Giustizia: un carcere più giusto, per onorare i nostri valori di Giuseppe Maria Berruti (Magistrato, Presidente Sezione Cassazione) Corriere della Sera, 24 febbraio 2015 Ioan Barbuta, il detenuto romeno che si è impiccato con i propri pantaloni alcuni giorni fa nel carcere di Opera, non era un uomo buono. Aveva rapinato ed ucciso. Era un criminale che aveva dimostrato ferocia. La sofferenza che infliggeva, per lui, non era un ostacolo. Un uomo duro com'è difficile essere. Ebbene, quest'uomo ha sentito la sofferenza della sua vita di detenuto fino a uccidersi. Ha sentito la definitività e l'oppressione fisica di un dolore che non lasciava anfratti di speranza. E con i mezzi che aveva, i pantaloni, s'è ammazzato nel modo più doloroso possibile. Anche questo è il carcere. Alcuni agenti, profittando dei social, hanno comunicato parole di soddisfazione e gioia. Orrende, ma assai meno isolate e inspiegabili di quanto si possa credere. Perché il rumeno, l'arabo, il libico, il povero di altri mondi, è visto come nemico, come minaccia: e allora "deve morire, visto che non è possibile impedirgli l'ingresso in Italia". Perciò la barbarie parolaia di alcuni agenti trova sostenitori. Soprattutto tra i tanti che evitano di esprimersi. Qualche tempo fa un astronomo inglese di origine palestinese ha chiuso il proprio studio di Londra ed è tornato nella sua terra, con un progetto: insegnare ai bambini a guardare il cielo. Che non è il luogo nel quale passano gli aerei che bombardano le loro case, ma quello delle stelle. Il cielo, insomma, da guardare, non da temere. A me pare che il nostro tempo non sia, per certi versi, diverso da quella terra: tutti abbiamo paura. Perché le novità che ci assalgono, e la loro rapidità, rendono difficile l'esercizio della razionalità. I poveri del mondo si muovono verso illusorie terre promesse, e portano con sé tutte le loro miserie. Per alcuni, esse comprendono anche il crimine. Le loro fedi diventano ragioni di identità da difendere, da conservare come verità verso l'ignoranza dell' altro: per questo facilmente si trasformano in schemi ideologici. Che rispondono con l'aggressione alla diffidenza e alla cattiva accoglienza. Molti, perciò, evitano di approfondire, individuano nell'immigrazione il pericolo, nella particolarità culturale o religiosa l'inevitabilità della deriva violenta. Terroristica addirittura. E la contrapposizione delle irrazionalità avvicina il pericolo della guerra come tecnica di ordine e della morte come strumento di pacificazione. Le stelle, allora: cioè i nostri principi. Quelli che ci hanno insegnato, all'articolo 13 della Costituzione, che è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone sottoposte a restrizioni delle loro libertà. Perché la pena per chi ha commesso reati - la privazione della libertà - è ben precisata nella legge: altra sofferenza non dev'essere scontata. L'Italia da decenni attende carceri nelle quali si sconti solo la privazione della libertà. E da tempo promette attenzione e serietà verso la polizia penitenziaria. Che vive una condizione professionale a rischio di assuefazione al dolore: anche a quello immeritato. Vive una condizione frustrante. Perché nessun carcere ha strumenti capaci di rieducare o migliorare il detenuto. E l'operatore di una rieducazione che troppo spesso non esiste si trova ad affrontare la violenza , la mancanza di speranza, di chi viene solo chiuso in gabbia. So che il problema è enorme. Ha fatto bene il ministro della Giustizia a chiedere spiegazioni serie sulla manifestazione di opinioni preoccupanti quanto indicative di un circolo vizioso che mantiene crudeltà inutili. Ma se non alziamo gli occhi verso il cielo del nostri principi, con scelte moderne che mettano razionalità nel mondo della detenzione, abitueremo troppi a guardare solo il pavimento che calpestiamo. E a chiedere, magari in modo ipocrita, altre morti rumene. Giustizia: Manconi (Pd) sul diritto all'esecuzione penale in prossimità della famiglia www.contattonews.it, 24 febbraio 2015 Il sen. Luigi Manconi è tra i relatori non solo dei ddl su "Amnistia e indulto" ma anche di un ddl "Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e altre disposizioni in materia di relazioni affettive e familiari dei detenuti" sugli affetti in carcere. Su quest'ultimo tema e sul tema del diritto all'esecuzione penale in prossimità della famiglia, Manconi - Presidente della Commissione Diritti Umani del Senato - è tornato in un'interrogazione parlamentare del 20 febbraio, rivolta al Ministro della giustizia Andrea Orlando. In premessa il senatore ha riportato la vicenda del signor C. C. il quale si trova in carcere dal 1997 e "deve scontare una pena di 30 anni; a lungo detenuto presso il carcere di Viterbo, il signor C. aveva intrapreso, in modo serio e proficuo, il percorso trattamentale offerto dall'istituzione penitenziaria: lavorava nel laboratorio sartoriale e, con la retribuzione percepita, aiutava a mantenere la famiglia; partecipava al laboratorio artistico e all'attività teatrale per la quale gli è stato anche conferito un encomio; inoltre, la permanenza presso il carcere laziale permetteva al signor C. di mantenere in modo costante il rapporto con la famiglia, nello specifico con la moglie e con le 2 figlie (una delle quali ancora di minore età), le quali si recavano a colloquio regolarmente per 2 volte al mese; considerata l'ormai lunga detenzione scontata e il buon percorso trattamentale seguito, il signor C. aveva fatto istanza di trasferimento a Roma dove la famiglia si è trasferita da quando egli era detenuto nel carcere di Rebibbia-nuovo complesso; In data 29 maggio 2014, a seguito del mutamento di destinazione della sezione presso cui era ospitato nella casa circondariale di Viterbo, il signor C. è stato invece trasferito presso la casa circondariale di Oristano, in Sardegna; il trasferimento del signor C. è stato disposto in modo del tutto inaspettato e in evidente contrasto con quanto disposto dal principio di rieducazione della pena avendo rescisso il percorso trattamentale intrapreso e, soprattutto, il legame con la moglie e con le figlie che sono impossibilitate, anche per ragioni di carattere economico, ad andare a trovarlo; in data 6 giugno 2014, il signor C. ha presentato istanza al Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria per chiedere di tornare in un carcere del Lazio (nello specifico presso la casa circondariale o casa di reclusione di Rebibbia o, in subordine, presso la casa circondariale di Civitavecchia), ma a tutt'oggi, decorso il termine di 180 giorni indicato nell'allegato 1 del decreto ministeriale n. 488 del 1977, non ha ricevuto nessuna risposta; sulla base del principio costituzionale di rieducazione della pena detentiva, l'ordinamento penitenziario di cui alla legge n. 354 del 1975, all'art. 1, sancisce che il trattamento delle persone detenute deve tendere al loro reinserimento sociale anche attraverso il contatto con l'ambiente esterno; da questa impostazione costituzionalmente orientata discende l'attenzione da parte del legislatore del 1975 ai rapporti tra la persona detenuta e la famiglia riportati nelle disposizioni di cui agli artt. 28 e 42, che sanciscono che debba essere dedicata "particolare cura a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie" (art. 28) e che "Nel disporre i trasferimenti deve essere favorito il criterio di destinare i soggetti in istituti prossimi alla residenza delle famiglie"; così anche il regolamento di esecuzione dell'ordinamento penitenziario, di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 230 del 2000, si è soffermato su questo aspetto disciplinando che "Particolare attenzione è dedicata ad affrontare la crisi conseguente all'allontanamento del soggetto dal nucleo familiare, a rendere possibile il mantenimento di un valido rapporto con i figli, specie in età minore, e a preparare la famiglia, gli ambienti prossimi di vita e il soggetto stesso al rientro del contesto sociale" (art. 61, comma 2); nel caso in cui si renda necessario allontanare più detenuti per "necessità di carattere organizzativo dell'istituto (ad esempio, (à) mutamento di destinazione di sezioni detentive, (à))", "gli elenchi dei detenuti da trasferire dovranno essere compilati tenendo conto dei parametri indicati per gli sfollamenti" (punto 3.3); laddove si afferma che "ove, comunque, si renda necessario procedere all'emissione di provvedimenti deflattivi, i principi della territorialità della pena e della non-regressione incolpevole del trattamento penitenziario devono essere rispettati" (punto 3.1); "in particolare, nella compilazione degli elenchi dei detenuti da sottoporre a provvedimento deflattivo, le Direzioni, di regola, non debbono inserire: i detenuti che effettuano colloqui con aventi diritto dimoranti nel Distretto". Premesso ciò il Sen. Manconi chiede di sapere: "se il Ministro in indirizzo non ritenga che, ai sensi della normativa vigente, il diritto all'esecuzione penale in prossimità della propria famiglia debba essere ordinariamente garantito dall'amministrazione penitenziaria, così come da essa stessa ribadito nella propria normativa secondaria; se non ritenga che il diritto alle relazioni familiari e alla "non-regressione incolpevole del trattamento penitenziario" non possano che essere preminenti rispetto alle pur legittime necessità organizzative dell'amministrazione penitenziaria, alla luce del principio affermato dalla Corte costituzionale (sentenza n. 26 del 1999) secondo cui "L'idea che la restrizione della libertà personale possa comportare conseguenzialmente il disconoscimento delle posizioni soggettive attraverso un generalizzato assoggettamento all'organizzazione penitenziaria è estranea al vigente ordinamento costituzionale, il quale si basa sul primato della persona umana e dei suoi diritti"; se non ritenga che, nel caso di specie, il signor C. debba essere nuovamente trasferito in prossimità delle proprie relazioni ed affetti familiari e, segnatamente, in un istituto romano o limitrofo". Giustizia: Anfu; sdegnati per commenti su Facebook, ma evitare sanzioni "esemplari" Ansa, 24 febbraio 2015 Anche i Funzionari della Polizia Penitenziaria aderenti all'Associazione Anfu prendono posizione esprimendo "sdegno e disapprovazione" a proposito dei commenti pubblicati su social network da alcuni appartenenti al Corpo dopo il suicidio di un detenuto nel carcere milanese di Opera ma chiede che non siano inflitte "sanzioni esemplari" ma provvedimenti proporzionati al fatto. "La Segreteria Nazionale Anfu, avuto riguardo ai commenti apparsi sul social network Facebook, a ridosso del suicidio di un detenuto rumeno, ristretto presso la Casa di Reclusione Milano Opera, non può che manifestare sdegno e disapprovazione per gli stessi, in quanto da censurare senza se e senza ma", scrive il segretario nazionale Luca Pasqualoni. "Nondimeno, l'Anfu - scrive Pasqualoni - pur condividendo la necessità di avviare procedure disciplinari nei confronti di chi si è reso responsabile di dichiarazioni che offendono la sensibilità, l'umanità e la professionalità di chi ogni giorno, nel silenzioso adempimento del proprio dovere, lavora per assicurare la tenuta del sistema penitenziario e il senso di umanità della pena, ritiene che le stesse debbano rimanere nell'alveo dei canoni ordinamentali della proporzionalità, della ordinarietà e della congruità, dal momento che sanzioni esemplari rifuggono ad uno Stato di diritto, quale è il nostro, per il semplice fatto che, così operando, si correrebbe il rischio di strumentalizzare il singolo trasgressore per fini generali di politica criminale o istituzionale". L'Associazione nazionale funzionari di Polizia Penitenziaria "auspica che il clamor fori (la risonanza negativa ndr) alzatosi sulla vicenda non offuschi il lavoro di tutti coloro che quotidianamente, con estremo sacrificio, lavorano negli Istituti penitenziari, garantendo legalità ed umanità". Giustizia: quei fomentatori d'odio nelle carceri, lodano la jihad e cercano di fare proseliti di Fabio Tonacci e Giuliano Foschini La Repubblica, 24 febbraio 2015 L'eco del massacro di Charlie Hebdo è rimbalzato nelle celle italiane quando ancora i due fratelli Kouachi erano in fuga nelle campagne francesi. In quel momento, e nei giorni immediatamente successivi, ci sono stati 20 detenuti che hanno esultato. Hanno inneggiato alla strage di Parigi così come i mafiosi nel 1992 festeggiarono all'Ucciardone la morte di Falcone. Per dirla con il gergo più burocratico dei rapporti della polizia penitenziaria, "hanno solidarizzato e mostrato compiacimento" per gli attentatori di Parigi. Tanto è bastato perché i loro nomi finissero nella lista dei carcerati segnalati all'autorità giudiziaria in quanto "potenziali pericolosi fondamentalisti islamici". Oltre all'elenco stilato dal Viminale dei foreign fighter partiti dal nostro Paese per combattere in Siria e in Iraq, c'è un'altra lista che tiene in apprensione l'Antiterrorismo: quella redatta dal Dap, il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, e di cui è stato messo al corrente il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Si tratta di 58 detenuti, finiti dentro per reati vari non necessariamente legati al terrorismo, che hanno mostrato vicinanza all'ideologia del Califfato o di Al Qaeda. Sono quasi tutti extracomunitari provenienti dal Medio Oriente e dall'Africa del Nord, ma tra loro ci sono anche cinque o sei italiani convertiti all'Islam. Fomentatori di odio, in qualche modo. Potrebbero essere degli innocui esaltati così come dei veri reclutatori di jihadisti. Sono persone che attualmente si trovano nel circuito "normale", quindi a contatto con altri detenuti, non avendo sulle spalle accuse o condanne tanto gravi da meritare il regime di alta sicurezza. Proprio per questo, sono costantemente monitorati dai poliziotti della penitenziaria, i quali temono che tra essi si possa nascondere un altro Djamel. Djamel Beghal è l'uomo di nazionalità algerina, definito "il teorico della jihad", che aveva la cella accanto a quella di Amedy Coulibaly nel carcere di Fleury-Mérogis. È stato il suo cattivo maestro, colui che l'ha spinto giù, lungo un percorso di radicalizzazione estrema di cui i fatti del 9 gennaio sono stati l'orrendo epilogo. Anche Omar Abdel Hamid El-Hussein, il 22enne danese autore del doppio agguato a Copenaghen, è diventato un fanatico dentro le mura di un istituto carcerario. "Proprio per evitare questa deriva - spiega Donato Capece, segretario nazionale del sindacato Sappe - i soggetti in quella lista sono stati allontanati dai loro connazionali". Come sono finiti nell'elenco? Non c'è un modo solo. Possono essere stati indicati da qualche pm che ha un'indagine aperta, dai compagni di cella, oppure dagli imam che prestano servizio negli istituti (tutti i religiosi che entrano nelle case circondariali hanno l'autorizzazione del Viminale). Altre volte sono stati gli agenti di guardia ad accorgersi di qualcosa di anomalo, come nel caso dei venti esaltati entusiasti per le gesta dei fratelli Kouachi e di Coulibaly. Comportamento, questo, che è stato registrato in un paio di carceri. "Abbiamo avuto delle disposizioni molto chiare quando si tratta di rischio proselitismo - continua Capece - spesso le indicazioni arrivano dalla stessa comunità islamica carceraria che segnala chi ha le posizioni più integraliste e va professando la guerra santa ". Nei giorni scorsi il ministro della Giustizia ha chiesto più diritti per i musulmani detenuti. "Oltre che una questione di civiltà - ha detto Orlando - assicurare i centri di preghiera è uno strumento per prevenire la radicalizzazione e il reclutamento fondamentalista". Si sa che attualmente tra i circa 53mila ospiti totali (di cui 17.452 sono stranieri, per la maggior parte romeni, marocchini, albanesi e tunisini) ci sono dieci condannati