Giustizia: per chi muore in carcere l'unica parola è "rispetto" di Adriano Sansa Famiglia Cristiana, 26 febbraio 2015 Vi sono entrato molte volte, uscendone poche ore dopo con sollievo mentre l'agente di custodia apriva il pesante portone. Ho visto il carcere nei momenti di relativa tregua dell'affollamento e nelle fasi peggiori. Vi sono stato quando mancava il riscaldamento e nella più drammatica fase della sieropositività e dell'Aids. Ho anche visto ambienti dignitosi e operatori di straordinaria dedizione; ci sono realtà assai diverse, ma alcuni problemi sono insoluti quasi ovunque, dal sovraffollamento alla violenza che ne deriva, alla esiguità del personale che agisce in condizioni difficili. Tutto ciò porta sofferenza e aumenta il pericolo del degrado, di fronte al quale va posto inflessibilmente il principio costituzionale che mira al recupero della persona e ne tutela la dignità. Nessun pubblico funzionario può violarla. Altre sono le forme di protesta ammesse, anche contro la peggiore inerzia politica. La sanzione prevista dalla legge è la sola legittima. Non vi si possono aggiungere ferocia e insulto. Le parole di disprezzo adoperate dai membri di un piccolo sindacato di Polizia penitenziaria dopo il suicidio di un detenuto sono inaccettabili. Gli autori sono stati giustamente sottoposti a inchiesta disciplinare e sospesi. Lo Stato non deve usare violenza, come è accaduto di recente, verso chi è nella sua potestà punitiva. Non può cedere sul terreno dell'umanità, e della dignità che a sua volta rivendica. Giustizia: responsabilità civile dei magistrati, una legge-manifesto di Gianluigi Pellegrino La Repubblica, 26 febbraio 2015 Il rischio di una giustizia meno attenta agli interessi deboli e collettivi. Di un giudice meno vigile nel controllo sull'abuso del potere. Il rischio di assecondare insieme la peggiore politica e la peggiore giurisdizione, quella più remissiva e corriva. Sono questi i grandi assenti nel dibattito intorno alla nuova disciplina sulla responsabilità civile dei magistrati. Slogan deformati da due mistificazioni di fondo che la destra italiana è riuscita abilmente a far diventare fattor comune nella narrativa quotidiana: lo sguardo volto al solo processo penale e la conseguente esistenza di una guerra tra politica e giustizia che come tale richiederebbe i suoi regolamenti di conti. E così il dibattito su indipendenza e responsabilità nella funzione giurisdizionale piuttosto che cercare gli equilibri più avanzati si trasforma nella ricerca di una norma "manifesto", che vuol dire l'uso dello strumento legislativo per declamare un messaggio o, peggio, per lanciare un avvertimento. Quello di una limitazione del controllo giurisdizionale e dello svilimento della parte più nobile della funzione, che non è una inesistente meccanica applicazione della legge ma la costante ricerca nella sua interpretazione applicativa di ambiti sempre più avanzati di tutela. Andrebbe ricordato che senza tutto questo sarebbe mancata buona parte dell'affermazione di diritti oggi diventati patrimonio comune. E sarebbe mancata anche una leva fondamentale nella difesa della nostra convivenza civile. Il potere giurisdizionale o è insensibile (e non sempre avviene) alla forza del potere e delle parti che ha davanti o semplicemente non è. La sua ontologica funzione è nella tutela dei diritti collettivi e degli interessi deboli non solo nel penale ma ancor di più nel civile e nell'amministrativo. Ovviamente questo non vuol dire in alcun modo che il cittadino, il soggetto dell'ordinamento non debbano avere tutela contro i sempre possibili errori giudiziari. Vuol dire se mai il contrario, essendo esclusivamente questa l'esigenza sottolineata dagli organismi europei, e giammai come invece si è voluto far credere con ulteriore mistificazione, che venisse posto il minaccioso accento su una personale esposizione del magistrato. Qui la scelta, lungi dall'essere imposta dall'Europa, è stata tutta politica e tutta italiana, del resto dichiaratamente volta ad ammiccare a quel messaggio di ridimensionamento della funzione giurisdizionale, con l'effetto paradossale che mentre si dice di voler dare maggiore garanzia al cittadino nei confronti della giurisdizione, lo si colpisce proprio sul versante della principale funzione di tutela che nel suo interesse quel potere è chiamato a svolgere. Perché va da sé che un giudice personalmente più esposto non può che tendere conservativamente ad un indirizzo decisionale più corrivo meno incline alla tutela degli interessi deboli. Per fortuna il Partito democratico e il ministro Orlando hanno scongiurato l'azione diretta della parte contro il suo giudice, che avrebbe istituzionalizzato la prassi deteriore del processo al processo, in un terribile cortocircuito. E però si deve evitare che uscita dalla finestra, quella mina rientri dalla porta a mezzo di un preteso automatismo dell'azione di rivalsa. Il testo della norma lascia spazio alla possibilità di evitarlo in sede applicativa, ma a tal fine è evidente che quel filtro dalle azioni temerarie che si è voluto togliere, deve mantenere la sua sostanziale efficacia attraverso esemplari e rapide decisioni contro iniziative proditorie e valorizzando l'eccezionalità dei casi di colpa grave e inescusabili in cui soltanto la rivalsa è possibile. Tutto questo per scongiurare che la nuova norma piuttosto che giusto mezzo di tutela diventi, come vuole il suo "messaggio", strumento di minaccia, il cui conto a ben vedere non lo pagherebbero i giudici che agevolmente potrebbero accomodarsi su una giurisprudenza sempre docile e corriva, ma la società e gli utenti con una perdita secca e irreparabile di affermazione e tutela dei diritti. È questa a ben vedere la vera posta in gioco, tristemente assente dal dibattito di queste ore. Giustizia: ora processo più equo, meno spazio a cavilli e più spazio alla verità processuale di Antonio Ciccia Italia Oggi, 26 febbraio 2015 Processo civile più equo con meno spazio ai cavilli. Attenuato il principio di non contestazione. La legge sulla responsabilità civile dei magistrati, definitivamente approvata dalla camera il 24 febbraio 2015, obbliga il giudice ad analizzare gli atti del procedimento e a verificare se i fatti raccontati dalle parti trovano conferma o smentita. Altrimenti lo Stato rischia di dover risarcire per colpa grave del magistrato, che ha deciso senza tenere adeguatamente conto degli atti. La legge sulla responsabilità civile provoca, dunque, conseguenze sul piano processuale. È usuale riferire che esistono due verità: quella storica (ciò che è realmente accaduto) e quella processuale (quella che si riesce a provare in giudizio). E, a volte, la verità processuale emerge solo faticosamente dalle regole della procedura; a volte, invece, non emerge affatto e chi ha ragione non riesce a dimostrarla e perde la causa. Se, però, la responsabilità civile del magistrato si misura sulla corrispondenza della sua decisione ai fatti, allora si deve dare meno spazio a cavilli e più spazio alla verità processuale, adeguando l'interpretazione delle norme procedurali. Cominciando dall'onere della prova. La regola generale del codice civile impone a chi fa valere un diritto di provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Se non prova, chi ha l'onere di farlo perde la causa. Nel codice di procedura civile c'è, poi, la regola che consente al giudice di usare nella sentenza anche i fatti non contestati (articolo 115). Chi non contesta è come se ammettesse i fatti raccontati dal proprio avversario. Quest'ultima norma preoccupa i difensori, i quali devono essere molto pignoli e devono replicare, punto per punto, a quanto riferito da controparte. Inoltre, le contestazioni, nel processo civile, devono essere scritte nel primo atto (citazione o comparsa di costituzione) oppure, al più tardi, nella memoria per le precisazioni (art. 183 cpc, c. 6, n. 1). Anche perché se non lo si fa, il rischio è che il giudice dia per provato il fatto non contestato, e senza che l'interessato debba provare nulla. Con l'art. 115 cpc basta affermare un fatto, che deve considerarsi provato se l'avversario non lo smentisce. In questo quadro si inserisce, ora, la legge sulla responsabilità civile dei magistrati, che, oltre al resto, ritiene colpa grave il travisamento del fatto o delle prove, oppure l'affermazione di un fatto, la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento o la negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento. La legge, dunque, dice che il giudice, che pure non ha poteri investigativi d'ufficio, si deve attenere ai fatti: non può travisarli e, neppure, negare la realtà o affermare qualcosa che non è storicamente accaduto. Questa norma va coordinata con le regola sulla valutazione delle prove. Il risultato di questo coordinamento porta a dire che il processo deve essere orientato alla ricerca della verità, a meno che non risulti una chiara scelta della parte di non contestare il fatto. In caso contrario, non si può derogare alla ripartizione dell'onere della prova. La legge sulla responsabilità dei magistrati, quindi, finisce per attenuare il principio di non contestazione (art. 115 cpc), dovendo il giudice essere più scrupoloso nel passare al setaccio i fatti affermati da chi ne ha interesse. Inoltre si dovrà dare più spazio alle testimonianze e agli altri adempimenti istruttori: proprio perché solo così si può sviscerare il fato e prendere una decisione coerente con il reale svolgimento dei fatti. Giustizia: magistrati, chi sbaglia paga…. ma in procura manca il "filtro" di Giuseppe Di Lello Il Manifesto, 26 febbraio 2015 Responsabilità civile dei magistrati. Da oggi non ci sarà più bisogno di passare per le forche caudine di un preliminare giudizio di ammissibilità. E su questo punto la riforma rischia di impantanarsi. L'unico argine deve essere alle liti temerarie, come disse il Csm nel 2014. Sulla necessità della responsabilità civile dei magistrati si era già pronunciata con un referendum, e a larghissima maggioranza, la volontà popolare e dunque sul merito la questione è chiusa. Il principio del "chi sbaglia paga" del resto fa parte del bagaglio culturale giuridico delle nostre codificazioni civili e penali e non c'è chi vi possa opporre motivazioni logiche contrarie: paga l'imputato per il reato commesso così come paga chi non onora la propria obbligazione civile volontariamente assunta o il danno ingiusto procurato ad altri. Al merito però si accompagna sempre la regola procedurale affinché, appunto, si debba pagare solo seguendo un chiaro iter processuale e non solo perché c'è una richiesta di "risarcimento", sia essa avanzata da un pm o da un creditore. Nel sistema penale poi, si è da tempo ritenuto che il processo, in un'aula di tribunale o davanti a un giudice monocratico, sia di per sé un dramma per l'imputato e, quindi, ci sia bisogno di un filtro di ammissibilità della richiesta dell'accusa per evitare di doversi difendere da pretese palesemente infondate: era quella la funzione del fu giudice istruttore e ora è quella del gip che filtra le richieste del pm. Nel sistema civile questo filtro di ammissibilità non previsto era però è stato escogitato per la responsabilità civile dei magistrati, data anche la peculiarità del "contesto": trattandosi di decisioni che, comunque, debbono avere un "soccombente" (sia esso il pm o l'imputato nel caso di condanna nel processo penale che una delle parti nel processo civile), era prevedibile che il perdente tentasse una estrema rivalsa intentando un'azione di risarcimento nei confronti del decidente. Le conseguenze adombrate erano molteplici, dal paventato condizionamento dei giudici spaventati dal dover pagare di tasca propria eventuali errori di giudizio all'abnorme proliferare di procedimenti suscettibili di intasare un sistema giudiziario già sovraccarico ed inefficiente. Soffermandosi sul solo dato numerico (cinque pronunce di ammissibilità su un quattrocento richieste), bisogna riconoscere che questo filtro non ha funzionato o, peggio, si è rivelato una vera e propria barriera. Manca però una specifica ricerca sulla fondatezza delle richieste stesse, difficile e complessa e, quindi, in un Paese dal garantismo a giorni alterni, ci si è accontentati del dato numerico per accedere ad una riforma quale quella ora approvata dal Parlamento. Da oggi in poi quindi si avrà accesso all'azione di responsabilità senza passare per le forche caudine di un preliminare giudizio di ammissibilità: su questo punto la riforma rischia di impantanarsi perché proprio la Corte costituzionale, con la sentenza con la quale aveva dichiarato ammissibile il referendum, stabiliva che nella disciplina della responsabilità civile dei magistrati erano consentite scelte plurime ma non illimitate "in quanto la peculiarità delle funzioni giudiziarie e la natura dei relativi provvedimenti suggeriscono condizioni e limiti alla responsabilità…specie in considerazione dei disposti appositamente dettati per la magistratura (art. 101 e 103) a tutela della sua indipendenza e dell'autonomia delle sue funzioni". La Corte certo non ha parlato di "filtro" ma è come se lo avesse fatto e comunque ha anche precisato in altra sentenza (n.18/1989) che una responsabilità diretta del giudice sarebbe ammissibile "alla sola ipotesi di danni derivanti da fatti costituenti reato". Il problema doveva essere risolto proprio sul versante del "filtro" da concepire non come una barriera ma come un argine alle liti temerarie e manifestamente infondate, così come suggerito dal Csm con il suo parere del 29 ottobre 2014. Ora di fronte ad una azione di responsabilità senza una verifica preliminare di ammissibilità e per casi che vanno ben al di là dei danni derivanti da un reato commesso dal decidente, la Corte non potrà ignorare la sua precedente giurisprudenza. La partita potrebbe riaprirsi, con ulteriore deterioramento dei rapporti tra politica e giustizia: si spera che governo e parlamento facciano degli aggiustamenti secondo Costituzione. Giustizia: la rabbia dei magistrati "responsabilità, il governo ci mette le dita negli occhi" di Silvio Buzzanca La Repubblica, 26 febbraio 2015 "Con questa legge sciagurata e punitiva il governo ci caccia le dita negli occhi, è una legge contro i magistrati". Il durissimo commento del giudice milanese Enrico Consolandi riassume lo stato d'animo delle toghe italiane dopo l'approvazione alla Camera della legge sulla responsabilità civile dei magistrati. Parole pronunciate durante la riunione convocata da presidente dell'Anm milanese Federico Rolfi che ha chiesto ai colleghi di protestare interrompendo nei prossimi giorni le sedute e