Giustizia: Sondaggio Unipolis "giù l'indice di insicurezza, abbiamo sempre meno paura" di Vladimiro Polchi La Repubblica, 25 febbraio 2015 "Il cielo plumbeo è diventato meno grigio". Lasciata alle spalle la grande paura, il Paese si risveglia in una "terra di mezzo", stretto tra ansie quotidiane e terrore globale. La crisi economica allarma ancora il 67% degli italiani: molto più del terrorismo, infatti, è la perdita del lavoro e il futuro dei figli a non far dormire i nostri concittadini. Neppure la paura della criminalità rallenta. Ma nonostante la temperatura resti alta, la febbre del Paese pare scendere: tutti gli indici di insicurezza calano. Insomma: toccato il fondo, si comincia a risalire. A fotografare le nostre ansie è l'ottavo rapporto dell'Osservatorio europeo sulla sicurezza, realizzato da Demos e Pi e Osservatorio di Pavia per Fondazione Unipolis. Cosa emerge? L'instabilità politica resta in testa alla graduatoria delle paure. L'entrata in scena di Renzi l'ha attenuata, ma solo in parte: rispetto a gennaio 2014, i timori scendono dal 68 al 61%. Nella top ten delle preoccupazioni spicca poi la paura per la distruzione dell'ambiente (allarma il 58% degli italiani), il futuro dei figli (55%) e la sicurezza dei cibi (46%). Ma è la dimensione economica a farla ancora da padrone, con il timore di perdere il lavoro (46%), di non prendere più la pensione (40%) e non avere abbastanza soldi per vivere (39%) a occupare i primi posti nella mappa delle paure. A differenza di altri Paesi, come Francia, Gran Bretagna e Germania, il terrorismo è invece indicato tra i primi motivi di preoccupazione solo dal 5% degli italiani. La ripresa economica è insomma ancora un miraggio e il numero di famiglie colpite dalla crisi resta alto: il 43% ha tra i propri familiari almeno una persona che ha cercato lavoro senza trovarlo, il 24% qualcuno che nell'ultimo anno è stato messo in cassa integrazione, il 28% ha tra i familiari almeno uno che ha perso il lavoro. E ancora: per otto italiani su dieci le disuguaglianze economiche sono aumentate nel corso degli ultimi dieci anni. Nel complesso, però, l'indice di insicurezza assoluta (che somma le tre principali facce - globale, economica e criminale - della paura) si contrae: dopo il picco toccato nel 2012 (41%), gli italiani insicuri scendono infatti a poco più di un terzo (34%). "Il grado di insicurezza resta molto elevato - spiega il direttore del rapporto, Ilvo Diamanti - ma si coglie qualche segno di scongelamento del clima d'opinione. È come se nella "terra di mezzo" dove viviamo ci fossimo abituati alle emergenze. E in una certa misura riuscissimo ad accettarle. Insomma abbiamo imparato a cavarcela. Ci siamo adattati ai rischi". Non è tutto. All'Italia resta il primato della sfiducia nello Stato: solo il 14% di noi si fida delle istituzioni nazionali (il valore più basso tra Spagna, Gran Bretagna, Francia, Germania e Polonia). Quanto alla criminalità, la paura rimane sui livelli di un anno fa (coinvolge il 44% delle persone) e sono i furti in casa a far tremare di più gli italiani. L'86% crede inoltre che negli ultimi 5 anni tutti i reati siano aumentati e il 48% denuncia un peggioramento nella propria zona di residenza. Paure in gran parte telecomandate: non è un caso se i tg nazionali continuino ad attribuire ai fatti criminali il record dell'insicurezza (con ben il 65% delle notizie ansiogene). "Perché la "passione criminale" - sostiene Diamanti - resta uno specifico italiano. Anche se si è trasferita sempre più sulle reti locali: nella cronaca nera trasmessa come un flusso continuo dai tg regionali. Un giorno dopo l'altro". Cresce infine la diffidenza verso gli immigrati, soprattutto se d'origine araba o rom. Più di un italiano su tre li percepisce come un pericolo per l'ordine pubblico e la sicurezza (33%). Eppure, paradossalmente, alla paura si affianca anche un'ampia apertura sul piano dei diritti: il 72% è favorevole allo ius soli, cioè alla cittadinanza ai figli di immigrati nati in Italia, tanto che per la presidente della Camera, Laura Boldrini, la riforma "deve essere portata all'attenzione dell'Aula". Non solo. Ben l'84% degli italiani farebbe entrare gli immigrati anche nei seggi elettorali. Giustizia: Rapporto Amnesty "preoccupazione per situazione carceri italiane e migranti" La Presse, 25 febbraio 2015 Il Rapporto di Amnesty International 2014-2015, pubblicato oggi, contiene un capitolo riguardante l'Italia. Al centro delle preoccupazioni di Amnesty International restano la perdurante assenza del reato di tortura nella legislazione nazionale, la discriminazione nei confronti delle comunità rom, la situazione nelle carceri e nei centri di detenzione per migranti irregolari e il mancato accertamento - nonostante i progressi compiuti su qualche caso - delle responsabilità per le morti in custodia, a seguito d'indagini lacunose e carenze nei procedimenti giudiziari. "Durante il semestre di presidenza dell'Unione europea, l'Italia ha sprecato l'opportunità di dare all'Europa un indirizzo diverso, basato sul rispetto dei diritti umani, sul contrasto alla discriminazione e soprattutto su politiche in tema d'immigrazione che dessero priorità a salvare vite umane, attraverso l'apertura di canali sicuri di accesso alla protezione internazionale, piuttosto che a controllare le frontiere", dichiara Gianni Rufini, direttore generale di Amnesty International Italia. "Dopo aver salvato oltre 150.000 rifugiati e migranti che cercavano di raggiungere l'Italia dal Nord Africa su imbarcazioni inadatte alla navigazione, a fine ottobre l'Italia ha deciso di chiudere l'operazione Mare nostrum. Avevamo chiesto al governo, e lo stesso primo ministro si era impegnato pubblicamente in questo senso, di non sospendere Mare nostrum fino a quando non fosse stata posta in essere un'operazione analogamente efficace, in termini di ricerca e soccorso in mare. Le nostre richieste non sono state ascoltate, con le conseguenze ampiamente previste di nuove, tragiche morti in mare, nonostante il pieno dispiegamento dei mezzi e l'impegno della Guardia costiera italiana, lasciata pressoché sola dalla comunità internazionale", conclude Rufini. Italia ha sprecato semestre di presidenza Ue, nulla di fatto su diritti umani Al centro delle preoccupazioni di Amnesty International restano la perdurante assenza del reato di tortura nella legislazione nazionale, la discriminazione nei confronti delle comunità rom, la situazione nelle carceri e nei centri di detenzione per migranti irregolari e il mancato accertamento - nonostante i progressi compiuti su qualche caso - delle responsabilità per le morti in custodia, a seguito d'indagini lacunose e carenze nei procedimenti giudiziari. È quanto emerge dal rapporto 2014-2015 di Amnesty International. "Durante il semestre di presidenza dell'Unione europea, l'Italia ha sprecato l'opportunità di dare all'Europa un indirizzo diverso, basato sul rispetto dei diritti umani, sul contrasto alla discriminazione e soprattutto su politiche in tema d'immigrazione che dessero priorità a salvare vite umane, attraverso l'apertura di canali sicuri di accesso alla protezione internazionale, piuttosto che a controllare le frontiere", ha dichiarato Gianni Rufini, direttore generale di Amnesty International Italia. Giustizia: Mattarella chiede alle toghe di fare la loro parte "no a protagonisti e burocrati" di Marzio Breda Il Corriere della Sera, 25 febbraio 2015 Chissà, forse pensa alla questione morale, riesplosa con gli scandali degli ultimi mesi. E di sicuro riflette anche sulla continua sovraesposizione mediatica di certe toghe, che rivendicano un improprio spirito missionario, o sugli alibi di altri colleghi che magari giustificano decisioni incomprensibili con il richiamo a una cavillosa e ottusa applicazione della legge (come se la legge non incidesse sull'esistenza concreta delle persone). Fatto sta che Sergio Mattarella, in risposta alle emergenze nel campo della giustizia, segnala alcune cose precise. Spiegando che, nonostante il coltivato cinismo e la pretesa assuefazione al peggio degli italiani, "il bisogno di legalità è fortemente avvertito nel Paese". E aggiungendo che, per rispondere con efficacia a quest'attesa, serve un impegno su tanti fronti, a partire da "un recupero di efficienza" della macchina giudiziaria. Spetta soprattutto ai magistrati assicurarla, per il presidente della Repubblica. Con sforzi nuovi su almeno un paio di versanti. "Da un lato, competenza, mediante l'approfondimento e il confronto sugli orientamenti normativi e giurisprudenziali; dall'altro, profonda coscienza del ruolo e dell'etica della professione". Questi i "pilastri" su cui, "attraverso la formazione permanente, si regge la capacità del magistrato di svolgere il compito affidatogli dalla Costituzione…". Un compito che, puntualizza, non dev'essere "né di protagonista assoluto nel processo né di burocratico amministratore di giustizia". Poi, per farsi capire meglio, aggiunge che proprio quei "due atteggiamenti snaturano la fisionomia della funzione esercitata". Un rischio che fu anticipato pure da Piero Calamandrei, di cui cita un avvertimento: "Il pericolo maggiore che in una democrazia minaccia i giudici è quello dell'assuefazione, dell'indifferenza burocratica, dell'irresponsabilità anonima". È la prima uscita pubblica fuori Roma del capo dello Stato, altre ne farà lunedì e martedì tra Berlino e Bruxelles. Stavolta entra nel campo più delicato e infido della nostra vita pubblica e, dovendo inaugurare l'anno accademico della Scuola superiore della magistratura di Scandicci, si rivolge alle toghe. E, mentre il Parlamento è al rush finale per la legge sulla responsabilità dei giudici, non è poco quel che intanto raccomanda loro. Dunque, dopo aver ricordato l'importanza del progetto di formazione che ha sede qui e che è guidato da Valerio Onida, indica nella sfera di una "comune cultura giuridica europea" l'orizzonte al quale puntare. Ora, se si vuole stare decentemente in Europa anche per come amministriamo la giustizia, oltre che sulle "riforme legislative" in corso e sulle "strategie organizzative", è sulla "preparazione professionale" che bisogna lavorare. Dice Mattarella: "Al magistrato si richiede una costante tensione culturale, che trova sì fondamento in studi e aggiornamenti continui, ma si nutre anche di una profonda consapevolezza morale della terzietà della funzione giurisdizionale, basata sui principi dell'autonomia e dell'imparzialità". Una sfida impegnativa, lo sa bene. Tanto più impegnativa "in un contesto di crescenti attese da parte dei cittadini, sempre più esigenti verso un servizio essenziale come la giustizia, chiamata a definire l'equilibrio tra diritti e doveri applicando le regole dettate dalla legge". Così, secondo lui "il controllo di legalità, per essere giusto ed efficace, impone percorsi formativi idonei a sviluppare nei magistrati la capacità di comprendere le dinamiche in corso nel mondo in cui operano, ponendo massima attenzione agli attori in gioco". Ed è proprio "l'alto livello di preparazione a rappresentare la struttura portante su cui si regge l'indipendenza della magistratura". Non basta. "L'ordinamento della Repubblica esige che il magistrato sappia coniugare equità e imparzialità, fornendo una risposta di giustizia tempestiva per essere efficace, assicurando effettività e qualità della giurisdizione". La tempestività, ecco l'eterno problema di ogni italiano che entri in un'aula giudiziaria. Tocca alle toghe assicurarla, quando esercitano i loro poteri "in nome del popolo". Giustizia: Mattarella li sgrida… e i pm rispondono "faremo lo sciopero bianco" di Errico Novi Il Garantista, 25 febbraio 2015 Alla Scuola superiore della magistratura ci si arriva sempre a fatica. I poveri magistrati che la frequentano, durante i corsi, fanno una settantina di chilometri al giorno solo per la spola tra aule, albergo e ristorante. Da buon padre della Repubblica, Sergio Mattarella compie un gesto di condivisione: ci arriva con mezzi pubblici, e neppure dei più spediti. In Freccia Argento da Roma a Firenze, poi dalla stazione di Santa Maria Novella a Scandicci addirittura in tram, con un'auto di servizio che infine lo accompagna fino a Castelpulci. La gente applaude, il sindaco di Firenze Nardella pure. Il guardasigilli Orlando, che accompagna il presidente, sorride. Ma a parte l'apprezzato gesto di sobrietà, il Capo dello Stato tira un paio di bordate ai magistrati mica da ridere. "Non siate né burocrati né protagonisti", gli dice chiaro. E gli ricorda quanto sia importante, per le toghe un "recupero di efficienza", assolutamente necessario "per rispondere efficacemente al bisogno di legalità avvertito nel Paese". E meno male che era l'inaugurazione dell'anno accademico, per i magistrati. Il nuovo inquilino del Colle segue dunque la traccia aperta dal suo predecessore Giorgio Napolitano: vicinanza e attenzione ai problemi della magistratura ma anche fermezza nel richiamarla ai propri obblighi. Ora, va tutto bene. È e deve essere così. Però non potrà sfuggire, davvero, il fatto che Matterella rivolga messaggi così severi proprio nel giorno in cui alla Camera si vota per il via libera definitivo alla nuova responsabilità civile dei magistrati. I quali forse si sarebbero aspettati un cenno pur minimo di solidarietà, di apertura alle ragioni del loro malcontento. E invece niente. Anzi. La legge in arrivo è fonte di grande preoccupazione, tra le toghe. Tanto è vero che il loro "parlamentino", cioè il Comitato centrale dell'Anm, domenica scorsa ha faticosamente respinto una mozione che proponeva lo sciopero. Solo ed esclusivamente per timore che un'iniziativa così clamorosa potesse diventare impopolare, il sindacato dei giudici ha optato per altre forme di protesta. Ma ha anche concordato sulla richiesta di un incontro proprio con il presidente della Repubblica. Udienza che potrebbe svolgersi nelle prossime ore. E nella quale almeno una parte della magistratura associata riponeva aspettative assai elevate. Fino addirittura alla speranza di insinuare un dubbio, nel presidente della Repubblica, e fargli considerare l'ipotesi di un clamoroso rinvio alle Camere della temutissima legge. Dopo il discorso fatto ieri a Castelpulci, frazione