Ospedali Psichiatrici Giudiziari: questa volta bisogna chiuderli davvero Il Mattino di Padova, 23 febbraio 2015 A fine marzo c'è una scadenza che non interessa quasi a nessuno: è la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari. Non interessa a tante Regioni, che dovevano predisporre dei percorsi di cura e riabilitazione individuali, potenziando i servizi socio-sanitari territoriali, che servono a tutti i cittadini, e invece non hanno fatto quasi niente. Non interessa a tanta politica, che vive delle emergenze e non sa pensare a progetti proiettati verso il futuro. Non interessa a tanta informazione, che si è dimenticata in fretta di questi malati rinchiusi in strutture che di umano hanno ben poco, come certi Opg. Parliamone allora, per evitare che si faccia slittare ancora questa necessaria chiusura: noi da parte nostra cerchiamo di non dimenticare la scadenza del 31 marzo, proponendo ai lettori le riflessioni di due persone detenute, dedicate agli uomini rinchiusi negli Opg. La morte di un "matto" fra le sbarre Qualche giorno fa ho letto questa notizia sulla rassegna Stampa di Ristretti Orizzonti: "Un altro internato muore in cella come un cane (…) Lo hanno trovato immobile sul letto. Insospettiti dalla sua strana posizione, gli uomini della Polizia penitenziaria dell'ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa non hanno potuto fare altro che accertare la sua morte". E chissà perché quando muore un "matto" in carcere, che le persone perbene chiamano ospedali psichiatrici, mi incazzo di più. Forse perché nelle carceri ci si finisce perché lo vuoi tu o lo vuole la tua vita, invece nei manicomi ci vai da innocente perché lo vuole Dio o la natura per lui. Forse semplicemente quando muore un matto in carcere mi incazzo perché mi ricordo di quella volta, appena ventenne, che mi mandarono al manicomio dove mi riempirono di pugni nel cuore e calci nel corpo e mi legarono per lungo tempo al letto di contenzione. Fu lì che conobbi Concetto. Chissà se è ancora vivo. Non penso, almeno lo spero per lui. Probabilmente, a quest'ora, per sua fortuna, sarà nel paradiso dei matti. Spero solo che non sia morto legato nel letto di contenzione o con la camicia di forza. Mi ricordo che Concetto per il carcere dei matti era un osso duro. E gli operatori del manicomio potevano fare ben poco contro di lui, perché lui non aveva più né sogni né speranze. D'altronde non ne aveva quasi mai avuti. Non c'era con la testa. Era quasi tutto cuore e poco cervello, ma era buono e dolce come lo sanno essere solo i matti. Non parlava quasi mai con nessuno. Lo faceva solo con me. Mi ricordo che Concetto viveva di poco e di niente. Il mondo non lo interessava più. Il mondo lo aveva rifiutato e lui aveva rifiutato il mondo. Non gli interessava neppure più la libertà perché lui ormai si sentiva libero di suo. E non dava confidenza a nessuno, ma non gli sfuggiva niente. Concetto mi aveva raccontato che era cresciuto da solo. Senza nessuno. Prima in compagnia delle suore. Poi dei preti. La sua infanzia non era stata bella. Non aveva mai avuto famiglia. Nessuno lo aveva mai voluto. Nessuno aveva mai voluto stare con lui. Fin da bambino aveva imparato a tenersi compagnia da solo. Solo con il suo cuore. E con la sua pazzia. Neppure il carcere lo aveva voluto. E lo avevano mandato al manicomio. Si era sempre rifiutato di sottomettersi alla vita e al mondo. E dopo si era rifiutato di sottomettersi all'Assassino dei Sogni (il carcere come lo chiamo io) dei matti, per questo lo tenevano quasi sempre legato. Tutti pensavano che fosse pazzo da legare. Lo pensava pure lui. Io invece non l'ho mai pensato. E non l'ho mai dimenticato nonostante siano passati quarant'anni. Nel suo sguardo non c'era nessuna cattiveria, quella cattiveria che invece vedo spesso anche adesso nelle persone "normali". Spero che chiudano molto presto gli Opg perché non sono altro che luoghi di tortura. E chissà quanti Concetti ci saranno ancora dentro quelle mura. Carmelo Musumeci Quante persone in carcere avrebbero bisogno di cure psichiatriche! Recentemente nel carcere di Padova un detenuto è morto. Il suo nome era Antonio Prandato. Sono nella mia cella e proprio in questo istante stavo pensando al fatto che non ho sentito parlare di lui al di là di questi muri, così ho pensato di farlo io. Qui da noi invece lo conoscevamo, lo conoscevamo anche perché tanti disagi, rabbia e risse nati nella sua sezione di recente hanno avuto origine dal fatto che Antonio stava male, e tardavano a intervenire. L'abbiamo detto quando abbiamo ricostruito quei fatti, e la realtà ci ha dato tristemente ragione: Antonio stava male, Antonio dopo pochi giorni è morto. Io sono stato in sezione con lui… Antonio era un uomo di corporatura grossa, quando camminava aveva un passo lento e costante, ondeggiante e instabile. A volte le sue mani si chiudevano in un pugno la cui forza era visibile ad occhio nudo. Antonio era soprannominato "Babbo Natale" per la sua lunga barba grigia e il colore dei suoi capelli. Quando rideva sul suo volto si estendeva un sorriso fatto solo di gengive… non aveva neanche un dente. Non mancava mai di scendere al passeggio, poteva anche esserci una temperatura al di sotto dello zero che lui con la sua camicia allacciata per metà e con sopra una giacca lunga, sporca e sempre aperta camminava attorno ai muri dell'aria. Parlava molto, ma lo faceva da solo. Era convinto che tutti lo volessero fregare in qualche modo. Era maniacale. Antonio era identificato da tutti noi come il pazzo che aveva ammazzato una lucciola. Ma Antonio non doveva essere in una struttura com'è oggi il carcere, però la seconda ipotesi che poteva esserci per lui era quella di diventare uno dei tanti uomini rinchiusi in qualche Opg. Non sono in grado di dirvi cosa poteva essere meglio per lui perché gli Opg li identifico come l'inferno dantesco, vari gironi per ogni grado di dolore. Però sono certo di una questione, tra l'altro anche molto banale, so che qualcosa anche qui non ha funzionato e purtroppo ancora non funziona. Nelle carceri c'è una grande presenza di persone che avrebbero bisogno di cure psichiatriche, ma quando si parla di "cura" non si può avere la presunzione di farla con qualche raro colloquio con uno specialista. Dal momento del nostro arresto la nostra vita è interamente nelle mani di altri uomini, io voglio però sottolineare la parola "uomini" proprio identificandoli come esseri pensanti. Allora quello che mi chiedo è: come può essere che gli uomini che hanno in mano le nostre vite non si pongano delle domande di fronte agli orrori che si vivono negli Opg, e anche nelle carceri? Il 31 marzo è il termine dato per la chiusura degli Opg e la cessazione delle condizioni spesso poco umane nelle quali vivevano le persone rinchiuse lì dentro. Forse dopo tanti rinvii si arriva a una conclusione, ma c'è una parte di me che mi dice "aspetta a cantar vittoria". Forse è proprio la mia parte razionale che subentra a frenare il mio entusiasmo. Non so il perché, ma questo Paese sta diventando sempre più un Paese di rinvii. Sono un recluso e vi posso dire che nei penitenziari c'è molta sofferenza e ci sono molti casi dove il carcere non serve a niente, per esempio questo credo sia il caso delle persone tossicodipendenti. Queste persone hanno bisogno di più cure e meno galera. C'è una cosa che sto imparando in questa mia detenzione, i problemi vanno affrontati. Nella mia vita non l'ho mai fatto e quello che questo modo di vivere mi ha portato è un certificato con un fine pena datato 2037. Ma purtroppo vedo che chi dovrebbe decidere delle vite di tanti, come i politici che dovrebbero chiudere gli OPG, continua a rinviare, si rinvia sempre tutto fino a quando il problema non è più sostenibile e finisce spesso che le situazioni diventano scandali pubblici. Che poi mi chiedo quanto sia pubblico questo scandalo degli Opg, visto che se ne parla così poco. Anche se siamo detenuti, abbiamo il diritto di essere curati in una maniera decente e che rispetti la dignità che appartiene ad ogni essere umano libero e non. Aspetto con molta curiosità il 31 marzo per vedere se le parole dell'emerito Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che ha definito gli Opg come una situazione di "estremo orrore" e inconcepibile in qualsiasi Paese appena civile, sono state davvero ascoltate. Nota: Nel Mattino di Padova dell'11 maggio 2011, nella cronaca del processo e della condanna di Prandato, si legge: "La pena a 10 anni, richiesta anche dal pubblico ministero Paolo Luca, Antonio Prandato la sconterà in un istituto idoneo e non in carcere". E invece, guarda caso, Antonio Prandato è morto in carcere. Lorenzo Sciacca Giustizia: la "non riforma" di Renzi, cronaca di una sorte annunciata di Claudio Cerasa Il Foglio, 23 febbraio 2015 Terzietà non datur. Più della riforma del lavoro. Più del taglio alla spesa. Più della riforma del fisco. Più della revisione dell'Irap. Più degli ottanta euro. Più della pubblica amministrazione. Più delle banche popolari. Se c'è un passaggio che consentirà di misurare come un termometro il grado di coraggio che avrà Matteo Renzi nell'affrontare i prossimi mesi di governo quel termometro coincide con tre parole sulle quali l'allegra banda della Leopolda non sembra al momento avere le idee particolarmente chiare: riforma della