti a uomini, osservate nelle parti intime e costrette a girare più volte su se stesse" o come l'aver "insultato direttamente le persone visitate… anche rivolgendo domande sulla vita sessuale con evidente segno di scherno". Oltre a omissioni di referto e minacce di vario tipo come la frase "se non stai zitto ti diamo anche le altre" rivolta a un arrestato a cui stavano saturando senza anestesia la mano appena lacerata da un agente. Toccafondi, che "visitava" i fermati indossando la tuta mimetica invece del camice bianco, è responsabile di aver "effettuato triage con modalità non conformi ad umanità e tali da non rispettare la dignità della persona, sottoponendoli ad un trattamento inumano e degradante". Per Clizia Nicolella, consigliere comunale e medico, che aveva chiesto un anno fa in una lettera pubblica indirizzata proprio a Bartolini, la radiazione di Toccafondi "si tratta di un provvedimento che sembra rientrare in una sorta di bon ton dell'Ordine, mentre sarebbe stato importante dare un segnale rispetto al limite che ha superato con un comportamento lesivo della dignità di tutti i medici". "Giustizia è fatta - è il commento carico di amara ironia dell'avvocato Emanuele Tambuscio, che ha difeso alcune delle centocinquanta parti civili nel processo di Bolzaneto, diversamente Toccafondi sarebbe stato l'unico tra tutti i condannati del G8 ad essere radiato o destituito". Giustizia: il dottor "seviziatore" e la prevenzione del morbo di Silvia D'Onghia Il Fatto Quotidiano, 28 febbraio 2015 C'è una definizione dell'enciclopedia Treccani che stona pesantemente con quanto accaduto in questi giorni a Genova: "medicina" è, in senso lato, "il complesso dei provvedimenti, spesso di carattere non strettamente medico, ma comunque rivolti, nell'intenzione di chi li adotta, a combattere o a prevenire fattori morbosi". Come fa questa definizione ad adattarsi alla figura di un uomo, definito dai testimoni "il seviziatore", che all'interno della caserma di Bolzaneto durante i giorni del G8 agì "con particolare crudeltà" - così hanno scritto i giudici di Corte d'appello - nei confronti di vittime inermi, "spesso già ferite, atterrite, infreddolite, affamate, assetate... sostanzialmente già seviziate"? Di certo questa non sembra prevenzione di fattori morbosi, tutt'altro. Eppure Giacomo Toccafondi, il medico che gestiva l'infermeria di Bolzaneto, non solo è stato salvato dalla prescrizione rispetto ai reati di omissione di referto, violenza privata, lesioni e abuso d'ufficio. Con una sentenza che non potrà essere impugnata, l'Ordine dei medici di Genova ha decretato che il dottor Toccafondi, scontata una sospensione di sei mesi, potrà tornare a fare il medico. A prevenire fattori morbosi su cittadini malati e, proprio per questo, inermi come i ragazzi del 2001. Il dottor "mimetica" è stato licenziato un anno fa dall'ospedale Gallino di Pontedecimo, dopo aver ricevuto, gli anni scorsi, promozioni e "retribuzioni di risultato". Hanno scritto ancora i giudici: "Anziché lenire la sofferenza delle vittime di altri reati, l'aggravò, agendo con particolare crudeltà su chi, inerme e ferito, non era in grado di opporre alcuna difesa, subendo in profondità sia il danno fisico, che determina il dolore, sia quello psicologico dell'umiliazione causata dal riso dei suoi aguzzini". Ma neanche questo è bastato al suo Ordine di riferimento, in un procedimento che è andato avanti otto mesi, per radiarlo dall'albo e impedirgli di prevenire nello stesso modo altri fattori morbosi. La verità è che, come in un disturbo da incubi, Genova sembra non finire mai. A 14 anni da quelle immagini di una nazione impegnata a distogliere l'attenzione dai problemi del capo a colpi di manganelli, le beffe continuano a sommarsi ai danni. E anzi, rischia di manifestarsi qualche segnale di ciclicità. Da un lato le botte ingiustificate, nell'ottobre scorso, agli operai ThyssenKrupp di Terni sotto il ministero dello Sviluppo e, ieri, i manifestanti anti-Salvini trascinati fuori dalla chiesa degli Artisti in piazza del Popolo, a Roma, e poi caricati e fatti piangere con i lacrimogeni. Dall'altro, gli ultras del Feyenoord lasciati agire indisturbati nel centro di Roma, liberi di danneggiare la Barcaccia e orinare in Piazza di Spagna: "Non potevamo fermarli nelle metropolitane", si è giustificato il Questore di Roma, D'Angelo. Non c'è da fare dietrologie ipotizzando regie occulte. C'è però da considerare che, dalla morte dell'ex capo della Polizia Manganelli, l'ordine pubblico nelle piazze più importanti d'Italia è tornato nelle mani delle squadre mobili. Di chi fa le indagini e non ha alle spalle un solo giorno di piazze. I nomi che oggi occupano ruoli strategici nelle stanze del Dipartimento di Pubblica sicurezza del Viminale, così come i capi delle principali Questure italiane vengono dal mondo delle investigazioni, non da quello della polizia di prevenzione. Esattamente come a Genova nel 2001. Sembra di tornare indietro nel tempo. Medicina e polizia sono parole che rientrano nell'ambito della tutela della persona; i medici e i poliziotti sono coloro che hanno l'obbligo di aiutare le persone inermi e di prevenire fattori morbosi. La paura è che qui il morbo sia talmente esteso da diventare insanabile. Giustizia: caso Cogne; Cassazione "ecco perché la Franzoni potrebbe tornare in carcere" La Repubblica, 28 febbraio 2015 Delitto di Cogne, la Suprema Corte spiega perché ha rinviato al tribunale di sorveglianza la decisione sul mantenimento degli arresti domiciliari. Annamaria Franzoni corre il rischio di tornare in carcere e non godere più della detenzione domiciliare concessale a giugno in base alle norme che favoriscono la convivenza tra le madri detenute, che abbiano scontato almeno un terzo della pena, e i figli che non hanno ancora compiuto i dieci anni. È quanto emerge dalle motivazioni, depositate oggi, della sentenza con cui la Corte di Cassazione ha rimandato alla magistratura di sorveglianza di Bologna la decisione sul futuro della donna. Da ormai due anni, infatti, scrive la Cassazione, il figlio minore della Franzoni ha ormai compiuto i dieci anni. Quindi i giudici di Bologna devono ora valutare se ci sono le condizioni affinché la donna - condannata a 16 anni di carcere per aver ucciso il figlioletto Samuele il 30 gennaio 2002 a Cogne - ottenga la "proroga" dei domiciliari. Proroga che però richiede, in base alle regole dell'ordinamento penitenziario, che sia stata scontata almeno la metà della condanna (e non solo un terzo come nel caso di detenute con figli minori di dieci anni). "Il legislatore - spiega la Cassazione - ha articolato un doppio regime normativo: l'uno per regolare l'ipotesi di figli di età inferiore a dieci anni, l'altro per regolare l'ipotesi di figli di età superiore: differenziazione del tutto logica, perché finalizzata a contemperare le esigenze perseguite dalla legge con quelle di non eludere del tutto la pretesa punitiva dello Stato e le finalità proprie della espiazione della pena". Per questo motivo, pur senza accogliere le obiezioni avanzate nel ricorso dalla Procura generale della Corte di Appello di Bologna, la Cassazione aveva annullato il via libera alla detenzione domiciliare e rinviato "per