di Scandici, lo si può dire con certezza: Mattarella non ha assolutamente intenzione di bloccare per manifesta incostituzionalità il provvedimento sulla responsabilità civile dei giudici. E anzi, considerato il particolare momento, i richiami che ieri il Capo dello Stato ha rivolto alle toghe diventano ancora più taglienti: quello del magistrato, ricorda appunto, è "un compito né di protagonista assoluto nel processo né di burocratico amministratore di giustizia", due atteggiamenti "che snaturano la fisionomia della funzione esercitata". Due pro memoria in cui riecheggiano alcune delle osservazioni più critiche fatte dal primo presidente di Cassazione Giorgio Santacroce a un'altra recente inaugurazione, quella dell'anno giudiziario. E che, in ogni caso, non preannunciano certo particolari complicità da parte di Mattarella nei confronti delle toghe. Lui anzi insiste sulla necessità di una maggiore efficienza: "L'ordinamento della Repubblica esige che il magistrato sappia coniugare equità e imparzialità, fornendo una risposta di giustizia tempestiva per essere efficace". Può bastare? Al ministro della Giustizia Orlando, che lo ha accompagnato nella trasferta, sicuramente basta. È il sigillo che attendeva nel giorno del decollo di un capitolo importante della riforma, quello sulla responsabilità civile. Si limita a dire, il guardasigilli, che Mattarella sarà "una guida solida e rigorosa". E che il cambiamento nel campo della giustizia è "un processo ormai avviato". E non sarà certo Mattarella a rinviarlo alle Camere. Giustizia: la responsabilità dei giudici è legge. Orlando: se serve pronti a correggerci di Dino Martirano Il Corriere della Sera, 25 febbraio 2015 Dopo infinite polemiche e discussioni è giunta in porto la legge sulla responsabilità civile dei magistrati che l'Ue aveva sollecitato fin dal 2011 con la previsione di 50 milioni di euro di "multa" in caso di inadempienza. Il voto definitivo, ieri a tarda sera alla Camera, è arrivato al termine di un dibattito neanche troppo acceso: 265 sì, 51 no, 63 astenuti. Alla fine la maggioranza si è presentata compatta e ha votato a favore, Fi, Sel e la Lega (tranne Gianluca Pini, che ha votato a favore) se la sono cavata con l'astensione mentre il M5S ha votato contro. "Anni di rinvii e polemiche, ma oggi la responsabilità civile dei magistrati è legge!", ha commentato il premier Matteo Renzi con un tweet, dopo che in Aula il Guardasigilli Andrea Orlando aveva affermato: "È un passaggio storico, la giustizia sarà meno ingiusta". Superata la prova parlamentare ora per il governo inizia la parte più difficile del confronto permanente con l'Associazione nazionale magistrati che non mancherà di monitorare al millimetro gli effetti della nuova disciplina. La prima reazione dell'Anm parla di "pessimo segnale, legge contro i magistrati". Magistratura Indipendente (la corrente di centrodestra che fa capo al sottosegretario Cosimo Ferri) ha rilanciato la proposta di uno sciopero con "la raccolta di firme per la convocazione di un'assemblea dell'Anm che decida iniziative di protesta contro la riforma". Il ministro Orlando non ha voluto chiudere tutte le porte davanti alle toghe: "Con grande laicità valuteremo gli effetti della prima applicazione. Siamo disponibili a correggere i punti segnalati". In Aula, solo i grillini hanno fatto muro intorno ai magistrati. "Votiamo no perché questa è una legge intimidatoria", ha argomentato in un appassionato intervento Alfonso Bonafede che però si è dovuto arrampicare sugli specchi per spiegare la conversione ad "U" del M5S: "Al Senato il voto del Movimento è stato favorevole perché avevamo ottenuto l'esclusione della responsabilità diretta e segnali di apertura sulle modifiche da fare qui alla Camera". Per Orlando, però, il provvedimento che modifica dopo 26 anni la legge Vassalli imposta dal referendum del 1987, "è un reale punto di equilibrio". Orlando, poi, non accetta le accuse lanciate dal M5S: "Io rifiuto l'argomento della intimidazione quando si parla di inchieste che vogliono intimidire la politica, ma rifiuto l'argomento dell'intimidazione anche quando si fanno leggi che servono a risarcire cittadini". Mezzo Pd, comunque, si è dovuto preoccupare di rassicurare i magistrati che ora temono una valanga di richieste di risarcimento. "Apprezziamo molto la decisione dell'Anm di non scioperare", ha detto Walter Verini. Il relatore Danilo Leva, ha precisato che "la legge sana un vulnus presente nel nostro ordinamento per altro oggetto di una procedura d'infrazione della Corte europea". Donatella Ferranti, presidente della commissione Giustizia della Camera, ex pm, ha cercato di rassicurare le toghe che ha conosciuto da vicino quando era segretario generale del Csm: "Il travisamento del fatto rappresenta un danno solo quando sarà macroscopico, evidente e non richieda approfondimenti". Entusiasti i rappresentanti di Area popolare guidati dal sottosegretario alla Giustizia Enrico Costa che rivendicano la vittoria di aver ottenuto l'abolizione del filtro di ammissibilità per le richieste di risarcimento. Giustizia: "autoriduzione delle cause trattate", toghe in rivolta contro responsabilità civile di Errico Novi Il Garantista, 25 febbraio 2015 È il gran giorno. Alla Camera si accingono a pronunciare l'ultimo, fatale sì. E proprio mentre il "Comitato dei nove" della commissione Giustizia di Montecitorio cestina gli ultimi emendamenti e innesca countdown per il decollo della nuova responsabilità civile, l'ala più arrabbiata del sindacato delle toghe rilancia lo sciopero. Con un comunicato diffuso da Antonello Racanelli e Giovanna Napoletano, il gruppo di Magistratura indipendente chiede la convocazione dell'assemblea nazionale. "Con tempi ridotti secondo quanto prevede lo statuto dell'Associazione magistrati". Quindi, nel giro di pochi giorni, si riuniscano i parlamentini sezionali e poi si vada in assemblea. "In tale sede, potranno e dovranno essere delineate e valutate iniziative finalmente efficaci da parte della magistratura associata, considerandosi anche la possibilità di una giornata di astensione dalle attività". È guerra totale. Non solo nei confronti del governo, ma anche con le correnti di maggioranza, Area e Unicost, che di sciopero non vogliono sentir parlare. D'altra parte questo tentativo proposto da Mi di superare i tentennamenti del Comitato centrale e chiamare a decidere sullo sciopero direttamente la base potrebbe rivelarsi superato. In realtà i giudici di prima linea già preparano la vera risposta alla nuova disciplina della responsabilità civile: lo sciopero bianco. O più precisamente, un'autoriduzione dei carichi di lavoro. Spiega un magistrato di Caserta, che chiede di non essere citato: "Nella riforma che Montecitorio ha ormai messo in rampa di lancio viene eliminato il filtro di ammissibilità per i ricorsi contro i nostri presunti errori. Bene, si tenga presente che in Tribunali come quello di Caserta e nella gran parte di quelli del Sud i magistrati giudicanti si portano in un'unica udienza anche quaranta fascicoli, per cercare di smaltire l'arretrato. Vorrà dire", spiega il giudice, "che ce ne porteremo al massimo una quindicina, così diminuirà anche il rischio di commettere errori". Ecco: autoriduzione dei carichi è la parola chiave dei questa vicenda. Una sorta di ammutinamento proposto dal cuore della macchina della giustizia, cioè dai magistrati di prima linea. Più che la proclamazione di una giornata di sciopero, percepita da molte toghe come un rischiosissimo boomerang, rischia di essere questa appunto la vera risposta sindacale contro la riforma. Di fatto si profila un fenomeno analogo a quello a cui danno vita i medici del servizio sanitario nazionale: somministrano una maggiore quantità di farmaci e accertamenti clinici per abbassare il margine di errore e, soprattutto, cautelarsi rispetto a possibili azioni legali da parte degli assistiti. In Italia sta insomma per diffondersi la "giustizia difensiva". Giudici e pm paiono tutt'altro che intenzionati a correre i rischi previsti dalla nuova disciplina della responsabilità civile. Non vogliono trovarsi a dover fare i conti con raffiche di azioni da parte dei cittadini-utenti, anche se si tratterebbe pur sempre di cause contro lo Stato, che eventualmente dovrà rivalersi nei loro confronti. Tra le conseguenze più sgradite c'è il possibile innalzamento dei premi assicurativi. In caso di rivalsa da parte dell'amministrazione nei confronti del giudice dovrebbero scattare delle trattenute sullo stipendio. Ma la maggior parte dei magistrati preferisce accedere alla convenzione stipulata dall'Anni con una società di brokeraggio. Si tratta della Marsh, che ha sede a Milano. E che però, interpellata dal Garantista, chiarisce come l'eventualità di un'impennata delle polizze sia per ora remota. "Il mercato assicurativo si aspetta da questa riforma della responsabilità civile dei magistrati un impatto molto contenuto", spiega il presidente della Marsh, Gianni Turci. "Attualmente il costo medio di una polizza, per un giudice o un pm, è inferiore ai 200 euro. Possiamo dire che le compagnie, di cui noi siamo intermediari, saranno senz'altro disponibili ad allargare le coperture con modesti aggiustamenti di premio". Ad oggi il costo di un'assicurazione contro il risarcimento danni per responsabilità civile costa a giudici e pm cifre più o meno uguali per tutti. "È vero che l'eventuale trattenuta sullo stipendio è più alta se è maggiore la retribuzione del magistrato. Ma chi ha stipendi più elevati ricopre anche funzioni più alte e ha in genere una maggiore esperienza. Il che dal punto di vista delle assicurazioni tende a ridurre comunque il rischio di una condanna", dice ancora il presidente della Marsh. In gioco dunque c'è poco, in termini economici. Ma i magistrati non tollerano quell'ombra che rischia di stendersi su ogni loro singolo atto. Giustizia: Ospedali Psichiatrici Giudiziari, digiuno a staffetta per chiusura entro 31 marzo Redattore Sociale, 25 febbraio 2015 Partito lo sciopero della fame per rispettare la scadenza prevista dalla legge. È promosso da Stop Opg e sarà portato avanti da personalità come Don Ciotti, Corleone, Gonnella, Don Zappolini. Si chiede anche la nomina di un commissario ad hoc. È partito un digiuno a staffetta per la chiusura degli Opg entro il 31 marzo, come previsto dalla legge. "La data per la chiusura degli Opg si avvicina - si legge nell'appello della campagna Stop Opg, promotrice del digiuno - Il 31 marzo 2015 è la scadenza fissata dalla legge. Vogliamo essere sicuri che sarà rispettata. E che al loro posto non si apriranno nuove strutture manicomiali. Perciò continua la mobilitazione per far chiudere gli Opg al 31 marzo 2015 senza proroghe e senza trucchi". Nell'appello si chiede anche "la nomina di un Commissario per l'attuazione della legge 81/2014 sul superamento degli Opg"; lo stop ai "nuovi ingressi negli Opg e favorire le dimissioni, con buone pratiche per la salute mentale, una buona assistenza socio sanitaria nel territorio; e infine, si chiede di "evitare che al posto degli Opg crescano nuove strutture manicomiali (le cosiddette Rems: i "mini Opg" il cui numero può e deve essere invece drasticamente ridotto)". L'Appello è promosso per stop Opg da varie personalità, che digiuneranno suddivisi per giorni: Stefano Cecconi (Cgil nazionale), don Luigi Ciotti (Gruppo Abele) Franco Corleone (Garante diritti dei detenuti Toscana), Adriano Amadei (Cittadinanzattiva referente salute mentale), Denise Amerini (Fp-Cgil), Stefano Anastasia (Società della Ragione), Cesare Bondioli (Psichiatria Democratica), Antonella Calcaterra (Camera Penale di Milano), Enzo Costa (Auser nazionale), Vito D'Anza, Peppe Dell'Acqua (Forum Salute Mentale), Giovanna Del Giudice (Conferenza Permanente Salute Mentale nel Mondo), Maria Grazia Giannichedda (Fondazione Basaglia), Patrizio Gonnella (Antigone), Fabio Gui (Forum Salute e Carcere), don Giuseppe Insana (Ass. Casa di Barcellona Pozzo di Gotto, Elisabetta Laganà (Presidente Conf. Naz. Volontariato Giustizia), Aldo Mazza (Edizioni Alphabeta Verlag), Anna Poma (coop. Con.Tatto), Alessandro Sirolli (Associazione180Amici Aq), Gabriella Stramaccioni (Libera) Gisella Trincas (Unasam), don Armando Zappolini (Cnca). Giustizia: espulsi per le parole scritte sul web… la sicurezza tra isteria e ragion di Stato Redattore Sociale, 25 febbraio 2015 Almeno 4 giovani immigrati cacciati dall'Italia nelle ultime settimane per opinioni espresse in rete. Le loro storie e i commenti di Amedeo Ricucci, Lorenzo Declich, Mohamed Shain. Guido Savio (Asgi): "Provvedimenti politici che lo Stato può fare anche senza aver nulla di concreto". Un operaio pakistano che prestava servizio volontario in Croce verde. E che nel tempo libero avrebbe cliccato qualche "like" di troppo su contenuti Facebook riconducibili al jihad. Un saldatore marocchino-brianzolo, adorato da amici e colleghi; il cui legame col terrorismo internazionale si sarebbe invece palesato su twitter, dove esaltava le pretese virtù di giustizia sociale dello Stato islamico e dileggiava i combattenti curdi con l'appellativo di "peshmerda". Uno studente turco della Normale di Pisa, ragazzo prodigio della fisica dei buchi neri con qualche evidente squilibrio psichico: tra un'equazione differenziale e l'altra, inviava missive ai governi d'Italia e Stati Uniti, minacciando di farsi esplodere e definendosi "jihadista pagano, alla maniera di Nietzsche". Ci sono anche loro nell'elenco dei sospetti terroristi espulsi dall'Italia. Che si sia trattato d'isteria o ragion di stato toccherà alla giustizia italiana stabilirlo; ma è certo che il confine tra le due tende ad assottigliarsi quando in ballo c'è la sicurezza nazionale. E se lo studente era considerato quantomeno eccentrico, gli altri due provvedimenti sono stati fulmini a ciel sereno per amici e familiari. Che da un mese ripetono che quei ragazzi sono finiti al centro di un clamoroso equivoco. Se non proprio di un'ingiustizia. A Civitanova Marche, Faqir Ghani ci è arrivato con la famiglia nel 2003, a 14 anni. Nella cittadina maceratese ha stretto amicizie, lavorato in un calzaturificio e si è dedicato al volontariato. I colleghi della Croce verde raccontano che quel ragazzo, che aveva amici