giustizia. Lo confessiamo: siamo preoccupati, e lo siamo per una ragione semplice, perché la riforma promessa dal governo si avvicina, forse, le scadenze sono sempre meno lontane, gli obiettivi sono sempre più chiari, e giorno dopo giorno, annuncio dopo annuncio, indiscrezione dopo indiscrezione, colloquio dopo colloquio, appare piuttosto evidente che la riforma che ha in mente Matteo Renzi non affronterà il cuore dei problemi della giustizia italiana. Un problema che non è soltanto di carattere giuridico ma che costituisce un elemento di fragilità decisivo all'interno del nostro sistema culturale: la prevalenza del processo mediatico sul processo ordinario; il potere di un giudice di giocare con la giustizia in modo non oggettivo ma discrezionale; la politicizzazione estrema, assoluta, innegabile di una parte forse non maggioritaria ma comunque importante della magistratura; la permanenza di un sistema di correnti ultra politicizzate che costituisce da troppi anni un'insostenibile anomalia della nostra magistratura; la persistenza di una serie di reati che danno al magistrato il potere di sbattere in prigione chiunque sulla base di un teorema e non sulla base di prove (citofonare per credere al professor Fiandaca); l'uso strumentale di un sistema spesso ingiustificato e di cui si abusa allegramente come la custodia cautelare, che alcuni magistrati e alcuni giudici spesso trasformano in uno strumento di ricatto nei confronti degli indagati; la tendenza a dare in pasto all'opinione pubblica delle risposte penali a problemi che spesso con il penale non c'entrano nulla e un dato di fondo che potremmo definire così: la non terzietà del giudice. Siamo molto preoccupati perché Renzi dice da anni con convinzione di voler rivoluzionare la giustizia italiana, di voler evitare che il nostro paese si ritrovi a fare i conti con vergognosi casi come quello di Silvio (non lui, ahinoi, Silvio nel senso di Scaglia), di voler affermare in modo definitivo un modello Montesquieu, di netta separazione di poteri, dove il potere politico deve essere indipendente da quello giudiziario ma dove il potere giudiziario non deve essere messo nelle condizioni di dare la linea alla politica, di influenzare l'azione del governo, di poter giocare a quelli che provano a trasformare un processo in un surrogato di una battaglia parlamentare. A parole (vedi il caso Eni, vedi il caso Errani, vedi meno altri casi come quello di Orsoni o come quelli di Roma, di Buzzi e compagnia) Renzi ha mostrato di sapere giudicare il mondo senza occhialoni a cinque stelle, con un occhio abbastanza garantista (abbastanza, senza esagerare). Nei fatti, purtroppo, all'orizzonte si intravede una riforma che non riflette questa pulsione e che, ci pare, non risolverà nessuno dei problemi culturali con cui si ritrova a fare i conti il nostro sistema giudiziario. Non verrà risolto il processo mediatico, perché sulle intercettazioni, pur avendo buone intenzioni, Renzi farà poco o nulla - e chissà per quanto tempo continueremo, a causa di una legge che esiste e non viene applicata, a leggere sui giornali notizie che non dovremmo leggere e che riguardano persone di cui non dovremmo conoscere i cazzi e di cui invece sappiamo tutto, anche se quelle persone non sono indagate, solo perché qualche magistrato o giudice burlone ha scelto di inserire un qualche bignè in un qualche fascicolo giudiziario. Non verrà risolto il tema chiave, cruciale, centrale nel ragionamento della terzietà del magistrato, che riguarda la separazione dei poteri e delle carriere dei magistrati - e oggi solo un matto che ha passato gli ultimi anni della vita a leggere le gazzette delle procure può dire con serietà che un magistrato che lavora negli stessi uffici di un giudice ha nei confronti del giudice la stessa posizione che ha un avvocato: scemenze. Non verrà risolto, ancora, il tema chiave, cruciale e drammatico della politicizzazione della magistratura, che non è soltanto un concetto astratto di propaganda politica, ma è un tema certificato dalla permanenza delle correnti della magistratura, che costituiscono il miglior terreno per fertilizzare anche nel futuro nuove simpatiche esperienze di dipietrismo e ingroismo chiodato. Aborro. Non verrà toccata, temiamo, e neppure rivista, neanche quella barzelletta che è diventata l'obbligatorietà dell'azione penale - perché ogni notizia di reato che sceglie di istruire un magistrato non è frutto della sua volontà, non diciamo stupidaggini, ma è frutto di un processo di selezione, perché ogni magistrato decide sempre, in modo del tutto soggettivo, cosa vale la pena affrontare, su cosa vale la pena indagare, e su cosa no, ed esercita l'azione penale in modo discrezionale. Tutto questo temiamo che non accadrà, temiamo che sul processo penale, che poi è il cuore della nostra giustizia ingiusta, dello squilibrio dei poteri, verrà toccato poco o nulla. Temiano che la distanza tra enunciazione e rottamazione anche su questo terreno sarà molto forte, perché a parole Renzi i magistrati li fa stare sempre al suo posto (e in Italia sono tanti i magistrati che dopo aver passato una vita a inseguire Berlusconi non vedono l'ora di poterlo fare con gli amici di Renzi) ma con le riforme poi non osa più di tanto. Lo diciamo, questo, con rammarico e con tristezza perché Renzi ha le caratteristiche per essere la persona giusta per fare queste riforme. E va bene la responsabilità civile dei magistrati (applausi, bravo) e vanno bene le riforme sulle ferie (sbadigli, che noia) ma se proprio Renzi vuole ristabilire un pò di principio di Montesquieu in Italia, se proprio vuole sfidare l'Anm, dovrebbe combattere non solo con le parole il processo mediatico e dovrebbe impegnarsi per far sì che la nostra giustizia torni a essere quella che non è oggi: sempre indipendente, sempre imparziale e soprattutto sempre terza. E invece oggi, niente, terzietà non datur. E non lo dice il Foglio, lo dice il codice di procedura penale: articoli 25, 101, 102, 104, 107, 108, 111. Chissà che ne pensa Renzi. Chissà che ne pensa il ministro Orlando. Giustizia: responsabilità civile, i magistrati si spaccano e bocciano lo sciopero di Liana Milella La Repubblica, 23 febbraio 2015 Politica unita, magistratura divisa. La nuova formula della responsabilità civile diventerà legge mercoledì, per le toghe è "inutilmente punitiva", ma sulla protesta si dividono. Uniti solo nel chiedere un incontro al presidente Mattarella. Una giornata di discussione a piazza Cavour, ma alla fine ben quattro documenti distinti. Soprattutto niente sciopero chiesto solo da Magistratura indipendente, giusto la corrente a cui appartiene il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri. La sinistra di Area e i centristi di Unicost - da tre anni al governo dell'Anm - si fermano allo "stato di mobilitazione". Per il presidente Rodolfo Sabelli lo sciopero "è una testimonianza disperata e impotente che verrebbe percepita come la manifestazione di una casta che difende un privilegio". La neonata Autonomia e indipendenza, costola di Mi che annovera Pier Camillo Davigo tra i fondatori ed esordisce nel "parlamentino" dei giudici, vuole lo sciopero bianco (si lavora, senza "coprire" i compiti dei cancellieri). Stessa richiesta dai movimentisti di Proposta B come Andrea Reale. È una pagina che lascerà il segno nella vita associativa e nel destino della magistratura. Da una parte c'è una politica pronta a fare il passo. Il Guardasigilli Andrea Orlando, al forum riservato del Pd sulla giustizia, giovedì ha definito la legge "equilibrata, necessaria non solo per rispondere alle richieste della Ue, ma anche al bisogno di rivedere la Vassalli". Donatella Ferranti, responsabile Giustizia del Pd ed ex pm, dice che "la legge non è certo quella con la responsabilità diretta che avrebbe voluto la destra". Quella del famoso emendamento Pini. Il viceministro della Giustizia Enrico Costa di Ncd plaude "al traguardo storico raggiunto". Nessun margine di trattativa, anche perché giovedì si riunisce la commissione Ue che, senza la legge, farà cadere sull'Italia una multa da 53 milioni di euro. Niente più filtro sui ricorsi, ma soprattutto "il travisamento del fatto e delle prove" come colpa grave. Ma anche la rivalsa obbligatoria. Sono questi gli incubi che spingono Antonello Racanelli, pm a Roma, segretario di Mi ed ex Csm, a chiedere lo sciopero. "Prima le ferie, ora questo, domani che ci aspetta?" dice ai suoi. Contestato dal gruppo che ha deciso di rompere con i "ferriani" e che giudica la richiesta dello sciopero "solo un sistema per distruggere l'Anm e dar vita a un nuovo sindacato". Sebastiano Ardita, procuratore aggiunto a Messina e tra i fondatori di Autonomia e indipendenza, insiste sullo sciopero bianco e "sulla tutela giudiziaria che l'Anm deve garantire ai colleghi vittime dei risorsi contro cui sollevare subito l'eccezione di incostituzionalità della legge". Cade nel vuoto l'appello di Ezia Maccora, il gip di Yara e toga storica di Md, che ai colleghi ricorda "gli scioperi unitari contro l'ordinamento…". Lavora a una mediazione la segretaria di Md Anna Canepa, ma i margini sono strettissimi. Chi governa l'Anm non vuole fare mosse azzardate, questo spiega la strategia di non fare lo sciopero bianco prima di aver ricostruito "le attività di supplenza". Protesta Loredana Micciché