nuovo esame al Tribunale di sorveglianza". Il Pg di Bologna riteneva, tra l'altro, che la Franzoni sia ancora pericolosa, in quanto "manifesta sentimenti esibizionistici e bisogni di centralità, narcisismo, in realtà non compatibili con la capacità di provvedere alla cura ed all'assistenza dei figli". La Suprema Corte ha replicato al contrario che "attualmente è stata esclusa dal tribunale, motivatamente e sulla base di una serie di accertamenti peritali e istituzionali, la pericolosità sociale della condannata, la quale ha partecipato positivamente ad un insistito processo risocializzante e rieducativo, e dovrà altresì attenersi alle rigorose e finalizzate prescrizioni imposte dal tribunale". La questione, dunque, non riguarda le valutazioni sull'eventuale pericolosità della donna, quanto quelle sulle norme che regolamentano la concessione degli arresti domiciliari in relazione all'età dei figli. Dirimerla, sarà compito della magistratura di sorveglianza di Bologna. Ferrara: muore in carcere a 72 anni Pasquale Barra, fu luogotenente di Raffaele Cutolo di Dario Del Porto La Repubblica, 28 febbraio 2015 Pasquale Barra detto ‘o animale, il camorrista che uccise con 40 coltellate Francis Turatello profanandone il cadavere e poi scelse di collaborare con la giustizia accusando ingiustamente Enzo Tortora, è morto nel carcere di Ferrara, dove stava scontando la condanna all'ergastolo. Aveva da poco compiuto 72 anni. Con la sua morte, si chiude una pagina nera della storia criminale italiana, segnata dai delitti commessi da Barra per conto della Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo e proseguita con la sua controversa dissociazione dalla camorra, che ha ispirato, fra gli altri, uno dei personaggi del film "Il camorrista", diretto da Giuseppe Tornatore e tratto dal libro di Giuseppe Marrazzo. Entrato nella Nco sotto l'egida di Cutolo, Barra si macchiò di decine di delitti, molti dei quali commessi in carcere. Nel 1983 cominciò a collaborare e, sia pure solo al diciottesimo interrogatorio, fece il nome di Tortora, rifiutandosi poi di deporre al processo per ripetere quelle accuse rivelatesi poi completamente infondate. Massa Carrara: il Garante "ci sono le condizioni perché il carcere diventi un'eccellenza" www.gonews.it, 28 febbraio 2015 "Punti di forza di questo istituto - ha detto il garante regionale dei diritti dei detenuti, Franco Corleone, al termine del sopralluogo di questa mattina al carcere di Massa - sono il percorso trattamentale, il regime penitenziario interno aperto e la presenza di lavorazioni penitenziarie di tessitoria, di sartoria e di falegnameria". Il percorso trattamentale avviene anche attraverso lo strumento risocializzante del lavoro, il regime aperto dell'istituto "rispetta - ha detto il garante regionale - tutte le condizioni normative e le migliora con celle aperte oltre le 8 ore e l'attività lavorativa fa sì che vengano prodotti lenzuola, asciugamani e coperte a tutti gli altri istituti penitenziari". La Casa di reclusione di Massa, risale al 1930 e ospita 192 detenuti definitivi condannati a pene medio lunghe dei quali 66 in cella per reati di detenzione di droga ai fini di spaccio. Si tratta di un corpo unico, suddiviso in padiglioni, in spazi comuni e aperti e con la presenza di impianti sportivi. "Tra i detenuti - ha precisato Corleone, ribadendo la positività di questo dato - 110 lavorano e di questi 15 svolgono attività di pubblica utilità in città". Corleone ha parlato, inoltre, con soddisfazione di un esperimento innovativo portato avanti dalla Asl di Massa Carrara: "I detenuti di questo carcere - ha detto - possono essere seguiti dal loro medico di base. Un modello che dovrebbe essere introdotto anche negli altri istituti penitenziari perché garantisce continuità terapeutica e assicura un rapporto di fiducia tra il medico e il paziente". "La direttrice del carcere Maria Martone - ha affermato Corleone - è molto attenta all'innovazione e dà impulso alle attività. Nei mesi scorsi c'è stata una programmazione di cineforum. Inoltre, la biblioteca interna è collegata a a quella comunale e i detenuti scrivono un giornalino". "Peccato - ha aggiunto il garante regionale - che queste positività siano turbate dalla mancata apertura di un padiglione nuovo che dovrebbe ospitare 80 detenuti. La struttura è quasi pronta ma necessita del completamento degli ultimi lavori di ristrutturazione, al momento ancora bloccati". Tra le lacune del carcere Corleone ha parlato del "mancato finanziamento di due sezioni del refettorio necessarie per permettere ai detenuti di mangiare insieme e di una serra per consentire attività esterne. Credo - ha concluso Corleone - che ci siano tutte le condizioni per far sì che questa casa di reclusione diventi un'eccellenza, accogliere queste richieste garantirebbe alla struttura di rappresentare un modello di vivibilità". Bolzano: progetto costruzione nuovo carcere; offerta ritenuta congrua, ora la convenzione www.provincia.bz.it, 28 febbraio 2015 Si è conclusa il 26 febbraio la valutazione delle offerte relative alla realizzazione e gestione del nuovo carcere di Bolzano: l'offerta presentata da Condotte d'Acqua Spa in raggruppamento temporaneo di imprese con Inso spa è stata ritenuta congrua. Prossimo passo: la convenzione con il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria per costruzione e gestione della nuova struttura. La commissione tecnica, composta da rappresentanti del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, della Provincia di Bolzano (soggetto attuatore) e di esperti in materia economico-finanziaria, ha esaminato il materiale prodotto da Condotte d'Acqua spa in raggruppamento temporaneo di imprese con Inso spa a sostegno della congruità della propria offerta economica per i costi di costruzione, pari a circa 31,8 milioni di euro. La commissione ha ritenuto l'importo plausibile e realistico rispetto alle spese sostenute per la realizzazione di altre strutture penitenziarie recentemente attivate. Pertanto, conclusi gli adempimenti formali del caso, si procederà alla convocazione dell'apposita Conferenza di servizi e quindi a negoziare con il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria la convenzione per le modalità di realizzazione e gestione della nuova struttura carceraria. Alla luce delle esperienze maturate nella realizzazione di carceri con l'innovativo sistema della cosiddetta "finanza di progetto" in altri Paesi dell'Ue, per la prima volta in Italia l'impresa aggiudicataria provvederà, oltre a completare progettazione e costruzione della struttura entro due anni, alla fornitura di una serie di servizi: manutenzione ordinaria e straordinaria dell'immobile e degli impianti, mensa detenuti e personale, lavanderia, pulizia, attività formative, sportive e ricreative e di reinserimento dei detenuti, che saranno impiegati anche nelle attività lavorative interne. Il progetto preliminare nasce dalla collaborazione tra Rti Condotte/Inso e Engineering spa, Policrea srl, Pasquali Rausa Engineering srl, Sint Ingegneria srl, Bwb Ingenierbüro srl, Jesacher Geologiebüro, caratterizzato quindi da una forte componente locale. Realizzazione e gestione dei servizi del carcere saranno assicurate