di ogni confessione, era diventato un punto di riferimento per loro. "Per i volontari più giovani - ha dichiarato la segretaria Annarita Badalini all'indomani del rimpatrio - era un fratello maggiore: uno di loro è stato qui poco fa e se n'è andato in lacrime. O non abbiamo capito nulla noi o si è trattato di un grosso errore". Non la pensavano così al ministero degli Interni, dove il 19 gennaio è stato firmato il decreto d'espulsione. "La polizia lo ha prelevato al lavoro - ricorda l'avvocato Maurizio Nardozza - e in meno di 24 ore era già in Pakistan. Gli atti sono secretati, quindi non sappiamo di cosa sia accusato: da una nota ministeriale sembra che avrebbe condiviso su Facebook materiale legato al terrorismo islamico. Faqir non ha smentito, ma ha respinto ogni simpatia jihadista. È stato un duro colpo per la famiglia, non li ha nemmeno potuti salutare". "Reporter di seconda generazione". Diverso è il caso di Oussama Kachia, marocchino 34enne che da 21 anni viveva e lavorava a Brunello, piccolo centro del Varesotto. A quanto pare l'uomo era molto benvoluto in paese: la mattina del 6 febbraio, il suo datore di lavoro si è precipitato in questura in lacrime, chiedendo lumi sul provvedimento. Agli agenti che lo rimpatriavano, Kachia non ha negato le sue simpatie per l'Is: su twitter ne esaltava le virtù con una veemenza quasi naif, ma più che un militante si è definito "un reporter di seconda generazione". Per la questura di Varese, al contrario, si tratterebbe di un individuo "potenzialmente plagiabile da soggetti intenzionati ad arrecare pericolo allo Stato Italiano". Sia Ghani che Kachia hanno già annunciato ricorso contro i provvedimenti: "se necessario - ha dichiarato il legale del primo - ci rivolgeremo alla Corte di giustizia europea". Ma le cose potrebbero non essere così semplici. Secondo Guido Savio, avvocato dell'Associazione studi giuridici sull'immigrazione, lo Stato avrebbe agito nel pieno delle sue prerogative: "L'articolo 13 del testo unico sull'immigrazione e il decreto legge del 2005 per la prevenzione del terrorismo internazionale - spiega - danno al Ministro dell'Interno la facoltà di espellere uno straniero qualora sussistano ragioni di sicurezza. Si tratta di un atto politico, generalmente utilizzato quando qualcuno viene trovato ‘con le mani nella marmellatà, senza che lo stato abbia però nulla di concreto contro di lui: perché, se le prove ci fossero, va da sé che non lo manderebbero a casa, ma in carcere. Tanto è vero che il ministero, avendo facoltà di secretare gli atti, non è tenuto a produrre prove o capi di imputazione. Un esempio potrebbe essere l'imam che si lancia in sermoni particolarmente virulenti e, pur non avendo infranto la legge, viene rimpatriato". "Gli dicevo di non scrivere quelle cose". Secondo Savio, provvedimenti di questo genere vengono adottati, in media, "tra le cinque e le dieci volte l'anno". Solo tra dicembre e febbraio, però, almeno 11 stranieri sono stati espulsi con la stessa procedura: si tratta di asiatici, nordafricani o balcanici che, secondo il ministero, cercavano di raccogliere denaro, proseliti o contatti per il fronte siriano. Ma che, in qualche caso, si sarebbero "limitati" all'attività sui social network: come Usman Rayen Khanein, 22enne pakistano-bolzanino che avrebbe attirato l'attenzione degli inquirenti perché, sul suo profilo Facebook, campeggiava una bandiera dello Stato islamico. O lo stesso Kachia, che le sue filippiche contro i Curdi di Kobane le scriveva in un perfetto italiano. Non esattamente ciò che ci si aspetterebbe da agenti del terrore in incognito. "Oussama è un testone - sospira A., sorella di Kachia - ma non ha mai pensato di far male a nessuno. Perfino il sindaco ne ha parlato bene ai giornali e di certo non è mai stato un integralista: ha una moglie in Svizzera che non ha mai messo il velo, vivevano come occidentali. Io gli ho detto mille volte di non scrivere quelle cose su internet, ma lui rispondeva che informarsi ed esprimere opinioni era suo diritto. Era in contatto anche con giornalisti e scrittori italiani". Tra i contatti Facebook di Kachia c'era anche Lorenzo Declich, scrittore, docente universitario e apprezzato studioso del mondo islamico. Che della questione dà una lettura diversa: "Il punto - spiega - è che si rischia di dare una risposta di tipo esclusivamente securitario a un problema che è molto più complesso. L'Isis richiama questi ragazzi a un mito delle origini che in Italia rischia di non trovare un vero punto di rottura, viste le evidenti carenze della legge sulla cittadinanza e delle nostre politiche di integrazione. In altre parole, finché non offriamo loro una vera alternativa, l'estremismo avrà gioco facile nel cercare la frattura tra la società europea e fasce di popolazione più o meno ampie, alle quali non è stata offerta una vera opportunità di integrarsi". Ossessionato dalle ingiustizie. Le parole di Declich, appena qualche giorno dopo, sembrano trovare conferma nell'ultimo video propagandistico diffuso da Al Hayat, media center dello Stato islamico, durante il quale due combattenti si rivolgono direttamente ai musulmani delle banlieue francesi: "Loro se ne fregano di voi - tuonano i due - vi umiliano ogni giorno, chiedete la carità, supplicate la disoccupazione e il salario minimo: allora perché seguite i loro costumi?". È la stessa sorella di Kachia, in effetti, a raccontare che la parabola conflittuale di Oussama sarebbe iniziata quattro anni fa, "quando nostra sorella - ricorda - venne pestata brutalmente da due teppisti per il solo fatto di portare il velo. Da allora, Oussama ha iniziato a diventare sempre più arrabbiato, ossessionato dalle ingiustizie di cui i musulmani sarebbero vittime. Ha raccolto centinaia di foto di bambini e civili morti nei bombardamenti in Siria". L'Olocausto musulmano. A farle eco c'è Mohamed Shain, imam di una delle più antiche moschee d'Italia, quella del quartiere torinese di San Salvario. "Quello che voi non sembrate capire - spiega - è che per i musulmani sunniti ormai la guerra in Siria rappresenta qualcosa di simile all'Olocausto ebraico. Molti fedeli - dice, mostrando immagini di corpi dilaniati da un bombardamento - oggi hanno foto come queste nel cellulare". Che la Siria sia "la madre di tutti i problemi" lo ripete da tempo anche il giornalista Amedeo Ricucci, lunga carriera da inviato della Rai, che alla nascita dell'Isis ha idealmente assistito nell'aprile del 2013, durante la sua prigionia nel nord del paese, quando la brigata qaedista che lo teneva in ostaggio passò sotto il vessillo della nuova organizzazione. "Per tre anni - spiega - i media e la società italiana si sono ampiamente disinteressati di quanto accadeva in Siria: poco o nulla si è detto dei bombardamenti di regime o dei siriani che tornavano in patria per combattere contro Assad, non diversamente da quanto accadeva in Spagna nel ‘36. Il risultato è che, ad esempio, oggi siamo incapaci di distinguere il concetto di terrorista da quello di foreign fighter e non abbiamo gli strumenti per inquadrare il contesto da cui il nuovo terrorismo emerge. Di fatto, l'arrivo del jihad a casa nostra ci ha colti largamente impreparati; e il rischio ora, soprattutto da parte dei media, è di alimentare un clima di isteria che non aiuta, in primo luogo, l'azione delle forze di sicurezza". Giustizia: la Polizia penitenziaria e la social-formazione di Dimitri Buffa L'Opinione, 25 febbraio 2015 Formare la polizia penitenziaria all'uso dei social network? Ma che vuol dire? E a che serve? Se uno vuole usarli per insultare la gente sarà un corso di formazione a fargli cambiare idea? Alcuni agenti di un sindacato minoritario della polizia penitenziaria, come è noto, nei giorni scorsi hanno provocato un grande scandalo. Condendo questo concentrato di aria fritta con queste testuali parole: "Tra le iniziative del Dap ce n'è una che prevede questo tipo di formazione; non si tratta di limitare la libertà di espressione, ma gli agenti devono essere consapevoli delle insidie che si nascondono nell'uso di questi mezzi, anche se questi fatti non sono in alcun modo derubricabili a disattenzione". Già, non sono "derubricabili". Ma l'eufemizzazione del suddetto comportamento scellerato sta nella dichiarata volontà buonista del ministro. Anche le armi si possono usare per legittima difesa: o per sport al poligono o, al contrario, per fare una rapina. Detto ciò, se un agente penitenziario in un raptus di follia e disperazione uccide con la pistola di ordinanza la moglie e si suicida, oppure si unisce ad una banda di criminali che rapinano le banche a mano armata, un ministro che fa? Promuove un corso di formazione per l'uso corretto delle armi leggere? Ma "ci facci il piacere", come avrebbe detto Totò. Purtroppo queste assurdità lessicali e logiche accadono quando i politici (e soprattutto chi ha anche responsabilità di governo) fanno fatica a chiamare le cose e gli eventi con il loro nome. Il gesto di chi ha commentato su Facebook in quella maniera il suicidio del detenuto romeno non va esorcizzato con un corso professionale di rieducazione all'uso di Facebook, Twitter o Google plus. Ma semplicemente sanzionando pesantemente il responsabile o i responsabili. E se il comportamento asociale e bullista dovesse dilagare, la soluzione diventa ancora più semplice: si proibisce l'uso dei social network durante l'orario di lavoro. Punto. Giustizia: agenti penitenziari puniti per frasi choc su Facebook, la protesta via Twitter Corriere della Sera, 25 febbraio 2015 Contro i provvedimenti presi per i baschi azzurri che avevano commentato il suicidio di un detenuto, il sindacato di polizia penitenziaria lancia l'hashtag #iosonolapagliuzza. Dopo i messaggi su Facebook, l'hashtag su Twitter. La nuova iniziativa del Sappe, sindacato autonomo di polizia penitenziaria non contribuisce a gettare acqua sul fuoco delle polemiche nate dopo i messaggi choc postati su Fb da alcuni agenti di polizia penitenziaria commentavano ("Uno di meno", uno dei post più "civili") il suicidio di un recluso avvenuto nel carcere di Opera, alle porte di Milano, il 15 febbraio Il Sappe ora lancia l'hashtag #iosonolapagliuzza "contro gli esagerati e sproporzionati provvedimenti adottati dall'Amministrazione Penitenziaria contro gli autori dei post che, ad avviso dell'Organizzazione sindacale, vogliono solamente distrarre l'attenzione dal vero problema delle carceri italiane e di chi le amministra". Prosegue il sindacato dei Baschi Azzurri: "L'hashtag #iosonolapagliuzza vuole evidenziare come si stia tentando di far ricadere solo su sedici poliziotti penitenziari la colpa dello sfacelo del sistema penitenziario italiano, approfittando di una sciocchezza - sia pur ingiustificabile - commessa su Facebook. L'hashtag #iosonolapagliuzza vuole denunciare l'ipocrisia di un sistema che si indigna esageratamente per quattro sciagurati commenti ignorando le vere tragedie delle carceri italiane: solo per riferirsi agli ultimi dodici mesi del 2014, 43 suicidi di detenuti, 11 di poliziotti penitenziari, 933 tentati suicidi in carcere sventati in tempo dalla Polizia penitenziaria, 6.919 episodi di autolesionismo, 966 ferimenti e 3.575 colluttazioni. L'hashtag #iosonolapagliuzza vuole testimoniare che se è giusto perseguire disciplinarmente chi ha commesso una, pur grave, sciocchezza questo non significa infierire ed accanirsi oltre ogni limite". Giustizia: l'avvocato di Totò Riina "è costretto in sedia a rotelle e si muove a fatica" Ansa, 25 febbraio 2015 Salvatore Riina "versa in gravissime condizioni di salute. La situazione è precipitata nell'ultimo periodo. I medici disperano di salvarlo e dovrà subire presto un difficilissimo intervento chirurgico". Così l'avvocato Luca Cianferoni, legale di Totò Riina, parlando con alcuni cronisti a margine di una delle udienze del processo per la strage del rapido 904, nel quale il boss mafioso è l'unico imputato. "Riina - ha precisato - non ha avuto alcuna ischemia, ma soffre di gravi patologie. È costretto in sedia a rotelle e si muove a fatica". Considerate le gravi condizioni di salute di Riina, la Corte, accogliendo una richiesta della difesa, consentirà a Riina di seguire il processo da una speciale cabina del carcere di Parma, attrezzata per persone non deambulanti, diversa da quella da dove si collegava al momento. "L'imputato Riina è una persona capace dal punto intellettivo, ma la questione è se sia in grado dal punto di vista materiale di seguire il processo" ha detto l'avvocato Cianferoni. La nuova postazione richiesta, ha aggiunto, è dotata di un telefono predisposto per persone in sedia a rotelle, che consentirà a Riina di poter parlare riservatamente col suo legale nel corso dell'udienza. "Il prigioniero è sacro - ha detto Cianferoni - altrimenti lo Stato diventa peggio di chi persegue". Giustizia: caso Yara; oggi udienza in Cassazione sulla scarcerazione di Giuseppe Bossetti Adnkronos, 25 febbraio 2015 È in calendario per oggi l'udienza in Cassazione in merito al ricorso presentato dalla difesa per la scarcerazione di Massimo Giuseppe Bossetti, dietro le sbarre dal 16 giugno scorso con l'accusa di aver ucciso con crudeltà la 13enne Yara Gambirasio, scomparsa il 26 novembre 2010 a Brembate di Sopra (Bergamo) e trovata senza vita in un campo di Chignolo d'Isola, a tre mesi esatti di distanza. Dopo il no del gip di Bergamo Vincenza Maccora e la bocciatura dei giudici del Riesame di Brescia, il difensore Claudio Salvagni si è rivolto alla Cassazione per un nuovo parere. Una scelta che arriva dopo il secondo no del gip di Bergamo (già presentata una nuova istanza al Riesame) e dopo i nuovi sviluppi di un'inchiesta che, a breve, verrà chiusa dalla procura. Se la Suprema Corte non deve entrare nel merito di un'inchiesta che supera le 10mila pagine per il solo Bossetti e decidere solo sulle esigenze cautelare nei confronti dell'indagato, il processo si giocherà su una serie di elementi, a partire da quella che è la considerata la ‘prova reginà dell'accusa, ossia la traccia biologica. A portare dietro le sbarre Bossetti sono sostanzialmente quattro elementi: la polvere di calce trovata nei polmoni di Yara, l'analisi delle celle telefoniche, la testimonianza del fratello minore. Il primo elemento