di Mi, "è assurdo, la legge è gravissima, come farà un giovane al sud a sequestrare miliardi ai mafiosi senza avere paura?". Dal Csm ecco la voce dell'ex presidente dell'Anm Luca Palamara: "Non è il momento di fughe in avanti, su ferie e responsabilità la magistratura unita deve fare iniziative serie e responsabili". Proprio al Csm si giocherà la partita dei "carichi esigibili", quello che oggi il magistrato fa, anche se non gli spetta. Se si fermasse sarebbe la paralisi. Giustizia: Virgilio Balducchi (Capo Cappellani); senza dignità la cella è disumanizzante Radio Vaticana, 23 febbraio 2015 "Ma in questa Quaresima nel tuo cuore c`è posto per quelli che non hanno compiuto i comandamenti? Che hanno sbagliato e sono in carcere?". A domandarlo è stato il Papa in una delle omelie pronunciate nei giorni scorsi a Casa Santa Marta, durante la Messa. Francesco ha fatto riferimento a quanti allontanano chi ha sbagliato, aggiungendo "se tu non sei in carcere è perché il Signore ti ha aiutato a non cadere". Luca Collodi ne ha parlato con don Virgilio Balducchi, ispettore generale dei Cappellani delle carceri italiane. R. - Sicuramente, la prima cosa che si vede nel messaggio del Santo Padre, l'indicazione, è che gli strumenti che lui suggerisce hanno un obiettivo: di cancellare l'indifferenza o di lavorare contro l'indifferenza verso le persone che soffrono di più e che non vengono considerate. Quindi, da questo punto di vista, è un messaggio che conferma la capacità di Papa Francesco di ricordare a tutte le comunità cristiane che non c'è nessun luogo in cui ci possano essere delle persone non considerate fratelli. E questa, credo che sia la prima cosa, che impatta bene con il mondo del carcere, che è un luogo sempre un po' separato da tanti nostri pensieri e anche dal nostro vissuto. D. - Senza dimenticare il tema della "globalizzazione dell'indifferenza", riflessione frequente nelle parole del Papa: nel carcere si rischia proprio la globalizzazione dell'indifferenza… R. - Esatto. E da tutti i punti di vista: sia dal punto di vista dell'indifferenza, sia della globalizzazione, perché nelle nostre carceri ormai c'è il mondo intero proprio per la provenienza da nazioni diverse. Credo, tuttavia, che anche in carcere si possano vivere dei cammini di costruzione della propria conversione e di capacità di essere solidale con gli altri: proprio dentro quei luoghi, in cui forse si pensa che ci sia il male, che ci sia chiuso il male, sperimentiamo invece tanta capacità di condividere la sofferenza, anche con delle azioni di carità verso chi ha di meno. Il mondo del carcere è infatti abitato anche da persone molto povere e da persone detenute che possono un po' di più e aiutano a condividere quello che hanno. Quindi, da questo punto di vista, c'è già un'indicazione di vissuto. L'altra esperienza che si fa durante la Quaresima è quella di sentire la vicinanza di Gesù Cristo giudicato e anche crocifisso. C'è, dunque, una capacità di cogliere la problematica del Signore giudicato, del Signore in croce, che è vissuta sulla propria pelle. D. - Don Balducchi, dopo la Quaresima arriva la Resurrezione. Per restare al tema carcere, possiamo tentare un paragone tra la speranza della Resurrezione e la ricerca di giustizia da parte degli uomini? R. - L'uomo è capace, sicuramente, di fare una giustizia migliore. Il problema è che alcune volte non si lascia convincere, perché giudica ancora attraverso dei percorsi di vendetta, in cui si mette in testa che la cosa migliore, per rispondere al male, sia fare dell'altro male. La Resurrezione nella giustizia vuol dire fare il bene anche a chi eventualmente ha fatto il male. E questa, è l'esperienza della Resurrezione, che libera dal male. Ciò rende anche possibile cammini di resurrezione, di cambiamento e di libertà nuova. D. - Si parla molto di carcere nel mondo politico e sociale. È cambiato qualcosa, negli ultimi mesi, nella realtà carceraria italiana? R. - Realisticamente, dobbiamo dire che il numero dei detenuti è diminuito. Questo permette di lavorare un pò meglio. È anche vero che ci sono nuove sperimentazioni di responsabilizzazione delle persone detenute, sia all'interno del carcere che fuori, con i lavori socialmente utili. Ma si tratta ancora di sperimentazioni e dobbiamo dire che non sono la struttura fondante. Questa dovrebbe essere in ogni caso che nessun detenuto sia lasciato a vivere da solo o con altri, abbondanti purtroppo nelle celle, senza fare niente tutto il giorno. Purtroppo, la maggior parte della realtà carceraria è ancora in questa condizione. Finché, in un modo molto radicale, non porteremo le persone a essere e vivere con dignità, compreso lavorare per poter vivere, il carcere resterà sempre una struttura piuttosto devitalizzante. Giustizia: la gogna della galera, ultima ipotesi di sfascio per Berlusconi di Giuliano Ferrara Il Foglio, 23 febbraio 2015 Si parla dell'arresto di Berlusconi. Il meccanismo è semplice, infernale. Berlusconi ha un giro di amici (Mora eccetera) e amiche (le ragazze delle feste di Arcore). Il suo trattamento della bisboccia è generoso con tutti, maschietti e femminucce, com'è nello stile dell'uomo e dell'imprenditore e impresario di successo. Berlusconi non è l'unico nella storia a intrattenere le donne come occasione carestosa di divertimento e sfida: nel Don Giovanni di Mozart e Da Ponte l'investimento in "femminile" è dichiarato, spavaldo. Il magistrato italiano e milanese trasforma la bisboccia in crimine penale, comincia a introdurre il tema della prostituzione anche minorile in inchieste devastanti che si svolgono prima di tutto su giornali e tv, e invadono lo spazio politico di un uomo pubblico che ha una vita privata rutilante, sopra le righe. Il tutto si accompagna a un'orchestrazione immorale di moralismo accattone, travestito perfino da femminismo, e il senonoraquandismo porta o squaderna in piazza il linciaggio della persona e del suo gruppo e delle ragazze, con palese e continuato effetto di intimidazione. Ora che è caduto il teorema d'accusa con il processo d'appello sul caso Ruby, sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste o perché il fatto non costituisce reato, bisognerà pure trovare un modo per far rivivere la campagna giudiziaria cominciata con Tonino Di Pietro all'insegna della frase, rivelata da Francesco Saverio Borrelli, "io a quello lo sfascio". Eccolo trovato. Berlusconi aiuta le sue amiche, case, soldi, vacanze: una perquisizione ben fatta, una paparazzata su una spiaggia bianca, dati favolosi su stipendi accreditati mensilmente, vouyeurismi impiccati a case e ville, e la campagna d'opinione assassina riparte, con il corredo inquietante dell'accusa di corruzione in atti giudiziari mediante pagamento dei testi, e con l'ipotesi (da arresto) della reiterazione del reato. I tempi sono importanti. La Cassazione deve pronunciarsi a giorni sull'appello assolutorio. Berlusconi sta finendo di espiare in modo disciplinato una pena che giudica ingiusta e frutto di accanimento politicizzato, quella per frode fiscale contro la quale ha fatto ricorso alla Corte europea. Non si può mollare l'osso proprio ora. Serve nuova intimidazione con procedure oggettive, ai sensi del codice, e serve assolutamente il "pentimento", cioè la resa al pm, di qualche teste utile a reimpostare il caso. Ma non basta. Ci sono i tempi della politica, in un paese come l'Italia. Berlusconi ha appena fatto un errore blu. Aveva contratto un patto riformatore con l'uomo nuovo della politica e delle istituzioni, segretario del Pd e presidente del Consiglio. Ha lasciato che quello scudo contro le avventure si rompesse, addebitandone la responsabilità a Matteo Renzi, che non avrebbe usato un metodo rispettoso per l'elezione del presidente della Repubblica. La conseguenza non è il riformarsi di una leadership di opposizione riconosciuta. Si perde la visione repubblicana, non si acquista altro che la ulteriore frantumazione di un movimento politico in parte fuori controllo. Dilagano personalismi, cattivi umori, pagliacciate di vario ordine. E ciascuno si fa i fatti suoi, nella migliore tradizione di desolidarizzazione all'italiana, che scatta quando il capo è indebolito dalle sue stesse scelte o dalla situazione in cui lo cacciano eventi indipendenti da lui. In questo quadro l'ipotesi di un nuovo colpo contro Berlusconi è la coriacea e subdola riproposizione del teorema dell'Arcinemico, del male assoluto, dell'uomo da sfasciare. La giustizia americana non si è ritenuta in grado di processare in modo credibile Dominique Strauss-Kahn, perché la cameriera d'albergo oggetto di una sua provata azione sessuale d'occasione non era giudicata sufficientemente cedibile come teste d'accusa in un caso di stupro. La giustizia francese, meno garantista, ha incastrato l'ex capo del Fondo Monetario Internazionale in un dibattimento processuale imbarazzante per i dettagli morbosi resi noti sui gusti predatori della sessualità dell'imputato nel corso delle orge trimestrali organizzate per lui dai suoi amici a pagamento. Ma ora fa marcia indietro e lo proscioglie dall'accusa di racket prostitutorio. Berlusconi non ha da rimproverarsi niente di tutto questo, è un amorino da burlesque e un vecchio e ricco signore che spende come desidera i suoi soldi. Ma la logica dello sfascio politico-giudiziario potrebbe