leggendo il comunicato contro la legge del Consiglio direttivo dell'Anm. Un clima pesante che si registra in tutto il paese. A Napoli i magistrati, che seguiranno l'esempio milanese, ieri hanno puntato il dito soprattutto contro l'abolizione del filtro di ammissibilità dei ricorsi. Toni duri arrivano anche dal profondo sud. Da Agrigento, per esempio "Una norma del genere ce l'aspettavamo da un governo diverso, non dal governo Renzi - accusa il procuratore Renato Di Natale - Temo che possa paralizzare l'azione dei magistrati". Da Palermo, il procuratore aggiunto Leonardo Agueci attacca: "Questa legge mina l'indipendenza del giudice". A Caltanissetta il procuratore Sergio Lari dice che questa legge "finirà per intimidire i giudici. Nessun giudice può essere sereno se gli si potrà contestare una causa per travisamento del fatto e della prova. E un giudizio negativo arriva anche dal procuratore nazionale Antimafia. "Farà sentire tutti i soccombenti in diritto di citare i giudici per cercare di recuperare le cause perse, con un aumento del contenzioso civile. Con il rischio di condizionare l'indipendenza dei magistrati, dice Franco Roberti. I vertici nazionali dell'Anm rilanciano le critiche. "Ribadiamo la nostra contrarietà, il segnale è pessimo: la politica si compatta per dare una lezione, un messaggio che i problemi della giustizia siamo noi magistrati", dice il segretario Maurizio Carbone. Questa riforma, aggiunge il presidente Rodolfo Sabelli, "è contro le garanzie dei cittadini, soprattutto di quelli più deboli". Il ministro della Giustizia Andrea Orlando però non la pensa così. "Siamo di fronte ad un passaggio storico", dice il ministro, perché "la giustizia sarà meno ingiusta e i cittadini saranno più tutelati". Nel frattempo Matteo Renzi ritwitta la fotografia di Enzo Tortora, postata dalla figlia Gaia, che fa il segno della vittoria. Una vittoria che i socialisti, il disegno di legge porta il nome del senatore Enrico Buemi, rivendicano come battaglia storica. "Non c'è nessun attacco all'indipendenza e all'autonomia dei magistrati e nessun intento punitivo" dice Riccardo Nencini E il ministro dell'Interno Angelino Alfano twitta: "Legge di buon senso. Noi siamo il paese che cambia". Giustizia: Nordio "chi manda in galera ingiustamente va buttato fuori dalla magistratura" di Sara Menafra Il Messaggero, 26 febbraio 2015 Non ha mai avuto giudizi teneri, né verso l'Associazione nazionale magistrati né verso i suoi colleghi. E anche nel caso della legge sulla responsabilità civile dei magistrati, il procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio, che recentemente ha guidato l'inchiesta Mose, si schiera controcorrente: "È sacrosanto che lo Stato risarcisca davanti ad una decisione ingiusta, anche andando al di là del testo approvato e riconoscendo il pagamento delle spese legali a chi ha subito un processo dal quale è risultato innocente. Mi pare più strano che il giudice venga punito nel portafoglio. Il magistrato si assicurerà, già oggi siamo tutti assicurati, e non rischierà nulla. Glielo dico in sintesi: un magistrato che manda in galera una persona contra legem non deve pagare, deve essere buttato fuori dalla magistratura". Tra i punti più controversi della legge c'è quello che riconosce il danno anche per il travisamento del fatto. Lei cosane pensa? "Mi lascia molto perplesso perché si entra nel merito delle vicende e si condiziona la libertà del magistrato quando giudica. C'è poi una contraddizione insanabile: le decisioni più importanti e più gravi sono prese dalla Corte di assise, composta prevalentemente da giudici popolari, che hanno lo stesso diritto di voto dei togati. O il risarcimento riguarda anche loro e allora sarà impossibile trovare cittadini disposti a comporre la Corte, ovvero bisognerebbe prevedere un esonero che sarebbe incostituzionale ma anche irrazionale". Quindi, il suo giudizio complessivo? "Mi pare che, come è accaduto quando si è deciso di mandare in pensione i 500 magistrati più importanti d'Italia, si è agito con una certa fretta. Come il medico, il magistrato è prima di tutto un uomo che considera i propri interessi oltre a quelli generali. Di fronte alla prospettazione di dover risarcire un imputato facoltoso, potrebbe essere tentato di esprimere giudizi pilateschi. Questi rischi non sono stati considerati a sufficienza". Come si riesce a valutare il travisamento del fatto? "Difficile dirlo, anche perché lo stesso fatto può essere valutato in diversi modi in tutti i gradi di giudizio. Specie nei casi di colpa medica, la Cassazione ha spesso smentito se stessa, con diverse sezioni e persino diversi collegi all'interno della stessa sezione, che dicono cose diverse su casi simili. Alcune materie sono così complesse che è difficile dire quale sia l'interpretazione giusta e quale quella sbagliata. La giustizia crea scontenti da entrambe le parti e sia nel civile sia nel penale. La possibilità che ci siano valanghe di ricorsi è molto alta". Violante propone sanzioni forti contro le cause temerarie, che ne pensa? "Condivido la proposta ma non può essere limitata alla sola azione contro i magistrati. Il principio deve valere per tutti, anche per le denunce contro i medici e più in generale contro tutti i cittadini. L'attuale deriva verso una cosiddetta medicina difensiva ci insegna molto. I medici oggi preferiscono non rischiare e domani faranno lo stesso i magistrati". Giustizia: Rossi "dalla legge su responsabilità civile possibili effetti negativi irreversibili" di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 26 febbraio 2015 Nello Rossi è Procuratore aggiunto a Roma e coordina il pool reati finanziari. È stato uno dei magistrati più impegnati sulla responsabilità civile ai tempi della legge Vassalli, ora modificata dalla riforma Renzi-Orlando. Procuratore, ha letto il tweet del premier Renzi? "Dopo anni di rinvii e polemiche oggi la responsabilità civile dei magistrati è legge!". Insomma, sembra che prima ci fosse il deserto... "In effetti, stando ai "cinguettii" del governo, ogni annuncio e ogni provvedimento segnano l'alba di un nuovo mondo, una storica realizzazione, il superamento di colpevoli inerzie durate decenni e finalmente vinte. In questo caso non è così, perché la legge approvata ieri riscrive alcune parti della legge Vassalli, che risale al 1988. Nei campi in cui è più informato (si tratti del costo della vita, del livello della tassazione o dei meccanismi del diritto e dell'economia) ciascuno di noi è in grado di percepire che l'enfasi è eccessiva e spesso ingannevole. Quindi, alla lunga, questa tecnica comunicativa mi sembra assai rischiosa: se il cittadino scopre l'inganno in una sfera che conosce bene revoca la fiducia anche agli annunci riguardanti altri settori di cui normalmente sa poco o nulla. Comunque, come magistrato preferisco parlare di questa legge nel merito, criticandola all'occorrenza anche duramente, ma nel merito". Si parla di svolta storica ma già si annuncia una possibile correzione dopo un monitoraggio di qualche mese. Serve a tener buoni i magistrati o è un'ammissione di colpa? "Sarà necessario monitorare con attenzione gli effetti della nuova normativa. Un ravvedimento è sempre possibile anche per il legislatore. Ma questa materia non si presta a sperimentazioni legislative. Gli effetti nocivi della legge potrebbero incidere gravemente sul funzionamento della giustizia e provocare danni non facilmente riparabili". Quali danni? "Per esempio la scelta del soccombente di trasformare l'azione di responsabilità in un improprio quarto grado di giudizio". Lei è stato in prima fila sul tema della responsabilità civile: la legge Vassalli non ha funzionato perché su 400 ricorsi ci sono state solo 7 condanne? "Considero molto singolare questo argomento statistico, che ha portato all'eliminazione del filtro di ammissibilità dei ricorsi. Prima di eliminarlo, il ministro avrebbe avuto l'onere di analizzare nel merito almeno una parte di quei ricorsi: erano davvero fondati o la stragrande maggioranza era pretestuosa e meritava l'inammissibilità? Se il prossimo monitoraggio fosse "statistico", non sarebbe un passo avanti". Poiché a decidere sui ricorsi sono sempre dei magistrati, si potrebbe sostenere che l'esito è viziato in partenza. Come se ne esce? "I magistrati hanno dimostrato di non avere alcun pregiudizio favorevole nei confronti di colleghi, in presenza di accuse fondate. E poi la vera preoccupazione non è per l'esito del giudizio ma per la possibile moltiplicazione arbitraria di procedimenti pretestuosi". Le indagini del suo pool spesso toccano ingenti interessi economico-finanziari, centri di potere. La legge vi renderà più prudenti e cauti? "Cautela e prudenza sono sempre un dovere assoluto. Ma il rischio è che, di fronte a soggetti forti, reattivi, aggressivi, il magistrato si trovi in breve tempo gravato da una mole di procedimenti che si risolveranno dopo tre gradi di giudizio e lo costringeranno a difese complesse anche nei casi di azioni pretestuose". Ma se in prima battuta il ricorso è rivolto allo Stato, è lo Stato che deve difendersi, non voi... "È vero, ma l'Avvocatura dello Stato, già oggi stracarica di lavoro, non potrà non coinvolgere ai fini della difesa il magistrato considerato "colpevole". Vi saranno lunghi e complessi carteggi nei quali i magistrati rimarranno impigliati e il loro lavoro ne risentirà". A parte questo, la prospettiva di un ricorso - quando si ha a che fare con interessi economici rilevanti - può condizionare il lavoro del magistrato? "Per i magistrati di prima linea e soprattutto per i giudici civili (che devono sempre dar torto a uno dei litiganti) la prospettiva sarà quella di diventare i parafulmini dei conflitti e il condizionamento sarà dovuto all'effetto moltiplicatore dei ricorsi: dopo 15 cause sul mio operato, inevitabilmente divento un'altra persona anche se so che quelle cause sono infondate. Il filtro serviva a evitare la permanente spada di Damocle". Una delle novità è l'aggiunta del "travisamento del fatto o delle prove" tra i casi di colpa grave. Così si sconfina nel campo dell'interpretazione? "Mi rendo conto che per i non addetti ai lavori l'espressione travisamento del fatto o delle prove può sembrare una cosa terribile ma chiunque entri in un'aula giudiziaria vedrà che le parti del giudizio si rimpallano reciprocamente l'accusa di "travisare" i fatti o le prove. In realtà si tratta di diverse e fisiologiche ricostruzioni dei fatti. E il giudice deve sceglierne una o proporne una terza. Ma questo è il cuore, l'essenza dell'attività giurisdizionale. La formula dunque è vaga e invasiva del nucleo dell'attività di giudizio". C'è un rischio di burocratizzazione, cioè che il giudice scelga il quieto vivere? "Secondo me nessun giudice degno di questo nome vuole essere un burocrate. Ma il rischio è che cocenti e ripetute esperienze del tipo che ho descritto - entrare in un tunnel di cause e difese - possano indurre a un burocratico ripiegamento, al conformismo o alla lentezza. Invece abbiamo bisogno di tempestività e innovazione. Ricordiamoci che il giudice si muove sempre più spesso in campi inesplorati, dalla bioetica alle nuove tecnologie alla finanza creativa". Dai tempi della Vassalli, i magistrati si tutelano stipulando un'assicurazione. Dunque economicamente siete coperti. Qual è, allora, la vera minaccia che avvertite? "I magistrati hanno già una serie di responsabilità: civile, penale, disciplinare e in alcuni casi contabile. Ma questa legge corre il rischio di metterci in una condizione di permanente minorità rispetto ai centri di potere coinvolti in questioni di giustizia. E questo è inaccettabile". Giustizia: in 10 anni riconosciuti soltanto 9 errori da parte di magistrati… eccoli di Silvia Barocci Il Messaggero, 26 febbraio 2015 Nove errori giudiziari riconosciuti negli ultimi dieci anni. Neanche uno all'anno. Troppo pochi, stando al governo che ha portato fino alla meta la battaglia per cambiare la legge Vassalli sulla responsabilità civile dei magistrati. Ma esiste una cifra che si avvicina quanto più possibile agli errori realmente commessi per dolo o colpa grave nei tribunali italiani? Impossibile dirlo, anche se scorrendo i nove casi si scoprono storie di magistrati che non hanno indagato per tempo su prove che avrebbero potuto evitare un omicidio-suicidio, o di terreni pignorati non tenendo conto di atti già acquisiti. Certo è però che il ministero della Giustizia una previsione l'ha fatta lo scorso settembre, dopo aver varato il ddl Orlando poi divenuto un emendamento al testo Buemi già incardinato al Senato, ora legge. Se lo Stato ha sborsato negli ultimi 10 anni circa 54mila euro, l'eliminazione del filtro ai ricorsi presentati dai cittadini contro lo Stato comporterà una spesa dieci volte maggiore: 540mila euro l'anno, perché "in via approssimativa" si mettono in conto circa dieci condanne l'anno. Sarà lo Stato a procedere nei confronti del magistrato. Non più facoltativamente ma per obbligo di legge per una somma non superiore alla metà dell'annualità di stipendio della toga, contro il terzo previsto dalla Vassalli. I risarcimenti Se il "quantum" dei futuri ricorsi sarà oggetto di monitoraggio del Csm, resta il dato storico dei nove casi. Che vanno raccontati con una premessa: nessuna azione di rivalsa dello Stato sul magistrato è stata definitiva. Perché anche i procedimenti di responsabilità in sede civile hanno tre gradi di giudizio e una condanna può essere ribaltata. È accaduto ad società srl alla quale un pm e un magistrato di Grosseto avevano sequestrato nel lontano 1998 un'intera tenuta agricola nel parco dell'Uccellina per reati ambientali. Un sequestro "non pertinente" al reato, aveva deciso il Tribunale civile di Genova condannando lo Stato, nel 2005, a risarcire a favore della società circa 500mila euro. Ma la Corte di Appello prima e la Cassazione poi hanno annullato la decisione di primo grado, col risultato che la Presidenza del Consiglio ha intimato agli ex soci della società (che nel frattempo aveva cessato l'attività) di restituire le somme versate. Che dire poi del paradosso del giudice di Fermo la cui compagnia assicuratrice aveva versato 21 mila euro allo Stato a fronte dei 74mila stabiliti per colpa grave? Quel magistrato, stando a una sentenza del 2005 del Tribunale civile di Perugia, nel lontano 1989 emise un provvedimento esecutivo immobiliare non tenendo conto che il creditore aveva rinunciato all'esecuzione. Non fu pertanto possibile vendere all'asta gli immobili pignorati. La Corte di Appello e la Cassazione hanno però escluso che il magistrato in questione abbia agito per colpa grave e la somma (con gli