attraverso la costituzione di una specifica società di scopo. Il progetto vincitore sarà illustrato, unitamente a tutti gli altri presentati nel bando in modalità PPP (pubblico-privato), nel convegno che la Caritas organizzerà al Centro pastorale di Bolzano il prossimo 10 marzo. Lamezia Terme: Bova (Democratici Progressisti) "il Governo riapra il carcere chiuso" www.lametino.it, 28 febbraio 2015 "Il Consiglio regionale della Calabria, per il tramite del Presidente della Giunta ponga in essere ogni iniziativa, azione e provvedimento utile affinché il Governo disponga l'immediata riapertura della casa circondariale di Lamezia Terme assicurandole piena e migliore funzionalità". È quanto chiede il consigliere regionale Arturo Bova (Democratici Progressisti) che, sulla questione ha presentato una mozione. "Inspiegabile - commenta Bova - il provvedimento di chiusura dentro la cornice storica di un'emergenza carceraria insostenibile che fotografa condizioni di vita impietose e che testimonia il grave disagio umano della popolazione carceraria. Dinanzi alle condanne ad ai richiami della Corte europea di Strasburgo, il nostro Paese è chiamato a dare risposte sociali ed organizzative concrete nel rispetto della dignità della persona". Nel documento, il consigliere regionale "richiama il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 13.1.2010 con cui è stato approvato il ‘Piano Carcerì per risolvere l'annoso problema del sovraffollamento degli Istituti Penitenziari italiani. Successivamente, con sentenza dell'8 gennaio 2013 (c.d. sentenza Torreggiani) - ricorda Bova - la Corte Europea dei Diritti Umani, adita da Torreggiani e da altri 4.000 detenuti, ha condannato lo Stato Italiano per violazione dell'art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo (trattamento disumano dei detenuti). Assegnandogli contestualmente - in quanto sentenza pilota - il termine di un anno per adeguarsi alla normativa internazionale e agli standard richiesti da Strasburgo (che prevedono il criterio base di mq. 3 per ogni detenuto ospitato in ciascuna struttura carceraria). Dopo il monitoraggio effettuato nel maggio del 2014 - dunque a distanza di un anno dalla sentenza sopra citata - i detenuti italiani risultavano 59.683, a fronte di una capienza regolamentare dell'intero panorama carcerario italiano di 49.091 posti". L'esponente politico ricorda che "è stata disposta la chiusura di tutte le strutture carcerarie nella quali non veniva rispettato il suddetto requisito di 3 mq/detenuto, facendo inopinatamente rientrare tra queste strutture anche la Casa Circondariale di Lamezia Terme". "Dopo un incontro avuto il 15 maggio 2014 con il Segretario Particolare del Ministro di Giustizia e con una delegazione degli Agenti di Polizia Penitenziaria di Lamezia - del quale venne dato ampio risalto dai mass-media locali - fu dimostrato che la Casa Circondariale di Lamezia Terme, contrariamente ai dati forniti al Ministero, rispettava pienamente il requisito della Sentenza Torreggiani per almeno 90 detenuti - stante la superficie della struttura di 302 mq. Dato, questo, che si può ricavare dalla sezione monitoraggi del sito www.giustizia.it oppure dalla planimetria dell'Istituto. La delegazione aveva indicato altresì, la possibilità concreta e a quasi costo zero, di ricavare ulteriore disponibilità di accoglienza e, pertanto, di superare il numero di 100 detenuti ospitabili secondo e nel pieno rispetto dei parametri europei. Sul sito del Ministero della Giustizia, inoltre, è stato pubblicato un documento ufficiale in cui sono elencati oltre 30 Istituti Penitenziari, molti dei quali a tutt'oggi aperti, che hanno una capienza di molto inferiore ai 100 detenuti (vedi la casa Circondariale di Lauro in Campania, con capienza regolamentare di 38 detenuti e presenza effettiva di soli 11 detenuti o Empoli, in Toscana, con capienza regolamentare di 18 detenuti e presenza effettiva di 24 detenuti)". "La questione dell'affollamento delle carceri, che vede la Calabria tra le Regioni con il più alto tasso - afferma Bova - è di attualità sempre più drammatica, segnata da lentezze processuali e da strutture fatiscenti. Alla luce di questi motivi, la struttura carceraria di Lamezia, potrebbe essere eventualmente riconvertita in una casa circondariale a custodia attenuata, oppure destinata ad ospitare i detenuti cd. promiscui (ex collaboratori di giustizia; appartenenti a forze di polizia; familiari di ex collaboratori di giustizia e familiari di personale della Polizia Penitenziaria) e/o detenuti cd. protetti (sex offender, imputati e/o condannati per violenza sessuale). Si potrebbe immaginare di collocare in una sezione i detenuti cd. promiscui, in un'altra, i detenuti cd. protetti e nell'ultima sezione allocare i detenuti associati dalla libertà a disposizione del locale Tribunale. In Calabria le sezioni inframurarie destinate alle suddette particolari tipologie di detenuti, sono presenti solo presso le Case Circondariali di Castrovillari e di Vibo Valentia. Strutture queste ultime che, in caso di chiusura del Carcere di Lamezia, si vedrebbero aumentare i posti disponibili al regime ordinario, con conseguente aggravamento del problema del sovraffollamento. La chiusura del carcere di Lamezia comporterebbe, o comunque potrebbe essere percepito infine - conclude Arturo Bova - come un palese e inammissibile, oltre che inopportuno, abbassamento della guardia nella lotta alla criminalità organizzata in un territorio martoriato dalla presenza di potentissime e spregiudicate cosche mafiose". Empoli: Consigliera Marta Gazzarri in visita al carcere di Pozzale "è un'oasi nel deserto" www.gonews.it, 28 febbraio 2015 Marta Gazzarri, consigliera regionale, capogruppo de "Il Popolo toscano" si è recata in visita ieri mattina, venerdì 27 febbraio, al Carcere circondariale femminile di Empoli. È stata accompagnata da Umberto Torromarco, della Uil penitenziaria, e da Roberto Rizzo della segreteria regionale. Un tema, quello delle condizioni delle carceri, che interessa da tempo la consigliera e che la ha portata a seguire le storie delle strutture penitenziarie regionali. Se le condizioni di Sollicciano a Firenze e de "Le Sughere" di Livorno sono pessime per Marta Gazzarri il carcere di Empoli è: "Un'oasi nel deserto". Prima qualche dato: in Toscana sono circa 3000 i carcerati. Di questi solo 150 sono di sesso femminile divisi così: un centinaio a Firenze, circa quaranta a Livorno e solo 15 a Empoli. La casa circondariale di Pozzale è infatti una struttura particolare: le recluse sono scelte in base a parametri specifici, quando si ritrovano vicine al termine della propria condanna, solitamente a 4-5 anni dalla scadenza. I percorsi di recupero che vengono effettuati sono mirati e precisi e risultano più produttivi in virtù del piccolo numero delle carcerate, che possono essere meglio assistite. "È stata un esperienza significativa. Mi ha colpito molto la presenza di una piccola fattoria - ha commentato la consigliera Gazzarri. Mi è stato detto che presto sarà anche possibile la produzione del miele con le api. Sono queste piccole attività che possono permettere un reinserimento nel mondo del lavoro per le recluse". Nella struttura operano