da un momento all'altro, e sarebbe l'ultima vergogna, consegnarlo alla gogna della galera. Giustizia: caso Yara; Bossetti agli altri detenuti "non confesso per la mia famiglia" di Giuliana Ubbiali Corriere della Sera, 23 febbraio 2015 La frase trascritta negli atti dell'inchiesta sull'omicidio di Yara. La difesa: il killer è mancino. "Confessa, così puoi avere uno sconto di pena. Altrimenti rischi l'ergastolo". Consigli, o provocazioni, di questo tenore da parte di altri detenuti a Massimo Bossetti sono negli atti dell'inchiesta sull'omicidio di Yara Gambirasio che il pm Letizia Ruggeri sta per chiudere. Ci sono finite anche le risposte che il carpentiere di Mapello avrebbe dato: "Rischierò l'ergastolo, ma non confesso per la mia famiglia", è il senso. E adesso quelle frasi, chiacchiere con altri detenuti nella sezione protetta in cui Bossetti è rinchiuso, sono finite nelle carte dell'inchiesta. Questo significa che il pm le ritiene interessanti e che il carpentiere era sotto osservazione. Non a caso in carcere erano state piazzate delle cimici (scoperte da altri detenuti) ed è stata annotata ogni sua azione e parola, compreso il modo di affrontare i nuovi indizi contro di lui che gli ha raccontato ogni volta il suo avvocato, Claudio Salvagni. È il legale, il suo ponte con il mondo esterno. Ed è lui che dice: "Non confessa, perché non ha fatto nulla. Non crolla, perché vuole dimostrare la sua innocenza". Allora che cosa significa quel "non confesso per la mia famiglia?". È uno dei dettagli che il pm intende approfondire a dibattimento. Un dettaglio, appunto. Uno dei tanti che servirà a rafforzare il cuore dell'indagine, quello che riguarda invece elementi scientifici e tecnici. I principali. Il Dna dell'indagato che - l'accusa non ha dubbi - corrisponde a quello del presunto killer trovato sugli slip e sui leggings di Yara. Le telecamere di una ditta, di un distributore di benzina e di una banca di Brembate di Sopra che riprendono un furgone Iveco Daily identico al suo circolare attorno alla palestra per un'ora, fino a pochi minuti prima della scomparsa della tredicenne. Le fibre di quattro colori (giallo, grigio, blu e celeste) dei sedili del suo mezzo uguali a quelle trovate sui leggings e sul giubbotto della vittima. E, ancora, le ricerche dal computer di casa Bossetti con "tredicenni" e altri termini a sfondo sessuale. Per la Procura sono elementi forti, sufficienti a sostenere l'accusa in dibattimento. La difesa li attacca con l'arma del dubbio. L'avvocato Salvagni ha organizzato una conferenza stampa nel suo studio di Como per illustrare che cosa non torna alla difesa. Con lui c'era il pool di consulenti: il medico legale Dalila Ranalletta, gli esperti informatici Giuseppe Dezzani e Paolo Dal Checco, il criminologo Ezio Denti e il professore di logica Sergio Novani. Non c'era invece Sarah Gino, medico legale specializzata nel Dna, "per via di un altro impegno", spiega Salvagni. I dubbi sollevati, dunque, e le ipotesi alternative "di pari dignità di quelle della Procura". L'arma: "La lama di due millimetri e il tipo di ferite indicano che è importante, non può essere un cutter. Il killer potrebbe essere una persona che sa maneggiare le armi, per esempio qualcuno che pratica arti marziali, e sulla base di una simulazione è più convincente che sia un mancino". Il luogo dell'omicidio: "La posizione del corpo, troppo ordinato, fa dubitare che sia avvenuto nel campo. Inoltre, in corrispondenza delle ferite i vestiti non risultano tagliati, e il collo della maglietta non è sporco di sangue". Le ricerche sul computer di casa Bossetti: "Sono state prodotte in modo automatico dal computer, a seguito di altre navigazioni di Bossetti e di sua moglie. Inoltre, si attribuisce una ricerca a Bossetti perché quel giorno non era al lavoro ma al tempo stesso un'altra in un giorno in cui risultava in cantiere". Le fibre trovate sui leggings e sul giubbotto di Yara che corrispondono, secondo l'accusa, a quelle dei sedili sul furgone di Bossetti: "Dalle nostre ricerche risulta che quella tappezzeria sia stata usata per molti mezzi, anche su treni e pullman". Domanda dei giornalisti: "Ma al di là di tutto, come si spiega che il Dna dell'indagato sia stato trovato sugli indumenti della vittima?". È il cuore della battaglia. Per la Procura è un pilastro: basta il nucleare per identificare una persona. "Ma deve corrispondere al mitocondriale per fugare ogni dubbio", contesta l'avvocato. Ieri la difesa ha evidenziato un passaggio della relazione di Carlo Previderè, consulente del pm che ha analizzato tracce pilifere trovate su Yara. È emersa una corrispondenza tra due reperti e il Dna mitocondriale di una delle 532 donne sottoposte al test per la ricerca della madre del killer. Per gli inquirenti il dettaglio non ha rilevanza: il Dna mitocondriale può essere condiviso da persone che non hanno legami di parentela. Legale: Bossetti vuole dimostrare innocenza per figli "Massimo Bossetti ha sempre detto a chiunque in carcere che non confessa perché vuole dimostrare la sua innocenza per la sua famiglia: non ha nulla da confessare e vuole che i suoi figli camminino a testa alta". A spiegarlo è stato il difensore del muratore, Claudio Salvagni, in relazione a notizie di stampa secondo le quale il muratore, in carcere dal 16 giugno scorso, avrebbe detto a un detenuto, la cui testimonianza è agli atti dell'inchiesta sull'omicidio di Yara Gambirasio, di non voler confessare "per la sua famiglia". Salvagni, nei mesi scorsi, aveva parlato di "inaccettabili pressioni", all'interno dell'istituto di pena, per far confessare il muratore. Giustizia: morto Carmine Schiavone, pentito di Camorra che svelò lo scandalo dei veleni Corriere della Sera, 23 febbraio 2015 Anticipò lo scandalo dei rifiuti. A verbale disse: i clan hanno devastato terre nelle quali, visti i veleni sotterrati, si poteva immaginare che in 20 anni sarebbero morti tutti". Tutto quello che negli ultimi anni è emerso in tema di rapporti tra rifiuti, smaltimento, camorra e politica, lui lo aveva raccontano almeno 20 anni fa, tra il 1993 e il 1997, alla magistratura. Spesso ascoltato con attenzione. Talvolta no. Parliamo del pentito di camorra Carmine Schiavone, morto nella sua casa di Viterbo a 72 anni. La causa del decesso sarebbe un infarto. Da alcuni anni era uscito dal programma di protezione per i pentiti. Schiavone è noto per aver portato, con le sue dichiarazioni alle commissioni parlamentari d'inchiesta, alla magistratura e ai media, alla ribalta il caso della "Terra dei fuochi" vale a dire dei rifiuti tossici nascosti abusivamente dalla camorra nel casertano. "Il traffico e l'interramento dei rifiuti in provincia di Caserta era un affare da 600-700 milioni di lire al mese, che ha devastato terre nelle quali, visti i veleni sotterrati, si poteva immaginare che nel giro di vent'anni morissero tutti". Parole che mettono i brividi quelle pronunciate nel 1997 da Schiavone davanti alla Commissione ecomafie, in una audizione i cui verbali furono desecretati nel 2013. La sentenza senza appello pronunciata dall'ex boss riguardava tanti centri del Casertano, "gli abitanti di paesi come Casapesenna, Casal di Principe, Castel Volturno e così via, avranno, forse, venti anni di vita". Rifiuti radioattivi "dovrebbero trovarsi in un terreno sul quale oggi ci sono le bufale e su cui non cresce più erba", raccontava Schiavone. Fanghi nucleari, riferiva, arrivavano su camion provenienti dalla Germania. Nel business del traffico dei rifiuti, secondo il pentito, erano coinvolte mafia, `ndrangheta e Sacra Corona Unita. "C'era di tutto: rifiuti speciali, rifiuti chimici, rifiuti ospedalieri e anche fanghi termonucleari. Arrivavano da aziende del Nord - raccontò Schiavone - ma anche aziende della zona di Roma. E neanche alcuni imprenditori del nord Europa erano esenti dalla relazione criminale con il clan dei Casalesi che questi rifiuti andava a sversare", aveva detto in un'intervista che suscitò clamore e, negli ultimi tempi, scettico sulla fine delle organizzazioni criminali ripeteva: "La mafia non sarà mai distrutta perché ci sono troppo interessi, sia a livello economico sia a livello elettorale. L'organizzazione mafiosa non morirà mai". Carmine Schiavone si era attribuito circa settanta omicidi e centinaia quelli commissionati. Tuttavia la sua rimane una figura controversa. Cugino del ben più noto Francesco Schiavone, soprannominato dai mass media Sandokan, attualmente all'ergastolo, il suo nome, come detto era tornato d'attualità nel novembre del 2013 quando divennero di dominio pubblico alcune dichiarazioni fatte già nel 1997 alla Commissione parlamentare d'inchiesta. Ragioniere, sposato con sette figli, Schiavone "si pente" perché, come racconterà lui stesso, ritiene di essere stato "tradito" dal clan. Schiavone, infatti, viene arrestato nel luglio del 1991, e poi, ottenuti i domiciliari, una seconda volta l'anno successivo con l'accusa di evasione: viene infatti sorpreso in Puglia invece che a Casal di Principe. È proprio questa circostanza a fargli sospettare che qualcuno l'abbia "venduto" e a spingerlo a collaborare: è il 1993 e con le sue dichiarazioni l'ex boss darà vita al processo Spartacus, che porterà alla condanna, tra gli altri, di Sandokan, Michele Zagaria e Francesco Bidognetti. L'ex boss dei Casalesi aveva iniziato