interessi per un totale di 28mila euro) è stata risarcita. L'omicidio-suicidio Chissà se accadrà altrettanto in un'azione di rivalsa pendente nei confronti di un magistrato di Termini Imerese che, nel 2002, non tenne in conto di prove una serie di lettere acquisite dai carabinieri che avrebbero potuto evitare un omicidio-suicidio. I familiari della donna uccisa hanno fatto ricorso per responsabilità civile e il Tribunale di Caltanissetta, nel 2009, ha condannato lo Stato al risarcimento di circa 95mila euro. Giustizia: aumento pene per i corrotti ma frenata su falso in bilancio, maggioranza divisa di Alberto Custodero La Repubblica, 26 febbraio 2015 Approvato in commissione Giustizia del Senato l'emendamento del governo che prevede l'aumento delle pene, sia minime che massime, per il reato di corruzione dei pubblici ufficiali. La pena per i casi di corruzione "propria" passa da 4-8 anni a 6-10 nel massimo. Il premier Matteo Renzi saluta il voto su Twitter: "Prima l'autorità affidata a Cantone. Poi i commissariamenti col decreto Madia. Adesso aumentiamo le pene per i corrotti #lavoltabuona"". L'emendamento approvato, tuttavia, è solo una piccola parte dell'intero ddl corruzione che tratta anche dei reati contro la pubblica amministrazione e le altre fattispecie di corruzione. Ma, soprattutto, resta aperto il nodo sul falso in bilancio (depenalizzato nel 2002 dall'allora governo Berlusconi) perché l'atteso emendamento del governo non arriva. Secondo alcuni senatori, potrebbe essere depositato direttamente in Aula a Palazzo Madama. La tensione si registra sia tra maggioranza e opposizione, sia tra gli stessi alleati della maggioranza, Pd e Ncd. Il presidente Francesco Nitto Palma, di Forza Italia, critica l'emendamento del governo appena approvato in quanto, sostiene, "la pena per la corruzione "semplice" diventerebbe più rilevante rispetto a quella per la corruzione in atti giudiziari. E la sanzione "minima" di sei anni di carcere prevista per un pubblico ufficiale corrotto sarebbe inferiore di solo un anno a quella per tentato omicidio. Una sproporzione". Il presidente della Commissione polemizza poi per il mancato deposito dell'emendamento sul falso in bilancio. "Il governo - chiede Nitto Palma - ha forse qualche problema all'interno della sua maggioranza?". "Il problema politico - spiega il senatore Casson - sta sostanzialmente nei rapporti tra Pd e Ncd. La divisione su questi temi è netta: sulla corruzione e sul falso in bilancio loro sono più vicini a Forza Italia che non al centrosinistra, per cui quando si discute con l'Ncd sui questi delitti, vengono fuori tutte le difficoltà di questo mondo". "Il problema grave - aggiunge Casson - è che aspettiamo che il governo presenti l'emendamento sul falso in bilancio dal giugno scorso". Era stato lo stesso Guardasigilli Andrea Orlando, nella conferenza stampa del 29 agosto 2014, ad annunciare che il governo sarebbe intervenuto sul falso in bilancio a suo tempo "depotenziato" per contrastare più efficacemente la "criminalità economica". Dietro alla mancata presentazione dell'emendamento governativo sul reato ci sarebbe un confronto molto duro sulle soglie di non punibilità che il ministro dello Sviluppo Economico, Federica Guidi, vorrebbe a tutti costi conservare. "La linea del Pd sul falso in bilancio - spiega Casson - non è mutata dalla precedente legislatura, quando l'attuale Guardasigilli, Orlando, era responsabile Giustizia del partito. E i punti di ieri e di oggi sono sempre gli stessi: sì alle intercettazioni, sì alla procedibilità d'ufficio, no alle soglie di non punibilità". Viste le tensioni all'interno della maggioranza, il governo è ora alla ricerca di un compromesso. "Bisogna vedere - conclude Casson - se lo troverà. L'importante è andare al voto, non si può continuare a rinviare". Giustizia: muro partiti sui vitalizi ai condannati, Grasso torna giurista per farli eliminare di Monica Guerzoni Corriere della Sera, 26 febbraio 2015 Basta con i vitalizi agli ex parlamentari condannati, lo scandalo deve finire. Per sbloccare l'impasse che impedisce di annullare un privilegio odioso, il presidente del Senato Pietro Grasso è pronto a ingaggiare un braccio di ferro con i partiti, che trovano ogni scusa per rinviare la soluzione alle calende greche. E Laura Boldrini sta dalla stessa parte: "Inaccettabile l'erogazione a corrotti e mafiosi" L'inquilino di Palazzo Madama, descritto come "furibondo" dai collaboratori, ieri ragionava ad alta voce: "Sui vitalizi non mi faccio raggirare. Non è possibile che rappresentanti del popolo, poi giudicati indegni, vengano pagati con soldi pubblici da un organo costituzionale che può decidere in modo completamente autonomo". Parole con cui Grasso prova a spazzar via i tentennamenti e le argomentazioni di chi vorrebbe portare il tema nelle aule parlamentari, sfilandolo ai consigli di presidenza e allungando ancora i tempi. È dal 7 giugno del 2014 che il presidente del Senato è in guerra contro i vitalizi "indegni". Una vicenda che, in soldoni, costa ai cittadini 170 milioni l'anno. Grasso ne fa una questione di onore delle istituzioni e si ripromette di risolverla entro dieci giorni: "Al prossimo consiglio di presidenza la porterò in votazione e ognuno si prenderà la propria responsabilità di fronte all'opinione pubblica". Un affondo contro quei parlamentari che si stanno mostrando meno sensibili al tema, temporeggiando e trincerandosi dietro la "Carta". La giornata di ieri rivela il braccio di ferro. Da una parte i presidenti di Camera e Senato e dall'altra quei questori, nominati dai partiti, che tirano per le lunghe una istruttoria infinita e che solo martedì sera hanno inviato a Grasso il parere del presidente emerito della Corte costituzionale, Cesare Mirabelli, da loro acquisito il 19 febbraio. Quando la seconda carica dello Stato ha letto l'illustre "parere pro veritate", ha fatto un balzo sullo scranno. Poi, deciso a stoppare il blitz, ha chiamato Laura Boldrini. La presidente della Camera lo ha raggiunto a Palazzo Madama per un prevertice in cui Grasso ha illustrato ai questori di Camera e Senato il suo contro parere: un testo che fa a pezzi le tesi di Mirabelli e innesca un botta e risposta in punta di Costituzione. Se l'ex vicepresidente del Csm rileva "plurime e rilevanti criticità costituzionali" nel provvedimento, Grasso pensa che le super pensioni dei condannati non siano affatto intoccabili. Punto primo: è "paradossale ipotizzare" che i consigli di presidenza non possano modificare le norme su vitalizi e pensioni, ma serva una legge ad hoc. Punto secondo, "non è fondato il parere del Prof. Mirabelli secondo cui la cessazione dell'erogazione sarebbe assimilabile a una sanzione penale accessoria". Conclusione, "non sussiste un divieto di retroattività". Firmato, Pietro Grasso. Il contro parere del presidente sarebbe rimasto riservato, se i questori non avessero inviato alla stampa solo quello di Mirabelli, "dimenticando" di diffondere le argomentazioni di Grasso e costringendo fonti di Palazzo Madama e svelare anche il secondo documento interno. "Una doppia scorrettezza", si osserva in ambienti parlamentari vicini a Grasso. A sera i collegi dei questori hanno fatto sapere che, entro il 31 marzo, i segretari generali Pagano e Serafini completeranno l'istruttoria per il "piano operativo", che dovrà "progressivamente" unificare i servizi dei due palazzi: biblioteca, archivio storico, polo sanitario e servizio informatica. La cosa sorprendente è che nella nota dei questori non ci sia una sola parola sui vitalizi. Giustizia: la Chiesa temeva il 41-bis; ci fu una trattativa sul carcere, non tra Stato e mafia Massimo Bordin Panorama, 26 febbraio 2015 Le ultime udienze del processo sulla trattativa Stato-mafia sono state dedicate a un tema molto importante per la struttura dell'accusa, ovvero il brusco ricambio al vertice del Dap, il Dipartimento carceri del ministero della Giustizia, nel giugno 1993. Il cambio della guardia viene interpretato dall'accusa come necessario per spingere l'allora guardasigilli, Giovanni Conso, a revocare il carcere duro ai capi mafia detenuti: un prezzo pagato dallo Stato per la trattativa. Ed effettivamente Conso alla fine del 1993 revocò il 41 bis a 334 detenuti. Per la verità meno di 30 erano di "Cosa nostra" e nessuno di loro poteva essere definito un capo. Ma il fatto è il vero pilastro dell'accusa. Sul cambio al vertice del Dap è stato sentito un sacerdote, don Fabio Fabbri, all'epoca segretario di monsignor Cesare Curioni che fu a capo dei cappellani delle carceri. Monsignor Fabbri ha ripetuto ai giudici che fu il presidente Oscar Luigi Scalfaro ad attivare il capo dei cappellani per trovare un sostituto di Nicolò Amato al vertice del Dap. Fu scelto il pio procuratore di Trento, Adalberto Capriotti. Dunque alla trattativa partecipo' anche la Chiesa e addirittura il presidente della Repubblica? Non è detto. Intanto la sostituzione di Amato è repentina, ma fino a un certo punto. Stava lì da 10 anni e qualche nemico se l'era pur fatto. "È molto intelligente, ma tende a farlo notare" ha detto di lui ai giudici il suo vice al Dap, Edoardo Fazzioli. Ma soprattutto dalle parole del sacerdote emerge la preoccupazione della Chiesa a proposito di un inasprimento generale delle condizioni carcerarie sull'onda del 41 bis. Il mondo cattolico, da sempre impegnato nelle carceri, voleva che ci fosse una persona di completa fiducia al vertice del Dap per evitare che le misure antimafia cambiassero il clima anche per gli altri detenuti. Ma questa linea non vinse del tutto, perché a Capriotti venne affiancato come vice Francesco Di Maggio, "uno agli antipodi di Capriotti, che certo non avevamo scelto noi" ha raccontato ai giudici don Fabbri. E così la trattativa anche in questo caso sembra più fra due diverse concezioni del carcere che fra Stato e mafia. Giustizia: Opg; in Conferenza Unificata riparto fondi e coordinate attivazione delle Rems www.quotidianosanita.it, 26 febbraio 2015 Dal prossimo 31 marzo i vecchi Opg saranno definitivamente superati e entreranno in scena le strutture residenziali socio sanitarie (Rems). Nella seduta di domani i provvedimenti che consentiranno il passaggio definitivo. Ospedali psichiatrici giudiziari al countdown: il prossimo 31 marzo 2015 dovranno definitivamente chiudere i battenti. Sul piatto ci sono oltre 49 milioni di euro che le regioni dovranno dividersi per coprire gli oneri necessari a completare il processo di trasformazione dei vecchi ospedali in strutture residenziali socio sanitarie (Rems). Arrivano quindi domani in Conferenza Unificata i due provvedimenti che consentiranno il definitivo giro di boa. Il primo "l'Accordo concernente disposizioni per il definitivo superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari" detta le coordinate per l'attivazione delle strutture residenziali socio sanitarie (Rems) che ospiteranno le persone internate in misura di sicurezza detentiva. Il provvedimento disciplina tutte le fasi necessarie per l'assegnazione delle persone internate alle strutture, regolamenta trasferimenti, traduzioni e piantonamenti, individua il personale deputato al controllo. In particolare, il ministero della Salute, entro il 15 marzo, dovrà comunicare all'Autorità giudiziaria e al Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (Dap), l'avvenuta individuazione e l'effettiva attivazione delle Rems. Sarà poi il Dap ad assegnare e trasferire gli internati nelle Rems. Responsabili delle strutture residenziali sono i direttori sanitari coadiuvati da personale sanitario e amministrativo. L'accordo sarà infine sottoposto a monitoraggio semestrale. Il Riparto dei fondi. Il secondo provvedimento in Unificata è l'Intesa di deliberazione del Cipe concernente il riparto tra le Regioni, per l'anno 2014 dei fondi per il superamento degli Opg - Fsn 2014": in totale 49,120 mln di euro. Le risorse saranno ripartite per il 50% sulla base della popolazione residente in ciascuna Regione e Provincia autonoma al 31 gennaio 2013, e per il restante 50% sulla base del numero delle persone internate negli Opg sempre al 31 dicembre 2013. L'erogazione delle risorse è subordinata all'approvazione dei programmi regionali già presentati dalle Regioni per il completamento del processo di superamento degli Opg. Giustizia: caso Alpi; Hassan è da 16 anni in carcere, ma l'accusatore ha mentito per soldi di Riccardo Bastianello Ansa, 26 febbraio 2015 Chiede di non essere dimenticato, che i fari dei media non si spengano, perché lui è innocente, con l'omicidio di Ilaria Alpi non c'entra, con una storia "che mi ha rubato un pezzo di vita". È un gigante di due metri d'altezza Omar Hashi Hassan, il somalo 41enne accusato di essere l'assassino della giornalista Rai e dell'operatore Miran Hrovatin, uccisi a Mogadiscio il 20 marzo 1994. Alcune settimane fa il connazionale Ahmed Ali Rege, detto "Jelle", il suo accusatore, ha ritrattato tutto dicendo di essere stato pagato per mentire. Hassan ha accettato di parlare con l'Ansa mentre si trovava in permesso premio alla casa di accoglienza "Piccoli Passi" di Limena (Padova). "Ho bisogno - dice - del vostro aiuto, sono quasi 16 anni che sono in galera, dimenticato da tutti. Solo grazie al lavoro dei giornalisti la verità sta venendo a galla. Vi chiedo solo, fino a quando non riapriranno il processo, di non dimenticarmi. Questa è l'unica cosa di cui ho bisogno". Come si sente adesso che la verità sta venendo a galla? "Sono quasi 16 anni - risponde - che sono in carcere, 17 dall'inizio del processo. Un pezzo di vita trascorso in carcere ingiustamente. Dal primo giorno dico a tutti che sono innocente e che i testimoni erano falsi ma nessuno mi ha creduto. Finalmente, grazie a dei giornalisti coraggiosi, ora è chiaro a tutti che dicevo la verità". Ha continuato a sperare per tutto questo tempo o si era ormai rassegnato ad una carcerazione ingiusta? "Il carcere è sempre brutto, anche se si è colpevoli. Ma starci da innocente è tremendo. La preghiera e il coraggio mi hanno sostenuto, la fiducia che un giorno Dio avrebbe visto la verità. Avevo una sola speranza: che prima o poi arrivasse una persona coraggiosa a svelare l'inganno. Questa era la mia unica possibilità e non dimenticherò mai chi mi sta aiutando". Perché, secondo lei, Rage ha mentito? "Lui ha detto che era stato pagato ma non so chi e perché. Purtroppo in Somalia c'era la guerra civile e bastava offrire qualche soldo a qualcuno e chiunque avrebbe detto qualsiasi cosa". Riesce ad immaginare chi possa averlo pagato e perché? "Non ho idea veramente, solo lui lo sa". È tutta colpa di Rege quindi o sono stati commessi altri errori in questa vicenda? "Sì, quelli