infatti 34 operatori, un numero abbastanza elevato in rapporto alle detenute. "Di questo carcere si parla dei costi elevati, ma sono indispensabili se si vuole garantire la qualità necessaria per ottenere dei veri risultati. A Sollicciano ad esempio ci sono solo 350 persone che operano nella struttura a fronte di più di 600 reclusi. Un piccolo numero, che non può fare la differenza e aiutare per davvero i carcerati", ha chiosato la Gazzarri. Le detenute che risiedono nella struttura sono come già detto 15 a fronte di una capienza massima di 35. Sono per metà di nazionalità italiana e per metà straniere. L'età media è abbastanza giovane, solo una donna supera infatti i 40 anni. Tutte le recluse svolgono attività lavorative retribuite, alcune addirittura al di fuori della struttura operando a Montelupo e all'Asl. "Il territorio ha sempre risposto bene, senza pregiudizi, aiutando il reinserimento delle carcerate" ha commentato la Gazzarri, che lancia anche un'idea: "Potrebbero essere riunite tutte le 150 donne incarcerate in Toscana dato il numero esiguo. La legge obbliga le donne recluse a rimanere vicine al territorio dove vivono e, viste la disposizione logistica delle strutture penitenziarie in Toscana, si potrebbe fare. La mia è comunque solo un'ipotesi, non voglio dare soluzioni". La consigliera regionale ha poi chiesto lumi al direttore della struttura sulla recidività delle detenute: "Mi è stato detto che sono pochi i casi. Il lavoro che viene svolto in questo luogo permette seriamente alle recluse di reinserirsi nel mondo del lavoro e le aiutano anche a trovare un ambiente familiare che le accolga quando la loro condanna sarà conclusa. Un contenitore sano che possa impedire a queste donne di commettere di nuovo reati". In conclusione Marta Gazzarri è rimasta piacevolmente sorpresa dalla visita: "Questa struttura è un modello positivo per le carceri regionali. È vero, i costi sono elevati, ma la qualità del servizio offerto alle recluse per reinserirsi non solo nel mondo del lavoro, ma nella società sono ottimi". Spoleto (Pg): falsi certificati ai detenuti, in aula si delinea il quadro delle responsabilità Pamela Bevilacqua www.spoletonline.com, 28 febbraio 2015 Sono 14 le persone imputate, tra cui esponenti di spicco della criminalità organizzato. Corruzione in carcere, rimangono in piedi 14 posizioni. "Creare" un quadro sanitario e le certificazioni giuste da fare avere agli avvocati dei detenuti ristretti nel carcere di Maiano. Era questo che faceva il dottor Fiorani ex medico del carcere, già giudicato con rito abbreviato e condannato a 3 anni e 10 mesi, insieme a sette detenuti. Quattordici imputati sono ancora sotto processo per corruzione. Si tratta di alcuni detenuti e loro parenti. Ieri davanti al collegio penale, la ricostruzione puntuale, fatta dal commissario titolare della maxi inchiesta che portò all'arresto del professionista e delle altre persone. Quello che ne esce dal racconto è un sistema organizzato, mogli, generi, figli, cognati, dei detenuti che avrebbero portato direttamente il denaro in bustarelle, al professionista spoletino, all'interno del suo studio al centro di Spoleto. Cinquemila, diecimila, trentamila euro, l'interessamento del medico, per un loro congiunto, costava. I contatti sarebbero avvenuti nel carcere. Il recluso di turno parlava col professionista poi era il parente che avrebbe pagato per il favore. Il giro si era talmente allargato che alcuni detenuti facevano da tramite ad altri carcerati. "Man mano che i casi aumentavano, però il dottore inizia a diventare sospettoso e sempre più attento - ha spiegato al pm Iannarone, il commissario titolare dell'inchiesta - tanto che in un'occasione, il medico fa bonificare l'intero ambulatorio del carcere da un detenuto. A un parente di un altro carcerato invece fa controllare il telefono del suo studio per paura di essere intercettato e seguito. Si prende un cellulare al quale toglie la batteria ogni volta che non lo usa". Intercettazioni telefoniche, ambientali, pedinamenti, osservazioni, riprese video. Diverse le prove che incastrerebbero i protagonisti di questa vicenda giudiziaria. "Abbiamo rinvenuto anche un planning dove il medico - dice il testimone - alla fine di ogni incontro con i parenti di qualche detenuto, segnava se quel colloquio era stato positivo o negativo". Alcuni imputati sono già detenuti nel penitenziario di Maiano per altri reati gravi, alcuni sono ristretti al 41 bis e sono esponenti della criminalità organizzata. Cremona: Sappe; detenuto brucia un materasso, fiamme in una cella La Provincia di Cremona, 28 febbraio 2015 Ancora tensione nel carcere di Cremona. Un detenuto ha dato fuoco ad un materasso all'interno della propria cella. Il penitenziario torna così al centro delle cronache dopo la rissa tra detenuti nei giorni scorsi e il tentativo di un altro ristretto di colpire un poliziotto penitenziario con del liquido bollente. "Un detenuto romeno ha dato fuoco ad un materasso in cella: subito è intervenuto il collega della Polizia Penitenziaria che ha fatto uscire il detenuto dalla cella, spingendo fuori anche il materasso e scongiurando così conseguenze più gravi", ha raccontato Donato Capece, segretario generale del Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria). "Poi lo stesso detenuto ha reagito nei confronti dell'agente con offese e sputi. Non solo Un altro poliziotto penitenziario si è punto ad un dito durante perquisizione ordinaria con una macchinetta tatuaggi e ora è comprensibilmente in forte stato di ansia per l'accaduto. Si tenga conto che nel carcere di Cremona mancano anche i guanti in lattice e tutto ciò che occorrerebbe per operare in sicurezza". Martedì i vertici regionali del Sappe - il neo segretario regionale Alfonso Greco ed il segretario nazionale lombardo Franco Di Dio - incontreranno a Cremona i vertici locali del Sappe. "I problemi a Cremona ci sono, come in ogni penitenziario, ed è sbagliato affrettarsi a sminuire quel che è accaduto nei giorni scorsi. Non ha alcun senso. Certo deve fare riflettere seriamente se un carcere come Cremona, con una media di 300/350 detenuti presenti in media, ha un numero di tentati suicidi e di episodi di autolesionismo dei ristretti più alto rispetto a carceri con un numero significativamente più alto di detenuti presenti, come ad esempio quelli milanesi. Chiedere una ispezione ministeriale vuol dire dare tutele e maggiori garanzie a coloro che in carcere lavorano nella prima linea delle sezioni detentive, ossia i poliziotti penitenziari". Livorno: carcere di Gorgona, un'eccellenza nel nostro sgangherato sistema penitenziario di Chiara Dino Corriere Fiorentino, 28 febbraio 2015 C'è vento, sempre, e poi ci sono costoni di roccia appuntiti che sembrano sul punto di franare giù in mare. E anche il nome - Gorgona - di questo scoglio a 37 chilometri dall'Italia, a sud di Livorno è aspro e cattivo. Trovarci loro, 70 detenuti con lunghe pene alle spalle, in dirittura d'arrivo sembra una beffa. Non è un posto accogliente quest'isola eppure, se si ribalta il punto di vista si scopre che, pian piano, sta diventando un emblema di eccellenza nel nostro sgangherato sistema penitenziario. Ci siamo andati ieri perché