in via definitiva per terrorismo di matrice islamica. Il giordano Masalameh Ahmad, ad esempio, è uno di questi. Per lui la fine pena è fissata il 21 marzo 2026. O il tunisino Jarraya Khalil, che esce il prossimo anno. Ma non sono loro a destare preoccupazione, al momento, perché sono tutti in isolamento, seppur non al 41 bis come i mafiosi. In ogni caso non entrano in contatto con gli altri, sono guardati a vista. Diverso il discorso per i 58 detenuti della lista. "Se notiamo qualcosa di sospetto - continua Capece - riferiamo immediatamente al comandante di reparto perché si possa provvedere al trasferimento". Rispetto alle procedure standard, tutto diventa più rapido. "Ma è evidente che serva una formazione specifica per gli agenti", sostiene però Eugenio Sarno, segretario della Uil penitenziaria. "Il più delle volte si lascia tutto all'intuito e alla capacità del singolo. Per combattere efficacemente il rischio proselitismo bisogna far fare al personale corsi di lingua e dare nozioni almeno basilari sulla cultura islamica in modo da consentire di decriptare alcuni atteggiamenti sospetti. La questione è troppo delicata per lasciare tutto all'improvvisazione". Giustizia: magistrati, cosa vuole fare e cosa farà il governo contro la "sbornia forcaiola" di Claudio Cerasa Il Foglio, 24 febbraio 2015 Correnti, carcere, responsabilità civile. Intervista al ministro Orlando Roma. Era il nove aprile del 2010 quando questo giornale ospitò a tutta pagina un intervento di un ex responsabile giustizia del Partito democratico che in pochi anni ha fatto rapidamente carriera: Andrea Orlando. In quell'anno Orlando era nella segreteria Bersani e quell'intervento ebbe l'effetto di far emergere alla luce del sole la volontà della sinistra di sbarazzarsi di alcuni tabù culturali sul tema giustizia. Rimodulazione dell'obbligatorietà dell'azione penale, riforma delle correnti della magistratura, separazione delle carriere, riforma della custodia cautelare, abbattimento del numero di processi arretrati. Oggi Andrea Orlando, cinque anni dopo quell'intervento pubblicato sul Foglio, è ministro della Giustizia. Siamo andati a stuzzicarlo un po' per capire se il governo ha intenzione di sfruttare l'occasione storica di riformarla, la giustizia, e se ha intenzione di aggredire un tema chiave affrontato ieri da questo giornale: la rottamazione del processo mediatico. Orlando ci riceve a Roma, al primo piano di Via Arenula, sede del ministero, e accetta di vedere cosa è stato realmente fatto e cosa ancora no rispetto al manifesto del 2010. "Ho riletto il mio intervento e mi sono appuntato alcuni passaggi. Ve li offro velocemente. Cinque anni fa le cause civili pendenti erano oltre 5,5 milioni, alla fine dell'anno arriveremo sotto quota 4,5 milioni. Obbligatorietà dell'azione penale? L'obbligatorietà funziona spesso in modo ancora troppo discrezionale ma questo governo ha introdotto un passaggio credo importante che corrisponde alla possibilità di archiviazione per tenuità del fatto, ovvero l'archiviazione delle condotte penalmente rilevanti, ma di scarsa offensività: vedrete che funzionerà". Separazione delle carriere? "Su questo punto, al di là degli slogan, l'obiettivo del governo è questo, e lo stiamo ultimando: consolidare norme che prevedano il criterio della distinzione dei ruoli, che precisino le incompatibilità e i limiti temporali di permanenza nei diversi uffici. Personalmente sono e resto contrario a separare in modo definitivo le carriere, perché non penso che un corpo fatto da soli pm o da soli giudici possa migliorare il nostro assetto istituzionale, anzi". E le correnti della magistratura? "Su questo capitolo siamo leggermente indietro perché l'ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ci ha saggiamente suggerito di aspettare l'elezione del nuovo Csm, e ora che un nuovo Csm c'è ci stiamo muovendo. In concreto cosa vogliamo fare? Diluire il peso delle correnti, sterilizzare il sistema della lottizzazione al Csm in base alla corrente, e non al merito, ma non abolire le correnti del tutto. La mia personale convinzione è questa: eliminare le correnti è un errore; l'idea del giudice privo di convinzioni personali e culturali è un'utopia positivistica o un'ipocrisia; ogni magistrato ha delle sue idee; e io credo che sia giusto che l'appartenenza a quelle idee sia esplicita e non nascosta, purché non formino pregiudizi". Il direttore, di fronte alle parole di Orlando, è colto da un principio di svenimento, ma lascia proseguire il ministro. "L'ultimo punto in questione è la riforma del cautelare. In quell'intervento pubblicato sul vostro giornale io dicevo anche che avrei voluto vedere una sinistra impegnata sinceramente nella lotta contro la sbornia forcaiola, e credo che quello che questo governo sta facendo sulle carceri è molto importante. Dividerei il ragionamento in due campi. Nel primo campo, per combattere l'uso eccessivo e spesso scellerato di uno strumento di cui spesso si è abusato come la custodia cautelare, abbiamo fatto un piccolo passo importante che corrisponde a una norma che è stata approvata in Parlamento: il magistrato non può mettere in carcere nella forma di custodia cautelare chi, secondo il capo di imputazione, non potrà mai essere condannato a una pena che non prevede il carcere. Il secondo campo è invece relativo al tema del sovraffollamento e oggi possiamo dire che i dati sono questi: al 31 dicembre 2013, i detenuti presenti in carcere erano 62.536, a fronte di una capienza regolamentare di 47.709 posti; al 31 gennaio 2015, i detenuti presenti sono 53.998, a fronte di una capienza regolamentare di 49.943. L'indice di sovraffollamento, tra liberazioni anticipate e ridefinizione delle pene, è passato da 131 per cento a 107,9 per cento, e finalmente l'Italia, sulle carceri, non è più un paese illegale". Cinque anni dopo la pagina del Foglio Superare la sbornia forcaiola, diceva Orlando, e nella nostra conversazione con il ministro della Giustizia, che dunque si autopromuove rispetto alle intenzioni del manifesto di cinque anni fa, si riparte da qui. "Io credo che gli orrori del processo mediatico siano figli di una certa cultura giustizialista con cui l'Italia deve fare ancora i conti, ma che, ringraziando il cielo, si trova molto lontana dal Pd e da questo governo. Il garantismo, non certo nell'accezione pelosa di impunità, negli ultimi anni è tornato a essere un concetto di sinistra, e da vecchio migliorista e da vecchio seguace di Chiaromonte e Macaluso sono orgoglioso, e credo che all'interno di questo nuovo contesto sia maturato un clima diverso in cui la separazione dei poteri, la giusta distanza tra potere giudiziario e potere legislativo, stanno cominciando a essere qualcosa di più di un'utopia". Chiediamo al ministro se rientra all'interno di questo ragionamento anche la riforma sulla responsabilità civile dei magistrati che salvo sorprese dovrebbe essere approvata oggi alla Camera anche per evitare che il 28 febbraio scatti la multa da 51 milioni di euro prevista dalla procedura d'infrazione europea proprio sul tema dell'assenza di una norma che regoli la responsabilità civile in Italia. Orlando ci pensa e fa un passo avanti nel ragionamento. "Non c'entra con la separazione dei poteri, c'entra con una questione di giustizia giusta. Fino a oggi, di fronte a una negligenza inescusabile di un magistrato, la parte offesa aveva solo un'opzione: andare al tribunale civile, presentare la propria denuncia e aspettare che la Corte d'appello, senza entrare nel merito, dicesse se la denuncia era fondata o no. Risultato: dal 1989 al 2012, su 34 casi di denuncia accettati dalla Corte, le condanne sono state solo cinque. Oggi, con questa riforma, non c'è più filtro: si va al tribunale civile, si presenta la denuncia, il processo va avanti; se la denuncia va a buon fine paga lo stato; se si dimostra che da parte del magistrato c'è stato dolo o negligenza inescusabile, paga in parte il magistrato. Scusate, ma mi sembra una rivoluzione. E a tutti quelli che oggi dicono che qualche magistrato potrebbe essere sanzionato, io dico che è vero, ma è anche vero che da ora in poi ci saranno molti cittadini, ed è la cosa che mi interessa di più, che potranno avere giustizia quando nei loro confronti la giustizia è stata ingiusta, e lo dico senza nessuna compressione dell'indipendenza della magistratura e nessuna concessione o forma di conformismo giudiziario". Il Foglio chiede al ministro di offrire infine un quadro completo su due questioni centrali di cui questo giornale ha parlato ieri: come arginare l'eccessiva discrezionalità del giudice che spesso si trasforma in soggettività esasperata nella valutazione di alcuni processi; e come risolvere in modo definitivo uno degli ingredienti più diabolici del processo mediatico: gli abusi legati alla diffusione di intercettazioni che riguardano i non indagati e che semplicemente non dovrebbero essere diffuse. "Sul tema della grande discrezionalità di cui qualche volta il sistema abusa - dice Orlando - io credo che l'unica risposta possibile e sensata per affrontare un problema vero sia quella di smetterla di dare in pasto all'opinione pubblica nuove tipologie di reati per rispondere ad alcune emergenze sociali e cominciare, come stiamo facendo, a portare avanti una politica di depenalizzazione di alcuni reati meno gravi a favore di più efficaci e tempestive sanzioni amministrative. Per quanto riguarda invece le intercettazioni il discorso mi sembra più semplice e rivendico quello che questo governo ha intenzione di portare avanti con la delega sulla giustizia: mantenere e preservare le intercettazioni come strumento chiave delle indagini ma proibire, attraverso un utilizzo vero e non fittizio del passaggio chiamato udienza filtro, che tutto ciò che non riguarda gli indagati e che non riguardi i reati e che non abbia alcun tipo di peso all'interno di un processo sia infilato nei fascicoli giudiziari. So che il vostro giornale considera il protagonismo dei magistrati come un elemento chiave del processo mediatico, io per primo dico che negli ultimi anni ci sono stati degli eccessi, ma vorrei sottolineare un punto: se in passato ci sono stati degli eccessi, ciò è avvenuto non perché la generalità dei magistrati sono scorretti ma anche perché la politica è stata latitante. Oggi siamo in una fase diversa, e mi permetto di dire che con il ritorno della politica la fase della supplenza semplicemente si è ridotta, e mi sembra una buona notizia: sia per la politica sia, soprattutto, per la magistratura. Lo sarà, ancora di più, quando la politica accetterà sino in fondo la sua missione: cambiare la realtà". Giustizia: rush finale sulla responsabilità civile, la Camera affronta le ultime votazioni di Dino Martirano Corriere della Sera, 24 febbraio 2015 Da oggi la Camera affronta le ultime trenta votazioni per approvare la legge che l'Europa chiese nel 2011. L'eliminazione del filtro per l'ammissibilità delle azioni di rivalsa è il punto più contestato dalla categoria. Alla Camera manca soltanto una manciata di votazioni, 30 per l'esattezza, e poi (già stasera o domani) il testo sulla responsabilità civile dei magistrati diventerà a tutti gli effetti legge dello Stato da pubblicare sulla Gazzetta Ufficiale. La nuova disciplina - che modifica la legge Vassalli del 1988 - arriva al capolinea dopo un tormentato iter parlamentare innescato dalla sentenza del 24 dicembre del 2011 con la quale la Corte di giustizia dell'Unione Europea ha condannato l'Italia per violazione degli obblighi di adeguamento dell'ordinamento interno. Tra le novità introdotte dalla nuova legge c'è quella che elimina il filtro di ammissibilità per le azioni di rivalsa. Ed è questo il punto che preoccupa maggiormente l'Associazione nazionale magistrati che, pur mantenendo lo "scudo" della responsabilità indiretta (il cittadino cita lo Stato che si rivale sul magistrato), ora teme una valanga di ricorsi capaci di incrinare i pilastri dell'autonomia e dell'indipendenza dei giudici. Un vero ciclone anti giudiziario, quello paventato dall'Anm. Anche perché viene estesa la risarcibilità del danno non patrimoniale anche al di fuori dei casi delle ipotesi di privazione della libertà personale. Insomma, presto il campo delle azioni di rivalsa sarà molto più ampio. Ma come si è visto al Senato - dove la legge sulla responsabilità civile è stata approvata il 20 novembre scorso con 150 sì, 51 no e 26 astenuti - in Parlamento si è formata una maggioranza trasversale (escluso il M5S e, per motivi opposti, la Lega) disposta ad andare fino in fondo. Perché, come ha ripetuto il ministro della Giustizia Andrea Orlando (Pd), "sulla responsabilità civile bisogna correre perché ce lo chiede l'Europa e poi perché le norme attuali non tutelano il cittadino". Conti alla mano, si è scoperto che dall'entrata in vigore della Vassalli (1988), su oltre 400 ricorsi per risarcimento proposti da cittadini soltanto 7 si sono conclusi con un provvedimento che ha riconosciuto il risarcimento per dolo o colpa grave da parte dei magistrati. Quando al governo c'era Berlusconi, il centrodestra tentò di inserire in Costituzione la responsabilità civile dei magistrati (Riforma del Titolo IV della Parte II della Carta) e poi provò a introdurre la "responsabilità diretta" dei magistrati (emendamento Pini alla legge comunitaria del 2010). Quei tentativi vennero respinti con le unghie dal centro sinistra. E anche a settembre del 2014, quando il leghista Candiani presentò il suo emendamento al Senato il governo pose la fiducia pur di bloccare la responsabilità diretta. Poi, il 24 settembre, il governo Renzi ha presentato la sua proposta sulla responsabilità civile e da quel momento il "partito delle toghe", un tempo influente all'interno del Pd, non ha più avuto alleati in Parlamento. Il testo che stasera (o domani) arriva al voto finale "non è punitivo nei confronti dei magistrati e non lede la loro autonomia", afferma il relatore Danilo Leva (Pd). Ma le novità che preoccupano i magistrati sono molte. A partire dalla limitazione della clausola di salvaguardia prevista dalla vecchia legge Vassalli che ai fini della responsabilità non considera "l'attività di interpretazione di norme di diritto e quelle di valutazione del fatto e delle prove". Ci sono poi la ridefinizione del concetto di colpa grave (che include, appunto, il travisamento del fatto e delle prove) e una più stringente disciplina della rivalsa dello Stato verso il magistrato: il cittadino avrà 3 anni di tempo (e non più 2) per presentare la domanda di risarcimento contro lo Stato. Che, a sua volta, potrà esigere al massimo come rivalsa metà (oggi un terzo) dell'annualità dello stipendio del magistrato. Giustizia: l'immagine di casta e i tweet di accusa, così i magistrati si sentono nell'angolo di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 24 febbraio 2015 La rinuncia allo sciopero e le scelte prudenti di fronte all'offensiva mediatica di Renzi. Qualcuno ha rispolverato espressioni d'altri tempi, come "giustizia di classe". Non per nostalgia del secolo passato (il magistrato in questione, Giovanni Zaccaro in servizio al tribunale di Bari, è nato nel 1972, stessa generazione di Matteo Renzi), ma nel timore che con la riforma della responsabilità civile "il giudice sarà ancora più attento nel dare torto alla parte "più forte", cioè dotata degli strumenti economici per affrontare un ulteriore giudizio contro il giudice che l'ha condannata". Niente più decisioni ispirate ai principi costituzionali, quindi, ma "giustizia di classe", appunto. Che può tornare persino utile come contro-slogan rispetto al "chi sbaglia paga" lanciato dall'attuale premier (e prima di lui dal ministro della Giustizia del governo Berlusconi, che con Renzi siede all'Interno). Più che sul merito dei problemi, infatti, da qualche tempo il conflitto tra giustizia e