del pm. Il pm non è giudice ma è la pubblica accusa. Quindi quando raccoglie una informazione non dovrebbe poter condannare nessuno sulla base della dichiarazione di una persona che non conosce nemmeno. È una cosa illegale. Eppure a me è capitato proprio questo". La politica ha fatto qualcosa in questi anni per aiutarla? "La politica mi ha abbandonato. Non parlatemi dei parlamentari. Avevano fatto una commissione parlamentare di inchiesta nel 2004 e Taormina e Bindi avevano detto che appena finita la commissione avrei potuto chiedere la revisione del processo. Entrambi mi hanno anche mostrato la registrazione audio con le dichiarazione di Jelle che provavano che lui aveva detto il falso. Erano loro gli unici che poteva fare qualcosa ma visto che sono extracomunitario e non conto niente, allora non hanno fatto niente". Sarebbe andata diversamente se fosse stato italiano? "Certo. Non possono condannare una persona sulla base di una dichiarazione falsa. Se ero italiano o europeo questo non succedeva. Come può accadere una cosa del genere? Purtroppo il governo in Somalia non c'è e nessuno ha potuto parlare con il governo italiano. E questo ha complicato le cose". C'è stato qualcuno che le ha creduto in questi anni? "La mamma di Ilaria Alpi mi ha aiutato. Chiedevo spesso un permesso premio al magistrato di sorveglianza, ma è difficile concederlo quando sei accusato di un reato come questo. Nel 2013 la mamma di Ilaria ha mandato una lettera al magistrato e l'ha convinto. Ero in questa stessa stanza il 30 aprile 2013, dopo 14 anni di prigione ero fuori per qualche ora e la prima persona che ho chiamato non è stata mia mamma, ma la mamma di Ilaria. Questa è l'unica possibilità che ho avuto dall'Italia". Ora cosa spera? "Mi mancano due anni e mezzo al 5 dicembre 2017 quando finirò la pena. Spero che tutto finisca presto. Solo Roma può fare qualcosa. Il procuratore Pignatore può fare qualcosa, è in gamba e spero tanto in lui". Una volta libero cosa farà? "Tornerò in Somalia a recuperare il tempo perduto. Ho nipoti che non ho mai visto, ho perso due sorelle, una sgozzata nel corso di una rapina, l'altra a causa di una complicazione nel parto, e non ho potuto dirle addio. A quest'età avrei dovuto avere una famiglia. La mia vita è finita a 24 anni quando mi hanno arrestato. Ora ne ho 41. Mi hanno rubato un pezzo di vita". Giustizia: caso Yara; la Cassazione respinge il ricorso e conferma il carcere per Bossetti Ansa, 26 febbraio 2015 Per ora Massimo Bossetti, il muratore di Mapello indagato per l'omicidio della tredicenne Yara Gambirasio, deve rimanere in carcere. Lo ha deciso la Prima sezione penale della Cassazione, presieduta da Renato Cortese, respingendo il ricorso presentato dall'avvocato Claudio Salvagni, difensore di fiducia dell'indagato che si trova in custodia cautelare dallo scorso 16 giugno. Anche la Procura generale della Cassazione, rappresentata dal sostituto procuratore Oscar Cedrangolo, aveva chiesto il rigetto del reclamo di Bossetti e la conferma della misura detentiva. A quanto si è appreso dall'avvocato Salvagni, il Pg Cedrangolo avrebbe svolto una requisitoria "molto articolata e, anche se ha chiesto il rigetto del nostro ricorso, ha però sottolineato come fosse condivisibile l'eccezione procedurale da noi avanzata sulla inutilizzabilità dell'accertamento del Ris sulle tracce del Dna trovate sui leggins di Yara". Sempre in base a quanto dichiarato da Salvagni al termine dell'udienza, il Pg non avrebbe "speso una parola sulla pericolosità di Bossetti". Il prossimo colloquio tra il difensore e il suo assistito, ha detto infine Salvagni, rispondendo alle domande dei cronisti, ci sarà solo dopodomani, venerdì. Solo allora, Bossetti verrà informato nel dettaglio dal suo legale sull'esito dell'istanza che aveva presentato alla Suprema Corte. Per quanto riguarda le motivazioni in base alle quali la Prima sezione penale della Cassazione ha emesso il suo verdetto, il deposito dovrebbe avvenire entro trenta giorni, stando ai tempi consueti, probabilmente anche prima. L'estensione della sentenza è stata affidata al consigliere relatore Alessandro Centonze che, in camera di consiglio, a porte chiuse, ha introdotto la vicenda parlando per circa mezz'ora. Poi ha lasciato la parola al Pg Cedrangolo per circa venti minuti, e altrettanti ne sono stati concessi alla difesa di Salvagni. Complessivamente l'udienza del caso Yara è durata circa un'ora e un quarto. In particolare, con la decisione della Suprema Corte è stata confermata l'ordinanza con la quale il Tribunale della libertà di Brescia, lo scorso 14 ottobre, aveva convalidato la misura cautelare, come in precedenza stabilito dal gip di Bergamo Ezia Maccora con provvedimento del 15 settembre 2014. L'udienza si è svolta con rito camerale alla sola presenza dei giudici, del Pg e del difensore di Bossetti come avviene per tutti i ricorsi sulle misure cautelari. L'altro ieri, la sorella gemella di Bossetti, Laura Letizia, è stata brutalmente picchiata da due individui incappucciati ed è stata ricoverata in ospedale con tre costole rotte e un trauma cranico. È la seconda aggressione che la donna subisce da quando il fratello è indagato. Bossetti non è stato ancora rinviato a giudizio e sperava, come ha scritto recentemente in una lettera resa pubblica, di poter ottenere la concessione degli arresti domiciliari. Lazio: tornano a crescere le presenze di detenuti nelle carceri della Regione Adnkronos, 26 febbraio 2015 Tornano a crescere, dopo mesi ininterrotti di calo, le presenze di detenuti nelle carceri della Regione Lazio. Il 23 febbraio 2015 i reclusi presenti nei 14 istituti della Regione erano 5.702, 83 in più rispetto alla rilevazione diffusa dal Dap lo scorso 22 gennaio ed addirittura 102 in più rispetto al 31 dicembre 2014. Lo rende noto il Garante dei diritti dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni commentando i dati del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria. Anche se, rispetto ad un anno fa, le presenza fanno registrare un - 1.150 (la rilevazione del 4 febbraio 2014 indicava, infatti, 6.856 presenze) per il Garante la novità più rilevante che emerge dalle statistiche del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria è che, "in questo inizio di 2015, si è avuta una inversione di tendenza, con un piccolo ma costante aumento dei reclusi nelle carceri. I numeri restano decisamente lontani dalle medie registrate fino a due anni fa ma, certo, questa tendenza rappresenta un piccolo campanello d'allarme, anche perché il sovraffollamento fa sempre segnare un + 600 presenze rispetto alla capienza regolamentare degli istituti regionali, fissata dal Dipartimento a quota 5.114". A livello nazionale, il Lazio si conferma al quarto posto nella graduatoria delle Regioni italiane con il maggior numero di detenuti dietro Lombardia con 7.875 presenze, Campania con 7.314 e Sicilia con 5.888). Dai dati regionali emergono ulteriori spunti di riflessione. Torna, infatti, a salire la percentuale dei detenuti in attesa di giudizio definitivo: nel Lazio attualmente sono 2.172, il 38,09% del totale, contro il 37,39% di un mese fa. Nel dettaglio, 1.206 sono i reclusi in attesa di giudizio di I grado, e 1.146 i condannati non definitivi. I condannati definitivi sono invece 3.511, il 61,57% (contro il 62,34% di un mese fa). Lazio: per superare Opg servono 132 assunzioni tra medici, infermieri e personale tecnico Ansa, 26 febbraio 2015 "Approvato il decreto per l'indizione del primo concorso pubblico dopo 8 anni, destinato all'assunzione di 132 tra medici, infermieri e personale tecnico della riabilitazione. Il Commissario ad acta Nicola Zingaretti ha firmato questa mattina l'atto che autorizza il concorso per reperire il personale necessario al funzionamento delle sedi provvisorie e definitive delle strutture residenziali socio assistenziali Rems, che nascono per superare gli Opg". Lo comunica, in una nota, la Regione Lazio. "Con questo atto il Lazio - spiega la nota - ottempera ad una legge dello Stato e ad una norma di civiltà in linea con il definitivo accordo nella Conferenza unificata Stato Regione che si terrà domani. Si tratta di un concorso pubblico destinato a medici, psicologi, infermieri, tecnici della riabilitazione psichiatrica, amministrativi, assistenti sociali e operatori socio sanitari. In particolare 54 saranno assunti per la Asl Roma G (Tivoli Monterotondo), 54 per la Asl di Frosinone, 24 per quella di Rieti ,per un totale di 132 unità. Le Rems provvisorie saranno a Palombara Sabina e Pontecorvo i cui lavori sono già in corso, mentre quelle definitive saranno a Subiaco a Ceccano ed a Rieti andrà il reparto che ospiterà le donne". "Nei prossimi giorni - conclude la Regione Lazio - attiveremo le procedure previste dal decreto ministeriale dell'1.10.2012 circa specifici accordi con le Prefetture per garantire adeguate misure di sicurezza e vigilanza. È stato inoltre approvato il decreto che assegna a tutte le aziende sanitarie fondi per il potenziamento dei servizi dei Dsm (Dipartimenti salute mentale) e del personale per il potenziamento dell'articolazione sanitaria per oltre un milione di euro". Piemonte: con progetti di reinserimento sociale ritorna in carcere solo il 23% dei detenuti di Maria Teresa Martinengo La Stampa, 26 febbraio 2015 Lo dice una ricerca dell'Università di Torino presentata al convegno "Guardiamoci dentro" promosso dalla Compagnia di San Paolo. La Compagnia di San Paolo e l'Ufficio Pio sono impegnati in vari progetti per restituire dignità e prospettive di futuro alle persone con trascorsi penitenziari Il convegno nazionale "Guardiamoci dentro", ampia riflessione sul carcere in Italia promossa dalla Compagnia di San Paolo e dall'Ufficio Pio, si è aperto al Campus Luigi Einaudi dell'Università con la presentazione del Progetto Logos per il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti in uscita, da dieci anni sostenuto dalla Compagnia e seguito dall'Ufficio Pio, e di una ricerca sui percorsi delle persone con trascorsi penitenziari, sui tassi di recidiva e sull'impatto di Logos. Lo studio, condotto dall'Università di Torino e dall'Osservatorio nazionale sulle condizioni detentive in Italia dell'Associazione Antigone, ha analizzato i fascicoli di 458 persone. Inoltre, sono state condotte 40 interviste sulle prime esperienze lavorative, sui rapporti con la famiglia e con i servizi sociali locali. "I colloqui - ha spiegato il professor Claudio Sarzotti, che con Daniela Ronco e Giovanni Torrente ha coordinato lo studio - descrivono a volte con toni drammatici il quadro socio-economico in cui i percorsi di reinserimento si svolgono: un quadro che chiama in causa il sistema Paese, con una quota sempre più ampia di cittadini che faticano ad essere riconosciuti come tali". La ricerca mostra come la percentuale di recidiva media fra coloro che hanno seguito per intero il progetto Logos - che offre ai detenuti a fine pena un sostegno per raggiungere l'autonomia e il reinserimento sociale - nei 7 anni presi in esame (2007-2014), è del 23,20%; ben 15 punti in meno del miglior dato nazionale ad oggi disponibile sui fruitori di indulto, ma soprattutto ben 45 punti inferiore rispetto alla recidiva ordinaria rilevata dall'Amministrazione penitenziaria (68,45%). Al contrario, coloro che non hanno terminato il progetto Logos - a causa di interruzione o abbandono - mostrano un tasso di recidiva più elevato, del 44,5%. Il professor Sarzotti ha sottolineato come dalle interviste emerga la volontà degli ex detenuti di lavorare onestamente, ma che sotto la soglia della sopravvivenza le persone siano disposte a praticare "strategie di sopravvivenza" che spingono nuovamente all'illegalità. E ha citato passaggi di testimonianze. "Vivo con mia madre con una pensione di 280 euro al mese", ha detto un uomo. E un altro: "Non ho mai i soldi per portare mia figlia a mangiare una pizza. Ha 14 anni, vede le amiche andare in piscina, lei non può. Ma che vita le sto facendo fare?". Un terzo: "Quando mio padre non ci sarà più con la sua pensione, io andrò sotto i ponti". Il quarto: "Se non riesco a trovare lavoro, a casa cosa porto da mangiare? Procurarsi dei soldi è dura se non hai nessuno...". Nell'ambito delle iniziative a favore della popolazione carceraria, l'impegno della Compagnia di San Paolo conta interventi che arrivano complessivamente a 13,4 milioni di euro, di cui 6 investiti tra il 2011 e il 2014 con Progetto Libero che mira all'impegno prioritario del recupero dell'autonomia e di una qualità di vita accettabile per i detenuti e per le loro famiglie con lavoro, sport, ascolto, formazione, esigenze primarie, genitorialità e famiglia, oltre a lavori di ristrutturazione dei locali del carcere. L'Ufficio Pio, poi, ha assegnato oltre 2 milioni per Logos. "La missione della Compagnia è lo sviluppo della comunità nel suo insieme. Il mondo carcerario ne fa parte a pieno titolo e le sue sorti riguardano tutti, anche chi sta "fuori". Garantire un adeguato livello di dignità a queste persone è un dovere morale e un principio sancito dalla nostra Costituzione", ha detto il presidente della Compagnia di San Paolo Luca Remmert, introducendo il convegno, che prosegue oggi nel Foyer del Teatro Regio alla presenza del vice ministro Enrico Costa, ha dichiarato. Progetto Logos: con reinserimento meno recidive Aiutare il reinserimento sociale degli ex detenuti è indispensabile per ridurre notevolmente le probabilità che ritornino a delinquere. A sostenerlo i partecipanti al convegno "Guardiamoci dentro", aperto oggi a Torino al Campus Luigi Einaudi e che continua domani alla presenza del viceministro Enrico Costa. Organizzato dalla Compagnia di San Paolo, è stato l'occasione per riferire i risultati del Progetto Logos, nato nel 2003 su iniziativa della Compagnia in collaborazione con l'Ufficio Pio, con l'obiettivo di offrire ai detenuti a fine pena un sostegno per raggiungere l'autonomia. Lo studio, condotto dall'Università di Torino e dall'Osservatorio nazionale sulle condizioni detentive in Italia dell'Associazione Antigone, ha analizzato i fascicoli di 458 persone inserite nel progetto Logos tra il 2007 e il 2014. La ricerca mostra come la percentuale di recidiva media fra coloro che hanno seguito per intero il progetto Logos, nei 7 anni presi in esame (2007-2014), è del 23,20%, pari a 15 punti in meno del miglior dato nazionale ad oggi disponibile sui fruitori di indulto (38,11%) e 45 punti inferiore rispetto alla recidiva ordinaria rilevata dall'Amministrazione penitenziaria (68,45%). Del 44,5% è il tasso di recidiva si coloro che non hanno terminato il progetto Logos. "Siamo convinti - ha detto il