non può essere considerato univoco della presenza del 44enne muratore, il secondo mostra che il giorno della scomparsa il cellulare di Yara aggancia oltre un'ora prima la stessa cella di Bossetti, la descrizione fornita da Natan non corrisponde a quella del presunto killer, sentenziano i giudici del Riesame che riducono sostanzialmente alla traccia biologica l'indizio che costringe in carcere l'indagato. E dall'architrave dell'indagine bisogna partire per capire tutti gli elementi dell'inchiesta. Il Dna. La traccia mista (Yara - Ignoto 1) trovata sui leggings della 13enne dice che il Dna nucleare corrisponde con quello di Bossetti, ma non il Dna mitocondriale. Un "manifesto, acclarato e determinante dubbio" che per l'avvocato Salvagni è sufficiente per scarcerare Bossetti. Un dato a favore dell'indagato da aggiungere "all'assenza di peli e capelli dell'indagato sul corpo della 13enne, all'assenza di elementi della vittima sul furgone del 44enne muratore". Sotto la felpa della vittima ci sono due capelli sconosciuti di cui si conosce solo il Dna mitocondriale, un altro elemento su cui punta la difesa. Il furgone. Il furgone di Bossetti sarebbe stato ripreso dalle telecamere della zona mentre si aggirava intorno alla palestra di Brembate - frequentata dalla giovane ginnasta - fino a un'ora prima della scomparsa di Yara e secondo l'ultima relazione, consegnata dai Ris alla procura, sui leggings della 13enne sarebbero stati ritrovati fili del sedile del camioncino del suo presunto assassino. Secondo la difesa questo tipo di materiale è presente su diverti tipi di mezzi, anche pullman, inoltre l'analisi degli esperti non è stata svolta davanti ai consulenti della difesa. La testimonianza. Una donna riferisce di aver visto Bossetti, tra agosto e settembre 2010, in auto in compagnia di una ragazzina che assomigliava a Yara. Una testimonianza resa agli inquirenti nel novembre scorso e che per la difesa dell'indagato risulta essere tardiva e la cui veridicità resta da dimostrare. Le ricerche via web. Per l'accusa il movente del delitto viene svelato dalle ricerche via web e per quell'ossessione per le ragazzine o le "tredicenne" digitate più volte nei motori di ricerca. Dalla consulenza della procura "si evince - secondo gli esperti del pool difensivo - come sia una ricerca automatizzata più che una digitazione fatta da una persone, visto che le parole sono distanziate da un trattino". Per l'accusa è Bossetti a far le ricerche online lo scorso 29 maggio - non era a lavoro quel giorno - ma gli inquirenti non spiegano chi fa ricerche simili il 7 maggio quando invece è al cantiere. "Ancora una volta - per la difesa - nei documenti della procura viene presentato un elemento come indiziario fingendo di non vederne uno identico tale da azzerare il primo". Le intercettazioni. Nei giorni scorsi diventa pubblica un'intercettazione: "Rischierò l'ergastolo, ma non confesso per la mia famiglia", il senso delle conversazioni tra Bossetti e gli altri detenuti del carcere di Bergamo. Affermazioni acquisite dal pm Letizia Ruggeri perché ritenute interessanti. "Non confessa, perché non ha fatto nulla. Non crolla, perché vuole dimostrare la sua innocenza", la replica dell'avvocato Salvagni. Veneto: studiare in carcere, firmato un accordo fra Università di Padova e Provveditorato di Alice Cavicchioli www.notizie.tiscali.it, 25 febbraio 2015 La cultura e lo studio come strumenti cardine per un carcere che miri alla riabilitazione e il reinserimento sociale dei detenuti. Questo il principio alla base del nuovo protocollo d'intesa siglato il 20 febbraio tra l'Università degli studi di Padova ed il Provveditorato regionale dell'Amministrazione penitenziaria. Obiettivo: migliorare le condizioni di studio nelle carceri del Triveneto mettendo a disposizione dei detenuti spazi adatti e maggiore accesso alle risorse universitarie. La convenzione si innesta in un percorso che a Padova (dove è già in essere un accordo fra università e Ministero della Giustizia stipulato nel 2007 e rinnovato nel 2013) è iniziato dieci anni fa conducendo alla laurea più di venti carcerati. Il nuovo protocollo prevede attività didattiche e di formazione, la partecipazione congiunta a programmi di ricerca nazionali e internazionali, l'istituzione di gruppi di lavoro e agevolazioni economiche come borse di studio e premi di rendimento. "L'elevazione culturale in carcere - testimonia Salvatore Pirruccio, direttore della Casa di reclusione Due Palazzi di Padova - favorisce non solo la gestione dei detenuti in genere ma anche la riabilitazione personale. Noi ci accorgiamo, con gli studi fatti in carcere da parte dei detenuti in collaborazione con l'ateneo o con altri istituti d'istruzione secondaria, che la mentalità e il modo di approcciarsi dei detenuti cambiano. Il detenuto non rimane ancorato ai vecchi disegni criminali, non pensa più di ritornare da dove viene, cioè da una società che l'ha condotto in carcere. Grazie alla cultura quindi, dopo alcuni anni, vediamo persone completamente diverse". Il Bo aprirà dunque le iscrizioni a tutti gli istituti penitenziari del Triveneto con l'impegno di mettere in campo anche reciproche riflessioni e ricerche incentrate sul tema delle carceri stesse, intese come realtà integranti della società invece che luoghi di alienazione dediti esclusivamente alla repressione e il contenimento. "Il primo errore che secondo me è stato fatto, a iniziare credo dagli anni 80 in poi, è stato quello di aver costruito le carceri fuori dai paesi, fuori dalle città. Il carcere - prosegue Pirruccio - è una piccola società che fa parte di una società più grande che è la città, dunque dev'essere inserito a pieno titolo nell'ambito cittadino. Non deve essere difficile raggiungere il carcere, proprio fisicamente, e pertanto la costruzione di nuovi istituti si auspicherebbe avvenisse all'interno del contesto sociale. In questo modo non si interromperebbe quel feeling che deve esserci fra la persona detenuta e il territorio. Verosimilmente il territorio dev'essere quello di provenienza con una minima regionalizzazione dell'esecuzione penale. Non possiamo trasferire un detenuto dal Piemonte al Friuli, non è la sua società". Una visione, quella descritta da Pirruccio, che - soprattutto in Veneto - incontrerebbe con tutta probabilità le resistenze di una politica che spesso impernia le proprie campagne sul tema della sicurezza. A questo proposito il direttore del penitenziario padovano risponde: "La sicurezza non si raggiunge emarginando le persone, la sicurezza si raggiunge contestualizzandole. La persona deve rimanere a contatto con la società perché lì è più sicura, perché lì la possiamo anche controllare meglio. Quindi, se non limitatamente ad alcuni casi di particolare efferatezza, emarginare è controproducente e la maggior parte dei detenuti deve riabilitarsi restando nel proprio territorio". Lombardia: penitenziari da sistemare, cercasi manovali volontari tra le guardie carcerarie di Marco Galvani Il Giorno, 25 febbraio 2015 La manutenzione di bagni e uffici sarebbe sottratta agli orari di custodia. L'idea del provveditore regionale scatena le polemiche. Un giorno agenti, il turno dopo muratori, idraulici, imbianchini o lattonieri. Per mettere una pezza alle magagne strutturali del carcere. "Se non fosse una cosa scritta nera su bianco in atti ufficiali potrebbe sembrare una barzelletta, e invece è la realtà", denuncia Donato Capece, segretario generale del Sappe (Sindacato autonomo di polizia penitenziaria), dopo aver ricevuto una comunicazione di servizio con cui il direttore del carcere milanese di Opera, Giacinto Siciliano, dà seguito a una nota del Provveditorato regionale dell'Amministrazione penitenziaria per il reclutamento di "polizia penitenziaria che possegga capacità tecniche necessarie a eseguire specifici lavori di ristrutturazione" nelle 19 carceri della Lombardia. Serve un po' di tutto. Perché le condizioni degli istituti "sono pessime ovunque", fotografa la situazione Angelo Urso, segretario regionale della Uil. Dalle sezioni che ospitano i detenuti agli uffici, alla mensa e alla caserma degli agenti, i problemi riguardano infiltrazioni d'acqua, gli impianti elettrici, gli intonaci dei muri e anche i bagni. Ma "anziché impiegare i detenuti, che nella stragrande maggioranza dei casi stanno in cella ore e ore a far nulla, si cercano poliziotti per fargli fare il doppio lavoro", rimarca Capece. Per carità, "a Bollate è stata attivata una officina meccanica dove vengono impiegati alcuni colleghi che si occupano della manutenzione dei mezzi, un'esperienza utile che fa risparmiare ma adesso si sta esagerando - continua Urso. Al prossimo giro ci chiederanno di andare a fare i camerieri? Sarebbe una attività da svolgere durante il normale orario di lavoro: in base alle disponibilità un agente invece che prestare servizio nelle sezioni con i detenuti o al Nucleo traduzioni, per la durata del proprio turno verrebbe impiegato a sistemare un lavandino o a stuccare e imbiancare una stanza. Con gli organici già carenti si andrebbero a sottrarre ulteriori risorse ai compiti istituzionali". Nel carcere di Monza già alcuni agenti hanno provveduto col faidate nel tempo libero per rendere più vivibile la propria stanza della caserma di via Sanquirico: c'è chi ha cambiato un interruttore e chi ha dato una rinfrescata alle pareti con una mano di vernice per eliminare l'umidità dovuta alle pesanti infiltrazioni d'acqua". E dopo il danno anche la beffa: "Ci fanno sistemare le caserme e poi ci chiedono l'affitto per occupare una stanza peraltro all'interno del carcere e non in una struttura all'esterno paragonabile a un'abitazione classica". Tanto che Lega Nord e Movimento 5 Stelle hanno depositato due distinte interrogazioni parlamentari per chiedere conto di questa paradossale situazione al ministro della Giustizia. marco.galvani@ilgiorno.net Toscana: Coordinamento Polizia penitenziaria "trasformare l'Opg in custodia attenuata" www.gonews.it, 25 febbraio 2015 Il Coordinamento nazionale della Polizia penitenziaria scrive alle Istituzioni in merito al futuro della struttura penitenziaria di Montelupo Fiorentino. Riportiamo il testo integrale della lettera. "On.le Ministro, Preg.mo Pres. Consolo, abbiamo appreso solo recentemente, e finalmente da fonti ufficiali dell'Amministrazione Penitenziaria, che al superamento degli OO.PP.GG. è collegata la dismissione totale della struttura di Montelupo Fiorentino, e l'acquisizione del complesso storico mediceo da parte della soprintendenza per i beni archeologici, paesaggistici, storici, artistici ed antropologici di Firenze. Ora, fermo restando le attuali ed innumerevoli difficoltà legate alla realizzazione e/o individuazione in regione dei siti da destinare alle Rems quale alternativa agli OO.PP.GG. indicata dal legislatore, che fanno nutrire serie preoccupazioni sulla destinazione, accoglienza, gestione e cura degli internati, ciò che rammarica questo Coordinamento è la decisione, repentina e sorprendente, senza peraltro nessun confronto con le OO.SS. dei lavoratori, di chiudere totalmente il sito, malgrado i milioni di euro di soldi pubblici spesi per ristrutturare la zona detentiva, resa la più idonea e all'avanguardia sotto l'aspetto custodiale e trattamentale, che non tiene conto delle serie difficoltà, del disagio che si arreca a centinaia di lavoratori e alle loro famiglie, da tempo ed ormai stabilizzate, integrate nel tessuto sociale locale. Crediamo che la strada intrapresa sia in netta controtendenza con i sacrifici, gli sforzi che sono richiesti ai cittadini/contribuenti, ai lavoratori e alle famiglie in tema di spending review. Ed è per questo e per tutto quanto sopra rappresentato che, come abbiamo già fatto nell'incontro del 20 febbraio u.s con il Provveditore Regionale, invitiamo a riflettere ulteriormente sulla dismissione totale della struttura, e a riprendere il progetto annunciato qualche anno fa - ed inspiegabilmente accantonato, con la revisione dei circuiti penitenziari, di riconvertire la struttura di Montelupo Fiorentino in sito penitenziario a custodia attenuata, per un ampio coinvolgimento in attività lavorative dei detenuti a bassissimo indice di pericolosità che, come peraltro già avviene, non escluderebbe quelle iniziative legate all'attrattiva turistica della Villa Medicea. Confidando quindi nel cortese e celere interessamento delle SS.LL., ed auspicando la disponibilità a confrontarsi sulla questione e a verificare congiuntamente la delicata questione, porgiamo i più cordiali saluti". Toscana: "Scaffale Circolante", un progetto per promuovere la lettura nelle carceri Fps Media, 25 febbraio 2015 Le iniziative culturali all'interno degli istituti di pena sono ormai, questo è assodato, parte importante del trattamento dei detenuti. Per promuovere la lettura in carcere, in Toscana apre in questi giorni un nuovo progetto, nato dalla collaborazione fra Regione e Biblioteca Lazzerini di Prato, denominato Scaffale Circolante carcerario, che sarà attivato presso le case circondariali di Sollicciano e Mario Gozzini (Firenze), Dogaia (Prato) e Volterra. Si tratta di un nuovo servizio di prestito libri, tarato in particolare sulle esigenze dei detenuti stranieri, che metterà a disposizione delle biblioteche interne più di 600 pubblicazioni in albanese, arabo e romeno; nel 2015 poi, grazie ad acquisti mirati, il parco libri verrà più che raddoppiato, stabilizzandosi sulle 1400 unità. "Si tratta di un'iniziativa di grande interesse, che si muove nella direzione del riconoscimento della persona anche dentro il carcere - l'assessore regionale alla Cultura, Sara Nocentini - fornendole strumenti culturali essenziali quali i libri. Capaci da un lato di mantenere i legami con le origini sociali e familiari, e al contempo di approfondire la conoscenza del Paese ospitante". Per ogni lingua la proposta consiste in una selezione di libri di narrativa in lingua originale, di traduzioni da autori italiani e di best sellers internazionali, oltre che pubblicazioni recenti su temi di attualità. "Lo Scaffale Circolante carcerario é un progetto nel quale fortemente crediamo - ha affermato l'assessore alla Cultura del Comune di Prato, Simone Mangani - che si inserisce nel solco di una