politica si consuma con frasi a effetto pronunciate davanti a una telecamera, o attraverso un tweet. Un terreno sul quale i magistrati appaiono irrimediabilmente perdenti. Perciò si sforzano di cambiare marcia anche in tema di comunicazione; perciò hanno scelto di non incrociare le braccia contro la nuova legge (giudicata incostituzionale per via dell'abolizione del filtro ai ricorsi, nonché foriera di ulteriori ingolfamenti della macchina giustizia), nemmeno nella forma più soft dello "sciopero bianco". L'Associazione nazionale magistrati ha riunito il suo organismo direttivo di domenica e ha proclamato una settimana di "mobilitazione" per illustrare ai cittadini-utenti le ragioni della contrarietà alla riforma. Lo sciopero sarebbe "additato e percepito come la manifestazione di chiusura di una casta che difende un privilegio", ha ammonito il presidente Rodolfo Sabelli. A spingere per la protesta più radicale era la corrente di Magistratura indipendente, quella del giudice-sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri, considerato tuttora il leader-ombra del gruppo; il motivo dell'apparente paradosso risiederebbe proprio nella necessità di mostrarsi indipendenti dall'esecutivo che ha al suo interno il più rappresentativo dei propri esponenti. Fatto sta che forse stavolta l'Anm è riuscita a evitare la trappola, dopo quella in cui cadde a fine estate sulle ferie tagliate, ma non a tirarsi fuori dall'angolo in cui i magistrati si sentono stretti dal governo Renzi. Forse perché finché c'era Berlusconi al potere avevano una sponda sul fronte sinistro dello schieramento politico che oggi non ha più ragion d'essere? "Secondo me - risponde Sabelli - c'è una più generale e progressiva erosione del ruolo della funzione giudiziaria; davanti a un'assoluzione in appello dopo una prima condanna si grida subito allo scandalo e all'errore da punire, senza considerare la fisiologica, diversa lettura dei fatti o delle prove che può avvenire nei vari gradi di giudizio. Gli errori ci saranno pure, ma è sbagliato misurarli su decisioni apparentemente contraddittorie, magari senza nemmeno conoscerne le motivazioni". Se però la magistratura, nel rapporto con la politica, sembra in difficoltà come mai prima d'ora, qualche sbaglio l'avrà pure commesso. O no? "Certo - dice ancora Sabelli, ma non nell'esercizio della giurisdizione. Semmai in certi atteggiamenti, da noi stigmatizzati, di chi trasferisce nel dibattito pubblico l'oggetto delle proprie indagini. Il problema però è continuare a considerarci come parte di un conflitto in corso: non lo siamo né lo vogliamo essere, ma rivendichiamo il diritto di dire la nostra opinione sulle regole e le riforme che incidono sul nostro lavoro. Libero il Parlamento di farle come crede, ovviamente, ma liberi noi di discuterne e mettere in guardia dai pericoli che ne derivano, come nel caso della responsabilità civile. L'idea del magistrato burocrate che parla solo con le sentenze appartiene a un'epoca che non può tornare". Spiega Anna Canepa, segretaria di Magistratura democratica, la corrente più a sinistra dell'Anm, che pure le toghe hanno le loro responsabilità: "Non certo la maggioranza di colleghi che lavorano in silenzio e non hanno alcuna colpa di quanto sta accadendo, pagandone solo le conseguenze. Il danno è derivato anche dalla sovraesposizione e dal protagonismo di chi poi ha scelto di buttarsi in politica, e da certe cadute di professionalità. Neppure questo giustifica però l'atteggiamento di un governo che usa un magistrato come foglia di fico per dichiarare risolto il problema della corruzione, così come non giustificherebbe la reazione sbagliata di uno sciopero, che si rivelerebbe solo un inganno. Per noi e per i cittadini". Giustizia: elenco unico nazionale dei difensori d'ufficio, un anno per requisiti d'iscrizione di Gabriele Ventura Italia Oggi, 24 febbraio 2015 Circolare del Cnf ai presidenti degli ordini territoriali sul riordino della disciplina. Al via l'elenco nazionale dei difensori d'ufficio. I Consigli dell'ordine forense dovranno infatti trasmettere al Cnf gli elenchi dei professionisti iscritti alla data del 20 febbraio 2015. I quali saranno iscritti automaticamente nell'elenco nazionale previsto dall'art. 29, comma 2, delle disposizioni di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale. Lo ha comunicato il Consiglio nazionale forense, tramite una circolare diffusa ieri (3-C-2015), ai presidenti degli ordini territoriali, in base al dlgs n. 6 del 30 gennaio 2015 (entrato in vigore il 20 febbraio scorso), recante il "Riordino della disciplina della difesa d'ufficio ai sensi dell'art. 16 della legge 31 dicembre 2012, n. 247". La normativa dispone infatti che si formalizzino compiti, criteri, attività e strutture correlate alla creazione, tenuta e gestione dell'elenco nazionale dei professionisti disponibili ad assumere le difese d'ufficio. A questo fi ne, nella seduta amministrativa del 20 febbraio scorso, il Cnf ha conferito incarico alla Commissione penale, coordinata da Ettore Tacchini, di elaborare una proposta di attuazione del decreto. Inoltre, come detto, in via transitoria e d'urgenza, il Cnf ha stabilito che i Consigli dell'ordine trasmettano "senza indugio al Cnf gli elenchi dei difensori d'ufficio iscritti alla data del 20 febbraio 2015". La trasmissione dei nominativi negli elenchi potrà avvenire a mezzo posta elettronica certificata dei rispettivi Consigli dell'Ordine alla Pec del Cnf affarigenerali@pec.cnf.it, unicamente attraverso la compilazione del modulo allegato alla circolare, firmato digitalmente dal presidente dell'Ordine degli avvocati. Il modulo consta di 13 campi obbligatori (codice Istat del Consiglio dell'ordine, codice fi scale, nome, cognome, Pec, cellulare, indirizzo, fax, email) e di otto campi eventuali (indirizzo e recapiti dell'eventuale secondo studio). Ricordiamo, infine, che gli avvocati iscritti agli elenchi tenuti dai Coa, iscritti automaticamente nell'elenco nazionale, hanno l'onere di dimostrare, alla scadenza del periodo di un anno dalla data di entrata in vigore del decreto (20 febbraio 2016), la presenza dei requisiti richiesti dalla nuova disciplina per il relativo mantenimento dell'iscrizione. Giustizia: quando i talk show generano mostri, il caso del reato di auto-riciclaggio di Buddy Fox Milano Finanza, 24 febbraio 2015 Raymond Burdon, nell'opera "Gli effetti perversi dell'azione sociale", affermava nel lontano 1981 che quando un Parlamento legifera sotto la pressione dell'opinione pubblica (e delle lobby politiche dei magistrati, aggiungo) lo fa sempre senza considerare gli effetti perversi cui la norma "voluta dal popolo" può dare origine. Non si sottraggono a questa regola le disposizioni sul delitto di auto-riciclaggio recentemente introdotte nel nostro ordinamento penalistico. Esse, a un attento esame, si disvelano, infatti, come la perfetta incarnazione di quello Stato penalistico assoluto idealizzato da Thomas Hobbes nella sua opera "Il Leviatano". Ed è perciò naturale e facile pronosticare che, prima o poi, come succede ogni qual volta lo Stato si fa tiranno, la medesima opinione pubblica che l'aveva invocata a gran voce, insorgerà contro questa legge dai diffusi e pericolosi effetti perversi. La nuova incriminazione, nella quale l'ostacolo alla tracciabilità del provento illecito pare non essere la discriminante, anzi, è, infatti, una fonte quasi inesauribile di effetti perversi, come ha lucidamente denunciato il prof. Filippo Sgubbi, docente di diritto penale all'Università di Bologna, richiamando proprio l'insegnamento di Burdon e la pericolosità dello Stato penalistico assoluto idealizzato da Hobbes. Vediamoli: Effetto perverso numero 1: la nuova norma produce un generalizzato bis in idem (ossia doppia punizione del medesimo fatto) difficilmente compatibile con le elaborazioni giurisprudenziali della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo. Infatti tutti i delitti contro il patrimonio e i delitti che generano profitti saranno sempre accompagnati, d'ora in poi, salvo che il loro provento sia utilizzato a fini edonistici personali, dalla nuova incriminazione, che finirà per fagocitare le singole condotte delittuose che ne sono il presupposto, nella maggior parte dei casi punite con sanzioni inferiori. Effetto perverso n. 2: nel caso di reati perseguibili su querela di parte, il delitto di auto-riciclaggio potrà essere contestato anche in assenza di denuncia della parte offesa e, dunque, in assenza di punizione del reato presupposto, con il perverso risultato che un soggetto, pur non imputabile per il reato che ha dato origine al provento illecito, potrà essere perseguito ove lo utilizzi per fini diversi dal piacere personale. Effetti perversi nn. 3 e 4: l'autore del delitto fonte della provvista auto-riciclata potrà scegliere da quale giudice farsi giudicare, sottraendosi, in tal modo, al giudizio del giudice naturale. Infatti, nella stragrande maggioranza dei casi la pena del delitto presupposto, come abbiamo spiegato, è inferiore a quella fissata per l'auto-riciclaggio, che è reato sempre temporalmente successivo, mentre la competenza territoriale, quando vi è connessione, è del giudice del luogo ove è stato commesso il reato più grave. Basterà, quindi, concludere il primo modesto investimento nel circondario del tribunale considerato meno efficiente per farvi radicare, in prevenzione del rischio di essere successivamente accusati del delitto presupposto, anche il relativo processo. Un'evasione fiscale compiuta a Milano sarebbe giudicata Roma se il primo reimpiego fosse lì avvenuto. Questo fatto comporterà anche un consistente incremento di eccezioni preliminari di competenza, con tutte le implicazioni negative che ne deriveranno in tema di speditezza dei procedimenti penali e carico di lavoro delle Corti. Effetto perverso n. 5: l'autore del delitto di auto-riciclaggio sarà perseguibile all'infinito, in considerazione del fatto che anche il reimpiego degli utili del primo investimento, che avrà avuto origine dal reato presupposto, costituirà analoga fattispecie criminosa. Il reato di auto-riciclaggio costituirà a sua volta reato presupposto per una nuova identica imputazione, e così all'infinito. Effetti perversi n. 6 e 7: il rischio di una incriminazione più grave indurrà il reo a mantenere i proventi del delitto presupposto nel circuito dell'economia sommersa e costituirà anche Un disincentivo a Un loro consumo a fini edonistici, dato che i consumi non giustificati dal reddito dichiarato potranno essere fonte, a loro volta, di una incriminazione per evasione fiscale. Effetto perverso n. 8: non solo la nuova fattispecie di reato finirà per privilegiare, in una scala di valori assai discutibile, i consumi edonistici a discapito degli investimenti, ma tra i consumi edonistici finirà per privilegiare, per gli effetti perversi di cui si è detto ai precedenti numeri 5, 6 e 7, quelli meno traccia-bili, dunque, quelli che favoriscono e alimentano reati ben più gravi, quali, ad esempio, il consumo di sostanze stupefacenti, il gioco d'azzardo, il sesso a pagamento ecc. Ed è proprio quest'ultima constatazione che mette a nudo tutti i limiti del fanatismo ideologico che ha ispirato l'introduzione di tale nuova fattispecie delittuosa, che deve far meditare. Un evasore fiscale che utilizzasse i proventi dell'evasione per consumare droga, per dilettarsi nel gioco d'azzardo, per accompagnarsi a prostitute, andrebbe indenne da incriminazione, mentre colui che reinvestisse quei medesimi proventi nella propria azienda o in un immobile da affittare ad equo canone, o semplicemente li depositasse su un conto corrente remunerato allo 0,01%, ossia in attività assolutamente tracciabili e di per sé lecite, rischierebbe una pesante condanna per auto-riciclaggio. Nella sostanza la norma spingerà chi compie un reato finanziario a riciclare più che ad auto-riciclare il provento del reato, alimentando così quei medesimi circuiti finanziari illegali di cui si avvalgono le organizzazioni criminali internazionali e gli "stati canaglia" per i loro traffici illeciti e le loro attività terroristiche. Naturale conseguenza sarà la necessità di più complesse attività investigative per rintracciare i proventi del reato da sottoporre a eventuale, se prevista, successiva confisca. D'altro canto non ci si deve neppure stupire più di tanto (indignare sì) di tanta insipienza legislativa, questa è una norma che è stata pensata e messa a punto nelle redazioni di talk show televisivi e di giornali che fanno del giustizialismo il loro strumento di marketing per fare più audience e più vendite e che già pregustano i primi eclatanti processi che avranno ad oggetto casi di incriminazione per auto-riciclaggio per accusare i critici e i perplessi, come il sottoscritto, di attiguità e collusività con i fenomeni criminali. Giustizia: ecoreati; Pdl pronta per Aula Senato… le modifiche attese e quelle approvate Public Policy, 24 febbraio 2015 Con l'arrivo al Senato dei decreti Imu agricola e Milleproroghe l'esame della proposta di legge sugli Ecoreati - già approvata in prima lettura alla Camera - è slittata al terzo posto dell'ordine del giorno, dopo i due decreti in scadenza. La scorsa settimana l'assemblea di Palazzo Madama è riuscita a votare una trentina di emendamenti sui circa 200 presentati. Finora, rispetto al testo uscito dalle commissioni Ambiente e Giustizia di palazzo Madama, le principali modifiche hanno riguardato: la definizione della fattispecie di inquinamento ambientale (che dunque riguarda "chiunque abusivamente cagiona una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili: delle acque o dell'aria, o di porzioni estese o significative del suolo o del sottosuolo; di un ecosistema, della biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna"); l'innalzamento delle pene previste in caso di lesioni per inquinamento ambientale. Le principali modifiche attese riguardano: la punizione con la riduzione di un terzo delle pene previste, per i reati di inquinamento e disastro ambientale, nei casi di pericolo di compromissione o deterioramento dell'ambiente; evitare la punibilità per colpa in caso di ravvedimento operoso; la reintroduzione gli illeciti amministrativi, con la possibilità di imporre il ravvedimento operoso nelle sole mani degli organi di vigilanza; l'introduzione del reato di omessa bonifica e di frode ambientale. Diversi esponenti del Pd in commissione Ambiente alla Camera hanno già fatto sapere che se il testo che uscirà dal Senato sarà giudicato positivo i deputati sono pronti a vararlo senza apportare modifiche, così da licenziarlo definitivamente. Giustizia: sentenza Cassazione; al processo Eternit imputazione sbagliata, tutto prescritto La Repubblica, 24 febbraio 2015 Depositate le motivazioni della sentenza con cui la Suprema Corte ha annullato a novembre la condanna di Schmidheiny per disastro ambientale e i risarcimenti per la strage dell'amianto. Intanto Guariniello rilancia: firmata per il magnate la richiesta di rinvio a giudizio nella nuova inchiesta per omicidio in relazione a 258 morti. Il processo torinese sul disastro dell'Eternit è nato con un'imputazione sbagliata che lo ha portato a chiudersi con la cancellazione di condanne e risarcimenti. Quel processo era prescritto prima ancora del rinvio a giudizio dell'imputato, l'imprenditore svizzero Stephan Schmidheiny, che sarebbe dovuto essere accusato di lesioni e omicidi anziché del reato di disastro ambientale doloso. Lo afferma la Cassazione nelle motivazioni, depositate oggi, del verdetto di prescrizione che lo scorso 19 novembre ha, tra l'altro, annullato i risarcimenti alle vittime. Argomenti che contengono una critica significativa all'impostazione data dalla Procura di Torino e accolta prima dal tribunale e poi dalla Corte d'appello. Ad avviso della Cassazione "a far data