i Frescobaldi impiantavano, a 3 anni di distanza dal primo, un secondo vigneto, un altro ettaro per produrre quel vino di cui al momento sono in commercio solo 2.700 bottiglie, e chissà domani forse di potrebbe arrivare a 5.000. Un bianco, Ansonica e Vermentino, che si chiama Gorgona. Loro, i Frescobaldi, sono titolari di un progetto che ha fatto, molto e bene parlare di sé: perché a lavorare la terra, a far la vendemmia, a mettere il prodotto in botti (di legno e di acciaio) sono i detenuti al confino in questo scoglio sperduto, che però non possono imbottigliare né bere, neanche un goccio di quanto producono. Il progetto è stato avviato tre anni fa grazie alla tenacia di Carlo Mazzerbo, direttore di questa sezione penitenziaria che rischiava di chiudere (alti i costi di gestione se si pensa che per 70 carcerati ci sono 60 agenti di polizia penitenziaria più altri 40 che vanno e vengono con le loro motovedette e che alcuni tengono qui le compagne mentre altri fanno su e giù dalla terra ferma) e di chi lo ha preceduto, Maria Grazia Giampiccolo. Affrontato l'ostacolo si sono inventati un carcere a suo modo modello, dove tutti i detenuti lavorano: c'è chi coltiva l'orto, chi fa il pane o cucina, chi sbriga piccole incombenze meccaniche, chi si occupa della fattoria e ci sono i vignaioli (20 si sono dati il cambio da quando è partito il progetto). Non basta perché Mazzerbo ha in mente, dato che l'isola offre ingressi contingentati anche ai turisti (75 la settimana) di cercare qualcuno che prenda in gestione il bar, il forno, un ristorante. Progetti di là da venire di un'isola dove abita solo chi gravita intorno al carcere e una donna, una sola. Si chiama Luisa Cetti, ha 87 anni ed è una forza della natura: "Mi sono sposata a 16 anni - racconta - con un fiorentino , quando lui è morto ho deciso di tornare a vivere nella casa dove son nata". E come è ovvio è diventata la mamma di tutti. La coccolano i detenuti che le portano le provviste arrivate da Livorno quando il mare lo consente, la proteggono i poliziotti, le fa compagnia qualcuna delle moglie degli agenti. Ma soprattutto ha un filo diretto con chi come lei qui ha in programma di starci per tempi più lunghi. Ciro ha 38 anni è a Gorgona da un anno e mezzo e lavora allo spaccio: "Ci resterò fino al 2023, a meno che non mi abbassino la pena". Prima era stato a San Gimignano e Viterbo e ora lo hanno trasferito sull'isola: "Sto bene adesso, in confronto alle altre carceri non c'è paragone". Il perché è presto detto: come ci ha spiegato il sovrintendente Zaccaria: "Le loro stanze si aprono alle 6,30 del mattino e si chiudono alle 8 di sera. Chi ha da lavorare in quell'arco di tempo può stare fuori". È il lavoro che fa la differenza e cambia profondamente il modo di vivere, anche nell'isola delle storie criminali - c'è chi ha più di un omicidio alle spalle - nella Repubblica fondata sul lavoro che dovrebbe essere il nostro Paese. Carmelo ha 53 anni, è a Gorgona da un anno, lavora in vigna e qui deve starci ancora un decennio: "Ero a Sollicciano prima, ma qui è un'altra cosa, sono libero, lavoro, lì ero sempre chiuso in cella". Ha due ex mogli, una fidanzata e due figli. E se pensa all'uscita ci dice: "Mi fa paura, con la crisi che c'è". Ha voglia di raccontarci la sua vita di prima: aveva un locale e in principio gli sarebbe toccato l'ergastolo. Di più non può dire. Yang è cinese ha già scontato dieci anni di pena, ci racconta mentre impianta i vitigni, tra due settimane sarà fuori e pensa di restare in Italia. Anche se da quando è sull'isola non ha mai ricevuto una visita. E poi c'è Benedetto, detenuto eccellente con quasi trent'anni di galera alle spalle, che deve scontare ancora un anno e mezzo di pena. Ha 53 anni, è un siciliano dagli occhi smarriti. Qui a Gorgona fa il cantiniere. Prepara il vino che poi sarà imbottigliato nella tenuta di Colle Salvetti. È elegante, gentile, ma sembra infastidito dalla nostra presenza. A coordinare tutti quanti lavorano in vigna c'è Federico Falossi: li conosce uno a uno. E conosce le ragioni che li hanno portati fin qui. Tra tutte le cose che racconta una fra tutte è quella che colpisce di più: "Hanno tutti fame di lavoro. Bisogna talvolta frenare il loro entusiasmo". Qualcosa vorrà pur dire questo bisogno di fare. Ce lo suggerisce il commissario Salzano che è qui in servizio da un anno: "Le altre carceri dove ho lavorato sono luoghi terribili. La vera pena è il nulla, la condanna a non avere niente da fare. Le giornate sono talmente uguali l'una con l'altra che poco a poco i detenuti si spengono e anche quando sono fuori per l'ora d'aria camminano su e giù in modo meccanico. Il cervello inizia ad adeguarsi al vuoto". Già la vera pena è non avere nulla da fare. E qui da fare per fortuna ce n'è. C'è anche un progetto di tutela degli animali coordinato da un veterinario napoletano, Marco Verdone, che lavora quasi esclusivamente con l'omeopatia. C'è Francesco Simi un fotografo free lance che ha avviato un corso di foto in pellicola. C'è chi organizza corsi di sub. All'ombra di questa selva aspra e forte però, e circondati dalle motovedette della polizia. Roma: Aree verdi Municipio XI, alla manutenzione contribuiranno anche i detenuti www.romatoday.it, 28 febbraio 2015 Firmato un Protocollo d'Intesa con il Provveditorato Regionale dell'amministrazione penitenziaria. Dieci persone in esecuzione di pena, a titolo volontario, contribuiranno al decoro urbano ed alla manutenzione del verde. Decoro urbano ed inclusione sociale, un binomio virtuoso che presto caratterizzerà le aree verdi del Municipio XI. L'ente di prossimità ha sottoscritto un Protocollo d'Intesa con il Provveditorato dell'amministrazione penitenziaria del Lazio. Ed a trarne beneficio saranno tanto i detenuti quanto il territorio municipale. "Quando l'Amministrazione penitenziaria del Lazio ci ha manifestato il suo impegno sul fronte dell'inclusione sociale delle persone in esecuzione di pena e messa alla prova - ha commentato il Presidente Veloccia a latere della sottoscrizione del protocollo - ci siamo attivati immediatamente per avviare specifici progetti e per l'individuazione di occasioni di sviluppo e di nuove attività lavorative nel nostro territorio, che valorizzassero le risorse delle persone in esecuzione penale". Con l'accordo, il Provveditorato regionale dell'Amministrazione penitenziaria individuerà una decina di detenuti che potranno beneficiare dell'opportunità di lavoro all'esterno. All'Ente di prossimità invece spetta il compito di individuare e mettere a disposizione le situazioni finalizzate alle attività di reinserimento sociale. Le misure alternative alla pena , nel Comune di Roma, sono oggi 1568 e di queste, già 52 riguardano il Municipio XI. Grazie all'accordo sottoscritto in giornata, circa 10 persone nel lungo periodo e tre di loro nell'immediato, saranno selezionati e coinvolti in lavori di pubblica utilità, a titolo volontario e per periodi determinati "avvalendosi per la presa in carico assicurativa e lavorativa - viene specificato in una nota - della collaborazione di soggetti affidatari dell'attività di manutenzione del decoro urbano e delle aree verdi del Municipio XI". Firenze: a Montelupo congresso Radicali