nuova relazione con il carcere della Dogaia, una relazione che vorremmo continuare a coltivare. Ringrazio la Regione per l'ulteriore riconoscimento alla nostra biblioteca comunale". Ciascun carcere potrà prendere in prestito fino a 50 libri in ciascuna lingua, per un massimo di 150, restituendoli entro un anno. Il prestito di libri all'interno del carcere è un servizio integrato dello Scaffale circolante del Polo regionale di documentazione interculturale, già attivo in Toscana dal 2004, che mette a disposizione delle biblioteche toscane, per i propri lettori stranieri, oltre 6.000 pubblicazioni in 11 lingue diverse, dall'albanese - appunto - all'ucraino, passando per arabo e panjabi. Piacenza: 20enne nigeriano si impicca, era in cella di isolamento perché "molto agitato" di Tiziano Soresina Gazzetta di Reggio, 25 febbraio 2015 Da quattro mesi era in carcere con la pesante accusa di aver violentato e rapinato, in un appartamento della zona-stazione, due donne colombiane: si è impiccato in cella usando come cappio un pezzo della sua maglietta, morendo mercoledì in ospedale dopo quattro giorni d'agonia. È accaduto nel carcere di Piacenza dove il nigeriano 20enne Osas Ake era stato trasferito dopo un periodo trascorso alla Pulce. Stiamo parlando di un clandestino completamente solo in Italia, giunto nel nostro Paese in modo rocambolesco su un barcone, approdando a Lampedusa. Poi il coinvolgimento - il 9 ottobre scorso - a Reggio Emilia, con un ghanese, in un episodio che i dirigenti della polizia non avevano esitato a definire "di devastante e sconcertante violenza". La notizia del suicidio è rimbalzata solo ieri in città, ma la conferma è arrivata ripercorrendo i "passaggi" giudiziari legati a questo giovane nigeriano che, dopo la convalida dell'arresto in ottobre, si era ripresentato in tribunale a Reggio il 10 febbraio scorso per assistere ad un incidente probatorio, affiancato dagli avvocati d'ufficio Noris Bucchi ed Elisabetta Strumia. Quel martedì era stata sentita la terza donna colombiana presente nell'appartamento. Quattro giorni dopo il gesto estremo del ventenne. E nello studio degli avvocati d'ufficio sono in effetti al corrente di quanto accaduto, perché Ase aveva disposto fin dall'inizio che ogni comunicazione che lo riguardava fosse comunicata ai suoi legali, unico suo punto d'appoggio in Italia. Una disposizione che ora è un cupo testamento. "Siamo stati avvertiti da Piacenza telefonicamente della tragedia - conferma l'avvocato Bucchi - e con la collega abbiamo subito pensato a quando l'abbiamo visto l'ultima volta, cioè all'incidente probatorio. Osas non parlava l'italiano e, quindi, aveva seguito l'interrogatorio tramite l'interprete. Al termine gli avevo comunicato che l'incidente probatorio non era andato male. Durante l'udienza aveva avuto un atteggiamento passivo e mi era sembrato un po' scosso, ma nessuno poteva pensare - conclude il difensore - che questa sua passività fosse premonitrice della tragedia". Ma cos'è accaduto in carcere? Il giovane nigeriano era andato in escandescenze in un corridoio della struttura piacentina, denudandosi. Era stato messo in isolamento, più tardi la macabra scoperta in quella cella da parte di un agente carcerario che, per motivi di sicurezza, chiama alcuni colleghi per poi soccorrere il ventenne impiccatosi alla finestra. Quattro giorni dopo la morte. È stata aperta un'inchiesta e disposta l'autopsia. Terribile la vicenda che aveva portato all'arresto del nigeriano e di un complice ghanese. Secondo la ricostruzione fatta dalla polizia, i due stranieri la sera del 9 ottobre scorso bussano alla porta di un appartamento situato nel quadrilatero della stazione. E viene loro aperto. All'interno si trovano tre donne colombiane, in regola con il permesso di soggiorno e con il contratto d'affitto, due quarantenni e una trentenne. Le intenzioni dei due uomini appaiono subito chiare. Il primo, armato di coltello che si rivelerà poi essere una scacciacani, obbliga una delle donne a spogliarsi. Lo stesso fa il secondo con un'altra delle donne presenti nell'appartamento e, di fronte ad un tentativo di sottrarsi alla violenza, va in cucina e prende un coltello con cui inizia a minacciarla. Inizia così l'ora più lunga per le due donne che vengono violentate davanti alla terza obbligata ad assistere inerme. Carceri disumane, questo suicidio è l'ennesima prova, di Elisa Pederzoli La riflessione del presidente della Camera penale Bucchi Disposta l'autopsia sul 20enne che si è ucciso a Piacenza. Sulla morte in carcere di Osas Ake, il 20enne nigeriano che era accusato della rapina e della stupro di due donne avvenuto in un appartamento in zona stazione lo scorso mese di ottobre, a Piacenza è stata aperta un'inchiesta. La procura, infatti, ha disposto l'autopsia. Vuole chiarire quanto avvenuto per quel suicidio in cella il 14 febbraio scorso, in una giornata in cui già un altro detenuto aveva tentato, senza riuscirci, di togliersi la vita. Il tragico gesto del nigeriano è il settimo, dall'inizio dell'anno, nelle carceri italiane. Fatti che, una volta in più, fanno riflettere. Ventenne, era accusato di aver violentato in ottobre due donne con un complice. Il gesto estremo nel carcere di Piacenza: era in isolamento perché "molto agitato". "Come uomo - spiega l'avvocato Domenico Noris Bucchi - il suicidio di Osas mi ha turbato non poco. Come suo difensore e come presidente della Camera penale reggiana, questo episodio mi induce ad una riflessione più complessa". "Osas Ake aveva vent'anni, non era ancora stato condannato e in attesa del processo si è tolto la vita impiccandosi in una cella di isolamento - racconta - Questo è il settimo suicidio in carcere dall'inizio dell'anno. Nel 2014 i suicidi nelle carceri italiane sono stati quasi 50. Un fenomeno che deve fare riflettere tutti noi". "Da anni le Camere Penali denunciano le condizioni disumane nelle quali sono costretti a vivere i detenuti in Italia – prosegue. Lo stesso presidente Giorgio Napolitano ha recentemente denunciato pubblicamente questa insostenibile situazione. Tuttavia nessuno fa nulla per, non dico risolvere, ma neppure affrontare, denunciare, questa situazione". "Ebbene - rilancia - io vorrei approfittare di questa triste vicenda per ricordare a tutti e ribadire ad alta voce che la situazione dei detenuti in Italia è drammaticamente al collasso. Che nessuno ha il diritto di privare un altro uomo della sua dignità. Che anche i detenuti sono uomini e come tali devono essere trattati. Che occorre stimolare le istituzioni ad affrontare questo delicatissimo tema". "Se qualcosa, anche poco, si muoverà allora anche il sacrificio umano di Osas Ake non sarà stato vano" conclude. Bucchi aveva visto Osas Ake appena quattro giorni prima del suo suicidio: durante l'incidente probatorio, che si è tenuto in tribunale a Reggio. La notizia della sua morte è arrivata nello studio di Bucchi, che era il suo unico riferimento in Italia. Quello che è stato ricostruito fino ad ora, è che il giorno del suicidio aveva dato in escandescenza in corridoio. Si era denudato. Quindi, era stato messo in isolamento. Ma più tardi, gli agenti della penitenziaria lo avevano trovato ormai senza vita: si era impiccato con la maglietta che indossava. Quattro mesi prima, c'era stata l'irruzione a casa di tre donne in zona stazione: armati di una scacciacani, secondo quanto ricostruito dalla polizia, in due le avevano rapinate e violentate. Accusati sono lui e un amico ghanese. Sassari: 37enne italiano tenta il suicidio in cella, è ricoverato all'ospedale in stato di coma Agi, 25 febbraio 2015 Un detenuto ha tentato di uccidersi nella sua cella del carcere di Bancali a Sassari. Ora si trova in coma in ospedale. L'uomo - un italiano di 37 anni - era in prigione per furto e danneggiamento e sarebbe dovuto uscire nel marzo del 2016. Ne dà notizia il Sappe spiegando che il detenuto è stato salvato dal tempestivo intervento dei poliziotti penitenziari. "Si tratta dell'ennesimo evento critico accaduto in un carcere italiano, sintomatico di quali e quanti disagi caratterizzano la quotidianità penitenziaria", denuncia Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria. Nel carcere di Bancali sono attualmente detenute circa 340 persone. Secondo Donato Capece, segretario generale del sindacato autonomo della polizia penitenziaria Sappe, nel 2014, a Sassari, si sono contati il suicidio di un detenuto, una morte per cause naturali, 11 tentati suicidi, 126 episodi di autolesionismo e 28 ferimenti. "Per fortuna delle Istituzioni - denuncia Capece - gli uomini della Polizia Penitenziaria svolgono quotidianamente il servizio in carcere con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità, pur in un contesto assai complicato per il ripetersi di eventi critici. Ma devono assumersi provvedimenti concreti - aggiunge - non si può lasciare solamente al sacrificio e alla professionalità delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria la gestione quotidiana delle costanti criticità delle carceri". Napoli: "cella zero" Poggioreale; basta omertà, finalmente emerge il racconto dell'orrore di Riccardo Polidoro Il Garantista, 25 febbraio 2015 Le denunce de "il Carcere possibile", Onlus della Camera Penale di Napoli, del Garante dei diritti dei detenuti della Regione Campania e di Pietro Ioia presidente di un'associazione di ex detenuti, alla Procura di Napoli avevano avviato diverse indagini che, unificate, hanno portato all'iscrizione, nel registro degli indagati, di 4 agenti di Polizia Penitenziaria della Casa Circondariale di Napoli-Poggioreale, per i delitti di sequestro di persona, maltrattamenti e abuso di autorità. Da anni i detenuti denunciavano l'esistenza della "cella zero", luogo dove, chi doveva essere punito, per aver infranto le regole del rispetto e della sottomissione agli agenti, veniva denudato e picchiato, ma nessuno aveva voluto essere identificato in passato, per paura di ritorsioni e vendette. L'anonimato non aveva consentito l'inizio dell'indagine o comunque l'approfondimento investigativo. Ora il clima sembra mutato. Il trasferimento della direttrice e il cambio ai vertici della Polizia Penitenziaria dell'istituto sono stati segnali importanti por far comprendere che alcuna violenza sarebbe stata più tollerata. Certo tollerata! Perché di maltrattamenti a Poggioreale si è sempre parlato, ben prima che venisse nominata la direttrice poi trasferita. In un carcere che era arrivato ad una presenza di circa 3.000 detenuti, più del doppio di quella regolamentare, dove i detenuti erano letteralmente ammassati nelle celle umide, con il wc alla turca a vista, unico obiettivo era quello di mantenere l'ordine a qualunque costo. E il costo lo pagava sempre chi subiva quell'illegale detenzione. Se non vi era tolleranza, vi doveva essere cieco controllo su quella brutale e raccapricciante regola non scritta, che tutti i detenuti conoscevano e temevano. Ricordiamo ancora le parole del comandante degli agenti di Poggioreale, quando, durante una video inchiesta all'interno della casa circondariale, rispondendo al giornalista Antonio Crispino, che si lamentava per come si era rivolto a lui e al suo operatore, fece comprendere che quello era niente rispetto al trattamento riservato ai detenuti. Oggi un altro video realizzato dal fotoreporter Salvatore Esposito, in collaborazione con il giornalista Andrea Postiglione e Pietro loia, racconta della "cella zero", raccogliendo la testimonianza di alcuni ex detenuti, che mostrano, senza timore, il loro volto. Parole dure, che descrivono incredibili, atroci e ripetute violenze. Questo, dal 1981 secondo gli autori del filmato, ora il sistema Poggioreale, conosciuto da molti, dentro e fuori il carcere e messo in atto da chi si riteneva al di sopra della Legge, vero e proprio impunito carnefice. Come sempre, anche in questo caso, attendiamo che l'indagine faccia il suo corso, che gli indagati si difendano, che i Giudici si pronuncino, prima di individuare colpevoli. Ma l'attività della Procura di Napoli rappresenta, comunque, una tappa importante per il raggiungimento di una nuova visione del carcere sia dal suo interno, che dall'esterno. C'è necessità di una totale trasparenza, che possa anche far comprendere agli stessi agenti di Polizia Penitenziaria l'importanza del loro lavoro e l'esigenza d'isolare le mele marce che, con atti e parole (si pensi alle recenti espressioni in occasione dell'ennesimo suicidio in carcere) infangano un'intera categoria. L'attività dell'agente non dove essere mirata solo alla sicurezza, ma anche all'accoglienza, alla comprensione del disagio, alla condivisione dei percorsi tracciati da personale specializzato. In questo modo, l'opinione pubblica potrà vedere nel carcere non solo il luogo della giusta-sofferenza, per aver perso la libertà, ma anche quello della possibile rinascita di individui che hanno sbagliato. Per il bene di tutti, anche di coloro che in carcero non ci sono mai stati e pensano che mai ci andranno. Rimini: il Garante; direzione del carcere e tempi della Sorveglianza i problemi principali www.intervista.it, 25 febbraio 2015 Attualmente sono 104 i detenuti ospitati nel carcere di Rimini (38 imputati, 13 appellanti, 8 ricorrenti, 44 definitivi, 5 semiliberi). La capienza regolamentare ai Casetti è di 139 posti, quella tollerata è di 183. Come ha quindi spiegato ieri in commissione comunale il garante delle persone private della libertà personale, Davide Grassi, "il problema delle carceri a Rimini non è più quello del sovraffollamento. Sono altre le grosse carenze da risolvere nel più breve tempo possibile, a partire dalla totale assenza di un direttore in pianta stabile". È di qualche giorno fa la notizia della nomina di un nuovo reggente che resterà in carica fino ad agosto. "Al precedente direttore, il quale ricopriva incarico in due strutture, se ne sono avvicendati altri due per poco tempo, i quali hanno dimostrato un ottimo spirito di iniziativa e collaborazione, salvo poi essere sollevati dal loro incarico", spiega Grassi. L'altra "problematica principale" riscontrata dal garante è nei "tempi di risposta del Magistrato di sorveglianza (Franco Raffa) relativamente alle istanze volte ad ottenere la liberazione anticipata ed i