dall'agosto dell'anno 1993" era ormai acclarato l'effetto nocivo delle polveri di amianto la cui lavorazione, in quell'anno, era stata "definitivamente inibita, con comando agli Enti pubblici di provvedere alla bonifica dei siti". "E da tale data - prosegue il verdetto - a quella del rinvio a giudizio (2009) e della sentenza di primo grado (13/02/2012) sono passati ben oltre i 15 anni previsti" per "la maturazione della prescrizione in base alla legge 251 del 2005". La conseguenza è che, "per effetto della constatazione della prescrizione del reato, intervenuta anteriormente alla sentenza di primo grado", cadono "tutte le questioni sostanziali concernenti gli interessi civili e il risarcimento dei danni". È la conclusione della Corte che, con la sentenza che chiude il procedimento per disastro ambientale, ha ribaltato il giudizio della Corte d'appello. "Il Tribunale - spiega infatti la Cassazione - ha confuso la permanenza del reato con la permanenza degli effetti del reato, la Corte di Appello ha inopinatamente aggiunto all'evento costitutivo del disastro eventi rispetto ad esso estranei ed ulteriori, quali quelli delle malattie e delle morti, costitutivi semmai di differenti delitti di lesioni e di omicidio". Per gli ermellini l'imputazione di disastro a carico di Schmidheiny non era la più adatta da applicare dal momento che la condanna massima sarebbe troppo bassa, per chi miete morti e malati, perché punita con 12 anni di reclusione. In pratica, scrivono i giudici, "colui che dolosamente provoca, con la condotta produttiva di disastro, plurimi omicidi, ovverossia, in sostanza, una strage" verrebbe punito con solo 12 anni di carcere e questo è "insostenibile dal punto di vista sistematico, oltre che contrario al buon senso". Proprio nei giorni in cui la Cassazione pronunciava la sua controversa sentenza, il procuratore torinese Raffaele Guariniello ha chiuso il filone d'inchiesta per il reato di omicidio volontario con dolo eventuale in relazione alla strage di lavoratori e abitanti di Casale causata dalle polveri d'amianto, firmando proprio oggi la richiesta di rinvio a giudizio. Un fascicolo che riguarda la morte di 258 persone decedute tre il 1989 e il 2014 e che ha già aperto una controversia con la difesa del magnate svizzero, secondo cui si tratterebbe di un caso di doppio giudizio che contravviene al principio giuridico del "ne bis in idem", in virtù del quale non si può essere giudicati due volte per lo stesso fatto. Giustizia: processo Eternit, si voleva imporre l'etica violando regole e diritto di Astolfo Di Amato Il Garantista, 24 febbraio 2015 Ieri mattina è stata depositata la motivazione della sentenza Eternit. Come sai sono il difensore dell'imputato, Stephan Ernst Schmidheiny. La lettura della sentenza della Cassazione è utile, sotto molti aspetti, che vanno al di là della mia legittima soddisfazione quale difensore. Come è noto, la sentenza è stata di estinzione del procedimento per prescrizione. Essa precisa chiaramente, nella motivazione, che la prescrizione era maturata prima ancora dell'inizio del procedimento. Leggendo la sentenza, tuttavia, emerge anche che le numerose obiezioni mosse dalla difesa, in ordine alla reiterata violazione dei diritti difensivi ed alla interpretazione delle norme di carattere sostanziale, non erano affatto infondate. La Corte, difatti, avrebbe potuto benissimo motivare con affermazioni tipo "il motivo è chiaramente infondato, ma il reato è comunque prescritto". Viceversa, i motivi di ricorso svolti dalla difesa sono trattati nel modo seguente: l'accoglimento del motivo porterebbe alla necessità di rimettere gli atti al Giudice di merito, esito non permesso attesa ormai l'intervenuta prescrizione del reato. Del resto, la stessa conclusione raggiunta dalla Corte di Cassazione, e cioè quella della intervenuta prescrizione del reato, è il risultato della piena accettazione della tesi difensiva circa la corretta ricostruzione del reato di disastro, la cui consumazione, attraverso una inammissibile manipolazione interpretativa, si era tentato di estendere sino ai giorni nostri. Sul piano generale, va sottolineato che la sentenza della Corte di Cassazione fa giustizia di un luogo comune, frutto di palese ignoranza, ripetuto in modo ossessivo nei giorni immediatamente successivi alla lettura del dispositivo. L'esito processuale della vicenda Eternit, difatti, era stato attribuito ad una pretesa insufficienza dei termini di prescrizione. La Corte di Cassazione ha chiarito che l'esito non è stato affatto determinato da una insufficienza dei tempi di prescrizione, bensì da una corretta ricostruzione del reato di disastro, il quale si consuma nel momento in cui si verifica l'inquinamento ambientale. In questo caso, al più tardi, nel 1986. Questo significa che la dichiarazione di prescrizione sarebbe intervenuta anche con le regole precedenti alla riforma del 2005. Il problema del reato di disastro ambientale è collegato alla circostanza che in alcuni casi, come nel caso dell'amianto, gli effetti nocivi per l'uomo si manifestano a decenni di distanza dalla esposizione. Ma un problema del genere non ha nulla a che vedere con la prescrizione e può essere risolto solo con l'introduzione di una nuova disciplina del reato di disastro ambientale, che tenga conto del tempo che, in alcuni casi, intercorre tra l'inquinamento e il manifestarsi degli effetti. La vicenda, perciò, dimostra ancora una volta che spesso, anzi troppo spesso, invece di porsi il problema di stimolare il legislatore ad elaborare regole chiare ed adeguate ai tempi, si immagina di poter risolvere i problemi trasferendo al Giudice un inammissibile potere punitivo, al di fuori dei limiti normativamente fissati da un corretto uso delle regole sulla interpretazione. Attraverso la libera interpretazione, cioè, si pretende di colpire ciò che si ritiene eticamente riprovevole, negando alla base quelli che sono i princìpi fondamentali del vivere democratico. D'altra parte, è proprio questa pretesa che spiega la noncuranza con cui, prima della Cassazione, sono stati trattati gli argomenti difensivi svolti e che avrebbero dovuto portare ad una piena assoluzione nel merito di Stephan Schmdheiny. Si deve aggiungere che l'idea stessa di un procedimento penale sempre possibile, senza limiti di tempo, che sembra la massima aspirazione di chi chiede l'allungamento dei termini di prescrizione, corrisponde ad una visione autoritaria dell'organizzazione della società, che vuole i cittadini trasformati in sudditi in libertà provvisoria. Giustizia: è giusto condannare i negazionisti al carcere?, due opinioni a confronto Il Fatto Quotidiano, 24 febbraio 2015 Legge varata in Senato: fino a 3 anni di prigione a chi propaganda la discriminazione razziale e nega la shoah. L'11 febbraio scorso è stato approvato dal Senato il disegno di legge sul negazionismo. Ora deve passare alla Camera. I sì sono stati 234, i no 3 e gli astenuti 8. La normativa, che modifica la legge del 1975, la cosiddetta legge Reale, prevede l'aggravante dell'istigazione all'odio, all'incitamento a commettere un delitto, se si fonderà sulla negazione della Shoah, dei crimini di guerra o contro l'umanità. Il ddl approvato da Palazzo Madama prevede 3 anni di pena in più se la propaganda, la pubblica istigazione e il pubblico incitamento a commettere atti di discriminazione razziale si fondano in tutto o in parte sulla negazione della Shoah, dei crimini contro l'umanità e dei crimini di guerra, come definiti dallo Statuto della Corte penale internazionale. Inoltre, è stato ridotto da 5 a 3 anni il limite massimo della pena per chiunque pubblicamente istighi a commettere delitti. In un primo momento, la maggioranza aveva pensato a un reato a sé sul negazionismo dell'Olocausto e di altri crimini di guerra, da approvare in sede deliberante, poi si è optato per l'aggravante da inserire nella cosiddetta legge Reale in modo, ha sostenuto la commissione Giustizia che ha proposto il ddl, da proteggere la libertà di espressione e la ricerca storica. Nella relazione illustrativa si legge, inoltre, che la scelta è stata dettata pure dalla necessità di rendere omogenee le pene relative all'istigazione a delinquere, previste da un'altra legge. "Perché sì". Lo sterminio non è un'opinione ma un fatto storico, di Furio Colombo Credo fermamente nella necessità di una legge che condanni la negazione della Shoah. Dirò subito che la legge a cui mi riferisco, non ha nulla a che fare (salvo una generica intenzione) con la piccola modifica alla legge contro il razzismo che il Senato ha votato nei giorni scorsi, che è stata impropriamente discussa o celebrata come "legge contro il negazionismo" e che invece prevede soltanto che negare l'Olocausto sia una aggravante di altro reato contro i diritti umani e civili. Mi importa anche precisare che la mia persuasione (punire il negazionismo si deve, e se ne deve impedire la presentazione e difesa, nei mezzi di comunicazione e nelle scuole) non vuole affatto indicare sospetto di indifferenza o giudizio di complicità per coloro che sostengono la piena libertà sempre e comunque. La discussione infatti è possibile e ha senso solo fra persone che hanno la stessa coscienza dell'immensa gravità del delitto, e la stessa conoscenza e condivisione degli eventi sia storici che testimoniati da vittime sopravvissute e dalle confessioni, rendiconti e diari degli esecutori. Infatti il punto che divide persone della stessa civiltà antirazzista e antifascista è se si possa negare, sia pure in un solo caso, quella piena libertà di opinione che è stato tra i principali ideali della lotta di liberazione e di guerra contro il fascismo e il nazismo. Il mio modo di affrontare il problema senza scalfire la libertà non è il carattere iniquo e offensivo della negazione dello sterminio di un popolo, deliberato, organizzato ed eseguito, dopo averlo stabilito per legge, in Germania, in Italia e poi in Europa. L'argomento su cui intendo appoggiare l'argomentazione che chiede la proibizione e la pena, è che la Shoah non è una opinione, ma una catena di fatti: leggi, persecuzioni, deportazioni, limitazioni estreme alle minime condizioni di vita e poi morte, che non sono uno fra tanti aspetti di regimi sconfitti. Sono il fondamento di quei regimi: una dichiarazione aperta e pubblica di guerra contro gli ebrei e in difesa del proprio popolo. Ciò rende tutte le altre vicende belliche (dunque sangue, morte, soldati e popoli decimati, città distrutte) colpa e responsabilità degli ebrei, in documenti formali, ufficiali, tuttora esistenti e mai negati, destinati a moltiplicare l'antisemitismo, dunque la "necessaria persecuzione", nel futuro. Il negazionismo cambia la storia sottraendo fatti e cancellando prove che sono sempre state esibite e accettate dagli autori dei fatti negati. Il tentativo di cancellare quei fatti (non altri) ha dunque lo scopo preciso, politico e fattuale, di cambiare la storia. E cambiarla nel senso di consentire e giustificare una continuazione dell'antisemitismo che dichiara gli ebrei e il loro "complotto" la causa di tutti i patimenti dei popoli. Qui occorre prestare attenzione al fatto che il negazionismo non si è mai verificato per nessun'altra vicenda storica. Esempio, i gulag sovietici, mille volte evocati nelle polemiche per e contro il comunismo, non sono mai stati negati, perché mancava qualunque ragione fattuale (non di opinione) per farlo. Si conosce un solo fatto, opposto nel segno ma identico nella intenzione politica, e dunque senza alcuna dignità di libera opinione: la negazione del genocidio del popolo armeno da parte dei turchi, Stato e popolo. Come è noto la Turchia è isolata in questa sua negazione del crimine, che non è accettata da alcun governo e alcuna cultura. Ma il negazionismo (che, come si vede, è violento antisemitismo che tenta il travestimento da argomento storico) ha un evidente scopo in più, che lo separa dalle opinioni e lo colloca nei fatti: la delegittimazione di Israele. Non perché Israele si fondi o dichiari di fondarsi sulla Shoah. Ma perché è necessario screditare Israele, terra e popolo. L'esistenza dello Stato di Israele è diventato un ostacolo troppo forte per una nuova Shoah. Ed è utile, per ogni vero nemico degli ebrei in ogni parte del mondo, caricarli di una nuova accusa che li separi e li indichi come autori infidi di false verità, dopo avere fallito, dopo la diffusione dei "Protocolli dei Savi di Sion" sul presunto potere ebreo nelle banche e il presunto controllo ebreo sui media. Stiamo parlando di fatti, non di opinioni, come non è una opinione l'uccisione bene organizzata dei giornalisti di Charlie Hebdo, e dei giovani ebrei del supermercato kosher di Parigi. "Perché no". Così ci mettiamo sullo stesso piano dei boia di Charlie, di Massimo Fini Il negazionismo è un reato che - come ogni reato d'opinione - non dovrebbe esistere in una democrazia. Una democrazia è tale infatti quando accetta anche le visioni che le paiono più aberranti. Questo è il prezzo che paga a se stessa. Altrimenti - sindacando su cosa si può oppure non si può dire - si trasformerebbe in una teocrazia laica. Con il reato di negazionismo, oltretutto, si impedisce anche la ricerca storica. Lo studioso David Irving - reo di aver scritto un libro negazionista, anzi secondo me parzialmente negazionista - è stato arrestato nel 2005 in Austria e condannato a 3 anni di carcere (che poi conta relativamente se siano stati ammazzati 6 milioni di ebrei oppure 4, la gravità è nel fatto di essere uccisi in quanto ebrei, o palestinesi, o malgasci). Invece il diritto di ricerca storica è una delle grandi conquiste dell'Illuminismo, oppure vogliamo tornare ai tempi del cardinale Bellarmino, che tappava la bocca a Galileo? Tra l'altro già oggi il nostro codice è pieno di reati liberticidi - per esempio il vilipendio della bandiera, delle Forze armate e del capo dello Stato - che potevano pure essere compresi in periodo fascista, ma che in democrazia la contraddicono. Per non dire poi della legge Mancino sull'istigazione all'odio razziale. L'odio è un sentimento, come la gelosia, e non può essere impedito. I peggiori regimi totalitari puniscono le azioni, le opinioni, ma non mi risulta che abbiano mai messo le manette ai sentimenti. Io ho il diritto di odiare chi mi pare, ma è ovvio se gli torco anche solo un capello devo finire in gattabuia. L'unico vero limite che può porre una vera democrazia è quello della violenza. Si sostiene che la legge sul negazionismo colpisca "atti lesivi della dignità umana". Io dico che o i principi vengono sostenuti integralmente oppure, anche con una sottilissima deroga e con le migliori intenzioni, si apre una breccia in cui sai dove cominci ma non dove vai a finire. Se quello è un "atto lesivo", allora non si potrà dire più nulla. Tra l'altro il grande movimento di "opinione" a favore di una legge sul negazionismo e la tambureggiante campagna sulla Shoah, che dura da decenni, hanno finito sicuramente per rafforzare l'antisemitismo. E, al riguardo, lo storico americano ebreo Norman Gary Finkelstein ha scritto - con molto coraggio - "L'industria dell'Olocausto". Dobbiamo accettare anche la parola che ci fa orrore. La democrazia deve essere tollerante, e la tolleranza della democrazia non deve essere scambiata per debolezza. È anzi la sua forza. Se una democrazia ritiene di avere valori così superiori tali da imporre veti alle opinioni, allora non è democrazia ma totalitarismo mascherato. Perché ha tanto indignato l'attacco a Charlie Hebdo? Perché è stato un attacco violento e intollerante contro un'opinione seppure per molti repellente. Vogliamo metterci sullo stesso piano? Giustizia: ma come faranno a rinviare a giudizio Bossetti senza uno straccio di prova? di Tiziana Maiolo Il Garantista, 24 febbraio 2015 "Confessa, così avrai lo sconto di pena". "Non confesso per la mia