con Pannella, per ricordare il caso degli Opg di Roberto Davide Papini La Nazione, 28 febbraio 2015 Scelta simbolica della cittadina che ospita uno degli ospedali psichiatrici giudiziari che a fine marzo dovranno essere chiusi. Insolita, ma simbolica scelta dei radicali fiorentini dell'associazione "Andrea Tamburi": il loro congresso annuale, infatti, si svolgerà sabato 28 febbraio a Montelupo Fiorentino, "per ricordare che la città è una delle sei sedi di Opg (Ospedale psichiatrico giudiziario) ancora attivi in Italia e che il 31 marzo scade la proroga del Governo per la chiusura di queste strutture con la conseguente presa in carico degli internati da parte del servizio sanitario nazionale". Al congresso dei radicali fiorentini prenderà parte anche il leader storico del Partito Radicale, Marco Pannella. "La chiusura, o meglio il superamento, degli Opg - si legge in una nota - si porta dietro, infatti, tanti problemi, sociali, culturali, politici e amministrativi, molti dei quali tuttora aperti. L'intenzione dei radicali è far chiarezza sulla situazione è scongiurare una chiusura degli Opg solo di facciata". L'inizio del congresso (che si terrà presso il circolo "Il Progresso) è previsto per le 11 e durerà per tutto l'arco della giornata: Marco Pannella prenderà la parola alle ore 18. Bologna: alla Dozza per parlare di salute delle donne e contrasto alla violenza maschile www.bologna2000.com, 28 febbraio 2015 Lunedì 2 marzo alle 9,30, una delegazione istituzionale incontrerà i detenuti alla Casa Circondariale della Dozza: la visita, rivolta agli uomini detenuti, affronterà il tema della violenza contro le donne. L'incontro sarà curato da Giuditta Creazzo, Paolo Ballarin e Gabriele Pinto dell'associazione Senza Violenza. Hanno aderito anche i consiglieri Melega e Barcelò. Una seconda visita, il 6 marzo alle 15, coinvolgerà invece la Sezione femminile del carcere in un incontro con le volontarie del progetto Non solo Mimosa, rivolto alle donne detenute e centrato sui temi della salute ed il benessere femminile. Le due iniziative sono state organizzate in accordo e con il pieno appoggio della Direttrice della Casa circondariale, Claudia Clementi. Gli incontri sono promossi dalla Presidente della commissione delle Elette, Maria Raffaella Ferri, insieme alla Presidente del Consiglio, Simona Lembi, e alla Garante per i diritti delle persone private della Libertà, Elisabetta Laganà, nell'ambito delle iniziative per la Giornata internazionale della donna. Venezia: teatro con Pippo Delbono alla Casa di Reclusione Femminile della Giudecca Ristretti Orizzonti, 28 febbraio 2015 Balamòs Teatro organizza un incontro di laboratorio con Pippo Delbono, Venerdì 6 Marzo 2015, alle ore 16.00 nell'ambito del progetto teatrale Passi Sospesi diretto da Michalis Traitsis, regista e pedagogo teatrale di Balamòs Teatro alla Casa di Reclusione Femminile di Giudecca, (incontro riservato alle donne detenute) in collaborazione con il Teatro Stabile del Veneto. La compagnia di Pippo Delbono sarà presente dal 4 all'8 Marzo al Teatro Verdi di Padova con lo spettacolo Orchidee. Pippo Delbono, autore, attore, regista, è nato a Varazze (SV) nel 1959. Negli anni 80 ha iniziato gli studi di arte drammatica in una scuola tradizionale che ha lasciato in seguito all'incontro con Pepe Robledo, un attore argentino proveniente dal Libre Teatro Libre. Insieme si sono trasferiti in Danimarca e si uniscono al gruppo Farfa, diretto da Iben Nagel Rasmussen, attrice storica dell'Odin Teatret e Delbono ha iniziato un percorso alternativo alla ricerca di un nuovo linguaggio teatrale. Si è dedicato allo studio dei principi del teatro orientale che ha approfondito nei successivi soggiorni in India, Cina, Bali, dove fulcro centrale è stato un lavoro minuzioso e rigoroso, dell'attore sul corpo e la voce. Nel 1987 ha incontrato Pina Bausch che lo ha invitato Wuppertaler Tanztheater, segnando profondamente il percorso artistico del regista. Lo stesso anno ha creato il suo primo spettacolo, Il tempo degli assassini e in seguito: Morire di musica, Il Muro, Enrico V, La rabbia, Esodo, Itaca, Her Bijt, Il Silenzio, Gente di plastica, Guerra (e l'omonimo documentario), Urlo, Racconti di Giugno, Questo buio feroce, Grido (lungometraggio), La Menzogna, La Paura (lungometraggio), Blue Sofa (lungometraggio), Dopo la battaglia, Obra Maestra (opera lirica). Barboni è stato lo spettacolo che vede protagonista Bobò, un piccolo uomo sordomuto e analfabeta, incontrato casualmente in un laboratorio nel manicomio di Aversa, dove era rinchiuso per 45 anni. Pippo Delbono ha riconosciuto in Bobò e nella sua capacità gestuale i principi del teatro orientale. Gli elementi che Delbono aveva appreso dopo lunghi anni di training erano presenti come dote acquisita in Bobò, un attore capace di accompagnare con precisione il suo gesto teatrale nella totale assenza di retorica. In seguito si sono aggiunti Nelson Lariccia, un ex clochard, e Gianluca Ballarè, un ragazzo down. Delbono ha motivato la scelta di questi attori, perché ritenuti tra i più capaci ed abili ad incarnare la sua visione poetica di un teatro basato sulle persone e non sui personaggi, un teatro non psicologico, lontano dai cliché insegnati nelle scuole e nelle accademie. Gli spettacoli di Delbono non sono allestimenti di testi teatrali ma creazioni totali, gli attori sono parte di un nucleo che si mantiene e cresce nel tempo. Intorno a queste figure ed oltre alla presenza di Pippo Delbono e Pepe Robledo, si sono aggiunti anche gli attori Dolly Albertin, Margherita Clemente, Ilaria Distante , Simone Goggiano, Mario Intruglio, Gianni Parenti e Grazia Spinella. La Compagnia Delbono, ha fatto tappa in più di cinquanta paesi e oggi rappresenta una delle più note realtà italiane teatrali nel mondo. Enna: recita per i detenuti ennesi dei "I viandanti" di Troina di Silvano Privitera www.vivisicilia.it, 28 febbraio 2015 Troina. La compagnia teatrale troinese amatoriale "I Viandanti" in missione umanitaria nella casa circondariale "Luigi Bodenza" di Enna dove, grazie alla disponibilità e sensibilità della direttrice Letizia Bellelli e dei suoi collaboratori, hanno messo gratuitamente in scena la commedia "A futtuna do puvirieddu". La commedia è un adattamento in dialetto siciliano di una commedia scritta nei primi anni 40 del secolo scorso da Eduardo De Filippo e Armando Curcio. Nella commedia si racconta di quello che può capitate a chi povero in canna, costretto a vivere di stenti e di espedienti, viene improvvisamente baciato dalla fortuna. Per gli ospiti della casa circondariale di Enna è stata un'occasione per trascorrere un paio d'ore in maniera diversa dalle solite giornate. Si sono divertiti ed hanno apprezzato lo spettacolo applaudendo ripetutamente a scena aperta. In segno di gratitudine, gli ospiti della casa circondariale di Enna hanno regalato alla compagnia teatrale amatoriale troinese un'anfora costruita da loro utilizzando dei pezzetti di legno. Ma come è nata l'idea di questa "missione umanitaria"? L'abbiamo chiesto alla compagnia teatrale che abbiamo incontrato l'altro ieri sera nell'oratorio " Frà Vittorio Calandra" del convento dei cappuccini. Nei locali del convento gli attori non