permessi premio". Un esempio risale a due mesi e riguarda i permessi natalizi "la cui risposta negativa a diversi detenuti è arrivata addirittura dopo le festività". Che il sovraffollamento, tra l'altro, non sia attualmente un problema per i Casetti lo dimostra anche il fatto che "la Sezione Andromeda a custodia attenuata, in cui vengono collocati i detenuti in attesa di accesso a misure alternative di tipo terapeutico, risulta sottoutilizzata". Attualmente sono occupati 3 posti su 15 disponibili. Nel corso delle quattro ispezioni condotte da Grassi in poco più di tre mesi sono emerse le carenze strutturali del carcere. La seconda sezione, l'unica completamente restaurata, resta chiusa perché non ancora collaudata. Aperta, invece, la sezione uno, dove i detenuti vivono in cinque in una cella con i fornelli e il water nella stessa stanza. "Qui i detenuti sono sottoposti a condizioni di vita non dignitose", ha detto Grassi in commissione. Necessario sistemare, secondo il garante anche "l'infermeria (dove sono presenti importanti infiltrazioni d'acqua nell'intonaco)" e "l'area esterna destinata ai colloqui estivi tra detenuti e familiari con figli al seguito (essendo tale luogo, al momento, inutilizzato)". L'area esterna, spiega Grassi, è fondamentale perché garantisce ai bambini, figli dei detenuti, un "impatto meno traumatico" con la struttura carceraria. Grassi ricorda anche che sono in corso lavori alla sesta sezione, quella che ospita i detenuti transessuali, portati avanti da alcuni detenuti in economia. Ai Casetti, poi, manca un mediatore per i detenuti stranieri. Si parla attualmente di 50 persone che, fa notare il garante, "non conoscono la nostra lingua e non conoscono le nostre leggi. È molto difficile comunicare con loro o con i loro familiari. È di pochi giorni fa - racconta Grassi - l'ultimo caso di autolesionismo da parte di un detenuto straniero che chiedeva semplicemente di comunicare con la propria famiglia all'estero". Sono 54 i detenuti tossicodipendenti ai Casetti. Una buona parte di tossicodipendenti privati della libertà personale, 171, comunque è ospitata dalla comunità di San Patrignano. Grassi l'ha visitata. Nel dettaglio, delle 1.300 persone ospitate in totale dalla comunità, 48 sono agli arresti domiciliari, 108 in affidamento in prova, 14 in detenzione domiciliare, 1 in collocamento. "Il 60 per cento delle persone recuperate dalla comunità - precisa Grassi - arriva dal carcere". Resta aperto, infine, il problema di dare una sede e una segreteria al garante, sollevato qualche tempo fa dall'Associazione Papillon. "Sono diverse le richieste di colloquio che ho ricevuto da parte dei familiari dei detenuti, ma la stanza dell'Urp che è stata concessa al garante ha pareti in vetro e quindi non garantisce il rispetto della loro privacy". Il garante, spiega Grassi, "è una figura istituzionale e non un volontario" a cui piò o meno tutti i Comuni, tranne Rimini, hanno concesso un'indennità, oltre ad altri strumenti. "Non ho accettato il ruolo di garante per tornaconto, ma nemmeno per rimetterci", precisa comunque Grassi. "Lo faccio perché le persone private della libertà hanno dei diritti che vanno rispettati". Milano: nel carcere-modello di Bollate corso per dog sitter professionali e pet therapy Adnkronos, 25 febbraio 2015 Parte nel carcere di Bollate, comune alle porte di Milano, un corso per operatori dog sitter professionali ideato e progettato appositamente per le persone sottoposte a misure restrittive. A fine corso i detenuti conseguiranno tesserino tecnico e certificazione nazionale del Csen - il Centro Sportivo Educativo Nazionale e potranno svolgere autonomamente attività quali dog sitter, dog walker e dog-daycare. Il percorso sarà strutturato su un modello innovativo di Eaa-Educazione assistita con animali professionalmente qualificante e in linea con quanto prescritto dalle linee guida nazionali in materia di interventi assistiti con animali (Iaa). Oltre a conferire agli allievi le tecniche e la professionalità di operatori del ramo pet care, il corso costituirà per i detenuti anche una vera e propria esperienza di pet therapy, un tipo di attività già in atto a Bollate sotto la supervisione dell'associazione Cani Dentro onlus. Dopo la fase di formazione si passerà alla creazione di un network operativo per facilitare l'assunzione dei detenuti autorizzati al lavoro esterno presso aziende agricole e di pet care. I cani coinvolti nell'intervento saranno ex-randagi ospiti di canili o rifugi, preventivamente sottoposti a percorsi di rieducazione e socializzazione ad opera di personale specializzato. Questo tipo di lavoro, l'acquisizione delle attitudini richieste dalla pet therapy rappresenterà per questi cani una ulteriore occasione di socializzazione e relazione positiva con l'uomo, favorendo sensibilmente le loro possibilità di venire adottati e accolti in famiglia. Nel corso delle lezioni saranno effettuati rilevazioni di parametri fisiologici e comportamentali dei cani coinvolti per la valutazione del loro benessere psico-fisico e sarà realizzato uno studio volto a valutare le dinamiche comunicative tra lo studente del corso, il cane da pet therapy e il suo coadiutore. "Malgrado la presenza di attività di pet therapy sia un dato abbastanza diffuso, il settore lavorativo del pet care è ancora molto poco proposto nelle carceri - osserva Federica Pirrone, ricercatrice alla Statale e responsabile del progetto - esso invece si adatta molto bene alla realtà carceraria, perché comprende attività che richiedono un'assunzione di responsabilità da parte della persona e quindi risultano importanti dal punto di vista del trattamento". Verona: costruzione della Residenza per detenuti psichiatrici, sbloccati 12,5 milioni di euro di Riccardo Mirandola L'Arena di Verona, 25 febbraio 2015 Saranno accolti 40 pazienti attualmente ospitati negli Opg di Castiglione e Reggio Emilia. Progetto e appalto entro sei mesi. Il ministero della Giustizia ha sbloccato i 12,5 milioni di euro che serviranno per la costruzione della struttura per detenuti psichiatrici, tecnicamente chiamata Rems - acronimo che sta per Residenza per l'esecuzione delle misure di sicurezza - che sorgerà sui terreni adiacenti all'ex ospedale Stellina. La notizia è stata data dall'assessore regionale alla Sanità Luca Coletto, durante un incontro a Venezia, al sindaco Luciano Mirandola e al suo vice Flavio Pasini. Il finanziamento statale per il Rems, che dovrà accogliere i 40 detenuti psichiatrici del Veneto oggi ospitati nelle strutture di Castiglione delle Stiviere (Mantova) e Reggio Emilia, era atteso da alcuni mesi. Tanto che sia la Regione che il Comune di Nogara avevano più volte chiesto delucidazioni sull'inspiegabile ritardo. "Nei prossimi giorni", spiega Mirandola, "il decreto di finanziamento sarà pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale e quindi avremo la certezza matematica che il Rems potrà essere realizzato con una copertura economica consistente. La Regione fera ora una convenzione con l'Ulss 21, che si dovrà occupare dell'intera progettazione e procedere poi con l'appalto dei lavori". Il progetto prevede innanzitutto la ristrutturazione della corte agricola adiacente all'ex ospedale e di villa Stellini, il complesso meglio conosciuto come primo padiglione della struttura ospedaliera nata agli inizi del 1900. Nelle vicinanze troveranno posto invece 12 nuovi fabbricati che andranno ad accogliere 40 pazienti. Tali edifici saranno su un unico piano e avranno quattro stanze da letto ciascuna con relativi servizi e una sala polifunzionale. Sul fronte della sicurezza, la Regione, in ottemperanza a quanto previsto dalle normative europee in materia, adotterà un sofisticato sistema di videosorveglianza con barriere verdi composte da alberi e siepi in modo che il contesto ambientale non sia quello di una struttura carceraria vera e propria ma che allo stesso tempo impedisca eventuali fughe. "Abbiamo convenuto", aggiunge il sindaco, "che per la progettazione e l'appalto serviranno circa sei mesi. Occorre andare spediti perché l'Unione Europea ha dato all'Italia dei tempi da rispettare per chiudere definitivamente gli ospedali psichiatrici giudiziari. Con questo importante progetto lo Stellini avrà speranze concrete per il futuro e il polo, contrariamente a quanto succede altrove, verrà rilanciato. Ora, resta solo da definire con la Regione il destino dell'ala sud". La soddisfazione di Mirandola deriva dal fatto che solo pochi giorni fa l'Ulss 21 ha ufficialmente deciso il trasferimento degli anziani non auto-sufficienti della casa di riposo "San Michele" al primo piano dell'ex ospedale dove sarà creata una Rsa con 26 posti letto. Al secondo piano verrà invece inaugurato il nuovo reparto di Psichiatria per acuti con 12 posti mentre al piano terra sarà ripristinata la Radiologia. Il progetto del Rems incontra perplessità da parte delle minoranze. I consiglieri Oliviero Olivieri, Simone Falco ed Emanuele Montemezzi hanno sempre espresso timori che l'arrivo dei detenuti psichiatrici possa creare problemi di sicurezza. Il "grillino" Mirco Moreschi critica invece l'uso di terreno agricolo quando potrebbero essere sistemati i locali vuoti dell'ex ospedale. Agrigento: dal Comune aiuti per gli ex detenuti, erogati 250 euro a testa a 26 richiedenti di Concetta Rizzo Giornale di Sicilia, 25 febbraio 2015 Assistenza economica post penitenziaria, assistenza finanziaria straordinaria ed assistenza ai tossicodipendenti. Il Comune, guidato dal commissario Luciana Giammanco, ha disposto il pagamento di 6.500 euro quale contributo complessivo per il primo tipo di assistenza, la liquidazione di complessivi 20.300 euro per il secondo tipo e l'erogazione di 1.500 euro per il terzo, arrivando dunque ad un totale complessivo - per il 2014 - di 28.300 euro. Per l'assistenza post penitenziaria 26 sono stati i richiedenti. E ad ogni istanza sono stati dunque liquidati 250 euro. Si tratta di contributi che l'amministrazione eroga per assicurare ai cittadini meno abbienti interventi mirati a migliorare la qualità della vita dopo l'insorgenza di gravi patologie mediche, eventi luttuosi, sfratti ed altre situazioni improvvise che portano ad uno stato di povertà e rischio di emarginazione. Per far fronte a tale tipo di richiesta di contributi economici, il Municipio aveva impegnato 10.000 euro sull'apposito capitolo di bilancio. A richiedere l'assistenza economica straordinaria sono stati, invece, ben 203 agrigentini ai quali è stato erogato un contributo di 100 euro, arrivando dunque ad una spesa complessiva per le casse comunali di 20.300 euro. La somma complessivamente impegnata era stata di 23.167,50 euro. Anche in questo caso, gli interventi sono volti a garantire la qualità della vita, eliminando o riducendo le condizioni di bisogno e di disagio individuale e familiare derivanti dall'inadeguatezza del reddito. Genova: Sappe; sedata rissa tra detenuti a Marassi, tempestivo l'intervento degli agenti www.rsvn.it, 25 febbraio 2015 Forse il pretesto del furioso pestaggio tra detenuti stranieri avvenuto poche ore fa in una cella del carcere di Genova Marassi è tra i più futili, ossia l'incapacità di convivere "seppur tra le sbarre" con persone diverse. O forse le ragioni sono da ricercare in screzi di vita penitenziaria o in sgarbi avvenuti fuori dal carcere. Fatto sta che poche ore fa, nel carcere genovese di Marassi, tre detenuti stranieri se le sono date di santa ragione. E se non fosse stato per il tempestivo interno dei poliziotti penitenziari le conseguenze della rissa potevano essere peggiori. La denuncia arriva dal sindacato più rappresentativo e con il maggior numero di poliziotti penitenziari iscritti, il Sappe, che denuncia come resta sempre alta la tensione nelle carceri italiane. Spiega Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe: "La rissa tra detenuti a Udine è sintomatico di una emergenza penitenziaria che permane, nonostante tutto, sedata in tempo dai bravi poliziotti penitenziari in servizio che mi auguro vengano premiati per l'ottimo intervento operativo. Un saluto in particolare va ad un poliziotto, colpito dai detenuti mentre tentava di separarli, che si trova attualmente al Pronto soccorso di un Ospedale cittadino. Non so come si possa parlare di emergenza superata, visto che a Marassi si sono contati, nei dodici mesi del 2014, 106 episodi di autolesionismo, 9 tentati suicidi sventati in tempo dalla Polizia Penitenziaria e 17 colluttazioni". Per il Sappe "la situazione nelle carceri resta sempre allarmante, nonostante in un anno il numero dei detenuti sia calato, a Marassi, di oltre cento unità: dai 773 del 31 gennaio 2014 si è infatti passati agli attuali 684, mentre a livello nazionale sono oggi detenute 53.889 persone rispetto alle 61.449 dello scorso anno (circa 7.500 in meno). Capece sottolinea infine che "per fortuna nostra e delle Istituzioni a Marassi lavorano poliziotti penitenziari molto determinati, che credono nel proprio lavoro, che hanno valori radicati e un forte senso d'identità e d'orgoglio. Agenti, Sovrintendenti, Ispettori, Funzionari che lavorano ogni giorno, nel silenzio e tra mille difficoltà ma con professionalità, umanità, competenza e passione nel dramma delle sezioni detentive genovesi e italiane. A loro va il plauso mio personale e del primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, il Sappe". Firenze: donna ruba 3 piante in un vivaio, condannata a 4 mesi di carcere e li sconta tutti Redattore Sociale, 25 febbraio 2015 È successo in Toscana dopo un piccolo furto in un vivaio da parte di una donna. Insorge il Garante dei detenuti: "Si parla di carceri sovraffollate e poi si tiene in cella una donna per un episodio del genere". Quattro mesi di carcere perché ha rubato tre piante in un vivaio. È successo a una signora che abita in Toscana, dopo che si era inserita all'interno di un vivaio in piena notte per compiere il furto. Fino a pochi giorni fa, la donna è rimasta nel carcere fiorentino di Sollicciano, quindi è stata trasferita a Pisa. La donna, dopo l'arresto, ha restituito le piante ma la pena non è stata attenuata. Il caso solleva numerose critiche da parte del garante dei detenuti di Firenze Eros Cruccolini: "Si parla sempre di sovraffollamento