a collaborare con la giustizia nel 1993. Le sue deposizioni furono determinanti per il maxi blitz che portò a 136 arresti di affiliati al clan, operazione da cui derivò il processo "Spartacus". Anche qui le dichiarazioni di Schiavone furono al centro delle accuse. Al termine del processo furono condannati il cugino Francesco Schiavone detto Sandokan, Michele Zagaria e Francesco Bidognetti, ritenuti la cupola del clan. Con loro furono condannate altre 30 persone. Finito il programma di protezione, da cui era uscito per non aver rivelato tutto ai magistrati, Schiavone si era trasferito con la moglie e i figli nella Tuscia, in una casa nei paraggi del lago di Vico, dove è morto. Il suo nome tornò alla ribalta nel 2008, quando voci raccolte dalle forze dell'ordine lo davano come possibile organizzatore di un attentato contro Roberto Saviano. Ma sulla circostanza non emersero riscontri concreti. "La collaborazione di Carmine Schiavone fu fondamentale perché fu il primo esponente del clan che ha aperto uno squarcio sul sistema criminale creato dai Casalesi e l'unico che davvero ci ha aiutato capire una realtà in cui accanto alla forza militare c'era una rilevante forza economico-imprenditoriale". Lo afferma il Procuratore di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho, che nel 1993 raccolse le dichiarazioni di Schiavone e sostenne l'accusa nel maxi-processo "Spartacus" contro i Casalesi. Lettere: bestemmiare i morti in carcere di Cristiano Vidali www.articolo21.org, 23 febbraio 2015 Il crollo del miracolo della vita non desta più alcuno sconcerto: tanto più ricorre un evento, tanto più celermente esso ricade nell'insignificanza; "in fondo, non c'è idea cui non si finisca per fare l'abitudine", diceva Camus. Ma, questa volta, il silenzio colpevole di un'intollerabile indifferenza ha subito un insolito riscatto dall'anonimato, generato da una delle infinite manifestazioni della putredine umana. A questo, forse, non ci s'abitua mai. Venerdì scorso le fredde mura carcerarie del penitenziario di Opera a Milano hanno assistito all'ennesimo suicidio: Ioan Gabriel Barbuta, un trentanovenne rumeno condannato all'ergastolo nel 2013 per omicidio, si è impiccato nella propria cella. Alla pubblicazione da parte dell'Alsippe, Alleanza sindacale polizia penitenziaria, di un link sul proprio sito dichiarante il suicidio avvenuto è seguita la condivisione sulla pagina Facebook del Giornale della Polizia Penitenziaria; qui, sudici utenti in divisa hanno commentato, corroborati da abietti "mi piace", l'accaduto: "Ottimo. Speriamo abbia sofferto"; "Uno in meno"; "Uno in meno, che sicuramente non avrebbe scontata la pena per intero, ci sarebbe costato parecchi denari e che all'uscita avrebbe creato nuovi problemi. Spero che abbia sofferto. 3mq a disposizione per qualcun'altro"; "Consiglio di mettere a disposizione più corde e sapone…"; "Collega scala la conta". Ho riportato per intero i commenti principali perché il marciume non va nascosto sotto il tappeto, ma dev'essere fissato fino alla nausea così da sentire nel profondo delle viscere cosa l'uomo possa essere e cosa egli possa dire impunemente, celato dal manto fragile delle parole. Che gli autori dei commenti siano agenti è quasi secondario: è ripugnante che un qualsiasi individuo possa riferirsi alla cessazione della vita, soprattutto nelle disumane condizioni di un ergastolano, con vile asperità e sordida veemenza. Dalle nauseabonde parole proferite in merito, emerge con tutta evidenza come il suicidio sia solo una circostanziale ricorrenza che nulla aggiunge ad una condizione umana già miserabile: a questi occhi immondi, il detenuto è già da sempre vita morta. L'ergastolano è morto perché consegnato ad una sorte inflessibile, ad un'oscura giustizia che si vede realizzata con la revoca dell'anima, la soppressione di ogni possibilità di riscatto. La vita è già morta perché macchiata dal crimine, che, indipendentemente dall'imprevedibilità delle cause, espropria i corpi della dignità, del diritto, della cittadinanza nel mondo degli uomini liberi e li consegna in catene, come difettosi oggetti inguaribili, ad una fallimentare ortopedia sociale. Contro qualsiasi morale, questi eventi ci dicono che davvero la vita sembra avere un prezzo; un prezzo desunto dalla miseria a cui l'uomo è stato spinto, che sancisce l'eventuale dignità della conduzione di un'esistenza. Un'asta dove si vende un corpo inerte e a farne la stima è un fantoccio del disumano potere dell'ignoranza. E, fra un corpo convulso che scioglie gli stenti nella luce salvifica della morte ed un'immonda divisa che con le parole dell'istituzione ricopre carcasse vive di frustrazione, chi sia il mostro e chi l'uomo è tutto da vedere. Non esiste reato d'opinione, ma la bestialità che attenta alla radice dei diritti umani è intollerabile; la denotazione del mostro, la sua svalutazione fino all'annichilimento sono un'aperta violazione dell'ormai attempata Dichiarazione dei diritti umani. Tuttavia, finché le parole non susciteranno altro che corrivo sdegno, al quale, in assenza di riferimento agli atti, non segua provvedimento alcuno, l'educazione alle pur fievoli manifestazioni della giustizia sociale resterà sempre solo una favola inverosimile. Appare evidente, infine, perché un miglioramento delle condizioni degli ultimi resti un'agognata utopia, perché alla malattia dell'anima sembra non si possa trovar cura. Se gli agenti sono i primi ad intervenire con parole abiette e difformi, una rieducazione nelle carceri, il fine esclusivo del penitenziario, ed un miglioramento generale delle condizioni dei condannati, corpi già da sempre privati di ogni residuo di umanità, sono solo speranze vane divorate dall'arida realtà. Ci sono leggi atemporali che devono intagliarsi irrevocabilmente nel granito della Storia, senza subire la sottomissione delle imprevedibili oscurità dell'uomo. Il cuore di queste terrose norme celesti è l'unanime concordia sul fatto che la vita umana, nel suo incommensurabile enigma, non dev'essere degradata né scalfita in qualsivoglia circostanza. Il tempo tenta di trattenere tali imperativi nelle declinazioni, spesso fallimentari, della giurisprudenza, dell'ipocrita perbenismo, delle morali malleabili di moltitudini fintamente consapevoli e responsabili. Ma eventi come questo concorrono a testimoniare che l'interiorizzazione dei suddetti principi divini hanno manifestazioni bizzarre quanto feroci e che, se la legge dell'uomo è stata scritta, ciò non è avvenuto nel granito, ma sulla sabbia o, forse, nell'incostante liquido dell'ignoranza. Lettere: se invece di costruire più carceri, depenalizziamo di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 23 febbraio 2015 Caro Severgnini, in Italia le pene detentive sono irrisorie. Il fenomeno caratterizza tutti i tipi di reati, dagli omicidi alla corruzione. Siamo pragmatici: la natura umana risponde a incentivi e pene. Le azioni degli individui, fatte salve le eccezioni alla Madre Teresa di Calcutta, sono guidate da quei due parametri. In Italia la parte repressiva e correttiva non esiste più. Invece di costruire più carceri, depenalizziamo. Bene. Così tutti vengono qui e fanno ciò che vogliono; se li pescano, sono fuori il giorno dopo. Il caso di Corona è emblematico: è uno dei pochi che sta scontando una pena e sembra un martire. Davide Vecchi Risponde Beppe Severgnini Mettiamola così. Per i corruttori, e per chi si lascia corrompere, i rischi sono minimi. Lo stesso vale per i rapinatori domestici, un incubo collettivo. Pene modeste, tribunali intasati, avvocati esperti, condizionale, patteggiamenti, prescrizione dietro l'angolo: difficile finire in galera, impensabile restarci a lungo. I detenuti per reati finanziari, in Germania, sono 55 (cinquantacinque!) volte più numerosi che in Italia. Ma se qualcuno, da noi, propone modifiche alle norme e alle procedure, apriti cielo! I simpatizzanti dei gaglioffi, nei media, cominciano a gridare "Manettari! Giustizialisti!". E molti italiani, temendo di finire nella rete, si compiacciono. Su questa inconfessabile complicità la politica ha campato a lungo. Mettiamocelo in testa: corrotti, corruttori e grandi evasori non si fermano davanti agli auspici, agli editoriali, ai discorsi del Presidente delle Repubblica. Non si fermano per senso civico. Non si fermano perché sentono i rimorsi di coscienza. Si fermano solo se capiscono che, se li pescano, finiscono dentro. E ci stanno. Così accade, ripeto, in Germania, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Antiche democrazie, non satrapie mediorientali. Sardegna: l'isola del "carcere duro", in arrivo nelle prigioni sarde 200 detenuti in 41bis di Monia Melis www.lettera43.it, 23 febbraio 2015 Si torna indietro di 30 e passa anni. La Sardegna Cayenna di Stato, presto, prestissimo, anzi ora. Come ai tempi del super carcere dell'Asinara e quello di Badu e Carros a Nuoro, quando nell'Isola arrivavano brigatisti e mafiosi. Fuori dalle sbarre strade blindate e famiglie a seguito che si trasferivano a Sassari e Porto Torres: con un copione simile compravano negozi e pizzerie, spesso mai aperte al pubblico. Dentro c'erano i regolamenti di conti: omicidi e sicari con vere esecuzioni ordinate da lontano. Presto la Sardegna potrebbe ancora aprirsi al rischio infiltrazioni grazie al nuovo piano per l'edilizia