professionisti preparano e provano le commedie che poi rappresentano altrove. Molti di loro dedicano una parte del loro tempo libero all'organizzazione e alla gestione dell'oratorio. All'incontro c'erano quasi tutti i componenti della compagnia teatrale. "Molti di noi sono impegnati nell'attività di solidarietà in favore degli ultimi che trovano accoglienza nel convento dei cappuccini. Da qui è scaturita l'idea di presentare nella casa circondariale di Enna la commedia che avevamo allestito e già presentato a Troina riscuotendo un certo successo. L'abbiamo proposta agli altri che l'hanno condivisa con entusiasmo", ci hanno detto i componenti della compagnia incontrati nell'oratorio "Frà Vittorio Calandra". Tra attori, comparse, scenografi, costumisti sono 16 i componenti della compagnia amatoriale troinese "I Viandanti", che hanno messo in scena la commedia: Roberto, Bottitta, Morena Compagnone, Nina Giamboi, Agostina Impellizzeri, Tanina L'Abate, Nuccia Macrì, Salvatore Maiorca, Antonio Marino, Salvatore Monastra, Delia Palmigiano, Vito Paraspola, Rocco Piccione, Angela Privitera, Marisa Privitera, Sebastiano Saladdino e Nanita Suraniti. Libri: "Cos'è il carcere. Vademecum di resistenza", di Salvatore Ricciardi www.glianni70.it, 28 febbraio 2015 "È qui in galera che l'ordine ti si rivela per quello che è: violenza quotidiana che ti si abitua ad accettare come ordine" (Lettera dal carcere di Torino, autunno 1969). Per la stragrande maggioranza delle persone il carcere è un universo sconosciuto. La paura che esso evoca genera un meccanismo di rimozione. E così il carcere si sottrae allo sguardo pubblico e alla critica della sua funzione, supposta, di risocializzazione. Da qui la necessità di provare a spiegare "cos'è il carcere", e di discutere la "possibile utopia" della sua abolizione. Questo tentativo riesce bene a Salvatore Ricciardi, che il carcere ha conosciuto a fondo per averci trascorso un lungo tratto della sua esistenza. Con una narrazione essenziale, Ricciardi racconta in cosa consiste "la casa del nulla", una delle tante definizioni coniate dai prigionieri per nominare l'inferno che sono costretti ad abitare. Una realtà regolata da una violenza quotidiana dispotica e crudele, dai parametri di una pena affatto "rieducativa". Come in un lucido sogno, Ricciardi si addentra nella vita passata, si ricala nei gironi dell'inferno, ne ripercorre i meandri raccontando i corpi e le menti sofferenti che lo abitano, le loro condizioni materiali di vita, le loro tecniche di resistenza all'annientamento psicofisico che fa registrare centinaia di suicidi e migliaia di atti di autolesionismo all'anno. Prefazione di Erri de Luca. Cos'è il carcere. Vademecum di resistenza, presentazione di Salvatore Ricciardi Da troppo tempo ormai ho questo articolo in bozza e non mi decido mai di pubblicarlo: non va mai bene, troppo coinvolto personalmente e quindi è una continua correzione, aggiunte, cancellazioni. Prima mi perdo troppo nel mio "personale" poi mi perdo troppo nelle riflessioni, nei ricordi e in tutto quello che questo libro ha risvegliato e che sembrava ormai sepolto nel passato. Chi è stato in carcere per lungo tempo, che lo voglia o no, sa che ha una partita aperta. È proprio vero, ha ragione Salvatore Ricciardi: l'esperienza coatta ti entra nella carne, nel dna e anche se credi dopo molti anni dopo che è solo un brutto ricordo, tale non è. È la violenza più forte, più complessa e più subdola che si possa fare ad un uomo, ed è talmente radicata nel nostro essere e nel nostro inconscio, nell'inconscio collettivo che alla fine abbiamo accettato il carcere non solo come una cosa normale, ma addirittura necessaria alla società. Senza entrare nel tema della punizione e della necessità di punire coloro che commettono reato, del dovere dello Stato di salvaguardare l'incolumità dei propri cittadini, del fatto che da che mondo è mondo i crimini sono stati sempre puniti, poiché in caso contrario la vita in società non sarebbe possibile. Su questo terreno vale il principio "fiat iustitia, pereat mundus". È il concetto dell'insignificanza della pena privativa della libertà da un punto di vista esistenziale, inteso in senso di rapporto dell'essere umano con se stesso, il punto focale: La pena privativa della libertà non può essere una pena per il semplice fatto che non punisce ma priva di qualcosa senza la quale non si può realizzare le più recondite possibilità, blocca il potere di crescita dell'individuo escludendolo dalla società. È privazione di libertà senza condizioni, senza remore e senza vergogna. È privazione del tempo: Il tempo viene impedito dall'essere vissuto poiché solo nella libertà il tempo presente acquista significato e creatività esistenziale per il singolo individuo. Questo ci racconta Salvatore nel suo libro: "La lotta contro il carcere è parte della partita infinita per la conquista della libertà". E non ce lo racconta come farebbe un sociologo, piuttosto che uno scrittore navigato che sa catturare l'attenzione del lettore, no, ce lo fa vivere, rivivere. Ti accompagna in questo viaggio nella disperazione, ti fa sentire il battere dei ferri, la conta, la fine dell'ora d'aria. Un grande momento di riflessione e di condivisione, per tutti: sia per chi in carcere c'è stato, sia per chi l'ha visto solo nei film. Salvatore Ricciardi (Roma, 1940) dopo gli studi tecnici e il lavoro in un cantiere edile è assunto in qualità di tecnico nelle ferrovie dello Stato. Svolge attività sindacale nella Cgil e politica nel Partito socialista di unità proletaria. Partecipa al movimento del ‘68 studentesco e del ‘69 operaio. Negli anni successivi è tra i protagonisti dell'autorganizzazione nelle realtà di fabbrica e dei ferrovieri. Dopo aver militato dell'area dell'autonomia operaia nel ‘77 entra a far parte della Brigate rosse. Viene arrestato nell'80. Alla fine di quell'anno con altri prigionieri organizza la rivolta nel carcere speciale di Trani. Condannato all'ergastolo, alla fine degli anni Novanta usufruisce della semilibertà. Dopo trent'anni di detenzione, recentemente ha riacquistato la libertà. Lavora presso una libreria ed è redattore di Radio onda rossa, a Roma. Cinema: la lezione di Wiseman sui manicomi e la chiusura degli Opg di Dario Stefano Dell'Aquila e Antonio Esposito La Repubblica, 28 febbraio 2015 Questa settimana è stato a Napoli Frederick Wiseman, Leone d'Oro alla Carriera alla Mostra del Cinema di Venezia. Wiseman, chiamato anche a tenere una lectio magistralis all'Università Federico II, è uno dei più grandi documentaristi del nostro tempo. Le sue opere mantengono una invincibile attualità. È il caso di Titicut Follies, il documentario di Frederick Wiseman realizzato nel 1966 nello State Hospital for the Criminally Insane at Bridgewater nel Massachusetts, l'equivalente dei nostri Ospedali psichiatrici giudiziari, che mostra la vita disumana degli internati in quest'istituzione. Al di là della specificità proprie del tempo e del luogo restituite con forza dalla pellicola, quello che resta maggiormente scioccante è verificare il perpetuarsi immutato delle logiche e delle prassi di disumanizzazione e mortificazione dell'umano proprie di queste strutture totali. Al di là della