presidente della Compagnia di Sam Paolo, Luca Remmert - che offrire ai detenuti e alle detenute adeguate opportunità per riabilitarsi, per acquistare o riacquistare dignità e onore, pur nella severità necessaria e imprescindibile della pena, contribuisca in modo concreto e duraturo alla sicurezza sociale e di conseguenza al beneficio di tutta la comunità". Napoli: detenuti pestati nella "cella zero" di Poggioreale, quattro agenti indagati di Arianna Giunti L'Espresso, 26 febbraio 2015 Nell'inchiesta, nata dalla denuncia di alcuni carcerati che hanno raccontato ai magistrati di essere stati picchiati a sangue da una squadra della polizia penitenziaria, coinvolto anche un medico. Quattro agenti indagati e un medico nei guai. Sta dando i primi frutti la complicata inchiesta sui pestaggi avvenuti nella "cella zero" del carcere di Poggioreale, nata dalla denuncia di alcuni detenuti ed ex detenuti, che hanno raccontato ai magistrati di essere stati picchiati a sangue da una squadra di agenti della polizia penitenziaria, nel buio di una cella al piano terra del penitenziario napoletano. I procuratori aggiunti Valentina Rametta e Giuseppe Loreto e il pm Alfonso D'Avino hanno iscritto nel registro degli indagati quattro agenti della polizia penitenziaria, che ora non sono più in servizio a Poggioreale. Mentre rimane pendente una denuncia nei confronti di un medico del carcere, accusato da uno dei detenuti di non averlo neppure visitato, facendo finta di nulla quando lui si è presentato in infermeria con lesioni tipiche da pestaggio. Le indagini stanno andando avanti in silenzio e non senza difficoltà, tanto che i magistrati napoletani hanno dovuto chiedere una proroga di sei mesi, in modo da rintracciare testimoni e altre probabili vittime che, nel frattempo, sono stati trasferiti in altri istituti di pena. Intanto, le denunce dei detenuti sono arrivate a quota 150. Sospetti abusi di potere che anche l'Espresso aveva denunciato, raccogliendo le testimonianze dei detenuti. Secondo i loro racconti, nell'istituto partenopeo che all'epoca dei fatti - nel gennaio 2014 - era il penitenziario più sovraffollato d'Europa, un manipolo di agenti della polizia penitenziaria, che si faceva chiamare "la squadretta della Uno Bianca", commetteva abusi di potere e feroci pestaggi nei confronti dei detenuti (soprattutto stranieri o in attesa di giudizio) che venivano portati in una cella vuota e priva di telecamere, denudati, picchiati e infine minacciati perché non rivelassero a nessuno quello che era successo. Qualcuno, però, ha trovato il coraggio di parlare. Prima con il garante dei detenuti della Campania, Adriana Tocco, che ha inoltrato un dossier alla Procura. E poi con gli stessi magistrati, che ancora in questi giorni stanno incrociando testimonianze e ricordi, andando a ritroso nel tempo e cercando di rintracciare anche detenuti che nel frattempo hanno lasciato il carcere o sono stati trasferiti in altri istituti, cercando di abbattere quel muro di paura e omertà che si sarebbe creato a Poggioreale. I ricordi di quelle violenze sono ancora ben impressi nella mente di uno dei detenuti, R.L., uno dei primi ad aver sporto denuncia in Procura, che oggi racconta a l'Espresso: "Mi ricordo ancora come fosse ieri, era il luglio del 2013. Mentre mi portavano in quella cella uno degli agenti si sfregava le mani e si toglieva gli anelli, poi continuava a ripetermi: ‘Tu sei una brava personà. E più me lo diceva più io tremavo, perché capivo che stava per succedermi qualcosa". I dettagli, agghiaccianti, concordano con quelli degli altri detenuti: "Una volta arrivato nella cella, gli altri agenti quando mi hanno visto hanno detto: "E chi è ‘sta munnezza?" Poi mi hanno fatto spogliare completamente nudo. E sono iniziate le botte". L'uomo - che era finito in carcere per una vicenda di ricettazione e che oggi ha scontato la sua pena - elenca anche altri dettagli, pure questi finiti sul tavolo del magistrati: "Le vittime di questi pestaggi erano soprattutto stranieri, o comunque persone normali, senza grossi curriculum criminali. Prima di pestare un detenuto, andavano a vedere nei registri chi era e cosa aveva fatto. Non si azzardavano a picchiare i camorristi, per paura di vendette e ritorsioni". Nel mirino dei magistrati però non sono finiti solo gli agenti della penitenziaria ma anche un medico, che avrebbe dovuto denunciare d'ufficio le botte subite dai carcerari, e invece non lo avrebbe fatto. "Quando mi sono fatto visitare in infermeria avevo paura a raccontare di essere stato vittima di un pestaggio, però le botte sul mio viso e sul corpo erano inequivocabili - racconta oggi a l'Espresso l'ex detenuto - Ma lui senza neppure visitarmi ha detto: "Torni pure in cella, è tutto a posto". "In quella cella mi hanno umiliato, mi hanno ferito. Mi hanno annullato come essere umano". Accuse pesantissime che devono ancora essere dimostrate. Certo è che la notizia di questa svolta nell'inchiesta sembrerebbe aver dato ragione all'ex detenuto Pietro Ioia, uno dei primi a parlare dell'esistenza della "cella zero", che oggi fa parte dell'associazione ex detenuti napoletani: "Qualcosa si sta muovendo, dopo anni di silenzio su quello che succedeva in quel carcere. Ora chi ha sbagliato deve pagare. Non dimentichiamoci mai che il carcere deve essere un luogo di recupero per chi sbaglia, non di tortura". E qualche effetto positivo, questa inchiesta, l'ha avuto: dopo un'ispezione, sono cambiati i vertici dell'istituto e della polizia penitenziaria e il clima a Poggioreale è decisamente migliore. "Con l'apertura delle celle e l'aumento di varie attività nel carcere - conferma il garante dei detenuti Adriana Tocco - non sto ricevendo più denunce, né verbali, né scritte per abusi e violenze". Pescara: uno "scampolo di città" nel carcere, per cambiare le cose di Francesco Lo Piccolo (direttore di "Voci di dentro") www.huffingtonpost.it, 26 febbraio 2015 Nel carcere di Pescara sta per partire La Città, progetto sperimentale dell'Associazione Voci di dentro per "trasformare" un pezzo del carcere in un "luogo di senso" dove alcune delle persone detenute (una quarantina in una prima fase) "potranno vivere lo spazio e il tempo come si vive lo spazio e il tempo del mondo libero". Sono mesi che ci lavoriamo, siamo a un buon punto: in accordo con la direzione dell'Istituto, al secondo piano di un capannone esterno alla zona delle celle, ma sempre dentro il carcere, in un'area di circa 500 metri quadrati, i detenuti della redazione di Voci di dentro, i volontari dell'associazione, un gruppo di psicologi e sociologi dell'Università D'Annunzio di Chieti e gli ingegneri di Viviamolaq (gli stessi che a L'Aquila hanno realizzato Parcobaleno a Santa Rufina, Restart in piazza San Basilio ecc.) tutti insieme abbiamo ridisegnato, dipinto e arredato cinque grandi stanze, un salone e un ampio corridoio. Colori alle pareti, scaffali, e tavolini (tutti realizzati in arte povera) stanno trasformando lo spazio per renderlo uno scampolo di città con la sua piazza, la sua strada, le sue scuole, i suoi servizi ricreativi e culturali, la biblioteca, l'azienda, l'area artigianale... (Per chi ci vuole dare una mano è stata anche avviata una raccolta fondi). Nulla di eccezionale. È il naturale sviluppo del lavoro e delle attività portate avanti da oltre otto anni dall'Associazione Onlus Voci di dentro negli Istituti penitenziari di Chieti, Pescara, Vasto e Lanciano; è il superamento della formula dei tanti corsi che si fanno nelle carceri e che, come abbiamo ben visto, il più delle volte vengono abbandonati a metà percorso e frequentati dai detenuti solo in vista del giudizio dell'area educativa del carcere così da ottenere qualche beneficio o permesso premio in più. La Città è un esperimento pilota per cercare di concretizzare quello che indicano i più avanzati modelli architettonici per le prigioni e le stesse linee guida vecchie di qualche decennio delle Commissioni europee che si occupano di sistemi penitenziari e che prevedono appunto l'organizzazione delle strutture carcerarie come il mondo di fuori. Realizzata la struttura (in parte), ora siamo alla messa a punto del contenuto: concretamente prevediamo di collocare ne La Città degli spazi di vita che abbiamo suddiviso in spazi lavoro, comunicazione, studio-formazione, creativo individuale, hobby-svago. Nuovi spazi dunque all'interno dei quali i detenuti, nei limiti imposti dalla sicurezza e secondo tempi e modalità concordate con l'amministrazione penitenziaria, potranno accedere e muoversi liberamente. Inizialmente mezza giornata, ma l'intento è di usare questo spazio tutta la giornata così da poter rendere effettivo l'articolo 6 dell'ordinamento penitenziario (legge 26 luglio 1975 n. 354) che distingue chiaramente la cella per il pernottamento dai locali per le attività. Spazi che noi intendiamo come luoghi di vita dove i detenuti poco alla volta si riappropriano del sapere, della conoscenza, di valori. Delle regole. Attivi e non passivi. E inevitabilmente, luoghi che cambiano anche i volontari: non più attori che si muovono individualmente guidati da una personale motivazione, ma parte di un processo che coinvolge in ugual misura le persone detenute e quelle non detenute. Tutti insieme impegnati, in grande sintesi 1. nello spazio lavoro ovvero nelle attività di digitalizzazione già avviate dalla cooperativa Alfachi (nata sempre dall'associazione Voci di dentro), attività retribuite con obblighi e doveri in tutto e per tutto identici a quelli di qualunque lavoratore; 2. nello spazio comunicazione dove si realizza la rivista Voci di dentro, rivista e luogo di lavoro contro gli stereotipi e la spettacolarizzazione degli avvenimenti con una visione critica e aperta alle diverse culture e tradizioni; 3. nello spazio studio-formazione con corsi di italiano, lingua, scrittura creativa, informatica, e più in generale corsi professionali in collegamento diretto col mondo del lavoro; 4. nello spazio studio creativo individuale (La biblioteca); 5. nello spazio hobby-svago. In sostanza immaginiamo che ci sarà ad esempio chi lavorerà presso la cooperativa e poi avrà un momento di relazione sociale e di svago; oppure ci sarà chi si inserirà nella formazione e poi accederà all'area sociale e successivamente a quella di svago ed infine chi dedicherà il suo tempo all'impegno sociale con le attività redazionali dell'associazione Voci di dentro per poi passare all'area sociale e a quella di svago. Questo dal lunedì al venerdì. Nelle giornate del sabato e della domenica, ove e quando possibile, si prevede inoltre l'incontro e il confronto: in sintesi si prevedono momenti di incontro con la realtà esterna attraverso convegni culturali su temi di rilevanza sociale, proiezione di film, dibattiti. L'idea è quella di far entrare ne La Città tanti altri detenuti. Pensiamo di poter fare questo inglobando altri spazi uguali ed estendere il progetto (se possibile) anche ad altri locali e ai cortili immaginando la possibilità che tutto il carcere diventi La Città fino alla dissoluzione di quel muro che isola, chiude, costringe. Un muro che blocca nel tempo corpi e menti, immobili e fissi come statue al momento del loro primo ingresso fino alla fine della pena, luogo senza senso che elimina per sempre (tranne qualche piccola eccezione) ogni possibilità di cambiamento: la prova è la realtà delle carceri "abitate" sempre dalle stesse persone che vi entrano, vi escono e vi rientrano negli anni e sempre uguali. L'obiettivo è chiaro: dare orizzonti e futuro a delle persone che vivono in un tempo e in uno spazio morti, oggetti invece che soggetti, ridotti all'unica funzione che è quella di detenuti. Non persone. Come se la pena fosse in realtà una pena a vita. Marchiati a vita al punto che quell'abito non riescono più a toglierselo di dosso. Per chi non sa cos'è e cosa fa un carcere. Per chi non sa come si vive in un carcere posso raccontare a titolo di esempio che i detenuti abituati per mesi, anni, a passeggiare all'aria avanti e indietro in uno spazio di trenta passi (da una parte all'altra del muro) quando si troveranno a passeggiare in un corridoio facciamo di 100 metri faranno sempre gli stessi trenta passi e poi torneranno indietro. Non so se ho reso l'idea, ma a me ha sempre fatto una grande impressione vedere cose così, vedere uomini-automi che in quel tragitto di pochi metri avanti e indietro, come mi è stato detto, parlano del passato, della rapina mancata... Non persone, ma corpi (per dirla alla Foucault che ho riletto in questi mesi), corpi sgangherati e strappati che in questa tappa carceraria non riescono più a cambiare pelle...incapaci di pensare al dopo, appunto al futuro. A costruirlo diverso dal passato. Per questo abbiamo avviato la realizzazione de La Città. Con un occhio al fuori contro "il tempo vuoto, il tempo nemico, contro la galera che denuda e uccide" come ha detto Alberto Magnaghi, professore ordinario di pianificazione territoriale finito in carcere nel ‘79, per tre anni, nell'ambito dell'inchiesta 7 aprile, presentando poche settimane fa la nuova edizione del suo libro Un'idea di libertà. Un libro che consiglio perché mostra bene come il carcere, come la costrizione in uno spazio limitato arrivi a sconvolgere lo spazio interiore, di alterare le percezioni, condizionare ricordi, storie, presente e futuro. Fino a imprigionare il detenuto in un doppio carcere: quello visibile fatto di mura e celle e quello invisibile che vive dentro la persona detenuta e che si allarga fino ad uccidere l'idea stessa di uomo. Siena: intervista a Sergio La Montagna, direttore del carcere di Santo Spirito di David Busato www.i-siena.it, 26 febbraio 2015 Il problema annoso del sovraffollamento carcerario a Siena non esiste. Il dato era già venuto fuori durante la recente intervista audio di i Siena a Giulia Simi dopo la sua visita alla casa circondariale di Santo Spirito. Sergio La Montagna, 45 anni, è entrato nell'Amministrazione Penitenziaria nel settembre del 1997 e ha iniziato la mia carriera come vice-direttore nella Casa Circondariale di Novara, istituto di massima sicurezza che ospita tutt'oggi detenuti sottoposti al regime 41-bis e che all'epoca conteneva detenuti politici (i cd. irriducibili delle Br e gli anarchico insurrezionalisti). Successivamente ha ricoperto l'incarico di vice direttore prima e Direttore poi presso la Casa Circondariale di Ariano Irpino (Av), un istituto di media sicurezza con una sezione di detenuti alta sicurezza e una per collaboratori di giustizia. Da poco più di due anni è Direttore della Casa Circondariale di Siena. 