delle carceri e poi si tiene 4 mesi in cella una persona che ha commesso un piccolo furto. Ci potrebbero essere tante pene alternative, ad esempio quella di far lavorare la donna all'interno del vivaio dove ha commesso il furto. In questo modo, invece, non si fa altro che sovraffollare gli istituti penitenziari, già al collasso". Torino: incontri, workshop e spettacoli per riflettere sul significato di pena e di recupero di Tiziana Montaldo La Stampa, 25 febbraio 2015 "La favola bella" è uno spettacolo realizzato e interpretato dai detenuti della Casa Circondariale di Saluzzo. "Guardiamoci dentro. Le ragioni di una riflessione sul carcere": mercoledì 25 e giovedì 26 si terranno due giorni tutti dedicati per ragionare sul significato di "pena" e la sua funzione stabilita dalla Costituzione di recupero del detenuto, l'assunzione della responsabilità individuale, le esperienze maturate da cooperative e da volontari con percorsi di formazione e di reinserimento delle persone detenute e, infine per ragionare sulle strategie attuabili in tempi di crisi per diminuire i rischi di recidiva. L'evento è promosso dalla Compagnia San Paolo, dal 1996 sostenitrice di progetti nelle carceri, e dall'Ufficio Pio, sempre della Compagnia, che gestisce il progetto Logos per il supporto delle persone che hanno scontato la pena e devono reinserirsi trovando una casa e un lavoro. La due giorni comincia con il convegno nazionale - con esperti da tutta Italia - mercoledì 25 alle 13,30 al Campus Einaudi, in lungodora Siena 100 e 4 workshop tematici dalle 15 sulla pena nel quadro normativo, il lavoro di "team" tra volontari, cooperative e personale penitenziario, la pena del non lavoro e il territorio come risorsa. Alle 21,30 al Piccolo Regio, in sala Puccini, piazza Castello 215 spettacolo gratuito fino a esaurimento posti dal titolo provocatorio "Ognuno ha la sua legge uguale per tutti" interpretato e realizzato dai detenuti della Casa circondariale Lorusso Cotugno con il coordinamento di Claudio Montagna di Teatro Società. Giovedì 26 al Foyer del Toro del Teatro Regio alle 9 si tiene la tavola rotonda "Carceri: luoghi (in)credibili e ponti verso l'esterno?" mentre alle 14,30 si parlerà invece de "L'esperienza delle Fondazioni: modelli e prospettive d'intervento". Ingresso gratuito, iscrizioni sul sito. Sono invece esauriti i posti per la visita guidata al Museo delle Nuove sempre del 26 alle 18 e per lo spettacolo alle 21 de "La favola bella" realizzato e interpretato dai detenuti della Casa di reclusione Rodolfo Morandi di Saluzzo. In parallelo si svolgono due mostre: una al Campus Einaudi, in lungo Dora Siena 100, fino al 6 marzo, con un percorso fotografico di ritratti in bianco e nero di persone detenute e non con alcune frasi. Al Foyer del Regio, fino al 2, si tiene invece l'installazione di due grandi specchiere montate dove si riflettono da una parte le immagini dei detenuti inseriti in percorsi artistici, culturali e sportive e quelli in cella a simboleggiare un confronto l'opportunità di imparare un lavoro e l'inattività. È previsto anche uno spazio di vendita dei prodotti realizzati in carcere esposti anche da Marte, il temporary shop in via delle Orfane 24/d. Libri: "Recluse", di Susanna Ronconi e Grazia Zuffa. Vite sessuate dietro le sbarre di Cristina Morini Il Manifesto, 25 febbraio 2015 Saggi. "Recluse" di Susanna Ronconi e Grazia Zuffa per Ediesse Edizioni. Un'inchiesta sulle donne detenute. Le carceri come un'istituzione tesa a "naturalizzare" la condizione di genere. "Come potrebbe la prigione non essere la pena per eccellenza in una società in cui la libertà è un bene che appartiene a tutti e al quale ciascuno è legato da un sentimento universale e costante?", si domanda Michel Foucault in Sorvegliare e punire. Dalla sua origine, tra la fine del XVIII e l'inizio del XIX secolo, l'istituzione carceraria viene pensata innanzitutto come castigo "egualitario". Questa storica vocazione del carcere all'"eguaglianza" viene analizzata da Susanna Ronconi e Grazia Zuffa nel libro Recluse. Lo sguardo della differenza femminile sul carcere (Ediesse Edizioni, pp. 315, 16 euro. Il libro è stato presentato ieri a Roma da Cecilia d'Elia, Mauro Palma e Stefano Anastasia), attraverso una griglia interpretativa inconsueta, quella della differenza sessuale. Eppure, l'impianto della macchina-prigione si configura per la perfetta assenza di "alterità", omologandosi sulla prevalenza della "questione criminale maschile" a partire da un elemento statistico: "la maggioranza di arrestati, condannati e detenuti è di sesso maschile" e le donne rappresentano appena il 4,3 per cento della popolazione detenuta italiana. Popolazione "residuale", dunque, rappresentata per negazione e che fatica a trovare autonomi spazi di soggettivazione. Per altro, la depersonalizzazione e il declassamento dell'individuo attraverso la cancellazioni di diritti (alla privacy, all'affettività, alla salute) sono parte integrante dei disegni del carcere. La sofferenza che tali trattamenti generano si traduce spesso in fenomeni autodistruttivi. I nessi tra il disconoscimento dei vissuti, piegati e domati, le precarietà esistenziali dei percorsi individuali e le ricadute cliniche sono evidenti, ed esplicitati dalle due autrici. Ronconi e Zuffa muovono da una ricerca condotta nel 2013 nelle carceri di Solliciano, Empoli e Pisa, dando voce e cioè corpo alle donne detenuti: corpi sessuati nei loro desideri e nelle loro resistenze. La rimozione della differenza sessuale all'interno degli istituti penali si inserisce in una schema tradizionalmente insito nella società. Ma il carcere è un microcosmo dove l'inclusione consente di amplificare modelli e simbologie parimenti neutralizzanti e naturalizzanti. La principale letteratura sulla carcerazione femminile, dagli inizi del Novecento, mostra come anche per i "riformisti" alla donna può essere riservata una punizione meno dura a patto di sottolinearne la costitutiva dipendenza, fragilità e irrazionalità. Nel tempo, l'apparato repressivo ha dedicato alle donne la reclusione all'interno di riformatori "a scopo preventivo", per reati connessi alla sessualità, come la prostituzione o l'essere madri nubili. Almeno fino alla riforma del 1975, in Italia la gestione della reclusione femminile è stata affidata alle suore con "riproposizione di ruoli femminili tradizionali e di soggezione a imperativi di tipo religioso". Nel presente, Tamar Pitch ha ripreso il dibattito circa il modello di giustizia e di pena per le donne, mostrando la difficoltà a uscire da una dicotomia stretta tra "la logica dell'eguaglianza, ritagliata su una norma maschile assunta acriticamente" e la severità della giustizia maschile, insensibile alle circostanze in cui le donne commettono reati. La ricerca qualitativa che costituisce il cuore del testo, con 38 interviste autobiografiche, mette a fuoco la percezione dei dispositivi di detenzione, le strategie di resistenza e l'immaginazione del futuro. La lettura di genere aiuta nel lavoro di scavo e risulta utile nella decifrazione di un universo costruito sull'imposizione della "dipendenza". La donna in carcere non può sottrarsi alla propria rappresentazione "minorata" che chiama in causa "la natura femminile" dentro le mura. La devianza nella donna imprigionata è sintomo, semmai, della sua debolezza, "non pericolosa ma pericolante" per usare un'efficace immagine di Tamar Pitch. Con il rischio, scrivono Ronconi e Zuffa, che le donne "perdano se stesse" poiché i meccanismi di infantilizzazione e passivizzazione sono meno decifrabili, mentre il paternalismo si esercita più agevolmente nei loro confronti. Emergono, dai racconti, le difficoltà quotidiane della sopravvivenza dietro le sbarre, dentro "la danza immobile del carcere", luogo sprovvisto di un "tempo sensato" le cui regole disciplinano il corpo, il corpo malato che attende cura, che ha bisogno di ascolto. Si ricorre a una gestualità quotidiana (pulire, fare ginnastica, scrivere) per difendersi dal vuoto e dall'ansia, dall'assenza di risposte. Si rintracciano i codici di una resistenza, di una "resilienza", "per tener fede a se stesse, per non farsi invadere dall'istituzione totale", facendo appello a "una drastica alterità rispetto a tutto ciò che il mondo carcerario significa". Ricostruire, anche, la propria identità di persona, soprattutto attraverso le relazioni, in particolare le relazioni affettive, con la famiglia d'origine e con i figli. Mantenersi dentro questa traccia, mantenersi legate al domani attraverso gli amori, soprattutto l'amore materno, con parole commoventi, "con tenerezza, sofferenza e concretezza". Ma questo modo di provare a vivere è, contemporaneamente, il modo di soggiacere al compito assegnato. La conversazione finale tra le autrici e Maria Luisa Boccia interroga il pensiero e alla pratica femminista del "fuori" come sistema utile per inquadrare il "dentro" delle donne in carcere, mettendoli in rapporto. Nelle parole di Boccia, "il carcere può essere considerato una sorta di laboratorio (…) un modello di controllo sociale che anticipa il modello assai vasto di femminilizzazione della società". Un paradigma, questo, che abbiamo visto dispiegarsi con l'ideologia neoliberale e che recupera il femminile "come un insieme di "valori" da mettere a frutto nella società e non solo in famiglia". Nel carcere diventa un distillato di norme che ricollocano la donna a cavallo tra il "femminile" e il patologico: "per le donne la riabilitazione significa tornare a essere una buona madre e una buona figlia", dice Boccia. Fuori da qui c'è l'"anormalità", intesa come devianza da quel "femminile" che si pretende connaturato e al quale le donne detenute vanno riportate attraverso la "correzione" e la "riduzione a minore". "Dallo sguardo della differenza femminile", scrivono nelle conclusioni Ronconi e Zuffa, "si affaccia una riflessione che può condurre a scelte di politica carceraria "per le donne e per gli uomini": la "minorazione" della persona detenuta è parte integrante e necessaria della pena carceraria? Oppure rientra in una lesione del diritto alla dignità e alla salute che eccede la privazione della libertà?". La Corte Europea di Strasburgo ancora nel 2013 ha giudicato "inumano e degradante" il trattamento impartito nel sistema penitenziario italiano. Nel 2014 si sono avuti 43 suicidi in cella (fonte, Ristret?tiO?riz?zonti?.it). Al 30 giugno 2013 in carcere con le madri si trovavano 52 bambini sotto i tre anni (Istat). Immigrazione: Rapporto Amnesty; è stato un errore chiudere Operazione Mare nostrum Ansa, 25 febbraio 2015 La chiusura dell'operazione Mare nostrum ha prodotto "conseguenze ampiamente previste di nuove, tragiche morti in mare, nonostante il pieno dispiegamento dei mezzi e l'impegno della Guardia costiera italiana, lasciata pressochè sola dalla comunità internazionale". Lo ha affermato Gianni Rufini, direttore generale di Amnesty International Italia, nel corso della presentazione del Rapporto 2014-2015. Nella parte dedicata all'Italia, l'organizzazione sottolinea le sue preoccupazioni per "la situazione nelle carceri e nei centri di detenzione per migranti irregolari e il mancato accertamento - nonostante i progressi compiuti su qualche caso - delle responsabilità per le morti in custodia. Amnesty punta il dito contro le "indagini lacunose e le carenze nei procedimenti giudiziari" e sottolinea inoltre la "perdurante assenza del reato di tortura nella legislazione italiana" e "la discriminazione nei confronti delle comunità rom. "Durante il semestre di presidenza dell'Unione europea l'Italia ha sprecato l'opportunità di dare all'Europa un indirizzo diverso, basato sul rispetto dei diritti umani, sul contrasto alla discriminazione e soprattutto su politiche in tema d'immigrazione che dessero priorità a salvare vite umane, attraverso l'apertura di canali sicuri di accesso alla protezione internazionale, piuttosto che a controllare le frontiere", ha dichiarato Rufini. "Dopo aver salvato oltre 150.000 rifugiati e migranti che cercavano di raggiungere l'Italia dal Nord Africa su imbarcazioni inadatte alla navigazione, a fine ottobre l'Italia ha deciso di chiudere l'operazione Mare nostrum. Avevamo chiesto al governo, e lo stesso primo ministro si era impegnato pubblicamente in questo senso, di non sospendere Mare nostrum fino a quando non fosse stata posta in essere un'operazione analogamente efficace, in termini di ricerca e soccorso in mare". Droghe: la Cassazione delle pene illegittime di Luigi Saraceni Il Manifesto, 25 febbraio 2015 Nel primo anniversario della sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittime le pene draconiane previste dalla Fini-Giovanardi per le droghe "leggere" (da 6 a 20 anni di reclusione) e ripristinato le più miti pene della legge precedente (da 2 a 6 anni), le Sezioni Unite della cassazione sono chiamate a risolvere i prevedibili contrasti insorti tra pubblici ministeri e giudici, di legittimità e di merito, sulla incidenza della pronuncia della Consulta sulle condanne definitive in corso di esecuzione. Gli appelli di giuristi e associazioni per un intervento legislativo che prevenisse tali contrasti, adottando una soluzione equa ed uniforme per tutti i condannati, sono caduti nel vuoto e così, nella latitanza della politica, sarà ancora una volta il massimo organo della giurisdizione penale che, nell'udienza di domani, dovrà dire una parola definitiva sulla sorte di migliaia di detenuti che stanno scontando pene "illegittime". I giudici di piazza Cavour si trovano la strada parzialmente spianata da una precedente decisione delle stesse Sezioni Unite, che, sia pure con riferimento ad una diversa vicenda, nel maggio scorso hanno spazzato via il feticcio del "giudicato", invocato da una parte della magistratura per contrastare gli effetti delle decisioni della Consulta sulle condanne definitive. Ma i giudici più restii a dare piena attuazione ai valori costituzionali, non potendo continuare ad invocare lo sbarramento del "giudicato", si sono attestati su una nuova frontiera. Dicono che la decisione della Consulta vale solo per i casi in cui la condanna definitiva superi il minimo della pena prevista dalla Fini-Giovanardi, che coincide con il massimo previsto