famiglia". Massimo Bossetti e i suoi compagni di cella devono essere proprio diversi dagli altri. Non è mai esistito infatti un detenuto che non si dichiari innocente, né uno che si permetta (a meno che non sia un infiltrato di Procura, ma prenderebbe subito un fracco dì botte) di suggerire all'altro la "confessione". Pure, alla vigilia della richiesta di rinvio a giudizio per il carpentiere di Mapello", è il Corriere della Sera a incaricarsi di spargere l'ennesima goccia di veleno, stillata dagli atti della Procura, riportando tra virgolette una frase di cui si dice però che sarebbe "il senso", più o meno, di quanto detto da Bossetti ai suoi compagni di detenzione. La pervicacia con cui, giorno dopo giorno, gli investigatori stanno disseminando i giornali di ipotesi spacciate per "prove" che inchioderebbero l'indagato, è talmente insistente da far pensare che, a otto mesi dall'arresto di Massimo Bossetti, i magistrati dell'accusa non siano così sicuri di andare a un processo con prove inoppugnabili. Il Pubblico Ministero Letizia Ruggeri del resto ha lasciato scadere i termini per andare a un processo immediato, un rito al quale l'accusa accede quando ritiene di aver in mano prove consistenti. E ora sta cercando con tutte le sue forze di celebrare il processo mediatico, che condizioni l'opinione pubblica in modo da trasformarla preventivamente in una grande corte d'assise composta di madri e padri di famiglia virtuosamente indignati per le gesta del "mostro". E veramente un'inchiesta anomala, questa sulla morte di Yara Gambirasio, una ragazzina misteriosamente sparita il 26 novembre del 2010 e ritrovata morta in un campo tre mesi dopo. A oggi non si sa ancora quando, dove e perché la giovane ginnasta sia stata uccisa, e neppure se realmente e volontariamente qualcuno le abbia tolto la vita. I magistrati, dopo un primo periodo di confusione (con carabinieri e questura che litigavano tra loro) e la gaffe dell'arresto in mezzo al mare del ragazzo marocchino Fikri, si sono buttati sulla pista del dna e sono arrivati a Bossetti. A quel punto, e solo dopo quel momento, hanno cominciato le vere indagini, con circa quattro anni di ritardo. Ma non hanno indagato ad ampio spettro, ma solo in una direzione, cercando cioè, anche in violazione della procedura, solo la conferma della colpevolezza di Bossetti. Un esempio? Diverse telecamere della zona tra la palestra e la casa di Yara hanno ripreso il traffico automobilistico della sera in cui la ragazzina sparì: ma è possibile che, secondo le indagini, passassero in quei momenti solo furgoni bianchi? Inoltre: chiunque sia responsabile, Bossetti o altri, la famiglia di Yara e tutti noi vorremmo sapere di che cosa è morta la ragazza. Ipotermia? Strano, perché quando si ha freddo ci si rannicchia in posizione fetale, e Yara invece era supina, con le braccia e le gambe allargate. E le ferite di arma da taglio, non mortali, che cosa significano? E perché gli indumenti non presentano tagli in corrispondenza di quelli trovati sul corpo? La difesa di Bossetti ha qualche idea al riguardo, ma pare non interessi a quasi nessun giornalista. E perché non viene sentito Ivo Rovedatti, il pilota della protezione civile che ha sorvolato diverse volte con l'elicottero il campo di Chignolo dove la ragazza è stata trovata morta e non l'ha mai vista? E che dire della signora Vilma Cuttini che ha raccontato di quel ragazzo romeno che lei conosceva, che aveva una ragazza che si chiamava Yara, ginnasta e residente in provincia di Bergamo? Quel ragazzo è stato visto l'ultima volta il 26 novembre 2010, quando si è accomiatato dalla signora Cuttini, dicendole che sarebbe andato a salutare Yara per poi recarsi in Romania. Neppure questa signora è stata mai sentita dagli inquirenti. Chissà se la Gip Ezia Maccora, esponente di spicco di Magistratura Democratica, che dovrà decidere sul rinvio a giudizio di Bossetti, prima di mandarlo a processo, si ricorderà di alcuni suoi "maestri" come quel Pino Borre, che fu presidente di Md, e che è sempre stato talmente garantista da essere considerato un eretico nel mondo della sinistra? Giustizia: Vittorio Emanuele in cella 7 giorni da innocente, risarcito con 40 mila euro di Marisa Fumagalli Corriere della Sera, 24 febbraio 2015 Incarcerato, umiliato, assolto. Ed ora anche risarcito con 40.000 euro, che saranno devoluti a sostegno di un ente specializzato nell'assistenza di chi soffre "a causa delle ingiustizie". Il principe Vittorio Emanuele si rilassa con la moglie Marina, la nuora Clotilde e i nipoti, sulle nevi di Gstaad dove c'è la residenza di montagna della famiglia Savoia. Dopo la pubblicazione della notizia, ha parlato con il suo avvocato Francesco Murgia, avvertendolo che avrebbe affidato il suo commento a un comunicato stampa. "Sono felice - scrive - perché oggi, attraverso un segno concreto che dimostra ancora una volta come quella vicenda sia stata solo una fiera di assurdità e di sopraffazione, giustizia si compie ancora una volta. Giustizia per me, giustizia per la mia Casa, giustizia per i miei cari e per coloro che mi sono stati vicini in questi anni". La vicenda giudiziaria di Vittorio Emanuele di Savoia comincia nel 2006 quando il pm Henry John Woodcock ne ordina l'arresto in carcere contestandogli una serie di reati infamanti: associazione a delinquere per sfruttamento della prostituzione, corruzione, gioco d'azzardo. Clamore mediatico, reputazione a pezzi. Risultato? L'inchiesta va avanti, si divide, si ingarbuglia e nel settembre del 2010 il principe viene assolto "per non aver commesso il fatto". Quindi, la richiesta di indennizzo alla Corte d'Appello di Roma, andata a buon fine. Quattro anni per la sentenza, cinque per il risarcimento. Sentiamo al telefono il figlio Emanuele Filiberto: "Sono molto felice, ma provo un senso di tristezza di fronte ai tempi lunghi della giustizia in un Paese democratico come l'Italia. Penso alle persone che non hanno i mezzi per difendersi, per intentare cause civili di risarcimento". "Ricordo - continua Savoia junior - che mio padre ha fatto 7 giorni di carcere, 1 mese agli arresti domiciliari, 3 mesi di divieto d'espatrio". E dire che i Savoia sono riusciti a rientrare in Italia dopo mezzo secolo di esilio (con l'abrogazione della XIII disposizione transitoria della Costituzione); poi, il principe c'è rimasto "forzatamente". "I 40.000 euro versati dallo Stato - continua il figlio - sono una somma irrisoria se si considera la montagna di quattrini spesi per l'inchiesta giudiziaria. Ore e ore di intercettazioni, anche in cella dove il pm sperava di carpire prove inesistenti. Mio padre, che ha 78 anni, uscì dal carcere moralmente e fisicamente distrutto. Non si è più ripreso". Anche il duca Amedeo d'Aosta, cugino di Vittorio Emanuele, rivolge un pensiero di solidarietà. "Hanno fatto bene a risarcirlo ed è poco rispetto al danno che ha subito", dice superando la vecchia ruggine tra parenti rivali, aspiranti al "trono dei Savoia". C'è tutto in Cifra Reale, il libro che Amedeo ha appena pubblicato. E Andrea Rosso, segretario del Movimento monarchico italiano, pur soddisfatto per "il nostro candidato re", commenta: "Atto dovuto, ma non sono i soldi che risarciscono la reputazione infangata". Giustizia: 40mila euro di risarcimento ai Savoia… li paghiamo noi, non il pm Woodcock! di Piero Sansonetti Il Garantista, 24 febbraio 2015 Nessuno sa bene come si scrive il suo nome, e tantomeno come si pronuncia. Tutti sanno però come vanno a finire, in genere, le sue inchieste: archiviazione. È rarissimo che si arrivi al processo vero e proprio, e se ci si arriva, di solito, c'è l'assoluzione. Però le sue inchieste finiscono tutte sulla prima pagina dei giornali, grazie alla celebrità degli imputati. Il suo nome, comunque, si scrive con due H, una K, una W, una J, una ispsilon e un gran numero di O: Henry John Woodcock. E si pronuncia udcoc, con la u un po' aspirata. È tra i pochi Pm a non aver mai protestato contro la prescrizione. Per Woodcock è un problema che non si pone: il suo lavoro si conclude, di norma, molto prima che scattino i tempi della prescrizione. A occhio, è un tipo che non ci tiene molto alla condanna: ci tiene all'incriminazione. Potremmo dire che tecnicamente non è forcaiolo, è solo manettaro. Ieri è tornato alla ribalta perché lo Stato dovrà pagare 40 mila euro di risarcimento, per ingiusta detenzione, al figlio dell'ex re d'Italia, cioè a Vittorio Emanuele di Savoia, che nel 2006 fu fatto arrestare proprio da Woodcock e accusato di cose orrende (associazione a delinquere, sfruttamento della prostituzione e robe simili) e invece era innocente e quella inchiesta per lui (e per un altro bel gruppetto di persone, delle quali parecchie piuttosto note) fu un grosso guaio. Ora il figlio del re avrà questo "scalpo" di 40 mila euro e glielo pagheremo noi cittadini, con le tasse. Se andate a leggere su Wikipedia la biografia di Woodcock vi divertirete abbastanza. Ha iniziato un gran numero di inchieste tutte ad effetto (vallettopoli, vip, Jene 2, P4) ma tutte sono state sommerse dalle archiviazioni. Leader politici, attori ed attrici, giornalisti, gente di ogni specie passate ben bene al tritacarne, e poi un Gip, o una Corte, che prende le carte in mano e chiede scusa agli imputati. Il bello è che tutto ciò non c'entra niente con la responsabilità civile dei magistrati. Prevista solo per le inchieste avviate da un Pm ingiustamente per "dolo o colpa grave". Qui il problema della legittimità dell'inchiesta non è stato neppure esaminato, siamo solo alla "ingiusta detenzione", e quindi, anche se passerà) la legge sulla responsabilità civile, toccherà sempre allo Stato pagare per la leggerezza dei Pm. Io allora ho una proposta. Così, da profano (diciamo pure un po' populista, ma per una volta posso fare anch'io il populista?). Quando un Pm inizia la sua carriera, gli viene consegnato un blocchetto con tanti buoni (10, 20: decideremo poi il numero). Ogni volta che un suo arresto si rivela ingiustificato, il Pm deve consegnare un buono. Quando li ha finiti, non può arrestare più nessuno. E così almeno si da una regolata. Perché il problema di Woodcock (che tra l'altro, personalmente, è una persona simpaticissima) non è che deve pagare per i suoi errori (figuriamoci: chissenefrega!), ma è che nei prossimi mesi ed anni continuerà a poter arrestare chi gli pare e piace. E lo farà: vedrete se lo farà! Dovremo pure inventarci un meccanismo per frenare questa frenesia, no? Il sistema del blocchetto mi pare un buon sistema. Lettere: lo stato delle carceri più grave dei commenti su Facebook di Dante Benelli www.laprovinciacr.it, 24 febbraio 2015 Chi scrive è fermamente convinto del fatto che non sono le affermazione lanciate su Facebook in occasione del suicidio di un detenuto a ledere l'immagine dell'amministrazione penitenziaria ma sono le condizioni degradanti in cui la popolazione carceraria è permanentemente costretta a vivere. Noti personaggi della politica e dell'amministrazione gettano in pasto all'opinione pubblica il noto principio costituzionale della rieducazione del condannato e nel contempo mantengono stipati e ampiamente in soprannumero decine di migliaia di detenuti costretti a vivere in anguste celle diroccate e maleodoranti impiegando effetti letterecci consunti, tutte questioni aggravanti che contribuiscono ad abbruttire e avvilire il cittadino che ha sbagliato e che per lui la legge prevede la restrizione della libertà. In questo universo reso invivibile dall'ipocrisia della politica dominante anche chi è preposto alla vigilanza ne paga le conseguenze e ad essi va il mio plauso per il lavoro che quotidianamente compiono in ambienti estremamente degradati. In un Paese che si ritiene civile il detenuto dovrebbe fruire dei cosiddetti spazi minimi vitali, abitare quindi una cella con adeguati servizi, idoneo vettovagliamento e vigilanza conformata al numero dei detenuti. Sardegna: più detenuti al lavoro nelle Colonie penali, oppure ridare terreni a disoccupati Dire, 24 febbraio 2015 "Nelle tre colonie penali presenti in Sardegna, a fronte di circa 750 posti disponibili, attualmente vi lavorano solo 284 detenuti. Tale situazione determina un collasso delle attività lavorative e produttive, con ripercussioni negative sulle finanze dello Stato". A poche settimane dall'allarme lanciato dal consigliere regionale Maria Grazia Caligaris, presidente dell'associazione "Socialismo diritti riforme", la situazione delle colonie penali sarde sbarca a Montecitorio, dove la deputata Romina Mura ha presentato un'interrogazione al Ministro della Giustizia Andrea Orlando per prendere atto di una "situazione paradossale che è stata denunciata più volte, senza che sia mai stata adottata alcuna misura per risolvere un problema che risulta insostenibile anche agli occhi dell'opinione pubblica". Gli ultimi dati del Ministero della giustizia indicano "una condizione critica delle colonie - chiarisce Mura - a Is Arenas (Arbus), 2.700 ettari di territorio, compresi spiaggia e terre incolte, lavorano 72 detenuti per 176 posti disponibili; non è diversa la situazione di Mamone (a Lodè) dove per la stessa estensione territoriale sono presenti 123 reclusi, mentre la capienza regolamentare è di 392. Analogamente a Isili (800 ettari) lavorano 89 ristretti per 180 posti". Per Mura sarebbe dunque "opportuno introdurre la possibilità di consentire l'accesso alle colonie penali situate in Sardegna ai detenuti che debbano scontare una pena residua fino a 6-8 anni (mentre attualmente per accedervi la pena inflitta o residua non deve superare i quattro anni)". In alternativa, per il deputato del Pd, si potrebbero svincolare i terreni non utilizzati, "restituendoli alle comunità locali, al fine di valorizzare le aziende agricole e favorire nuove iniziative imprenditoriali da parte di giovani e disoccupati". Liguria: in tre anni oltre 5.000 condannati hanno usufruito di misure alternative www.genovapost.com, 24 febbraio 2015 "Tre anni di patto di sussidiarietà, dal 2012 al 2014, in campo penale": la Regione Liguria, con l'assessore alle Politiche Sociali Lorena Rambaudi ha fatto il punto, in mattinata, alla Biblioteca Berio di Genova dove si è tenuto il convegno "Reclusi - Inclusi: interventi sociali in ambito penale". "Un momento seminariale di riflessione a fine mandato, non solo per presentare gli interventi sociali collegati al carcere, alle persone messe alla prova e a quelle recluse e realizzati, con ottimi risultati, in questi anni, ma anche per confrontarsi, apportare eventuali correttivi e lanciare nuove idee e progettualità per i prossimi anni", ha spiegato Rambaudi. "Utilizzando lo strumento dei patti di sussidiarietà, previsto dalla normativa nazionale, è stata creata una rete con tutti i soggetti del terzo settore che operavano già dentro e fuori le carceri per realizzare progetti ed interventi per migliorare la qualità della vita delle persone recluse e agevolare il loro reinserimento sociale. Grazie alla rete, gli operatori hanno impostato il lavoro su un sistema complessivo progettuale e non su singoli progetti, riuscendo così a mettere in campo interventi concreti e mirati con un costo medio ad intervento molto basso rispetto al rapporto tra risorse complessive utilizzate e persone coinvolte". "In tre anni 5.612 beneficiari totali: 4.004 beneficiari diretti (persone detenute, in esecuzione penale esterna e in misura alternativa, 3.613 maschi e 391 femmine, 3.915 adulti e 89 minori, 2.043 italiani e 1.961 stranieri, 2.038 beneficiari con attività dentro le carceri e 1.966 beneficiari con attività fuori le carceri) e 1.608 beneficiari indiretti (familiari di persone sottoposte a misure penali o ex detenuti). Alla rete nel 2014 hanno aderito 20 enti del terzo settore (31 nel 2012 e 28 nel 2013). Sono state coinvolte tutte le carceri liguri. Principali tipologie di attività svolte: informazioni