carceraria deciso a Roma. Da anni e con finalità precise, non solo svecchiare. La conferma arriva da una sede istituzionale: la Commissione parlamentare antimafia presieduta da Rosy Bindi. Lì, il capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, durante un'audizione ha confermato che ben 200 detenuti al 41 bis, il cosiddetto carcere duro, saranno destinati alla Sardegna. Unico intoppo: gli ultimi lavori da completare, sia nell'istituto del Sud Sardegna, a Uta, 10 chilometri da Cagliari, sia in quello del Nord, nella borgata di Bancali, a Sassari. Il sollecito arriva sempre dal capo del Dap, Consolo: "Non è allora tollerabile che ci siano due istituti, Cagliari e Sassari, costati moltissimi soldi allo Stato, dove potremmo sistemare quasi 200 detenuti al 41 bis: ma uno, quello di Sassari, non può essere aperto perché non è stato ancora attivato il sistema di multi-conferenze, l'altro, quello di Cagliari, è in via di ultimazione ma con lavori da accelerare". Le carceri sono congestionate ovunque: da Strasburgo avevano già storto il naso per il sovraffollamento italiano. Spesso non sono rispettati nemmeno i criteri minimi di isolamento e sicurezza per reclusi di spicco: due stanze che fronteggiano lo stesso corridoio, oppure una sopra e una sotto. Non impermeabili, dunque, alle comunicazioni. È sempre Consolo a tracciare il quadro: in tutta Italia i detenuti a regime 41 bis sono 720 distribuiti in 12 istituti di pena, 200 da destinarsi alla Sardegna. Più di un quarto del totale. E non è un caso che circa un anno fa si fosse espresso anche il procuratore generale di Cagliari, Mauro Mura, con un allarme sui legami stretti tra criminalità sarda e ‘ndrangheta calabrese. Tra blitz nei cantieri, comunicati e post sui social il più attivo nel denunciare è Mauro Pili, deputato del movimento Unidos e già presidente della Regione di centrodestra. Posizioni di lotta che arrivano dopo quelle di governo. Tra i consiglieri regionali spicca Anna Maria Busia, avvocato, del Centro democratico, per il resto l'allarme non sembra condiviso e urgente. E comunque per la concertazione Isola - Stato centrale c'è poco spazio, al di là dell'Autonomia. Tutto è già stabilito. Alcune carceri sono mezze vuote, altre senza posto A Uta la nuova struttura è stata inaugurata a novembre, con il trasferimento di massa dallo storico carcere cagliaritano di Buoncammino, costruito a fine Ottocento. Cinque pullman blindati hanno fatto la spola per trasferire i circa 340 detenuti. Ed è finita così un'epoca: quella delle celle con la città attorno. Un'apertura rinviata di continuo per un cantiere infinito: i bracci destinati al 41 bis, 92 detenuti, sono stati costruiti con appalti affidati d'urgenza per un costo totale di 95 milioni di euro. Procedure simili per Bancali, qualche chilometro fuori Sassari. Chiuso per sempre il terribile carcere di San Sebastiano, la nuova struttura è pronta a ospitare anche i capimafia: è costata, per ora, circa 90 milioni di euro. Manca ancora da ultimare qualcosa, però: da qui il sollecito del capo del Dap. Si apre e si chiude: in un continuo vortice. Appena due anni fa, sempre nel 2013, era stata inaugurato un altro istituto in Gallura, nella frazione di Nuchis, a Tempio Pausania. Nemmeno questo è un carcere qualsiasi: bensì di Alta sicurezza. I detenuti di Iglesias sono stati smistati, stessa cosa a Macomer, ex area industriale del Nuorese: niente più casa di detenzione. E a qualche chilometro di distanza si ridimensiona pure la scuola di polizia penitenziaria di Abbasanta. Al momento sono quindi operative meno di 10 strutture: si tagliano, insomma, quelle di provincia. I numeri della popolazione carceraria oscillano di continuo. Gli ultimi disponibili li ha forniti lo scorso ottobre l'associazione Socialismo diritti e riforme, filo diretto tra il dentro e il fuori. A settembre dello scorso anno c'erano 1.888 detenuti (35 donne e 493 stranieri) per 2.427 posti. Ma la metà degli istituti è sovraffollata, questo il quadro tracciato dalla presidente Maria Grazia Caligaris su dati forniti dal ministero. I casi da manuale nella struttura di Oristano-Massama (302 detenuti per 266 posti) e a Cagliari nell'ormai ex carcere di Buoncammino. Così si consuma il paradosso perché se in alcuni istituti non c'è posto, in altri ce n'è fin troppo. Si punta sul 41 bis e sull'Alta sicurezza mentre le colonie penali sono vuote. Nell'Isola sono tre con altrettante aziende agricole in cui si coltiva o si allevano animali, o almeno, si dovrebbe. I reclusi hanno la possibilità di imparare e di lavorare per ottenere prodotti da consumare e vendere. Ebbene, a fronte di 750 posti disponili, attualmente vi lavorano solo 284: nei tre presidii, di fatto, si marcia a un regime ridottissimo, meno della metà. Insomma, il rischio è che ci sia un collasso, non solo una perdita di entrate ma anche un danno per le finanze statali. Da qui la proposta dell'associazione Sdr di destinare ad Arbus, costa occidentale, a Isili, Campidano centrale, e a Mamone Lodè, nel Nuorese, i detenuti con una pena residua di almeno 6-8 anni. Attualmente chi arriva qui ha un conto in sospeso di circa quattro anni. Ma i piani nazionali hanno altre ambizioni: chi è destinato alla Sardegna ha pene diverse, decisamente più lunghe, e regimi più restrittivi. Non da scontare nei campi, ma nelle nuove maxi carceri. Napoli: Poggioreale, operazione umanità… così sta cambiando il carcere di Antonio Mattone Il Mattino, 23 febbraio 2015 Roberto Saviano nell'intervista rilasciata a Fabio Fazio durante la trasmissione "Che tempo che fa", ha parlato del carcere di Poggioreale come di un luogo "di totale assenza dei diritti, uno spazio che non è pensabile in uno stato democratico". Ci sembra, quella dello scrittore, sembra una visione che non tiene conto dei grandi processi di cambiamento che sono in corso. A partire dalla scorsa estate, infatti, è in atto una profonda trasformazione di questo istituto. Poggioreale, infatti, sta diventando a poco a poco un carcere più umano e normale. Innanzitutto il numero dei detenuti è sceso di oltre mille unità, passando da quasi tremila alle milleottocento persone recluse. Una riduzione significativa che rende più efficaci le attività trattamentali per il recupero e la rieducazione dei carcerati. Certo, i problemi relativi al sovraffollamento restano e sono gravissimi ma l'aria che si respira e le innovazioni che la direzione sta mettendo in campo che danno la cifra del cambiamento che sta avvenendo dentro quelle mura. Appena si varca il portone di ingresso non si sente più quell'aria di sospetto e di paura che si avvertiva negli anni passati. Indubbiamente anche la prossima visita di papa Francesco, che il 21 marzo pranzerà con i detenuti, contribuisce a creare un clima di entusiasmo e a migliorare la condizione degli spazi grazie ai lavori di ristrutturazione messi in campo. Ma non si tratta solo di un restyling esteriore. Infatti tra gli interventi innovativi bisogna segnalare quello realizzato al padiglione Firenze, dove sono collocate le persone alla prima esperienza detentiva, che è diventato un reparto dove si applica il cosiddetto "regime aperto". Qui i detenuti durante le ore del giorno sono liberi di circolare all'interno della sezione e di entrare nelle altre celle, per poi tornare nella propria nelle ore notturne. Nei prossimi mesi questo regime verrà applicato anche ad altri padiglioni. Una svolta c'è stata anche per lo svolgimento dei colloqui. L'apertura di nuove sale d'aspetto e l'introduzione dell'ingresso in ordine alfabetico hanno fatto si che scomparissero quelle file vergognose di mamme e bambini fuori al carcere. Gli incontri con i propri familiari oggi avvengono in un clima più sereno, senza banconi divisori e, a turno, nell'area verde dove poter abbracciare liberamente i propri figli. È stata inoltre offerta la possibilità di fare i colloqui il sabato, in modo da permettere ai bambini di non saltare la scuola. Non da ultimo va considerato l'ampliamento delle ore d'aria, che da due sono ora diventate quattro. Ripetiamo: i problemi di Poggioreale sono ben noti, e ancora molto resta da fare. Un cambiamento di mentalità chiesto al personale ma anche ai detenuti non è facile e ha bisogno di tempo e perseveranza. E sicuramente i commenti beceri su Facebook di quegli agenti che commentavano con soddisfazione il suicidio di un detenuto ergastolano restano una brutta pagina di disumanità. Bisogna piuttosto ricordare quei tanti episodi che hanno visto i poliziotti penitenziari protagonisti di salvataggi all'ultimo secondo, tagliando corde già al collo e tamponando le ferite di chi si tagliava le vene. Gesti che sono rimasti anonimi e non sono finiti sulle pagine dei quotidiani. La storia cambia, talvolta in modo improvviso e repentino come avvenne per la caduta del muro di Berlino. Altre mura si sgretolano più lentamente, come quelle di omertà e violenza che nel passato sono state consumate nel carcere di Poggioreale. Latina: sovraffollamento di nuovo a livelli di emergenza, 165 detenuti a fronte di 76 posti di Marianna Vicinanza www.corrieredilatina.it, 23 febbraio 2015 La nota della Cisl-Fns: 165 detenuti a fronte di una capienza di 76 posti. Incremento in tutto il Lazio dove al 31 gennaio le presenze sono aumentate di 500 unità. Aumentano i detenuti nel carcere di