denominazione e dello spazio in cui sorgono, le istituzioni manicomiali si strutturano sulla base di un principio di alienazione che resta indifferente al fluire del tempo, fissato in un'immobilità funzionale a meccanismi di potere estranei alla cura, piuttosto legati al contenimento e all'annullamento di quanto viene identificato come anomalia e quindi reso patologico. Prendiamo spunto da Wiseman per tornare a un tema aperto da Giuseppe Del Bello su queste pagine sulla prossima chiusura dei due Opg di Napoli e Aversa prevista per il 31 marzo prossimo. Chi ha incontrato la realtà degli Ospedali psichiatrico giudiziari italiani, riconosce, tra le pieghe di quella brutale violenza raccontata dal documentario di Wiseman la realtà che soggiace tutt'oggi al funzionamento delle strutture delegate alla reclusione degli internati e delle persone detenute finite in osservazione psichiatrica. Si potrebbe obiettare - c'è chi lo fa - che le forme estreme di contenzione e pseudoterapia mostrate dalla pellicola non appartengono più alla nostra quotidianità o che occuparsi di Opg sia una questione residuale. Sono obiezioni sensate, ma solo in parte veritiere. Perché c'è la concreta possibilità che la maggioranza degli attuali internati non saranno presi in carico dai servizi territoriali con progetti individualizzati, ma resteranno all'interno delle residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza, nelle quali la psichiatria riacquista esplicitamente una funzione custodialistica o nelle cosiddette articolazioni sanitarie delle carceri. Come sempre c'è il rischio che si cambi per non cambiare nulla. Occorre anche con onestà ammettere che per molte persone affidate alle comunità gestite dal terzo settore non sempre si dà luogo a interventi di inclusione sociale, quanto piuttosto a nuove forme di marginalizzazione e abbandono, nuove prassi di contenimento farmacologico, e spesso al rientro nelle strutture manicomiali di provenienza per il fallimento del progetto terapeutico. La legge 81/2014, che ha sancito la chiusura degli Opg, non ha inciso sul meccanismo delle misure di sicurezza e di internamento. Pur rappresentando un fondamentale passo avanti il superamento formale del meccanismo degli ergastoli bianchi e la spinta a individuare misure di pena alternative all'internamento, la valutazione psichiatrica della pericolosità sociale rischia di determinare più di un corto circuito. Ben oltre la strutturazione fisica del manicomio criminale, ciò che si sarebbe dovuto smantellare e resta invece intatto è il dispositivo psichiatrico e normativo che le determina. Ancora, non si può essere soddisfatti nell'evidenziare che le torture cui sono sottoposti i pazienti filmati da Wiseman oggi sono superate. La violenza cambia forma e strumenti, ma le pratiche di contenzione, anche quelle fisiche, restano ancora un dogma della psichiatria. Non hanno abbandonato le fascette per legare e finanche elettrochoc, a volte si sono forse raffinate con la contenzione farmacologica, ma le prassi psichiatriche, oggi ancora più che in passato, sembrano legate piuttosto alla criminalizzazione medicalizzata di ciò che è considerato devianza piuttosto che alla presa in carico della sofferenza. Le vite raccontate da Wiseman nei manicomi americani del 1966 sono terribilmente identiche a quelle degli internati di oggi, negli Opg della Campania e del resto del paese. Perché terribile e identica è la logica di annullamento sottesa al manicomio, in qualunque forma si manifesti. Droghe: Cassazione; rivedere anche le pene minime inflitte con la legge Fini-Giovanardi La Repubblica, 28 febbraio 2015 La legge è stata dichiarata incostituzionale un anno fa, ma molti ricorsi per rivedere retroattivamente l'entità delle condanne minime erano stati respinti. Nel frattempo, i minimi della Fini-Giovanardi, 6 anni, sono diventati il massimo applicabile. Nuovo intervento delle Sezioni Unite penali della Cassazione per mitigare le condanne per droga inflitte con le norme ormai abolite della legge Fini-Giovanardi, dichiarata incostituzionale un anno fa, che prevedeva pene da sei a venti anni di reclusione senza distinguere tra droghe leggere e pesanti. La Cassazione ha deliberato che vanno "limate" anche le pene minime previste dalla vecchia normativa. Tra la dichiarazione di incostituzionalità della legge e il pronunciamento odierno, in base a quanto risulta all'associazione "A giusta ragione", che si occupa dei diritti dei detenuti, sono numerosi i casi di istanze di rideterminazione della pena rigettati perché la pena rientrava comunque nei parametri sanzionatori ripristinati dalla Corte Costituzionale anche se il minimo (da 6 a 20 anni con la Fini-Giovanardi) è divenuto nel frattempo il massimo applicabile (da 3 a 6 anni per la legge ora in vigore). Ad avviso delle Sezioni Unite della Suprema Corte, dunque, in base a quanto scritto nel dispositivo della decisione depositata oggi, anche le vecchie pene minime, per quanto riguarda i derivati dalla cannabis, sono da considerarsi illegittime e vanno rideterminate al ribasso in base ai nuovi minimi edittali. Il primo intervento della Cassazione, lo scorso ottobre, aveva riguardato la riaffermazione del diritto a ottenere pene più leggere per chi ha condanne definitive per spaccio di droghe leggere, un chiarimento dopo che lo scorso 29 maggio gli "ermellini" avevano messo fine alla controversia prevedendo la possibilità di una riduzione di pena per i piccoli spacciatori recidivi condannati in via definitiva. Una determinazione che aveva aperto a una sorta di svuota-carceri, che ha salvato l'Italia dalla procedura comunitaria di sanzione per sovraffollamento carcerario, annullando l'aggravante per il piccolo spaccio. A proposito di spacciatori, nel pronunciamento odierno i giudici della Cassazione hanno inoltre deciso che anche i piccoli pusher di droghe leggere, che in passato hanno patteggiato la condanna con la Fini-Giovanardi, hanno diritto al ricalcolo della pena. Secondo l'associazione "A giusta ragione", "sono probabilmente migliaia i detenuti per fatti legati a derivati della cannabis ancora in carcere con una pena divenuta illegale". Le dichiarazioni di Patrizio Gonnella (Antigone) La Sezioni unite della Cassazione hanno ribadito un principio sacrosanto, ovvero che chi ha subito gli eccessi di pena previsti dalla legge Fini-Giovanardi deve ora ottenere un ricalcolo della pena stessa. Va ricordato che quella legge è stata responsabile della tragedia del sovraffollamento penitenziario italiano, fra le cause principali della condanna che l'Italia ricevette dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo. Ha rovinato vite di giovani buttati in carcere per pochi grammi di cannabis. Una legge che era fra le più repressive in tutta Europa. Dopo la sentenza della Corte Costituzionale dello scorso anno e dopo la sentenza odierna della Suprema Corte di Cassazione, bisogna immediatamente aprire una nuova stagione legislativa che, con coraggio, depenalizzi e decriminalizzi la vita dei consumatori di droga. È arrivato il momento per affrontare una scelta di legalizzazione che, tra le altre cose, rappresenta l'unica via per sottrarre ricchezza e potere alla criminalità organizzata.