e consulenza, colloqui individuali e ascolto, sostegno rete famigliare, mediazione penale, laboratori, attività sportiva e artistica, supporto scolastico e formativo, residenzialità, inclusione lavorativa. Suddivisione territoriale degli interventi: 67% Genova e Tigullio, 16% Imperia, 9% La Spezia, 8% Savona". "Tutte le abilità al centro, finanziato dal fondo sociale europeo 2007/2013 - spiega Rambaudi - costituisce un intervento regionale di respiro particolarmente ampio ed è finalizzato a dar vita a progetti integrati, da attivare sui territori provinciali, volti ad offrire ai soggetti svantaggiati esperienze innovative e personalizzate di accompagnamento permanente al lavoro e di reale integrazione nei processi produttivi, con l'obiettivo di consolidarne la presenza sul mercato del lavoro e di creare, per gli stessi, nuova occupazione, intervenendo su più fronti in una logica di sistema. Sono stati finanziati 10 progetti che coinvolgono soggetti in esecuzione penale o ex detenuti, per un totale di circa 900 destinatari. Gli interventi sono di carattere integrato e quindi sono state attivate più tipologie di azioni concatenate tra loro e finalizzate all'inserimento socio lavorativo dei destinatari: orientamento, bilancio di competenze, counseling, formazione, laboratori protetti, work experience, inserimento lavorativo (con sostegno e tutoraggio), creazione di nuove imprese/rami di azienda. A livello nazionale oggi la Liguria è vista come un modello di riferimento, grazie agli interventi di inclusione sociale e cittadinanza attiva messi in campo. Sono stati coinvolti circa 90 ragazzi". Toscana: sulla chiusura dell'Opg più ritardi che certezze, il ministero striglia la Regione di Ylenia Cecchetti La Nazione, 24 febbraio 2015 Il tempo stringe e le risposte non arrivano. Mancano poco meno di 40 giorni alla data stabilita per la chiusura degli opg, ma la sensazione è che ancora non si abbiano le idee chiare: né sul futuro dei 48 internati toscani ospitati all'interno della struttura montelupina né sulla nuova destinazione della Villa Medicea. Ma questa è un'altra storia. Nel corso del convegno "Il paziente autore di reato in misura di sicurezza: caratteristiche cliniche e prospettive" che si è svolto ieri all'Agenzia per la formazione di Sovigliana, ci si è concentrati sul presente, più che guardare al futuro. Sul percorso che la Regione da oggi deve intraprendere per arrivare al 31 marzo. Una fase ambigua e disseminata di punti interrogativi. Poche certezze, tante perplessità. La giornata di ieri è stata l'occasione per gli operatori delle professioni sanitarie operanti nell'ambito psichiatrico giudiziario, per mettere a confronto esperienze e buone prassi di altri paesi europei. Ma anche fare chiarezza su cosa li aspetta dal 1 aprile in poi. Quali sono le Rems (residenze per l'esecuzione della misura di sicurezza sanitaria) individuate in Toscana? E chi ne garantirà la sorveglianza? Nell'aula magna Alessandro Reggiani si è cercato di fare il punto sullo stato del processo di superamento degli opg e sull'allestimento delle nuove strutture alternative previste dalla legge. Ma con scarso risultato. La mancata programmazione della Regione Toscana sulle cosiddette "strutture di transizione", infatti, ha gettato nell'imbarazzo perfino Teresa Di Fiandra del Ministero della salute direzione generale della prevenzione. "In attesa dell'individuazione delle Rems abbiamo invitato le Regioni a tracciare almeno una soluzione transitoria - ha detto preoccupata la Di Fiandra - Ad indicare una struttura rispettosa della dignità e del diritto alla cura della persona che possa prendere in carico gli internati toscani. Ma ad oggi non c'è alcuna proposta". Quella del Ministero è una voce autorevole; insomma una bella tirata d'orecchie alla Regione. "Entro il 15 marzo dobbiamo avere il quadro generale di ogni singola Regione. E la Toscana non dà risposte: una realtà tra le più grandi e all'avanguardia, che in questo caso dimostra di non essere pronta al superamento. Mentre l'Emilia Romagna rispettando le scadenze si sta preparando all'inaugurazione della sua Rems, a Empoli si contano le grandi assenze. Indicativa quella dell'assessore regionale alla salute Luigi Marroni e di Daniela Matarrese (responsabile settore programmazione e organizzazione delle cure della Regione) che sarebbero dovuti intervenire ieri. A parare il colpo, nel pomeriggio ci ha pensato Simone Siliani dell' ufficio di gabinetto della Regione. "Domani renderemo nota la nostra proposta - ha assicurato Siliani. È stata indetta una riunione per chiudere sulla vicenda Rems e condividere il piano che adotterà la Toscana in vista del superamento degli Opg". D'altronde "questo è un delicato momento di passaggio - come ha affermato la Monica Piovi, direttore Asl 11, che conferma: stiamo aspettando indicazioni regionali sul tema e stiamo facendo il punto sulle attività erogate all'interno dell'opg ma anche monitorando quello che accade a livello nazionale". Veneto: il presidente Zaia; leggi più dure e più agenti, carceri nelle caserme dismesse Giornale di Vicenza, 24 febbraio 2015 Ripete il suo ritornello, Luca Zaia: "Leggi più severe, più forze dell'ordine e nuove carceri". Così interviene di nuovo sul tema sicurezza il presidente della Regione Veneto Luca Zaia. Per dichiararsi d'accordo con la posizione del presidente dell'Ordine degli avvocati di Vicenza Fabio Mantovani. "La rivincita dello stato di diritto sulla criminalità passa attraverso una serie di azioni coordinate e dettate dal buon senso - dice Zaia. Occorre che siano in linea almeno tre fattori: l'inasprimento delle leggi, il rafforzamento delle forze dell'ordine e l'utilizzo dell'esercito come supporto sul territorio, la realizzazione di nuove carceri. Senza uno di questi elementi, contemporanei e collegati tra loro, lo Stato continuerà a perdere e a mettere a repentaglio la sicurezza dei cittadini e l'incolumità dei suoi servitori, come nel caso del brigadiere investito nel trevigiano da una banda di albanesi in fuga". "Senza leggi più dure - continua, o almeno applicando fino in fondo quelle che ci sono ed evitando che un condannato riesca a risparmiare anche un solo giorno della sua condanna, vengono a mancare sia l'effetto deterrente che la certezza della pena e questo convince i delinquenti di rischiare poco o nulla e li scatena". Secondo Zaia insomma "se le carceri italiane non sono nemmeno in grado di detenere i condannati sulla base delle vigenti leggi colabrodo è evidente che occorre costruirne delle altre. Non devono essere hotel di lusso, ma luoghi dignitosi dove chi ha sbagliato paghi il suo conto. Non occorrono miliardi, perchè la struttura deve essere dignitosa ma può essere anche spartana e perchè si può pensare al ripristino di tanti siti militari dismessi, invece che proporli per ospitare migranti". Campania: il bilancio del Coni "aumenta l'attività sportiva nelle carceri della regione" Napoli Magazine , 24 febbraio 2015 Continuano a crescere i numeri dell'attività sportiva svolta nelle carceri campane, iniziata nel 2012. Ieri mattina, nel corso di un incontro al quale hanno preso parte il presidente del Coni Campania, Cosimo Sibilia, il dirigente del Ministero della Giustizia incaricato del progetto sport nelle carceri, Claudio Flores, i dirigenti degli istituti penitenziari della Campania e i tecnici che già svolgono attività nelle strutture, oltre ai delegati Coni della regione e al vicepresidente vicario del Coni Campania, Amedeo Salerno, è stato tracciato un bilancio dei primi anni di attività e sono stati individuate le criticità da superare per permettere uno sviluppo sempre maggiore del progetto. "Da quando è partita questa iniziativa, che vede i nostri tecnici impegnati in modo volontario e gratuito, i risultati sono stati brillanti - ha spiegato Sibilia. Il nostro obiettivo è far crescere ancora il progetto, la cui importanza è stata sottolineata diverse volte dal presidente nazionale del Coni, Giovanni Malagò". "Non ci aspettavamo questo successo quando tutto iniziò tre anni fa - ha aggiunto Flores. Questo è stato possibile grazie all'impegno dei tecnici qualificati del Coni. Al momento abbiamo alcune strutture, come Poggioreale, Secondigliano, Pozzuoli, Nisida, Bellizzi Irpino, Salerno ed Eboli, in cui l'attività va avanti da anni e va solo consolidata, e altre in cui sarebbe importante riuscire ad entrare e grazie all'impegno dei nostri dirigenti e del Coni riusciremo a sviluppare il progetto in futuro. Penso ad esempio alla provincia di Caserta, e a quella di Benevento, dove a breve potremo iniziare delle attività". Da sottolineare che i detenuti del carcere di Eboli, in cui già si svolge attività sportiva, saranno impegnati a breve nel recupero di strutture sportive esterne al carcere, mentre la struttura di Carinola, ancora non impegnata nel progetto, ha a disposizione una palestra con attrezzi che sono stati donati dalla moglie dell'attore Pietro Taricone, Kasia Smutniak. In totale sono dieci le strutture penitenziarie coinvolte e in sette di queste l'attività va già avanti da diversi anni, coinvolgendo centinaia di uomini e donne in regime di detenzione. Napoli: Poggioreale, l'inchiesta sui pestaggi nella "cella zero", indagati quattro agenti di Antonio Scolamiero Corriere del Mezzogiorno, 24 febbraio 2015 Sono quattro le persone finite sul registro degli indagati per i presunti pestaggi all'interno del carcere di Poggioreale. Sono agenti di polizia penitenziaria. Stiamo parlando dell'inchiesta sulle presunte violenze consumate all'interno della cosiddetta "cella zero", luogo di soprusi e botte da orbi all'interno della struttura penitenziaria napoletana, venuta alla luce dopo le denunce il garante dei detenuti della Regione Campania Adriana Tocco. Nel suo ufficio sono arrivate oltre 150 testimonianze dei detenuti. Sono quattro le persone finite sul registro degli indagati per i presunti pestaggi all'interno del carcere di Poggioreale, sono tutti appartenenti alla polizia penitenziaria. I reati contestati; abuso di autorità, sequestro di persona e maltrattamenti. Stiamo parlando delle presunte violenze consumate all'interno della cosiddetta "cella zero", luogo di soprusi e botte da orbi all'interno della struttura penitenziaria napoletana, venute alla luce dopo le denunce il garante dei detenuti della Regione Campania Adriana Tocco. L'inchiesta prende le mosse lo scorso anno: la procura di Giovanni Colangelo recepisce le oltre 150 denunce che gli ex detenuti hanno messo nero su bianco a inoltrato anche all'ufficio del garante. E approfondisce i racconti che le sono pervenuti. Indagine complessa e difficile quella dei sostituti Valentina Rametta e Giuseppina Loreto, coordinate dall'aggiunto Alfonso D'Arino. Ma la vicenda è tutt'altro che chiusa, le indagini proseguono percepire se si sia trattato solo di episodi sporadici oppure di una condotta stabile riservata ai detenuti. Una vicenda, questa dell'esistenza della "cella zero" che allora come oggi suscita grande stupore e l'inchiesta da atto del lavoro del lavoro dell'ufficio del Garante. "L'indagine della Procura partenopea - commenta la garante Adriana Tocco - in seguito alla presentazione delle mie segnalazioni, ha permesso di far cambiare aria a Poggioreale". "Sono stati cambiati i vertici dell'Istituto (a maggio del 2014 il Dap aveva deciso di avviare le procedure per il trasferimento della direttrice, Teresa Abate, ndr), della Polizia Penitenziaria, dell'area educativa che con l'apertura delle celle e l'aumento di varie attività, mi hanno permesso di riscontrare il fatto che non ricevo più denunce, né verbali né scritte per abusi di violenze". Intanto, sulla vicenda della "cella zero" nei giorni scorsi è stato pubblicato il documentario pubblicato realizzato dal fotoreporter Salvatore Esposito che attraverso le testimonianze di numerosi ex detenuti del carcere partenopeo - ricostruisce una realtà agghiacciante, tragica e, allo stesso tempo, drammatica raccontata dai protagonisti dei presunti pestaggi nel carcere partenopeo. Padova: carcere Due Palazzi senza acqua calda per tutti, la denuncia di Rostellato (M5S) Il Mattino di Padova, 24 febbraio 2015 La deputata ex Cinque Stelle in visita al carcere di Padova: "Personale non sostituito, ci sono grosse difficoltà. La situazione è grave". "La situazione al Due Palazzi è molto grave", così Gessica Rostellato, deputata di Alternativa Libera (tra coloro che hanno lasciato il Movimento 5 Stelle), ha commentato le condizioni della struttura carceraria dopo un sopralluogo in mattinata. La parlamentare padovana ha incontrato anche i rappresentanti sindacali della polizia penitenziaria: "Ci è stata ribadita la mancanza di personale. Attualmente sono 280 invece dei 340 agenti previsti e calcolati però su 350 detenuti, mentre attualmente i detenuti sono circa 750", spiega la deputata. "Inoltre a seguito degli arresti e degli allontanamenti degli agenti coinvolti nella operazione "Apache", il personale penitenziario non è stato sostituito e quindi la situazione di scarsità di personale si è fatta ancora più insostenibile. Tutti gli agenti, in una situazione già difficile, sono costretti a sopperire alla mancanza di personale ad effettuare ogni mese parecchie ore di straordinari. Questo come è evidente non può aiutarli a svolgere in maniera serena il loro lavoro". Ma c'è di più: " Gli agenti sono costretti a sopperire alla mancanza di psicologi e altro personale che purtroppo è sottodimensionato; non vi sono risorse economiche per la manutenzione delle carceri e quindi spesso ci si trova a non poter avere tutti i sistemi di sicurezza previsti e funzionanti", sostiene la Rostellato. Per quanto riguarda la situazione del carcere c'è una piccola nota positiva: è diminuito il numero degli ingressi grazie agli ultimi provvedimenti in materie di carcere e quindi il numero dei detenuti. Questo ha ridotto anche i disagi dovuti alla convivenza di troppi detenuti in spazi ristretti quindi ci si sta via via adeguando alle disposizioni previste di 3 metri quadri per detenuto. C'è però un altro problema molto serio: "Non essendoci risorse per la manutenzione ordinaria non è possibile ripristinare o cambiare il sistema di riscaldamento che non funziona, l'acqua calda non è sufficiente per tutti i detenuti, i locali delle docce sono pieni di muffa e mancano i sistemi di aspirazione. Questo porta anche a malattie di molti detenuti e a mancanza di igiene e di certo non aiuta il mantenimento del quieto vivere all'interno della struttura", sottolinea la parlamentare. Rimini: Garante detenuti; ai Casetti celle fatiscenti e manca un direttore in pianta stabile di Lucia Renati www.newsrimini.it, 24 febbraio 2015 Ieri pomeriggio, in quarta commissione consiliare, il garante dei detenuti l'avvocato Davide Grassi (che si è insediato a novembre), ha relazionato sulle ispezioni svolte nel carcere di Rimini negli ultimi 4 mesi. Presenti l'assessore alle politiche sociali Gloria Lisi, i consiglieri, e i rappresentanti delle realtà che operano nel sociale, dalla Caritas, alla Papa Giovanni XXIII, all'associazione Papillon. Diverse le criticità che persistono. Tra i problemi principali, la mancanza di un direttore in pianta stabile e a tempo pieno. Per ora, è stato nominato un reggente fino ad Agosto che sarà presente solo due volte a settimana. Attualmente, il carcere ospita 104 detenuti, di cui 50 stranieri. 