1) Il Carcere Santo Spirito di Siena. Dati. La Casa Circondariale di Siena ha una capienza massima di poco più di 80 detenuti. È un piccolo Istituto di media sicurezza destinato ad accogliere soggetti con fine pena non elevato. Vi operano poco meno di 40 unità di Polizia Penitenziaria (che risultano insufficienti rispetto alle esigenze di servizio), 4 unità di personale amministrativo (anch'esse insufficienti), medici, infermieri, uno psicologo e un cappellano che garantisce l'assistenza spirituale ai detenuti. 2) Situazione carceraria in Italia ed a Siena. Ci sono delle differenze? In linea di massima, salvo rare eccezioni, gli istituti di pena risentono delle criticità che investono l'universo penitenziario e che si sono acuite con la crisi economica che affligge il nostro Paese da qualche anno. La Casa Circondariale di Siena presenta evidenti carenze strutturali, logistiche e, come già accennato, di organico. Nondimeno, grazie all'impegno e alla professionalità dei suoi operatori, si riescono a conseguire importanti risultati. Il contributo di decine di volontari consente, infatti, la realizzazione di numerose iniziative di carattere trattamentale e riabilitativo, in linea con i principi costituzionali che attribuiscono alla pena una finalità rieducativa. Nello scorso anno, infatti, oltre alle attività del laboratorio teatrale, che hanno riscosso un notevole successo di pubblico e di critica, diverse progettualità hanno trovato attuazione. Tra queste, degna di menzione è sicuramente l'inaugurazione della nuova biblioteca che fa parte della Rete Documentaria Senese e attorno alla quale si sono sviluppate svariate iniziative culturali (incontri con scrittori, cineforum, dibattiti ecc.). Particolarmente interessante è stata anche la mostra, tenuta nel centro storico di Siena, dei dipinti realizzati dai detenuti nel laboratorio di pittura. È stato inoltre allestito, grazie alla collaborazione sviluppatasi con l'Istituto Agrario di Siena, uno spazio verde all'interno del carcere ove si svolgono, nei mesi estivi, i colloqui dei detenuti con i familiari e molteplici sono stati gli incontri tra gli stessi detenuti, studenti di istituti superiori e allievi universitari. Sul finire del 2014 è nato anche il primo giornale dei detenuti della Casa Circondariale "Spirito in Libertà" prodotto dal comitato di redazione interno e frutto della collaborazione con i docenti del Ctp Pertini di Poggibonsi e soprattutto con i suoi colleghi de La Nazione, Tommaso Strambi e Cecilia Marzotti che ancora oggi tengono lezioni di giornalismo in carcere. Oltre a ciò si sono svolte diverse altre attività culturali (ne cito una per tutte: un corso di alfabetizzazione settoriale per i detenuti stranieri tenuto dall'Università per stranieri di Siena) e una serie di iniziative rieducative promosse dai gruppi di volontariato che operano in Istituto. 3) Un suo bilancio da Direttore. Non è ancora tempo di bilanci e consuntivi. La mia agenda contiene diversi progetti che intendo realizzare. Diceva bene Henry Ford:" Sto cercando un sacco di uomini che hanno una capacità infinita di non sapere ciò che non può essere fatto". 4) Il reinserimento sociale a Siena. Il lavoro è senza dubbio lo strumento principe della risocializzazione del detenuto. Ma affinché sia perseguibile il fine del reinserimento lavorativo del ristretto nel tessuto sociale, non è certo sufficiente l'offerta di una generica opportunità di lavoro. Considerate, infatti, le difficoltà occupazionali e la competitività che caratterizzano l'odierno mercato del lavoro, la spendibilità e l'appetibilità della forza lavoro offerta dai detenuti sono minime, se non supportate da una specifica preparazione professionale. Nella consapevolezza di ciò, è stato predisposto un progetto molto ambizioso che punta alla creazione all'interno della Casa Circondariale di una pizzeria gestita da una cooperativa sociale che impiegherebbe come forza lavoro i detenuti. In tal modo soggetti privati dalla libertà personale avrebbero l'opportunità, grazie ad un'adeguata formazione, di diventare pizzaioli e di acquisire una professionalità facilmente spendibile sul mercato del lavoro, una volta scontata la loro pena. 5) Situazione terrorismo islamico. C'è il rischio che tra i carcerati ci possa essere qualche cellula? Il livello di attenzione nei confronti dei detenuti e non solo islamici è molto elevato. Non si può escludere che cellule di gruppi terroristici possano annidarsi anche nelle carceri. Determinante in tal senso è lo scambio di informazioni con le forze di polizia presenti sul territorio per un'azione coordinata di monitoraggio e di prevenzione di eventuali azioni terroristiche. 6) I progetti futuri. Preferisco non fornire anticipazioni sui progetti futuri della Casa Circondariale; mi limito a dire che alcuni di essi sono a forte impatto sociale e ben rispondono alla mission che è quella di creare un legame sempre più saldo tra carcere e territorio. Mi consenta in conclusione di spendere qualche parola sulla Polizia Penitenziaria che è finita in questi giorni nell'occhio del ciclone per le note vicende riportate da tutti gli organi di stampa. Proprio in questo frangente avverto il dovere di evidenziare che il Corpo di Polizia Penitenziaria è composto, per la più gran parte, da uomini e donne veri, che svolgono il loro difficilissimo lavoro con estrema dignità e professionalità e che troppo spesso, a torto, non ottengono il dovuto riconoscimento da parte della società civile. Colgo l'occasione, in particolare, per ringraziare il Reparto di Polizia Penitenziaria della Casa Circondariale per la generosa dedizione con la quale opera in condizioni di deficit organico e la cui attività, per questo motivo, sovente rasenta i limiti dell'inesigibile. Caltanissetta: a Villalba c'è un carcere-modello… che è anche monumento agli sprechi La Sicilia, 26 febbraio 2015 C'è una struttura costata all'epoca miliardi di lire che a Villalba ha funzionato solo 5 anni, per poi essere chiusa e dimenticata, malgrado vari appelli e progetti per un uso anche diverso da quello originario, come la trasformazione in casa di accoglienza o centro terapeutico. Ci riferiamo al carcere, che è dotato di una cucina per 250 pasti, lavanderia, mensa e spazi verdi per i detenuti, nonché padiglioni per gli uffici, la matricola e gli alloggi del personale. Tutto disponibile, ma tutto chiuso da vent'anni esatti. Nei magazzini sotterranei si trovano riserve idriche per 350.000 litri e una bonza per il cherosene (è stato anche realizzato l'impianto per il collegamento al metano). La zona lavanderia è ancora funzionante, l'attrezzatura della sala cucina è stata invece smontata e rimontata nell'asilo nido. Nel braccio dove sono ubicate le celle, sezione A e sezione B, si trovano 16 celle a due posti per ogni sezione, in totale quindi 32 celle, dotate di servizi igienici (bidet, gabinetto e armadietti), armadi e comodini a muro, letti a castello fissati al pavimento, impianto di riscaldamento e antenna tivù. Ogni cella misura circa 4 metri per 2.20 ed è chiusa da due porte ferrate: una a giorno e una per la notte, dotata di spioncino. Ogni sezione è dotata di docce. C'è anche una grande sala adibita a cappella. La zona per l'ora d'aria si compone di circa 600 mq di spazi aperti delimitati da alte mura. Al piano superiore del carcere si trovano due appartamenti per il personale, ogni appartamento attrezzato di tutto punto misura circa 100 mq. Ma è tutto chiuso e abbandonato e l'indignazione stringe il cuore nell'osservare uno spreco tanto sfacciato mentre altrove i detenuti sono ammassati in minuscole celle. Anche perché se il carcere venisse riutilizzato, rappresenterebbe un indotto economico non da poco nella stagnante economia locale. Finora però tutti gli appelli dei vari amministratori che si sono succeduti alla guida di Villalba sono risultati vani. Quando la struttura funzionava tra il 1985 e il 1990, ospitava circa 70 detenuti. Dopo la chiusura lo stabile fu ceduto al Comune. Il decreto di chiusura fu trasmesso il 28 novembre 1995 e il personale di sorveglianza fu trasferito ad altre mansioni. Da allora l'ex carcere è preda soltanto di polvere ed oblio. Roma: detenuto morì a Rebibbia per una polmonite, medici a processo di Adelaide Pierucci Il Messaggero, 26 febbraio 2015 Per la Procura il giovane detenuto "poteva essere salvato" i sanitari che lo dovevano curare "agirono con negligenza". In tre visite mediche non gli avevano mai misurato la febbre, né auscultato il torace o misurato la pressione. È così, con una polmonite non diagnosticata, che Danilo Orlandi, un detenuto di 30 anni di Primavalle con piccoli precedenti per droga, era morto dietro le sbarre di Rebibbia. In pochi giorni, dal 27 maggio al primo giugno del 2013, si era spento senza che nessuno si accorgesse dell'urgenza. Lo curavano con una aspirina. La sua morte, ha concluso ora la procura di Roma, poteva essere evitata. Il sostituto procuratore Mario Ardigò e il procuratore aggiunto Leonardo Frisani hanno iscritto nel registro degli indagati con l'accusa di omicidio colposo il medico di reparto del G11 che lo aveva in cura e il dirigente sanitario di Rebibbia, pronti a chiederne a breve il processo. Il giovane, che ha lasciato la moglie e una bambina di 9 anni, in quei giorni era sottoposto ad una sanzione disciplinare, non poteva partecipare alle attività in comune. Ed è proprio per questo, forse, che sarebbe stato sottoposto per tre volte a visite frettolose. Una prassi, a quanto pare, per i detenuti in punizione. Orlandi infatti sarebbe stato visitato dal medico del suo braccio, una dottoressa, sia il 27, il 28 e il 29 maggio senza che gli venisse neanche palpato l'addome. Il medico infatti si sarebbe limitato per tutti e tre i giorni a un colloquio con lui non riuscendo, appunto, secondo i magistrati, "per negligenza a rilevare i sintomi tipici specifici di una polmonite alveolare bilaterale batterica", una polmonite grave per cui invece si sarebbe dovuti intervenire subito con approfondimenti diagnostici e cure urgenti. Nell'inchiesta è finito anche il dirigente sanitario della casa circondariale, in questo caso, perché non avrebbe vigilato sui medici, che per prassi, secondo i magistrati, quando "visitavano i detenuti sottoposti alla sanzione disciplinare dell'esclusione dell'attività in comune si limitavano a un colloquio anamnesico senza eseguire un esame obiettivo generale attraverso l'ispezione quanto meno del torace". Nel diario clinico del giovane, tra l'altro è stato rilevato un buco. Nessuno infatti lo avrebbe visitato il 31 maggio, il giorno prima della morte. Proprio il giorno in cui la madre del ragazzo, Maria Brito, aveva visitato il figlio trovandolo pallido, febbricitante e debilitato. Eppure tutti i bollettini medici degli ultimi giorni di vita di Danilo avevano concluso che non ci fosse "nessun fatto acuto da riferire". Ad accertare le cause della morte del giovane era stata la perizia stilata dal professor Costantino Ciallella de La Sapienza. Un esame che aveva escluso l'ipotesi dell'infarto ventilato nell'ambiente carcerario. Nel diario clinico del detenuto la conferma: si parlava solo di prodotti anti-infiammatori o analgesici, al massimo un antibiotico. "Mio figlio è stato lasciato morire". Paolo Orlandi si era sfogato pure coi magistrati "ma combatterò". Il legale della famiglia, l'avvocato Stefano Maccioni, da parte sua, intanto è pronto a formalizzare la costituzione di parte civile. Oristano: Sdr, caso detenuto trasferito da Viterbo ripropone tema territorialità della pena Ristretti Orizzonti, 26 febbraio 2015 "La vicenda di un detenuto trasferito dal Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria da Viterbo, dove si trovava da alcuni anni, a Oristano-Massama, lo scorso 29 maggio, ricostruita in un'interrogazione del senatore Luigi Manconi al Ministro della Giustizia Andrea Orlando, ripropone la questione irrisolta della territorialità della pena facendo emergere le contraddizioni di un sistema che non rispetta la normativa vigente". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell'associazione "Socialismo Diritti Riforme", sottolineando "la necessità di dare risposte anche a quanti chiedono avendo i familiari nell'isola di poter tornare in Sardegna per scontare la detenzione". "Il principio sancito dalla legge per cui il trattamento della persona privata della libertà deve tendere a favorire il rapporto con la famiglia - evidenzia Caligaris - non è mai stato rispettato nel caso di Mario Trudu, in carcere dal 1979. Da alcuni lustri il recluso chiede inutilmente di poter tornare in Sardegna. Il Dap gli ha concesso recentemente, dopo circa 3 anni, di poter effettuare alcuni colloqui con i familiari avendolo trasferito temporaneamente a Badu e Carros (Nuoro). Il tutto è avvenuto peraltro nell'arco di poco più di un mese dopo di che è tornato nella Penisola". "Alla sua istanza di trasferimento da Spoleto a un Istituto isolano, il Dipartimento ha inviato Trudu a San Gimignano (Siena) laddove perfino il regolamento di esecuzione della pena, come ricorda anche il senatore Manconi nell'interrogazione, recita "Nel disporre i trasferimenti deve essere favorito il criterio di destinare i soggetti in istituti prossimi alla residenza delle famiglie". È evidente insomma - ricorda la presidente di Sdr - che la limitazione della libertà non può comportare pene aggiuntive peraltro non stabilite dalla sentenza. Occorre quindi che il Dap faccia prevalere nella detenzione l'aspetto umano consentendo a chi lo richiede di poter scontare la pena vicino ai parenti. Lo Stato non può ignorare le condizioni individuali della persona e deve tenere conto degli anni trascorsi, dell'età, della salute e dei risultati del percorso di riabilitazione altrimenti diventa insignificante anche il sistema detentivo". "Il rispetto della territorialità della pena - conclude Caligaris - ha una funzione rieducativa e risocializzante che rende più efficace il trattamento e consente a chi ha commesso dei reati di ritornare, benché detenuto, nell'alveo della cittadinanza". Sassari: detenuti raccolgono olive producendo 165 litri di olio da donare a chi ha difficoltà www.sassarinotizie.com, 26 febbraio 2015 Hanno lavorato sodo per circa un mese, raccogliendo le olive negli oliveti di proprietà del Comune di Sennori. Ora, i 165 litri di olio extravergine di oliva ottenuti dalla spremitura di quel raccolto sono un po' anche i loro. Sono un gruppo di detenuti che scontano la loro pena nel carcere di Bancali, e che sono stati inseriti dal Comune e dal Consorzio di cooperative Andalas de Amistade in un progetto di recupero e inclusione sociale benedetto dal Ministero della Giustizia, dall'Uepe e dalla direzione della stessa Casa