Latina, una situazione al limite già da parecchio tempo con una capienza regolamentare di 76 posti e una presenza effettiva di 165 persone. A richiamare l'attenzione sul problema il segretario regionale della Cisl-Fns Massimo Costantini. A Latina si è passati dai 139 detenuti censiti il 9 novembre ai 161 registrati lo scorso 31 dicembre fino ai 165 di oggi. Secondo il dato ufficiale del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) in verità aumentano, anche se di poco, i detenuti in tutte le carceri del Lazio e al 31 gennaio 2015 i reclusi presenti nei 14 istituti della Regione Lazio risultano essere 5.629, 515 in più rispetto ai 5.114 posti disponibili, e 29 detenuti in più rispetto al dato del dicembre 2014. Per quanto riguarda invece le detenute recluse attualmente raggiungono un numero di 408 unità. Ma a preoccupare è proprio la situazione di Latina dove c'è maggiore sovraffollamento insieme alle strutture di Cassino, Civitavecchia, Frosinone, Rebibbia, Regina Coeli, Velletri e Viterbo. A Latina ci sono 165 detenuti (di cui 35 donne) e per il sindacato si tratta di un "sovraffollamento che assume carattere emergenziale". "Per la Fns-Cisl si è ancora lontani dall'assicurare condizioni tollerabili di vivibilità all'interno di gran parte degli Istituti della Regione e le aggressioni al personale di Polizia Penitenziaria, ultimo quello di Civitavecchia dove un Assistente Capo ha riportato prognosi per 10 giorni, la difficile realtà dell'Istituto di Velletri e quella di quello di Latina, sono tutte spie di una tensione che, in troppe realtà, resta ancora troppo alta. La Fns-Cisl Lazio purtroppo evidenzia, come aggressioni del genere, si stanno verificando in quei istituti dove è in atto una "vigilanza dinamica" che invece di creare situazioni di benessere ai detenuti provocano situazioni critiche, quali aggressioni, a danno del personale penitenziario. Per Fns-Cisl Lazio occorre che in istituti dove è in atto una vigilanza dinamica, al fine di evitare episodi del genere, sia data la possibilità ai detenuti di poter lavorare, anche per lavori di utilità, e non come accade ora e per mancanza di fondi di oziare nei luoghi preposti alla detenzione Per quanto concerne invece i dati forniti dal Dipartimento Giustizia Minorile anche per i minori i dati sono lievemente in aumento, infatti, sono presenti all'Istituto "Casal del Marmo" 56 utenti con presenza media giornaliera di 53 presenze, nove in più rispetto a dicembre 2014. Monza: chiusura del Reparto detentivo femminile? il progetto è al vaglio del Dap di Marco Galvani Il Giorno, 23 febbraio 2015 "La chiusura del Reparto detentivo femminile per il momento è un progetto al vaglio del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria". La direttrice della Casa circondariale di via Sanquirico, Maria Pitaniello, mette i puntini sul piano che, sulla carta, dovrebbe portare al progressivo trasferimento delle detenute attualmente recluse a Monza, al completo restauro delle celle e alla riconversione del Femminile in una sezione maschile a regime attenuato con celle che sono più delle stanze di una pensione e doccia privata. Una sezione destinata a ospitare detenuti impiegati tutto il giorno in lavori all'interno della casa circondariale che rientreranno nelle celle soltanto la sera per dormire. "I lavori al tetto (dopo i pesanti problemi di infiltrazioni che un anno fa avevano costretto alla chiusura di una delle due sezioni, ndr) sono finiti e presto verrà avviata la bonifica degli impianti - continua la direttrice. L'obiettivo è di arrivare ad avere una sezione moderna", adeguata agli standard di abitabilità. Ci saranno stanze più grandi e, se le risorse lo consentiranno, ognuna avrà la propria doccia, a differenza del detentivo maschile dove ne è presente una comune con più box per ciascuna sezione. Un progetto che si potrà concretizzare una volta che arriverà il via libera del Dipartimento e quando saranno ultimati gli interventi di ristrutturazione. Un riammodernamento e una riorganizzazione con cui il carcere monzese prosegue sulla strada che ha già portato all'attivazione della sorveglianza dinamica in quattro sezioni. Un sistema a "regime aperto" dove i detenuti a media e bassa pericolosità (esclusi i reparti di osservazione, dell'Alta sicurezza, dei protetti e dell'infermeria) vengono controllati da un gruppo di agenti di polizia penitenziaria in pattuglia nelle varie aree del detentivo e, in remoto, 24 ore su 24 con il sistema di videosorveglianza. Novità che si aggiungono al programma di potenziamento delle attività lavorative, sportive, culturali, didattiche e ricreative: dal laboratorio di vetreria con la ditta Paci di Seregno all'assemblaggio di filtri d'acqua con la coop San Giuseppe, dall'assemblaggio di giochi e piccoli elettrodomestici con la cooperativa Opportunity alle attività avviate dalla Cooperativa sociale 2000 come la falegnameria e lo storico servizio di lavanderia, primo esempio in Italia a occuparsi anche della biancheria personale dei detenuti. E ancora il laboratorio teatrale, quello di arte-terapia e di ascolto musicale, le attività sportive (calcio e rugby). mentre nelle ultime settimane un paio di detenuti hanno iniziato tre mesi di tirocinio al Parco grazie alla collaborazione del carcere con il Consorzio Parco e Villa: si stanno occupando della manutenzione del verde, della raccolta delle foglie e della sistemazione dei vialetti. Un'occasione per imparare un mestiere con un lavoro di pubblica utilità. Piacenza: la direttrice Zurlo "dal teatro all'edilizia, tanti progetti per i detenuti" Libertà, 23 febbraio 2015 Il carcere sta attivando percorsi di recupero dei detenuti, e non pochi È questo il punto sul quale si sofferma un ampio intervento della direttrice della Casa circondariale, Caterina Zurlo, inviato a Libertà dopo l'intervista rilasciata dal Garante dei detenuti, Romano Gromi. Anzitutto la direttrice vuol "rassicurare in primis la cittadinanza, e poi anche il Garante dei diritti delle persone private della libertà, che il dettato normativo relativo alle finalità della pena e della carcerazione, che sta nella stessa Costituzione prima ancora che nella Legge, è assolutamente nella testa e nel cuore degli operatori penitenziari". E prosegue: "se mai si verificasse qualche disagio, non è senz'altro per impostazione culturale, ma per carenza di strumenti, per disposizioni che si eseguono, per situazioni di inopportunità che vanno sanate". Zurlo elenca poi nella nota per tranquillità di chi ha a cuore le vicende carcerarie, che nella Casa circondariale di Piacenza sono stati attivati: "Un corso di teatro, uno di legatoria, uno di coltivazione di erbe officinali che porterà alla produzione di the, tisane, miele alle erbe, grazie al felice incontro con altra esperienza, attiva da anni, di produzione di miele all'interno, e sta per prendere piede anche un corso di produzione di pasta fresca che porterà il marchio del carcere". Si sta concludendo, sottolinea ancora Zurlo, un corso di formazione per piastrellisti, tenuto dalla Scuola Edile e grazie al contributo del Comune, "che ha reso possibile il ripristino del locale palestra, prima assai vetusto e oggi rinnovato, e ha permesso di dare professionalità a un gruppo di detenuti, da spendere all'interno oltre che nella vita". Non è tutto: "È appena il caso di ricordare che nel carcere sono attivi corsi di scuola elementare, media e superiore condotti dagli istituti Calvino e Raineri Marcora - scrive Zurlo - mentre è davvero opportuno segnalare che l'ultimo istituto citato cura un giornale interno, che dà voce ai detenuti e che è anche stato destinatario di premi". Tra i progetti in vista: "incontri con Scuola e Università al fine di mettere a punto progetti di interazione con i detenuti e cicli di seminari. Tutte esperienze a cui si tiene moltissimo e che si ritiene ricadano nel concetto di rieducazione e socializzazione che il Garante sostiene invece mancare all'interno del carcere". Zurlo non si sofferma invece, se non brevemente, sulla sospensione della testata Sosta Forzata, aveva già dichiarato a Libertà le sopravvenute "difficoltà di approccio e di relazione con la direzione della rivista". In quanto al "dialogo tra uomini liberi e uomini ristretti, nelle forme corrette, si vuole e si ricerca sempre", conclude. Ragusa: la coop "Sprigioniamo sapori" rilancia dopo lo stop al servizio mensa in carcere Il Sole 24 Ore, 23 febbraio 2015 E stata una delle dieci cooperative sociali che il 15 gennaio scorso hanno perso la gestione del servizio della mensa carceraria, ma non chiuderà come successo ad altre. Anzi, è pronta a investire in nuovi settori: stiamo parlando della coop "Sprigioniamo sapori", partner di "La città solidale", consorzio aderente al gruppo cooperativo Cgm e presente nel penitenziario di Ragusa da più di un decennio. Con 160 mila euro dì fatturato per le attività collaterali alla distribuzione dei pasti (di cui 80mila per il servizio di catering all'esterno) "siamo pronti a rimboccarci le maniche e a ripartire dopo 1o stop al servizio mensa", come spiega Aurelio Guccione, presidente di "Sprigioniamo sapori". L'organizzazione è nata ufficialmente nel 2013 (sulla scia dì un progetto di formazione culinaria finanziato dal Fondo sociale europeo) con laboratori di produzione di torroni e altri prodotti