26 frequentano la scuola per ottenere la licenza media. Nella Sezione Andromeda, per i detenuti in attesa di misure alternative, ci sono 3 persone, a fronte di una capienza di 15. Il nuovo garante dei detenuti, da novembre ad oggi, ha effettuato 4 ispezioni con gli onorevoli Giulia Sarti, Tiziano Arlotti, Ernesto Preziosi e con il garante regionale Desi Bruno, e ha confermato le criticità: il paradosso è che c'è una sezione completamente ristrutturata che però e chiusa perché in attesa del collaudo (e pare che ancora manchino i soldi per pagare la ditta appaltatrice), mentre nella prima sezione ci sono celle fatiscenti con i servizi igienici di fianco alla cucina. Condizioni disumane - le definisce il garante Grassi. Poi ci sono le lungaggini della magistratura di sorveglianza nel concedere permessi premio ai detenuti. Ispezionata una settimana fa, anche la comunità di San Patrignano che ospita 1.300 persone: 108 in affidamento sociale, 48 ai domiciliari, 14 in detenzione domiciliare. Nei prossimi giorni i controlli continueranno nelle altre strutture del territorio che ospitano detenuti con misure alternative. Udine: Sappe; nel carcere di via Spalato droga e violenze? sono bugie, le vittime siamo noi di Mattia Pertoldi Messaggero Veneto, 24 febbraio 2015 Affondo del sindacato dopo le accuse sulle condizioni di vita nel carcere di Udine Altomare, segretario del Sappe: "In via Spalato droga e violenze? Sono bugie". "Le vere vittime del sistema siamo noi, non chi parla di violenze nei carceri soltanto per cercare una sponda favorevole nell'opinione pubblica". Gli agenti di polizia penitenziaria vanno all'attacco dopo lo sfogo, andato in onda su Radio Radicale, di Nico, ex detenuto 54enne della casa circondariale di Udine, sulle condizioni in cui versano i detenuti in città. Giovanni Altomare, segretario regionale del sindacato autonomo di polizia penitenziaria (Sappe), risponde punto su punto alle parole dell'italiano che si è rivolto a Strasburgo chiedendo il risarcimento dei danni, materiali e morali, causati dalla sua detenzione. I dati diffusi dal ministero della Giustizia, e aggiornati al 31 gennaio, dicono che, in via Spalato, risultano essere detenute 173 persone, a fronte di una capienza regolamentare pari a 100 unità, e che la polizia penitenziaria è composta da 120-125 agenti. Un numero, secondo Altomare, non sufficiente. "Abbiamo bisogno di più uomini - conferma - per garantire un livello di sicurezza adeguato della struttura. Da quando esiste il regime di carcere aperto e il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria ha inaugurato il cosiddetto sistema di sorveglianza dinamica, il ministero sostiene che i numeri siano adeguati alle necessità, ma non è così". Perchè, per il segretario del Sappe, una cosa "è sorvegliare le persone da presidi fissi come accadeva in passato" e un'altra è "effettuare una specie di ronda continua negli istituti di detenzione". Specialmente, continua Altomare, se "la tanto decantata implementazione dei sistemi di videosorveglianza è carta straccia per mancanza di fondi". Un problema non da poco per gli agenti soprattutto perchè, secondo la loro tesi, è la stessa legislazione italiana a penalizzarli. "Ci avevano promesso un cambio della normativa - ha spiegato Altomare - relativa alle nostre responsabilità in caso di suicidio, ma non si è mosso nulla. Ditemi voi, però, se è possibile controllare, 24 ore al giorno, centinaia di persone senza avere personale a sufficienza e nemmeno un numero adeguato di telecamere". Quanto alle presunte violenze comminate ai danni dei detenuti, e denunciate su Radio Radicale da Nico, Altomare è netto: sono tutte bugie. "Nessuno di noi si azzarderebbe mai ad alzare le mani su un detenuto "irrequieto" - ha sostenuto - e chi "spara" certe panzane lo fa semplicemente nel tentativo di instillare dubbi nell'opinione pubblica. Le risse ci sono, non lo nego, ma avvengono quasi sempre tra detenuti, noi interveniamo soltanto per separare i gruppetti di violenti". La negazione, infine, è (quasi) totale anche sulla presenza di sostanze stupefacenti. "A Udine non ho mai sentito - ha continuato Altomare - nulla di simile. E se è vero che, in linea generale, qualche piccola dose di droghe leggere può sfuggire ai controlli, è altrettanto vero che è la legge a impedirci, troppo spesso, di compiere appieno il nostro dovere. Lo sapete che noi non possiamo nemmeno perquisire un familiare di un detenuto, se non sussistono fondati sospetti che stia facendo qualcosa di illegale, ma possiamo soltanto controllarli mentre si parlano? La verità è che qui le vittime siamo noi che sempre più spesso dobbiamo sostituirci a figure quali psicologi o educatori che, all'interno delle carceri, sono sempre di meno". Opera (Mi): Sappe; cercasi muratori fra agenti? ridicolo, piuttosto dare lavoro ai detenuti Il Velino, 24 febbraio 2015 "Coinvolgere i poliziotti penitenziari che posseggano capacità tecniche necessarie ad eseguire specifici lavori di ristrutturazione nelle carceri della Lombardia. È la proposta choc dell'Amministrazione Penitenziaria lombarda, che sta cercando muratori, imbianchini e idraulici per i penitenziari regionali tra gli Agenti". Lo dice il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "È una cosa ridicola - denuncia Donato Capece, segretario generale del Sappe, che se non fosse scritta nero su bianco in atti ufficiali farebbe davvero ridere. Ed invece è la realtà. Anziché impiegare i detenuti, che nella stragrande maggioranza dei casi stanno in cella ore e ore a far nulla, si cercano poliziotti per fargli fare il doppio lavoro: un po' poliziotti e un po' muratori, lattonieri, idraulici. Una scelta ridicola e grave: è stato informato ed è d'accordo il Ministro della Giustizia Andrea Orlando?". Capece cita una Comunicazione di servizio firmata dal direttore del carcere di Milano Opera, Giacinto Siciliano, il 16 febbraio 2015, che cerca appunto tra il Personale di Polizia Penitenziaria dell'Istituto di pena "personale in possesso di abilitazioni tecniche che sia disponibile a prestare attività lavorativa, anche in ambito regionale per opere di ristrutturazione edilizia". Il Sappe sollecita una ispezione da parte del Ministro Guardasigilli presso il Provveditorato regionale di Milano. Alessandria: alla Casa di Reclusione detenuto devasta la cella e poi ferisce un agente Giornale del Piemonte, 24 febbraio 2015 Prima ha rotto suppellettili e oggetti vari che teneva in cella, poi ha aggredito e ferito un agente che lo stava accompagnando nell'infermeria della Casa di reclusione. Un altro caso di violenza dietro i cancelli delle strutture detentive. "Il detenuto si è scagliato contro il poliziotto senza ragione e l'episodio è sintomatico di una violenza assurda, inaudita e inaccettabile che ha costretto il collega Basco Azzurro a ricorrere alle cure mediche - denuncia Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria. Nella Casa di reclusione di Alessandria la tensione è costante. Nel 2014 si sono contati 2 tentativi di suicidio, sventati in tempo, 20 episodi di autolesionismo, 6 colluttazioni e 2 ferimenti. Non a caso la segreteria provinciale del Sappe rinnova da tempo la richiesta di interventi per incrementare l'organico della Polizia Penitenziaria e di una nuova organizzazione del lavoro all'interno del carcere". Capece segnala anche che "alla Casa circondariale la situazione è ugualmente problematica: 5 suicidi sventati, 23 episodi di autolesionismo e 3 ferimenti. Mi sembra, dunque, opportuno che l'amministrazione penitenziaria regionale ponga tra le priorità di azione le due carceri di Alessandria. La realtà nelle strutture italiane resta ad alta tensione". Livorno: i detenuti dell'Isola di Gorgona a "lezione" dai cani di salvataggio di Fulvio Cerutti La Stampa, 24 febbraio 2015 In arrivo al penitenziario Terranova, Labrador, Golden Retriver e Leonberger. Unità cinofile al fianco dei detenuti per aiutare i bagnanti in difficoltà e non solo. Dopo i salvataggi delle scorse stagioni estive Terranova, Labrador, Golden Retriver, Leonberger raggiungeranno, infatti, a bordo dei mezzi della Polizia Penitenziaria, l'Isola della Gorgona (Livorno). La proposta, che arriva dal Provveditorato regionale dell'amministrazione penitenziaria di Firenze, su idea di Monica Sarno, funzionario giuridico pedagogico, e realizzata da Ferruccio Pilenga presidente della Sics, Scuola italiana cani salvataggio, porterà questi magnifici cani in un nuovo lavoro per il sociale. In questo penitenziario dell'Isola della Gorgona, dove già i detenuti hanno conseguito il brevetto da subacquei e sono già impegnati in numerose attività, verrà realizzato il nuovo progetto. Istruttori nazionali Sics, accompagnati da Ferruccio Pilenga, illustreranno le diverse peculiarità delle razze canine più utilizzate per il salvataggio: docilità, diversità del pelo e tessitura del mantello, diversità di peso, agilità fuori e dentro l'acqua, dimorfismo sessuale. Verranno mostrate le attrezzature specifiche per il salvataggio in uso per il conduttore e i particolari imbraghi per i cani e le tecniche utilizzate e ideate dagli istruttori Sics Ferruccio Pilenga e Donatella Pasquale come il delfino, il sostentamento, lo squalo. Saranno presenti anche i referenti dell'associazione Doremiao e i 12 detenuti che partecipano all'attività di pet teraphy, che da tempo si svolge sull'isola, e gli istruttori dell'Urgon, centro studi marini e attività subacquee con gli allievi del corso che hanno conseguito il brevetto di primo livello. Sia durante il sopralluogo che durante lo svolgimento dell'intero progetto verranno effettuate prove di salvataggio che vedranno coinvolti in maniera attiva i detenuti, i quali in quei giorni vestiranno i panni dei volontari Sics. Enna: "Cena al fresco" in carcere a scopo benefico, i detenuti faranno camerieri e cuochi Ansa, 24 febbraio 2015 I detenuti del carcere di Enna per una sera si trasformeranno in cuochi, camerieri e sommelier affiancando gli studenti dell'istituto alberghiero "Federico II" in occasione di una "Cena al fresco". È un gala di beneficenza con ospiti esterni - il cui ricavato sarà devoluto al fondo indigenti detenuti - che sarà organizzato il prossimo maggio nella casa circondariale Luigi Bodenza. Scopo dell'iniziativa, promossa dalla Prefettura su proposta dell'Associazione nazionale assaggiatori di vino (Onav) ed accolta dalla direzione del carcere, è quello di portare un messaggio di speranza ai detenuti e dare agli allievi dell'istituto professionale la possibilità di fare una importante esperienza di vita. All'iniziativa prenderanno parte, oltre a Onav, Anfe, Cna e Confartigianato, anche la Coldiretti, che metterà a disposizione prodotti del territorio e dell'entroterra siculo come chiaro messaggio di valorizzazione delle nostre risorse agroalimentari. La Federazione cuochi e l'Associazione pasticceri della città organizzeranno insieme con l'Alberghiero mini corsi di formazione attraverso i quali i detenuti che saranno scelti per prendere parte all'iniziativa potranno imparare a cucinare piatti particolari, a servire ai tavoli, a versare il vino. Guinea Equatoriale: caso si Roberto Berardi, il fratello scrive a Papa Francesco di Andrea Spinelli www.crimeblog.it, 24 febbraio 2015 Dure le parole di Stefano Berardi nei confronti di Papa Francesco: "Colpevole come mio fratello: si fanno valutazioni sbagliate". Resta altissima la tensione della famiglia Berardi, che continua a cercare in ogni modo di riportare a casa Roberto Berardi, l'imprenditore detenuto da 25 mesi nel carcere di Bata Central. Gli ultimi 15 mesi di detenzione, in barba al diritto internazionale ed allo stesso diritto del paese africano, sono stati passati da Berardi in una cella di isolamento caldissima e minuscola e solo grazie all'insistenza della famiglia sull'ambasciata italiana in Camerun e all'interessamento della Croce Rossa Internazionale è stato possibile, recentemente, far effettuare al detenuto un superficiale controllo medico in carcere. Per il resto Berardi continua la sua detenzione nel silenzio assordante dei media nazionali, non senza qualche spavento: durante gli scontri seguiti all'eliminazione della Guinea Equatoriale dalla Coppa d'Africa infatti, le notizie provenienti dalla Guinea e riguardanti gli arresti sommari messi in atto dal repressivo regime di Malabo hanno preoccupato non poco gli addetti ai lavori, che dal paese africano ricevevano notizie frammentarie e poco chiare. Solo spavento, per fortuna, ma che si unisce allo stremo assoluto cui è ridotta la famiglia Berardi, che dall'Europa (da Latina e da Berlino, dove vive il fratello Stefano) invoca in tutti i modi un interessamento pratico anche del Vaticano. Il Vaticano infatti, come abbiamo spiegato più volte, ha un ruolo chiave nella vicenda: inizialmente il nunzio apostolico in Guinea Equatoriale, monsignor Piero Pioppo da Lecco, ex dirigente di spicco dello Ior allontanato da Papa Francesco da Roma ed inviato in Centro Africa, si era "messo a disposizione" della famiglia per interessarsi del caso. Dopo le insistenze e la manifestazione di un'angosciosa preoccupazione, più volte motivata, da parte della famiglia era stato lo stesso nunzio apostolico, con una vera e propria lavata di mani, a chiudere ogni spiraglio sulle trattative, interrompendo i contatti con i familiari di Berardi in Europa. Successivamente il Presidente della Guinea Equatoriale Teodoro Obiang Nguema Mbasogo è stato ricevuto, in 12 mesi, ben 4 volte da Papa Francesco: un privilegio non per pochi, che certamente fa intendere un rapporto molto stretto tra Roma e Malabo. La dittatura nguemista è dichiaratamente ed apertamente cattolica, come cattolica è la Guinea Equatoriale (ex colonia spagnola), nonostante le caratteristiche tribali siano decisamente ancora molto marcate nel misticismo tribale della popolazione equatoguineana: non sono un mistero, nè tantomeno un illecito, le donazioni annuali che il governo di Malabo invia al Vaticano, anche se tali donazioni non sono mai state né quantificate né rese note. Certo l'occhio di riguardo che il Vaticano garantisce alla dittatura avrebbe fatto presumere una maggior intransigenza, come si vuole tra amici, da parte di Roma di fronte all'evidenza dei trattamenti inumani e degradanti cui è stato e continua ad essere sottoposto Roberto Berardi in carcere. Una questione che tuttavia non attiene unicamente a Berardi, ma a tutta la popolazione carceraria e non della Guinea Equatoriale, che vive strozzata nella propria libertà da una dittatura sanguinaria e fortemente repressiva, una repressione inaspritasi molto negli ultimi mesi, in particolare con la concomitanza della Coppa d'Africa. Le parole di Stefano Berardi al Papa sono parole di disperazione, lucida e rabbiosa disperazione di chi non ha più speranza se non quella che, ogni giorno, ci fa continuare a lottare: la famiglia Berardi, di fatto, si sente abbandonata da tutti, Stato italiano e Chiesa, nonostante gli appelli si siano sprecati, anche da parte dello stesso Papa che nel corso di un Angelus nel dicembre 2013 aveva velatamente fatto presente la vicenda di Berardi (pur senza nominarlo). Abbiamo deciso di pubblicare la lettera di Stefano Berardi per questo, per mostrare il dolore ingiustamente solitario che la famiglia Berardi è costretta ad affrontare ogni giorno: Rossella Palumbo, ex moglie di Roberto Berardi, aveva parlato delle medesime angosce in un'intervista a Crimeblog di qualche mese fa. In questo senso le parole di Stefano Berardi sono lucidamente disilluse, in un ragionamento ridotto all'osso che certamente colpisce per la durezza dei toni, certamente mai duri come 25 mesi passati nell'incertezza, nel dolore, nella sofferenza. La stessa delle famiglie dei detenuti della Guinea, i quali diritti vengono violati ogni giorno: è questa la domanda, atavica a dire la verità, che ci si pone di fronte all'evidenza dei rapporti diplomatici "più importanti" di quelli umani, una realpolitik che sui diritti non è assolutamente sostenibile. Certamente non è tollerabile per chi vive lo strazio della paura continua di non rivedere più il proprio congiunto. Lettera di Stefano Berardi a Papa Francesco Santità, le scrivo pubblicamente, quest'oggi, la mia lettera in lingua italiana, certamente meno erudita dei miei predecessori