circondariale di Sassari. I 135 litri di olio sopraffino sono andati per il 45 per cento al consorzio Andalas de Amistade, che lo donerà in beneficenza a soggetti bisognosi, e per il resto va a formare la riserva di "Olio del Comune", un piccolo tesoretto biologico del l'amministrazione comunale che sarà utilizzato anche in questo caso per scopi sociali e opere di solidarietà. "Questo progetto su cui l'assessorato all'Ambiente ha voluto scommettere, oltre a creare opportunità di lavoro, vuole sottolineare che tutti, anche coloro i quali hanno commesso errori gravi, hanno diritto ad avere la possibilità di riscattarsi e rimediare ai passi falsi commessi. È un'opportunità che la nostra società non può e non deve negare a nessuno", commenta Vincenzo Leoni, assessore all'Ambiente del Comune di Sennori. La riserva di olio extravergine di oliva nelle disponibilità del Comune per l'annata 2014/2015 consiste in 11 latte da 5 litri, 19 bottiglie da mezzo litro e 38 bottiglie da un quarto di litro. Tutte perfettamente etichettate con lo stemma del Comune e pronte a rendere onore al gruppo di lavoro che ha speso energie e tempo in un progetto dall'alto valore sociale. Bologna: Sappe; detenuto moldavo tenta suicidio dopo notizia dell'ok dell'estradizione Ansa, 26 febbraio 2015 Un detenuto ha tentato il suicidio ieri mattina nel carcere bolognese della Dozza: grazie all'intervento della polizia penitenziaria è stato soccorso e portato all'ospedale. Lo hanno reso noto Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe, e Francesco Campobasso, segretario regionale del sindacato: "la Polizia penitenziaria tutela sempre e in ogni occasione l'incolumità dei detenuti, rappresentando un presidio importantissimo per la sicurezza e la legalità nelle carceri". Il detenuto che ha tentato il suicidio, impiccandosi in una cella del carcere della Dozza a Bologna, aveva saputo da poco del parere favorevole arrivato dalla Corte d'appello all'estradizione in patria, in Moldavia. L'uomo era infatti in carcere in Italia in esecuzione di un mandato di arresto emesso nel Paese di origine. Genova: detenuto tenta suicidio in carcere, salvato dagli agenti penitenziari Ansa, 26 febbraio 2015 Ha tentato di uccidersi in carcere Mario Ubaldo Caldaroni, uno dei componenti della banda di Marietto Rossi che sabato scorso ha ucciso Giovanni Lombardi che avrebbe dovuto consegnare della droga: la banda è stata bloccata dalla polizia mentre tentava di seppellire il corpo in un terreno a Levaggi nel comune di Borzonasca. Caldaroni ha tentato di impiccarsi con un lenzuolo alle sbarre della cella dove si trovava in isolamento. È stata salvato dagli agenti penitenziari. A seguito di questo episodio il pm Alberto Lari, che coordina l'inchiesta, ha fatto un provvedimento di trasferimento per tutti gli arrestato in altre carceri. Intanto si è avvalso della facoltà di non rispondere Giacinto Pino, uno dei fermati, accusato di detenzione e cessione di due chili di cocaina che avrebbe consegnato a Lombardi. Il gip Annalisa Giacalone, che lo ha interrogato in carcere, ha disposto la misura cautelare in cella. Per il magistrato sussistono gravi indizi di colpevolezza. Cremona: Sappe; detenuto lancia liquido bollente contro agente di Polizia penitenziaria Ansa, 26 febbraio 2015 Ancora episodi che denotano la tensione all'interno del carcere di Cremona, nei mesi scorsi al centro delle cronache per un tentativo di evasione sventato dalla Polizia Penitenziaria e per il rinvenimento di diversi telefoni cellulari. Prima due detenuti, coinquilini della cella, sono venuti alle mani per futili motivi, poi l'episodio più grave contro un poliziotto penitenziario. "Un detenuto ha tirato del liquido bollente, il preparativo di una tisana, addosso a un Agente di Polizia Penitenziaria in forza alla Casa circondariale cremonese", denuncia Donato Capece, Segretario Generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "Un episodio gravissimo, che poteva avere più gravi conseguenze se il collega, al quale va la nostra vicinanza e solidarietà, non fosse stato scaltro a cercare di evitare di essere colpito. Questo grave episodio è sintomatico del costante livello di alta tensione che si vive in carcere, tanto più che le ragioni del grave gesto sono veramente futili. Il detenuto, egiziano con fine pena 2016 per spaccio di stupefacenti, pretendeva di essere accompagnato subito in infermeria. L'agente di Polizia Penitenziaria, impegnato in altre attività di servizio nel Reparto, lo tranquillizzava che lo avrebbe fatto non appena concluse le altre operazioni ma il detenuto ha posto in atto il suo folle gesto. Assurdo! La Polizia Penitenziaria non è carne da macello e servono risposte disciplinari e penali esemplari per chi si rende responsabili di gesti così sconsiderati. E serve che il Ministro della Giustizia Andrea Orlando, attraverso i vertici del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, disponga una ispezione ministeriale sul carcere di Cremona". Il leader dei Baschi Azzurri, circa il pestaggio tra i due detenuti (uno dei quali è dovuto ricorrere alle cure dei sanitari con ricorso ad un collare sanitario), sottolinea che "forse il pretesto del furioso pestaggio è tra i più futili, ossia l'incapacità di convivere - seppur tra le sbarre - con persone diverse. O forse le ragioni sono da ricercare in screzi di vita penitenziaria o in sgarbi avvenuti fuori dal carcere. Fatto sta che i due detenuti se le sono date di santa ragione. E se non fosse stato per il tempestivo interno dei poliziotti penitenziari le conseguenze della rissa potevano essere peggiori". Capece aggiunge che "nella Casa circondariale di Cremona la tensione è costante. Nei dodici mesi del 2014 si sono contati ben 17 tentati di suicidio sventati in tempo dai poliziotti penitenziari, il numero più alto di tutte le carceri lombarde (addirittura più di penitenziari più grossi come Milano San Vittore o Opera), 120 episodi di autolesionismo, 53 colluttazioni e 14 ferimenti. Mi sembra dunque opportuno che l'Amministrazione Penitenziaria regionale ponga tra le priorità di intervento il penitenziario di Cremona, dove lo scorso 31 gennaio erano detenute 376 persone, il 72% delle quali (271) straniere. Un numero spropositato: bisognerebbe espellerli. Fare scontare agli immigrati condannati da un tribunale italiano con una sentenza irrevocabile la pena nelle carceri dei Paesi d'origine può anche essere un forte deterrente nei confronti degli stranieri che delinquono in Italia". "Il dato oggettivo è però un altro - conclude il leader del Sappe: le espulsioni di detenuti stranieri dall'Italia sono state fino ad oggi assai contenute: 896 nel 2011, 920 nel 2012 e 955 nel 2013, soprattutto in Albania, Marocco, Tunisia e Nigeria. Si deve superare il paradosso ipergarantista che oggi prevede il consenso dell'interessato a scontare la pena nelle carceri del Paese di provenienza. Oggi abbiamo in Italia 53.889 detenuti: ben 17.403 (quasi il 35 per cento del totale) sono stranieri, con una palese accentuazione delle criticità con cui quotidianamente devono confrontarsi le donne e gli uomini della Polizia penitenziaria. Si pensi, ad esempio, agli atti di autolesionismo in carcere, che hanno spesso la forma di gesti plateali, distinguibili dai tentativi di suicidio in quanto le modalità di esecuzione permettono ragionevolmente di escludere la reale determinazione di porre fine alla propria vita. O al grave episodio accaduto proprio a Cremona, con un poliziotto penitenziario che ha rischiato la vita per il gesto folle e sconsiderato di un detenuto straniero". Imperia: era accusata di aver portato eroina in carcere, assolta la madre di un detenuto di Francesco Li Noce www.sanremonews.it, 26 febbraio 2015 I fatti risalgono al 2011 quando all'interno del carcere di Imperia era stata ritrovata dell'eroina nascosta nel cappuccio dell'accappatoio del detenuto tossicodipendente, accappatoio portato dalla madre e dal genero che aveva accompagnato la donna in auto. Sono stati assolti, questa mattina dal giudice del Tribunale di Imperia Anna Bonsignorio, Battistina V e il genero Gianni C, imputati con l'accusa di aver portato della droga nascosta nell'accappatoio a un detenuto tossicodipendente, figlio di Battistina. I fatti risalgono al 2011 quando all'interno del carcere di Imperia era stata ritrovata dell'eroina nascosta nel cappuccio dell'accappatoio del detenuto tossicodipendente, accappatoio portato dalla madre e dal genero che aveva accompagnato la donna in auto. I due sono stati giudicati però innocenti dal giudice Anna Bonsignorio che ha riconosciuto la tesi dell'avvocato difensore della donna, Elena Pezzetta, la quale ha sostenuto che a nascondere la droga, all'insaputa della donna e del genero, difeso dall'avvocato Rosanna Rebagliati, fosse stata un'amica del detenuto. Bologna: Giusy, la detenuta che ama scrivere lettere ai carcerati di Ambra Notari Redattore Sociale, 26 febbraio 2015 Prima scriveva dal carcere di Piacenza, ora lo farà dalla Dozza di Bologna. Giusy ha 64 anni e moltissime amicizie alimentate dalla corrispondenza. Il direttore del mensile del carcere di Pavia: "Le fanno un sacco di regali, e lei ha parole di conforto per chi che ne ha bisogno". "Quanti anni ha? A chi glielo chiede, risponde dai 42 ai 62, a seconda dell'interlocutore. In realtà lei di anni ne ha 64, portati con grande spirito". Lei è Giusy, detenuta emiliana del carcere di Piacenza, trasferita pochi giorni fa alla Dozza di Bologna dopo la sentenza definitiva. A raccontare la storia di questa donna, per tutte le compagne detenute finita in carcere per un enorme errore giudiziario, è Bruno Contigiani, direttore di Numero Zero, giornale dell'istituto penitenziario Torre del Gallo di Pavia. "Giusy è stata una delle prime donne a partecipare ai nostri gruppi di lettura ad alta voce. Non è mai mancata una volta, era una delle nostre animatrici. Il suo passato non è semplice, ma sorride sempre, e non fa mai mancare una parola buona a chi ne ha bisogno". Giusy, racconta Contigiani, è buona, ingenua, genuina. Si cura molto, è simpatica e partecipativa. E ha una particolarità: "Ama scrivere lettere: intrattiene una corrispondenza molto frequente con 21 detenuti di 12 carceri italiane. Lo fa con estremo affetto, si occupa degli altri mettendoci il massimo impegno". Così, ogni volta che arriva la posta, lei riceve sempre 2 o 3 lettere: "Sono di vario tipo: alcune affettuose e di conforto, altre con qualche particolare piccante. Ama soprattutto la corrispondenza con la casa circondariale di Napoli. Lì c'è anche un detenuto con cui sta programmando una vita una volta fuori. E quando deve ammettere l'età, la definisce variabile in base al destinatario della missiva". Ma come conosce i nomi delle persone a cui scrivere? "Su Numero Zero, in fondo, mettiamo i nomi dei detenuti che hanno collaborato all'edizione, già quello è un primo spunto. Poi, c'è Cronaca Vera", rivista di culto per un pubblico popolare, il giornale più letto negli istituti penitenziari, che ospita la rubrica Lettere dalle Carceri. "Si trovano veri e propri annunci: lì i detenuti - italiani e stranieri - si descrivono apertamente in cerca di un'anima gemella. Senza timori si dichiarano etero, gay, trans. E tra loro si scambiano regali. Giusy ne riceve molti, e parecchi vuole tenerli segreti…", spiega Contigiani sorridendo. In fondo, chi si scrive le lettere oggi? "I detenuti sono gli unici che ancora intrattengono rapporti epistolari. Quali altre categorie lo fanno? Forse le persone sofisticate, nessun altro". Il carteggio dalle carceri, insomma, si alimenta di scambi tra le mura: "Si scrive a persone libere solo se non hanno la possibilità di fare i colloqui, e oggi capita molto raramente". E proprio da questo spunto, Contigiani affronta un altro tema: quello delle difficoltà tra detenuti e detenuti e tra detenuti e familiari: "In nessuna casa circondariale italiana è permessa la cosiddetta ora d'amore. È una chimera. Così molte famiglie, molti fidanzamenti, falliscono". Porta come esempio la storia di una coppia di ragazzi danesi, entrambi detenuti nel carcere di Piacenza; lei, 30 anni, deve scontare qualche anno, mentre il marito è condannato all'ergastolo: "Vorrebbero solo stare un po' insieme, non avere un vetro tra di loro. Ma non possono. E pensare che tenersi qualche minuto per mano potrebbe salvare tantissimi rapporti, messi in crisi dalla detenzione". Torino: l'Associazione Antigone dona libri sulle carceri alla Biblioteca dell'Università Il Velino, 26 febbraio 2015 La donazione dell'Associazione Antigone alla biblioteca "Norberto Bobbio" dell'ateneo. Presentato ieri al Campus Luigi Einaudi il patrimonio librario che l'Associazione Antigone dona alla Biblioteca Norberto Bobbio dell'Università di Torino, composto da circa 2.000 volumi sul tema del carcere e dell'amministrazione della giustizia penale che tracciano la storia del sistema carcerario del nostro Paese nell'epoca repubblicana (sistema che quest'anno celebra il quarantennale della riforma dell'ordinamento penitenziario). Questa donazione - informa una nota dell'ateneo - si va tra l'altro a collegare ad un'altra iniziativa che in questi anni è stata finanziata dalla Compagnia di San Paolo: l'acquisto di libri sulle tematiche carcerarie, con particolare riguardo alla prospettiva internazionale, che da anni è stato effettuato nell'ambito del supporto al progetto del Polo Carcerario - Universitario presso la Casa Circondariale Lorusso Cutugno di Torino. In questo modo, la Biblioteca Norberto Bobbio avrà tra breve un patrimonio librario sul tema carcere che non ha riscontri di pari qualità e quantità in Italia e si colloca tra i più qualificati a livello europeo. L'università rende noto che l'attività di catalogazione del fondo librario e di digitalizzazione dell'archivio storico dell'associazione Antigone verrà effettuata attraverso borse-lavoro di inserimento lavorativo per persone svantaggiate finanziate dall'Ufficio Pio della Compagnia di San Paolo. "La donazione di un fondo librario come questo - commenta il prof. Gianmaria Ajani, rettore dell'Università di Torino - importante per quantità e per la tematica, dimostra che la scelta dell'Ateneo di creare un polo bibliotecario unificato è vincente, perché fattore di attrazione di altre realtà". "Il nostro intento - dichiara Patrizio Gonnella, presidente Associazione Antigone - è quello di valorizzare i volumi e metterli a disposizione di una utenza che li sappia usare, creando per un ambito di studio fondamentale. Il patrimonio librario, grazie all'Associazione Antigone, sarà arricchito ogni sei mesi. Con l'Università di Torino e la Biblioteca Norberto