dalla ripristinata legge precedente (6 anni di reclusione). In altre parole, secondo questa giurisprudenza, può considerarsi "illegale" solo la parte di pena che superi il minimo della legge precedente, sicché, per ripristinare la legalità, basterebbe eliminare la pena eccedente. Questo orientamento non tiene conto di un dato, ben noto a chiunque abbia una qualche conoscenza delle prassi giudiziarie. La commisurazione della pena è una scelta che i giudici compiono collocando il fatto da giudicare nella "cornice edittale" prevista dalla legge vigente e riservando il minimo ai fatti di minore gravità. È perciò evidente che il minimo della pena inflitta nel vigore della illegittima legge Fini-Giovanardi (6 anni di reclusione) potrebbe riguardare, e quasi sempre riguarda, fatti che, se giudicati secondo i parametri legali ripristinati dalla decisione della Consulta, avrebbero meritato un minimo di 2 anni o comunque una pena di gran lunga inferiore. Perciò la giurisprudenza più attenta a dare effettiva attuazione ai valori costituzionali, ritiene che tutte le condanne in corso di espiazione inflitte nel vigore della Fini-Giovanardi per droghe leggere vadano annullate e il trattamento sanzionatorio vada rideterminato dal giudice della esecuzione sulla base delle pene previste dalle precedenti norme costituzionalmente legittime (più miti, anche se ancora troppo severe). Sono appunto questi contrastanti orientamenti giurisprudenziali che i giudici della Cassazione dovranno risolvere nell'udienza di domani. L'auspicio è che le Sezioni Unite proseguano il percorso della ragione intrapreso nel maggio scorso, ponendo fine alla esecuzione delle pene illegittime. Resta comunque il rammarico per tutti coloro che l'inerzia della politica ha nel frattempo condannato ad espiare, nell'ancora sovraffollate galere, una pena che per i principi costituzionali del nostro ordinamento non avrebbero dovuto espiare. Stati Uniti: a Chicago c'è una "prigione segreta" della polizia, è nota come Homan Square Adnkronos, 25 febbraio 2015 Una prigione segreta dove i detenuti vengono picchiati e sottoposti ad altri abusi. Non si tratta di un nuovo "black site" della Cia, ma di centro di detenzione, noto come Homan Square, della polizia di Chicago dove, secondo quanto rivela oggi The Guardian, fermati sono scomparsi per ore, anche un giorno intero, senza che venissero informati i loro legali. Tra di loro anche un ragazzo di 15 anni, scrive ancora il giornale britannico che rivela quanto emerso da un'inchiesta interna della polizia di Chicago. Il quotidiano britannico ha anche intervistato un manifestante fermato durante la conferenza della Nato del 2012 che racconta di essere stato tenuto in questa prigione segreta per quasi un giorno, negandogli la possibilità di chiamare un avvocato, prima di essere trasferito nel vicino commissariato dove è stato formalmente incriminato. "Homan Square è veramente un posto strano - ha detto Brian Jacob Church - mi fa pensare ai centri per gli interrogatori che la Cia ha in Medio Oriente e chiama black site. È un black site interno, quando ci finisci nessuno sa quello che ti succede". Secondo quanto riferisce il giornale, la prigione segreta di Chicago appare modellata proprio su quelle diventate tristemente famose nella guerra al terrorismo, con tanto di cellette per gli interrogatori, mezzi militari e persino una gabbia. E se nelle prigioni segrete Cia sono finiti sospetti terroristi stranieri, in queste di Chicago finiscono rinchiusi soprattutto americani poveri, afroamericani o ispanici. "È un po' un segreto di Pulcinella per gli avvocati che frequentano i commissariati, se non puoi trovare un cliente nel sistema, ci sono buone possibilità che sia lì", racconta l'avvocato Julia Bartmes. Kazakhstan: trovato morto in carcere a Vienna ex genero Nazarbayev, è giallo Asca, 25 febbraio 2015 Era caduto in disgrazia ed era in carcere in Austria. È stato il secondo uomo più potente del Kazakistan, genero del padre-padrone del Paese, il presidente Nursultan Nazarbayev, e uomo d'affari ricchissimo. Oggi le autorità austriache hanno annunciato di averlo trovato impiccato nella sua cella di Josefstadt, dove era detenuto dopo essere caduto in disgrazia. L'ipotesi più accreditata dalle autorità è quella che si sia ucciso, ma i legali di Rakhat Aliyev hanno avanzato il fondato sospetto che, più che suicidarsi, sia stato "suicidato". Aliyev aveva 52 anni. Avrebbe usato delle garze per impiccarsi a un appendiabiti nel bagno della sua cella, dove era detenuto da solo, ha spiegato Peter Prechtl, capo dell'amministrazione penitenziaria. L'ex uomo d'affari ed ex diplomatico era in carcere da giugno 2014, dopo essersi consegnato per rispondere delle accuse di omicidio per l'uccisione di due manager di una banca kazaka, scomparsi nel 2007 e poi rinvenuti morti quattro anni dopo. Aliyev ha sempre negato ogni addebito e il suo processo era atteso per aprile. Un tribunale kazako aveva già condannato in contumacia l'ex genero di Nazarbayev a 40 anni di prigione per lo stesso reato. Tuttavia Aliyev, che era ambasciatore in Austria al momento della sua caduta in disgrazia, ha chiesto rifugio a Vienna e le autorità austriache si sono rifiutate di estradarlo in Kazakistan dove, a loro dire, non avrebbe potuto avere un giusto processo. Rakhat Aliyev, prima d'incorrere in questi rovesci a partire dal 2007, era il marito di Dariga Nazarbayeva, la figlia del presidente che molti davano come principale candidata alla successione dell'anziano genitore. La caduta nella polvere del potente uomo d'affari segnò anche la fine del matrimonio con Dariga. La morte di Aliyev è venuta alla vigilia di un'importante testimonianza che il kazako avrebbe dovuto rendere nel processo contro altri due detenuti che, secondo lui, avevano richiesto somme di denaro per assassinarlo facendo sembrare l'uccisione un suicidio. "Supponiamo che qualcuno l'abbia ucciso", ha dichiarato Stefan Prochaska, uno dei legali di Aliyev. E, sull'ipotesi suicidio, anche l'altro avvocato, Klaus Ainedter, ha avanzato "considerevoli dubbi". Aliyev ha sempre accusato delle sue digrazio il potente ex suocero, Nazarbayev. Tuttavia s'è sempre trovato isolato: la debolissima opposizione kazaka non l'ha mai voluto inquadrare nei suoi ranghi, ricordando la sua partecipazione al regime repressivo di Nazarbayev, che guida col pugno di ferro il Kazakistan dall'indipendenza nel 1991 e che, nel 2010, è stato nominato "Leader della Nazione" ("Elbassy"), titolo che gli dà voce in capitolo sulle scelte fondamentali del paese fino alla morte. Marocco: più di 800 migranti sub-sahariani detenuti in tutto il Paese di Sara Creta La Repubblica, 25 febbraio 2015 È in corso una vasta operazione di detenzione di migranti d'origine sub-sahariana: al di fuori di tutte le procedure legali, in violazione alla legge marocchina e contro tutte le convenzioni internazionali. La denuncia del Gadem (Gruppo antirazzista di difesa e d'accompagnamento degli stranieri e dei migranti) e del Ccsm (Consiglio dei Migranti Sub-sahariani in Marocco). Tra i migranti detenuti ci sono minori, richiedenti asilo e persone in attesa di regolarizzazione. Sono trattenuti in diversi centri di detenzione. In Marocco è in corso una vasta operazione di detenzione di migranti d'origine sub-sahariana: al di fuori di tutte le procedure legali, in violazione alla legge marocchina e contro tutte le convenzioni internazionali ratificate dal regno, denunciano Gadem (Gruppo antirazzista di difesa e d'accompagnamento degli stranieri e dei migranti) e Ccsm (Consiglio dei Migranti Sub-sahariani in Marocco). Almeno 1.200 persone sono state arrestate il 10 febbraio 2015 secondo le informazioni diffuse dall'Amdh (Associazione Marocchina per i Diritti Umani) e trasferite "contro la loro volontà" su autobus in varie città marocchine. Tra i migranti detenuti ci sono minori, richiedenti asilo e persone in attesa di regolarizzazione. Sono in queste ore trattenuti in diversi centri di detenzione a Errachidia, Goulmina, El Jadida, Safi, Kelaat, Sraghna, Chichaoua, Tiznit, Essaouira, Youssoufia e Agadir. La mappa dei centri di detenzione. Realizzata grazie ad una missione in tutto il paese, la mappa localizza i diciotto centri di detenzione che il gruppo di attivisti di Gadem è riuscito a documentare. L'associazione per la difesa dei migranti ha denunciato i fermi come arbitrari. I migranti sono stati divisi nelle città costiere e interne, dove alcune strutture nazionali come centri sportivi o colonie estive sono state trasformate in luoghi di detenzione, che non sono idonei secondo la legge. "Abbiamo paura di essere deportati. Cosa ci succederà? Quali sono i nostri diritti? Le autorità marocchine non ci danno risposta". Al telefono rispondono due migranti della Guinea Conakry, trattenuti in una struttura sorvegliata e inaccessibile alle organizzazioni che in queste ore stanno cercando di entrare per verificare la situazione di detenzione. Abubakari, guineano di 28 anni è detenuto a El Kelâa Des Sraghna (vicino a Marrakesh) insieme a lui 58 uomini tra cui Camerunesi, Maliani, Ivoriani, Guineani, Burkinabè, Congolesi, Gabonesi, Centro Africani e Senegalesi. Abubakari continua: "Ci sono una decina di minori e anche un ragazzo ferito". I migranti raccontano: "Ci hanno fotografato e identificato. Sono passati giorni e nessuno di noi sa cosa ci succederà". Secondo le testimonianze raccolte le ambasciate dei paesi di provenienza sono già state avvisate e alcune tra cui la Guinea Conakry e il Cameron hanno visitato i centri di detenzione. Gli accampamenti non sono più tollerati. Tutto è cominciato con l'operazione eccezionale di regolarizzazione marocchina che si è conclusa brutalmente lo scorso 12 febbraio, quando il campo di Gougrugu, dove vivevano circa un migliaio di migranti ai piedi di Melilla è stato sgomberato. Linea dura dal Ministero dell'Interno del regno: retate a tappeto per smantellare tutti gli accampamenti dei migranti africani. Pochi giorni dopo anche i campi di Selouane e Zegangan, dove vivevano famiglie con bambini, nei pressi di Nador sono stati evacuati. "Hanno distrutto e bruciato il nostro campo, ora vogliamo essere liberati". Risponde al telefono Fredy, camerunese di 21 anni, da un anno in Marocco. Viveva con altri migranti nella foresta marocchina. Il giovane si trova ora in un centro ad Ain Melloul, a pochi kilometri da Agadir, insieme a lui 65 migranti sono trattenuti in un complesso nazionale. Una politica securitaria contradditoria. L'ufficio Oim - Organizzazione Internazionale della Migrazione di Rabat parla di tre proposte di legge sul tavolo in tema di asilo, tratta di esseri umani e migrazione, preparate da tre strutture ministeriali sotto la leadership della Delegazione inter-ministeriale dei diritti umani (Didh). L'ufficio Oim di Rabat, inaugurato ufficialmente nel 2007, si prepara a ricevere altri 1.6 milioni di Euro per il biennio 2015-2016 per sostenere un progetto di ritorno volontario assistito (Avrr) e per l'assistenza umanitaria ai migranti irregolari, finanziato dall'Unione Europea/Devco. Nel 2014 si è sfiorato il record di 1200 ritorni volontari effettuati soprattutto verso il Cameroon, Nigeria, Guinea Conakry e Costa d'Avorio. "Il Marocco deve continuare con un approccio umano alla migrazione come dichiarato dal regno nel 2013 - continua Rudolf Anich, responsabile progetto Oim - storicamente paese di emigrazione, con più di quattro milioni di cittadini oltre confine, il Marocco può riuscire a diventare un modello per la regione, ma resta una grande sfida". La risposta della commissione europea. Un forte impegno nel sostenere gli sforzi del Marocco per realizzare una politica migratoria genuina è visibile. La commissione ha confermato per periodo 2015-2019 un sostegno finanziario di 10 milioni di euro per facilitare il processo d'integrazione di migranti e rifugiati e per garantire l'accesso ai servizi pubblici nazionali. Critiche e forti preoccupazioni sono però state sollevate anche dal responsabile per Migrazione, Affari interni e Cittadinanza della Commissione europea, Dimitris Avramopoulos, che ha denunciato le violazioni dei diritti umani dei migranti nel regno, soprattutto nelle zone di frontiera di Ceuta e Melilla. Afghanistan: Rapporto Onu; almeno 35% dei detenuti torturato e maltrattato in carcere Adnkronos, 25 febbraio 2015 I detenuti afghani continuano a subire torture e maltrattamenti da parte delle autorità penitenziarie. La denuncia arriva dalla Missione delle Nazioni Unite di assistenza all'Afghanistan (Unama), che su 790 detenuti intervistati ha documentato 278 casi di torture o maltrattamenti da parte delle forze delle sicurezza afghane. Vittime di torture anche ragazzi di età inferiore ai 18 anni. Secondo Kabul, sono 27.800 i detenuti nelle carceri dell'Afghanistan. "Il nuovo studio mostra che il 35 per cento dei detenuti intervistati è stato torturato o maltrattato, contro il 48 per cento dello studio precedente" condotto nel 2011, si legge in un comunicato dell'Unama. Forme di tortura documentata sono l'elettroshock, il pestaggio violento e la torsione dei genitali, denuncia l'Onu. In molti casi, come l'asfissia fino allo svenimento o la costrizione a posture stressanti, le torture non hanno lasciato segni fisici evidenti. Inoltre è una pratica diffusa e documentata la minaccia di violenze sessuale nei confronti di detenuti minorenni. Nel rapporto diffuso nel 2014, l'Onu ha "trovato la mancanza persistente di impunità". Nel testo redatto nel 2013, era il 43 per cento di detenuti a risultare torturato o maltrattato dalle autorità afghane, mentre nel 2011 gli abusi riguardavano la metà dei prigionieri. Nel 2013 l'allora presidente afghano Hamid Karzai approvò un decreto contro le torture dopo che una squadra da lui incaricata provò la diffusione di maltrattamenti nelle carceri del Paese. Da allora, però, c'è stato solo un caso giudicato dalla magistratura. L'Onu, quindi, denuncia che la sicurezza afghana continua a restare "inadeguata e manca di indipendenza, autorità, trasparenza e capacità". Questo, ha detto la direttrice dell'Unama per i diritti umani Georgett Gagnon, è "motivo di preoccupazione". "L'impunità rispetto alle torture fa sì che le torture continuino", ha detto.