familiari, ma questa volta non per richiesta di aiuto verso mio fratello, verso il quale avete già ampiamente dimostrato voler evitare ogni commento e condivisione, bensì di accusa verso un sistema che distrugge le basi etico morali del buon vivere comune secondo i dettami di quello che nostro Gesù Cristo voleva insegnarci con la sua morte. Papa Francesco, Lei porta il nome del solo ed unico personaggio storico che aveva al meglio interpretato le leggi di Dio; proprio questo alla sua elezione mi aveva inorgoglito ma disgraziatamente il breve corso storico Papale da lei già affrontato si è macchiato di una delle più gravi vergogne e debolezze umane: accettare doni dal Diavolo. Caro Pontefice lei sa meglio di me che scendere a patti con il male non ammette più rifiuti: come con i mafiosi si resta invischiati, si accetta una volta e dopo si può solo pagare. Mi dica: quale è la differenza tra Lei, che accetta di ricevere e dialogare con un dittatore come Obiang, e mio Fratello che stupidamente non valuta con chi si mette in società? Nessuna: sia Lei che mio fratello siete colpevoli. Roberto cercava di lavorare per il benessere della sua Famiglia e dei suoi dipendenti, Lei ha accettato doni per i suoi mendicanti: tutti e due avete mal interpretato cosa voleva Dio. È inutile per tutti e due predicare bene e razzolare male. Oggi mio Fratello è imprigionato nel lager di Bata, in isolamento da 15 mesi, e Lei non ha la forza morale e il coraggio e la purezza di dire apertamente agli Obiang che hanno raggiunto il limite: pagate oggi la vostra superficialità per esservi associati con il male. In tutto questo chi soffre? Gli innocenti: i figli di Roberto, la sua famiglia, gli amici, il povero e martoriato popolo della Guinea Equatoriale, tutti coloro i quali non possono gridare il loro dolore. Lei è sicuro che è questo che voleva Dio? Io non lo credo. Questo, Santità, è il male: è il silenzio che distrugge i voleri di Dio. Tutto il resto sono chiacchiere. Il vero San Francesco il suo credo lo ha dimostrato con i fatti, non con le chiacchiere. Lei mi dirà che bisogna saper perdonare: io lo faccio in coscienza, perdono Lei e mio fratello e non spero neanche più che qualcosa cambi, perchè in fondo l'Umanità è fatta così. Mi rattrista solo che di veri San Francesco non ce ne siano milioni: se così fosse si vivrebbe davvero in un mondo migliore. Santità, dica al Vescovo di Latina e al suo Vicario, tanto vicini a Lei, di mettersi l'animo in pace: non hanno più bisogno di parlare con mia madre perchè ormai il danno ad una vecchia di 80 anni è stato fatto nel corso di tutti questi 25 mesi di carcere e non credo sarà mai possibile riparare. Le chiedo gentilmente, se possibile, di associarsi a me per una preghiera per un mondo migliore: l'Umanità ne ha bisogno. Serbia: dal Comitato Helsinki monitoraggio sulle strutture penitenzierie dello stato serbo di Domenico Letizia (Nessuno tocchi Caino) Il Garantista, 24 febbraio 2015 Le strutture monitorate sono quelle di Nis, Sremska Mitrovica, Zabela Pozorevac, Voljevo e l'ospedale psichiatrico di Belgrado. L'Organizzazione non governativa Comitato Helsinki per i diritti umani della Serbia, durante l'anno 2014, ha svolto un duro lavoro di analisi e monitoraggio pertinente alle strutture penitenzierie dello stato serbo. Nella seconda metà del 2014, il gruppo Helsinki serbo con la collaborazione di altre organizzazioni per la tutela e promozione dei diritti umani ha osservato e analizzato la situazione dei sei istituti penitenziari giurisdizionalmente sotto il controllo del Ministero della Giustizia della Serbia. Le strutture monitorate sono Nis, Sremska Mitrovica, Za-bela, Pozorevac, Voljevo e l'ospedale psichiatrico di Belgrado. Oggetto di monitoraggio sono stati anche il lavoro, il funzionamento e le procedure seguite dagli Uffici per le sanzioni alternative di Nis, Sremska Mitrovica, Zabela, Pozorevac, Voljevo e Belgrado. Un rapporto dettagliato che analizza anche lo stato del funzionamento delle pene alternative dovrebbe essere pubblicato tra qualche settimana da parte del Comitato. Alcune osservazioni riguardati le strutture penitenziarie controllate sono state lo stesso rese pubbliche. Il 16 e 17 Ottobre 2014 il gruppo ha visitato il carcere di Sremska Mitrovica. Molti padiglioni della struttura non risultano in regola con l'impianto legislativo serbo. La struttura penitenziaria registra un sovraffollamento. Sono presenti 2048 detenuti, mentre la struttura potrebbe ospitarne un massimo di 1300. Sono ben 89 i detenuti in attesa di giudizio e risulta essere inadeguato il numero degli agenti penitenziari. Pochi gli educatori presenti, che riescono a soddisfare le esigenze del solo 30% dei detenuti della struttura. Il 29 e 30 Novembre 2014 il team ha effettuato una visita ispettiva presso la struttura penitenziaria di Nis. La casa circondariale, dal punto di vista strutturale, sembra aver apportato dei miglioramenti rispetto all'anno 2013. I detenuti hanno dei dormitori da poco imbiancati, nuovi pavimenti e servizi igienici. Sono stati stesso i detenuti ad affrescare l'interno della cappella penitenziaria di nuova costruzione. Nonostante gli evidenti sforzi della struttura penitenziaria nel miglioramento delle condizioni detentive estremamente tangibili sono anche le problematiche: il numero di agenti penitenziari è stato ridotto, il numero di educatori è inadeguato alle esigenze della struttura e sono state registrate un elevatissimo numero di misure disciplinari nei confronti dei detenuti. Il giorno della visita ispettiva, il gruppo Helsinki ha costatato che i detenuti presenti in attesa di giudizio erano ben 95. Un terzo dei detenuti presenti sono persone con disabilità mentali. Il numero dei detenuti è risultato essere di 1256 persone di cui 308 tossicodipendenti e 84 alcolisti. Il 19 Novembre 2014, il gruppo ha effettuato una visita ispettiva presso il carcere femminile di Pozarevac. Il direttore della struttura ha comunicato che sulle 251 donne presenti solo 100 di queste sono adoperate in lavori legati alla struttura penitenziaria: cucito, giardinaggio e pulizia. Nel 2014, in tale struttura, sono stati registrati 53 provvedimenti disciplinari di cui ben 38 sono stati puniti con il carcere duro. Successivamente, il 20 Novembre 2014, il Comitato Helsinki ha visitato il carcere di Zabela. Dal 2013 il numero dei detenuti risulta aumentato. La popolazione detenuta è cresciuta da 1459 a 1584. Molti i "prigionieri" assegnati al reparto di massima sicurezza: 1261. Solo il 30% dei detenuti è impegnato in qualche attività lavorativa. La struttura risulta avere alle dipendenze un solo addetto impiegato presso gli uffici per le sanzioni alternative, mentre altri due impiegati sono in regime di lavoro part-time. Le condizioni di vita dei detenuti risultano essere migliorate nel corso del biennio 2012-2014 e i dormitori sono stati dotati di nuovi letti e armadietti. Durante il corso del 2014 si è registrato un calo vertiginoso degli agenti penitenziari impiegati di servizio presso la struttura, condizione che può creare problematiche nel controllo e nella tutela della struttura e dei detenuti. L'Ong ha visitato la struttura psichiatrica di Belgrado il 2 e il 3 Dicembre 2014. Nel Maggio 2014, in seguito ad una inondazione la struttura venne danneggiata e molti degli internati trasferiti nella struttura penitenziaria di Belgrado. La ricostruzione del complesso si è avuta grazie a dei finanziamenti che il governo della Norvegia ha versato allo stato serbo. La struttura penitenziaria, durante la visita degli esperti, aveva una popolazione detentiva di 260 reclusi. Nel 2014 la direzione del complesso penitenziario ha emesso 342 provvedimenti disciplinari nei confronti degli internati, un numero che risulta essere spaventosamente alto. Nel solo 2014 molti dei detenuti sono stati puniti con un totale di 964 giorni di isolamento. Al momento della visita ispettiva solo un addetto risultava impiegato a tempo pieno presso l'Ufficio per le sanzioni alternative mentre un altro addetto risultava impiegato soltanto per tre giorni alla settimana. Il Comitato di Helsinki per i diritti umani della Serbia è una organizzazione non governativa e non profit che si occupa di questioni legate ai diritti umani in Serbia. Costituitasi nel Settembre del 1994, come molti comitati nazionali Helsinki per i diritti umani costituitisi dopo lo scioglimento della Federazione internazionale di Helsinki per i diritti umani. Il Comitato ha la sua sede principale a Belgrado. Il lavoro del Comitato è stato descritto, da molti accademici e professionisti del diritto internazionale umanitario, come fondamentale per il processo di trasformazione della Serbia dal suo recente e macabro passato per la definitiva integrazione europea in corso. Il Comitato Helsinki per i diritti umani è presente anche in Italia di cui è segretario l'editore, storico e politologo esperto di diritti umani Antonio Stango. La situazione della giustizia e delle condizioni carcerarie, come si evince anche dai primi riscontri del rapporto serbo, merita un'analisi europea, concrete proposte dall'Unione Europea e dagli organismi predisposti alla tutela dei diritti umani. Anche osservando tali analisi, Marco Pannella e il Partito Radicale sono stati premonitori di una situazione legata alla giustizia, alla malagiustizia, che in tutta Europa presenta delle difficoltà e una perenne violazione delle convenzioni internazionali per il rispetto della dignità umana. Albania: Comitato Helsinki analizza esigenze delle donne in rapporto alla giustizia penale di Domenico Letizia www.clandestinoweb.com, 24 febbraio 2015 Se la questione carceraria è trascurata in molti paesi dell'Unione Europea, un vero dibattito sulla problematica di genere legata al carcere è quasi del tutto assente dai dibattiti pubblici. Edlira Papavangjeli, ricercatrice presso il Comitato Helsinki per i diritti umani dell'Albania, ha pubblicato una tesi di dottorato che analizza le esigenze delle donne albanesi in rapporto alla giustizia penale, effettuando delle inchieste sulle problematiche che trovano le donne detenute in Albania. La monografia intitolata "Donne in conflitto con la legge - la prospettiva di genere nel sistema giudiziario penale" fornisce un'utilissima analisi in materia di giustizia penale e approccio di genere, a partire dal contesto albanese, ma non manca di tracciare un'analisi europea della problematica. L'argomentazione trattata assume un approccio transnazionale poiché non solo le donne sono le "invisibili" del mondo penitenziario, quasi ovunque, ma numerosi studi hanno statisticamente riportato che il numero delle donne incriminate e condannate per vari reati è in aumento in molti paesi. Il documento pubblicato da Edlira Papavangjeli fornisce un'accurata analisi delle politiche in materia di giustizia penale riguardanti le donne in Albania, le dinamiche sociali, i fattori che hanno influenzato la vita di queste donne detenute o in attesa di giudizio e un'analisi approfondita sulle esigenze e sulle problematiche affrontate dopo il rilascio nel ritornare a vivere nella società. La forza propositiva del documento consiste nel riuscire a sviluppare un dibattito sul come la società tratta le donne, al fine di elaborare e individuare nuove misure più efficaci della giustizia nel caso in cui i trasgressori siano le donne. Un documento utilissimo per quelle organizzazioni, individualità e istituzioni che si occupano della reintegrazione delle "donne delinquenti" all'interno dei contesti sociali. Francia: risarcimento a detenuto paraplegico per trattamento "disumano e degradante" di Annalisa Lista www.west-info.eu, 24 febbraio 2015 La Francia dovrà risarcire un detenuto paraplegico per trattamento "disumano e degradante". È quanto dichiara la Corte Europea dei Diritti Umani accogliendo la richiesta di un recluso algerino detenuto Oltralpe e divenuto disabile dopo una caduta per tentativo di evasione. Il ricorrente ha dichiarato che il trattamento ricevuto gli ha provocato uno stato di sofferenza peggiore di quello normalmente attribuibile alla privazione della libertà. Ad esempio, trovava difficoltà a spostarsi con la sedia a rotelle perché la struttura non era adeguata. Inoltre, le cure mediche e paramediche erano insufficienti, come le sedute di chiroterapia. Senza dimenticare che il penitenziario pagava un detenuto per aiutarlo a farsi la doccia e portarlo alle toilette. Una condizione che è costata cara all'Hexagone, condannato già nel 2006 per accadimenti simili. Egitto: 5 anni di carcere all'attivista Alaa Abdel Fattah per violato la legge anti-proteste di Giuseppe Acconcia Il Manifesto, 24 febbraio 2015 L'attivista socialista Alaa Abdel Fattah è stato condannato a cinque anni di prigione per aver violato la liberticida legge anti-proteste, insieme ad Ahmed Abdel Rahman. Altri 18 attivisti sono stati condannati a tre anni nello stesso processo. Le accuse riguardano l'organizzazione di una manifestazione alle porte della Camera alta (Shura) a poche ore dall'approvazione della legge bavaglio. Alaa, che non fa che entrare e uscire di prigione, era stato condannato in primo grado a 15 anni di reclusione. Alaa, che è apparso molto dimagrito dopo oltre due mesi di sciopero della fame, è stato uno dei volti delle rivolte di piazza Tahrir del 2011, ha partecipato alle manifestazioni egiziane anti-regime insieme alla moglie Manal, che in quella fase teneva un blog per raccontare le proteste con gli occhi delle donne. Il giovane ha iniziato il suo impegno politico contro i processi militari contro i civili nell'anno e mezzo in cui è stata al potere la giunta militare di Hussein Tantawi. Con l'ascesa del presidente islamista Mohammed Morsi ha continuato ad avere problemi con la giustizia egiziana ma è tornato in carcere solo con il golpe militare che ha portato il generale al-Sisi al potere. Resta in carcere anche Mohamed Sultan, attivista islamista in sciopero della fame da un anno e in gravissime condizioni di salute. Rischia di essere arrestata, per scontare la pena di due anni per avere assaltato una stazione di polizia ai tempi di Morsi, l'attivista comunista Mahiennur el-Masry. Liberati invece i tre giornalisti, condannati a sette anni nel processo contro il canale satellitare al-Jazeera. A parte Peter Greste che è subito volato in Australia, suo paese natale, Mohamed Fahmy e Baher Mohamed dovranno affrontare un nuovo processo. Sono stati condannati all'ergastolo Ahmed Maher e Ahmed Douma, attivisti del movimento 6 Aprile coinvolti negli scontri con la polizia nel novembre del 2011 in via Mohammed Mahmud. Insieme a loro sono 230 gli attivisti e rivoluzionari condannati al carcere a vita in Egitto. Resta in carcere anche la sorella di Alaa, Sanaa, condannata a due anni e accusata di aver violato la legge anti-proteste con la marcia verso il palazzo presidenziale di Heliopolis la scorsa estate, con altri 23 attivisti. La madre di Alaa, più volte in sciopero della fame per la liberazione del figlio, e la zia, la scrittrice Ahdaf Soueif, hanno commentato la condanna. "È una vergogna, mio figlio è pieno di coraggio", ha detto Layla, denunciando che in Egitto ora c'è "meno libertà che ai tempi di Mubarak". La famiglia del giovane ha una lunga tradizione di attivismo comunista. Con l'ascesa del presidente al-Sisi, la magistratura egiziana si è mostrata davvero vendicativa verso i leader dei movimenti sociali che hanno attraversato il paese negli ultimi quattro anni. Se centinaia di sostenitori di Fratelli musulmani sono stati condannati alla pena di morte o all'ergastolo, migliaia di loro organizzazioni caritatevoli sono state chiuse, ora tocca anche ai partiti laici e di sinistra di subire la dura repressione del regime - dopo la scarcerazione dei figli di Mubarak, Alaa e Gamal - in vista delle elezioni parlamentari che si terranno tra marzo e maggio.