Bobbio c'è sinergia che ha creato anche un osservatorio sulle condizioni di detenzione: uno sguardo scientifico e di monitoraggio sull'intero sistema carcerario europeo". "Questa donazione - sottolinea il prof. Francesco Caprioli, presidente della Biblioteca Norberto Bobbio - è quantitativamente e qualitativamente rilevante. La maggioranza di questi volumi non sono presenti in altre biblioteche del territorio piemontese e si sommano a quelli già acquisiti negli ultimi anni a creare un patrimonio di grande interesse: la centralità del tema del carcere sul dibattito giuridico, ma anche sociologico, etnografico, culturale". "L'impegno della Compagnia di San Paolo sul tema carcere è fatto di interventi su diversi fronti. - così dichiara Antonella Ricci, responsabile Area Politiche sociali della Compagnia di San Paolo. Una delle prime azioni riguarda l'Università e i libri, con il sostegno al Polo carcerario universitario, partito nel 2000; un'iniziativa di cui andiamo fieri e che continuiamo a sostenere, come sosteniamo l'Associazione Antigone dal 2008". Caserta: Kasia Smutniak regala gli attrezzi alla palestra del carcere di Carinola di Marco Caiazzo La Repubblica, 26 febbraio 2015 Bel gesto dell'attrice con la sua Onlus intitolata al marito scomparso Pietro Taricone. Continuano a crescere i numeri dell'attività sportiva svolta nelle carceri campane, avviata nel 2012 dal Coni. Quest'anno, da registrare un ulteriore passo avanti: i detenuti del carcere di Eboli saranno impegnati nel recupero di strutture sportive esterne al carcere. E arriva anche il contributo di un privato d'eccezione, Kasia Smutniak: la moglie di Pietro Taricone ha donato gli attrezzi alla palestra del carcere di Carinola, casa di reclusione a custodia attenuata in provincia di Caserta. Il regalo è stato voluto dall'attrice per conto della Pietro Taricone Onlus, la fondazione che ricorda l'attore casertano impegnata inoltre in un progetto per la realizzazione di una scuola in Nepal. Intanto i vertici del Coni Campania, Cosimo Sibilia e Amedeo Salerno, col dirigente del Ministero della Giustizia incaricato del progetto sport nelle carceri, Claudio Flores, tracciano un bilancio sul progetto che porta lo sport nelle carceri. "Da quando è partita questa iniziativa, che vede i nostri tecnici impegnati in modo volontario, i risultati sono stati brillanti - ha spiegato Sibilia - Il nostro obiettivo è crescere ancora". In totale sono dieci le strutture penitenziarie coinvolte. "Non ci aspettavamo questo successo - ha aggiunto Flores - Al momento abbiamo alcune strutture, come Poggioreale, Secondigliano, Pozzuoli, Nisida, Bellizzi Irpino, Salerno ed Eboli, in cui l'attività va avanti da anni e deve essere soltanto consolidata, e altre in cui sarebbe importante riuscire ad entrare e grazie all'impegno dei nostri dirigenti e del Coni riusciremo a sviluppare il progetto in futuro. Penso ad esempio alla provincia di Caserta, e a quella di Benevento, dove a breve potremo iniziare alcune attività". Libri: "Una mala vita. La vera storia di Angelo Moccia"… il film ideale per Tornatore di Ilaria Urbani La Repubblica, 26 febbraio 2015 "Ho mandato il libro a Giuseppe Tornatore, spero che ne voglia fare un film. Sto rivivendo dopo trent'anni la stessa avventura de "Il camorrista". Vengono a comprare in blocco "Una mala vita": trenta, cinquanta copie ogni volta". Non c'è giorno in cui Tullio Pironti non sia dietro al bancone della sua storica libreria in piazza Dante. L'editore osserva il suo pubblico, non ha smesso di imparare a conoscerlo. Lo ha incuriosito il fermento intorno a "Una mala vita. La vera storia di Angelo Moccia", libro sulla vicenda umana del boss, nemico di Raffaele Cutolo, che più di vent'anni fa si volle dissociare dalla camorra, ma non scelse la strada del pentimento. "Da un mese, da quando è uscito il libro ne vendiamo in quantità, vengono persone a comprarlo anche per chi sta in carcere. Sono amici dei detenuti, mi rispondono che lo acquistano per "chi non se lo può comprare". Angelo Moccia si consegnò allo Stato nel febbraio 1992, chiese di dissociarsi senza fare i nomi dei suoi complici. Molti camorristi, seguendo il suo esempio, volevano fare lo stesso. Ma la scelta fu quella di non trattare con la criminalità organizzata. Arrivarono l'ergastolo e una mobilitazione civile attivata da don Antonio Riboldi. "Ho deciso di mandare il libro a Tornatore perché l'interesse nato intorno a questo libro e la velocità con cui si sta vendendo mi ha fatto pensare al libro di Joe Marrazzo, che ho pubblicato nel 1984, da cui il regista trasse il suo primo film. Tra l'altro "Il camorrista" racconta la storia di Raffaele Cutolo, boss della Nco contro la quale si schierò la Nuova Famiglia di Moccia". "Una mala vita", edito da Pironti, è scritto dall'ex magistrato Libero Mancuso e dall'avvocato Saverio Senese, prefazione di Nicola Quatrano e postfazione "critica" del fratello di Libero, Paolo Mancuso, procuratore capo di Nola che quando era all'Antimafia portò in carcere quasi tutta la famiglia Moccia. Pironti ha già in mente l'inizio del film che potrebbe nascere: "Immagino questo ragazzino con la pistola in tasca che va a vendicare la morte del padre - racconta - La storia di Moccia, sebbene molto difficile da accettare, può essere un esempio perché dalla mafia si può uscire e perché la società civile possa essere sempre più consapevole che le carceri, sovraffollate fino all'inverosimile, non possono realizzare appieno la rieduca- zione del condannato prescritta dalla Costituzione". "Una mala vita" sta diventando un piccolo cult grazie al passaparola. "Rispetto a "Il camorrista" c'è una diversità: stavolta sono io ad essere stato contattato dagli autori - conclude Pironti. Allora fui io a chiedere un incontro con Marrazzo, gli diedi un anticipo, diventammo subito amici, avevo solo un po' di timore quando uscivamo la sera insieme con qualche delinquente. Una volta glielo dissi, e lui rispose: "Titò, e cumm' o scriv ‘o libbr?". Libri: "Io non avevo l'avvocato", di Mario Rossetti e Sergio Luciano Panorama, 26 febbraio 2015 "Guardia di finanza, apra subito." Sono le cinque del mattino del 23 febbraio 2010, l'alba di una delle tante giornate di lavoro di un professionista milanese, quando il suono del citofono interrompe bruscamente i suoi ultimi momenti di riposo. L'incredulità, le febbrili perquisizioni, una gigantesca ordinanza di custodia cautelare, il trasferimento in caserma e poi in carcere. Inizia così la vicenda kafkiana di Mario Rossetti, raccontata in prima persona dal protagonista, ex direttore finanziario di Fastweb, coinvolto nell'inchiesta Fastweb - Telecom Italia Sparkle su una maxi frode da due miliardi di euro. Nell'Italia degli scandali infiniti la notizia conquista con clamore le prime pagine dei quotidiani, gli imputati sono additati come sicuri colpevoli, mentre Rossetti, che tre anni prima aveva visto archiviata la sua posizione per la stessa ipotesi di reato ed è ormai lontano dal mondo delle telecomunicazioni, non riesce a comprendere neppure che cosa stia succedendo. Intanto incomincia l'odissea carceraria, tra San Vittore e Rebibbia, le asprezze del penitenziario, temperate dalla solidarietà dei compagni di cella, i "concellini". Un mondo che sconvolge ogni schema, dov'è possibile trovare umanità e conforto in una suora come in un boss con oltre trent'anni di galera. Una "terra di nessuno", con le tante assurdità che ne scandiscono le giornate, come le celle da sei adattate a nove persone, gli innumerevoli ostacoli per ottenere qualsiasi cosa, anche un colloquio, l'impossibilità di svolgere qualunque lavoro, la preoccupazione dominante di far passare il tempo interminabile, i piccoli rituali, come il caffè, la camomilla, la preparazione del ciambellone offerto ai congiunti in visita. Quattro mesi di carcere tra Milano e Roma, gli arresti domiciliari, tre anni di processo, 147 udienze, il sequestro di ogni bene, persino dei ricordi più cari, che costringe la moglie a bussare alla porta di parenti e amici per poter andare avanti. La disavventura giudiziaria del manager prosegue intrecciandosi con quella umana e familiare, che avrà conseguenze impreviste e drammatiche. Si arriva così alla sentenza di primo grado del 17 ottobre 2013, che, riconoscendo la totale estraneità ai reati contestati, mette fine all'incubo. Un'ingiustizia di cui nessuno risponderà e che per Rossetti non è semplicemente figlia di un terribile errore ma è la conseguenza delle tante anomalie del nostro sistema giudiziario. L'autore invoca così una radicale riforma della giustizia e un profondo ripensamento delle carceri, affinché si trasformino, da gironi infernali, in luoghi di reinserimento sociale degni di un Paese civile. Turchia: abusi sessuali contro detenuti minori, amministrazione penitenziaria silente Ansa, 26 febbraio 2015 La stampa di Ankara riferisce oggi della piaga delle violenze sessuali frequenti subite dai minori detenuti in Turchia, nella prigione di Sakran, vicino a Smirne, dove gli abusi sessuali subiti dai detenuti più giovani da parte di quelli più vecchi sono pratica costante, con "stupri di gruppo" e torture sessuali, senza che l'amministrazione reagisca. Il vicepresidente del partito di opposizione Chp, Sezgin Tantikkulu, ha presentato un'interrogazione in parlamento sul caso di quattro ragazzi curdi, arrestati per aver lanciato pietre durante una manifestazione nel Kurdistan turco, sottoposti nel carcere di Pozanti vicino a Adana ad abusi sessuali da parte di 20 persone, guardiani e detenuti più anziani. Afghanistan: dopo denuncia Onu il governo annuncia piano contro torture sui detenuti Aki, 26 febbraio 2015 Il governo afghano ha annunciato un nuovo piano per affrontare la questione delle torture e dei maltrattamenti dei detenuti dopo la denuncia contenuta in un rapporto della Missione delle Nazioni Unite di assistenza all'Afghanistan (Unama). Lo ha annunciato la presidenza afghana. Nel documento redatto dalle Nazioni Unite emerge che il 35 per cento dei detenuti afghani, minorenni compresi, ha subito torture e maltrattamenti nelle carceri del Paese. Secondo Kabul, sono 27.800 i detenuti nelle prigioni dell'Afghanistan. Cina: ancora una condanna per Tie Liu, scrittore 80enne da sempre oppositore del regime Ansa, 26 febbraio 2015 Le autorità cinesi hanno condannato a 2 anni e mezzo ma con la sospensione della pena il famoso scrittore ottuagenario, Huang Zerong, meglio conosciuto come Tie Liu, che ha già trascorso più di 20 anni nei campi di lavoro. Secondo quanto riferiscono fonti di stampa, lo scrittore sarebbe stato condannato per aver condotto un business illegale anche se il vero motivo è il fatto che Liu, da sempre oppositore del regime, ha scritto un articolo molto critico nei confronti del capo dell'ufficio di propaganda e membro del politburo del partito comunista cinese. Lo scrittore è stato anche condannato a pagare una somma di 30.000 yuan (oltre 6.000 euro) e, con la pena sospesa, ora non si sa a cosa sarà destinato. Condannato ad un anno, senza che se ne conoscano i motivi, anche il suo assistente. Il processo non si è svolto a Pechino, residenza dello scrittore-giornalista, ma a Chengdu, città sudoccidentale, e a Tie è stato assegnato un avvocato d'ufficio dal momento che non era presente il suo. Tie Liu ha negato ogni accusa. L'avvocato del famoso scrittore ha anche sottolineato come il suo assistito sia stato detenuto, da settembre scorso, per cinque mesi, senza alcun motivo. Tie fu prelevato dalla sua casa di Pechino dopo aver pubblicato alcuni articoli riguardanti in particolare Liu Yunshan, potente membro del partito e capo della propaganda. Anche sulla sua rivista, "Small Scars from the past" (Piccoli graffi dal passato) che Tie distribuiva gratuitamente (e che gli sarebbe valsa l'accusa di business illegale) erano apparsi articoli "sensibili", alcuni relativi soprattutto ai soprusi subiti da alcuni dissidenti perseguiti dal regime per la loro militanza politica e le loro campagne. Tie è uno dei più anziani dissidenti che sia mai stato formalmente perseguito e condannato. Il suo è comunque un nome ben noto alle autorità cinesi. La sua storia inizia già negli anni 50, quando fu etichettato come uomo di destra, quindi contrario al partito e al regime, proprio da Mao Zedong e condannato a 23 anni nei campi di lavoro. Il suo nome venne "ripulito" solo negli anni 80. Le autorità cinesi sono negli ultimi anni divenute sempre meno tolleranti nei confronti di coloro che sono critici nei confronti del partito. I casi di arresto, coercizione, minacce, restrizioni della libertà, sono enormemente aumentati negli ultimi anni. Avvocati, scrittori, attivisti, operatori umanitari sono sempre di più nel mirino della censura. In molti casi non si è arrivati nemmeno al processo e si sono verificati anche casi di sparizioni. Stati Uniti: detenuto troppo obeso e malato, per restare a Guantánamo, presto liberato Askanews, 26 febbraio 2015 Un detenuto egiziano di Guantánamo sarà presto liberato, su indicazione della commissione governativa Usa per la revisione della condizione dei prigionieri del carcere di massima sicurezza sull'isola di Cuba, perché obeso e malato. La commissione ha decretato che Tariq el Sawah, 57 anni, non è più una minaccia per la sicurezza degli Stati uniti e può essere trasferito in un Paese dotato di "strutture mediche appropriate". Il prigioniero egiziano è considerato "tra i detenuti più obesi" e la commissione ne ha "raccomandato il trasferimento", tenuto conto anche del suo "cambiamento di ideologia, della rinuncia alla violenza, della situazione medica e dei suoi sforzi per migliorarla". "Il detenuto non è in contatto con estremisti al di fuori di Guantánamo e la sua famiglia si è impegnata ad aiutarlo nel processo di reinserimento dopo il suo trasferimento", è stato spiegato in un comunicato. Mujica: Ex detenuti in Uruguay trasformati in vegetali La detenzione a Guantánamo ha "trasformato in una specie di vegetali" i sei ex prigionieri scarcerati e mandati in Uruguay nell'ambito degli sforzi del presidente Usa Barack Obama per chiudere la prigione. Lo ha detto il presidente dell'Uruguay, José Mujica, in un'intervista rilasciata quattro giorni prima che Tabare Vazquez prenda il suo posto alla guida del Paese. "Questi uomini sono distrutti", ha detto il presidente uscente. "Potrebbero stare qui per due anni e non capirebbero un accidente di niente perché, anche se si vuole insegnare loro lo spagnolo, non hanno forza interiore, la volontà di andare avanti con la vita. Sono stati trasformati in una specie di vegetali", ha detto Mujica, che ha definito Guantánamo "una disgrazia per l'umanità".