dolciari, che oggi vengono venduti su tutto il territorio nazionale. "Ora sono rimasti tre ide-tenuti dipendenti in pasticceria - sottolinea Guccione, un'attività che fin dall'inizio ha camminato con le proprie gambe e che ora dovremo necessariamente ampliare, per esempio puntando anche sulle creme spalmabili, che finora non avevamo trattato". Nelle varie lavorazioni legate alla produzione di dolci la coop utilizza materie prime provenienti dal l'agricoltura biologica e, quando possibile, a chilometro zero, che entrano in carcere per essere lavorate nei locali della pasticceria (separati dalle cucine, dove vengono preparati i pasti per i detenuti ). "Le conseguenze dello stop sono state inevitabilmente negative - sottolinea il presidente di "Sprigioniamo sapori", ma il Dap si è comunque messo a disposizione per ogni necessità logistica relativa alle nostre attività", mentre, anche dal punto di vista del finanziamento di nuovi progetti, farà da tramite tra le imprese sociali e la Cassa delle ammende, l'ente preposto a erogare contributi per quei progetti assimilabili a una start up che nel giro di un certo periodo di tempo si rendano auto-sostenibili. Sprigioniamo sapori ha già in mente i progetti per cui chiedere i finanziamenti: "Oltre all'ampliamento delle lavorazioni di pasticceria - spiega Guccione, vogliamo attivare un percorso imprenditoriale dì falegnameria e un servizio di manutenzione di una masseria che abbiamo a disposizione". Torino: lavoro e detenzione in carcere, è il tema del convegno "Guardiamoci dentro" di Valentina Montisci www.globalist.it, 23 febbraio 2015 Dentro e fuori. Alla ricerca di un rapporto tra mondi separati dalle sbarre, verrebbe da dire. Ma non solo, un guardare dentro l'umanità, le domande, il percorso di ognuno di noi. Dentro o fuori. Guardandoci dritti negli occhi, senza differenze, perché facciamo tutti parte di questo dentro/fuori della vita. È questo il tema (lavoro e detenzione in carcere) del convegno nazionale "Guardiamoci dentro" organizzato dalla Compagnia di San Paolo e dall'Ufficio Pio della Compagnia. Un appuntamento di due giorni: mercoledì 25 e giovedì 26 febbraio, sotto l'alto Patronato della presidenza della Repubblica e il patrocinio ministero della Giustizia, Regione Piemonte, comune di Torino, università di Torino, camera di commercio di Torino che sarà ospitato tra il campus universitario e Teatro Regio. A curare l'evento, dal punto di vista artistico e della comunicazione, sarà l'associazione culturale Sapori Reclusi che da anni si occupa di progetti di sensibilizzazione sociale con particolare riferimento al mondo del carcere. L'obiettivo è la creazione di un dialogo tra questo "dentro" e il "fuori", un canale di collegamento per raccontare, con il lavoro, l'arte, lo sport le aspirazioni dei detenuti per far in modo che il loro lavoro non sia legato esclusivamente a un successo economico ma che effettivamente ci sia fiducia e interazione, insomma uno scambio reciproco che porti a una restituzione sociale è solo una delle componenti del percorso di riabilitazione, o meglio di responsabilizzazione, delle persone detenute. Ci aiuta a capire questa iniziativa Manuela Iannetti, di Sapori Reclusi. C'è un filo conduttore comune degli allestimenti? "Sì, quello di comunicare il senso di permeabilità tra il "Dentro" e il "Fuori". L'idea di realizzare dei materiali espositivi che mettano in mostra volti e pensieri nasce proprio dal titolo del convegno "Guardiamoci Dentro", che assume negli allestimenti un senso più ampio. Guardiamo dentro le carceri e dentro di noi, perché siamo tutti parte di una stessa società. E nel farlo, guardiamo dei volti ritratti che volutamente ci osservano, in uno scambio biunivoco di attenzione in cui ciascuno ricorda all'altro le proprie istanze di umanità. E non solo ci osservano dall'alto delle gradinate dell'atrio centrale del campus, ma ci osservano dal pavimento. Il filo conduttore del percorso viene tracciato fisicamente proprio a partire dai passi che muoviamo per camminare: cerchi di diversa grandezza di uomini e donne ci guardano anche sul pavimento, le loro voci sono racchiuse in cerchi che come negli stagni o nei giardini giapponesi ci invitano ad osservare, senza calpestare. Nei cerchi, si legge una doppia frase; quella del detenuto, e una frase in contro-carattere rosso, che spesso definisce un senso diverso, positivo. Anche qui, nei pensieri, il contenuto supera la forma. Al Campus il filo conduttore è più legato alla sensibilizzazione: non ci sono oggetti esposti, solo volti e pensieri che riguardano l'importanza del lavoro, del contatto, della speranza in un tempo pieno e occupato. Al Regio l'allestimento è più complesso e si snoda nel foyer per arrivare in una sezione definita dove oltre ai volti nei cerchi troviamo specchiere alte due o tre metri con scatti che descrivono simbolicamente la vita in carcere. Il gioco degli specchi contribuisce a creare il senso: la vetrina dei carcerati che vivono in cella senza fare nulla si specchia dentro quella in cui i detenuti lavorano. In mezzo, gli spettatori, che passeggiando guardano e vedono i riflessi di una condizione e dell'altra. Attorno, cubi di legno e ferro ospitano i prodotti realizzati nelle carceri di Piemonte e Liguria, grazie a progetti sostenuti dalla Compagnia di San Paolo. Al piano di sopra, lo spazio delle vetrate è dedicato a pannelli che ritraggono attività artistiche come il teatro, sportive, culturali e scolastiche". Chi ha ideato il progetto? "Il progetto nasce per volontà della Compagnia di San Paolo, che decide di affidare a Sapori Reclusi (in quanto associazione che opera all'interno del mondo carcerario e si occupa di temi legati alla comunicazione) la comunicazione dell'evento. Per questo abbiamo realizzato le due esposizioni, il sito guardiamocidentro.compagniadisanpalo.it e i materiali pubblicitari (inviti, programma, locandine, totem)". Come nasce il lavoro di Sapori Reclusi nelle carceri? "La collaborazione di Sapori Reclusi con le carceri nasce dalle esperienze di Davide Dutto, il fotografo professionista e fondatore dell'associazione. Quasi 10 anni fa, grazie a un corso di fotografia legato al cibo, inizia un percorso che porta alcuni chef in carcere. Da qui nasceranno un libro di foto e ricette dal carcere, il Gambero Nero, una mostra, e la volontà di continuare in questa direzione, fino alla creazione, nel 2010, di Sapori Reclusi. Un percorso arricchitosi nel tempo di persone, collaborazioni, progetti". Quali sono i progetti futuri di Sapori reclusi? "Tra quelli già in programma c'è la prosecuzione di Stampatingalera, il laboratorio di stampa artistica fine art attivo per il secondo anno nel carcere di Saluzzo. Face to Face, l'arte contro il pregiudizio, un percorso di incontri tra detenuti e persone libere che assieme a professionisti rifletteranno sui temi legati al pregiudizio dello sguardo, per arrivare a una mostra finale di ritratti anonimi in cui non si dice chi è chi. In collaborazione con le carceri di Torino, Saluzzo, Alessandria e il museo di Antropologia Criminale Cesare Lombroso di Torino. Ancora abbiamo in cantiere 10x una mostra di scatti di importanti fotografi per finanziare il progetto di Stampatingalera; la collaborazione con l'associazione Antigone per la realizzazione di un manuale di Legal Clinic; e infine una nuova formula di progetto solidale da dedicare alla commercializzazione di prodotti il cui ricavato in parte sosterrà i progetti dell'associazione: parole, immagini e vino, con un produttore di barolo delle Langhe, per un progetto che si chiamerà "Sordo Per". Le mostre sono visitabili in orario differente: al campus, dal 16 febbraio al 6 marzo in orario di apertura dell'università al Regio, dal 28 gennaio al 1 marzo, nelle serate in cui ci sono le recite (genericamente dal martedì al sabato dalle 20 a fine spettacolo e la domenica dalle 15 a fine spettacolo). I giorni del convegno, tutto il giorno". Bologna: "La primavera della dignità umana", alla Dozza lezione Prof. Adnane Mokrani di Monica Bernardi (Ufficio del Garante regionale dei detenuti) Ristretti Orizzonti, 23 febbraio 2015 Mercoledì prossimo alla Casa Circondariale Dozza di Bologna, il Prof. Adnane Mokrani, docente presso il Pontificio Istituto di studi arabi e d'islamistica e la Pontificia Università Gregoriana, terrà una lezione dedicata a "La primavera della dignità umana: i fondamenti spirituali del cammino delle società arabe verso la democrazia". Si tratta della quattordicesima di un ciclo di ventiquattro lezioni dedicate ai detenuti della Casa Circondariale Dozza di Bologna iscritti ai corsi dell'anno scolastico 2014-2015, nell'ambito del Progetto "Diritti, doveri, solidarietà. La Costituzione italiana in dialogo con il patrimonio culturale arabo-islamico", realizzato a seguito dell'Accordo quadro tra la Garante delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale della Regione Emilia-Romagna e il Centro per l'istruzione degli adulti Cpia Metropolitano di Bologna. Volterra: la Parola del Vangelo secondo i detenuti, con attori Compagnia della Fortezza di Rino Bucci Il Tirreno, 23 febbraio 2015 Gli attori della Compagnia della Fortezza in televisione per leggere il primo libro di Marco. "Un'esperienza unica". Stavolta niente trucco né scenografie provocanti ma solo la Parola, quella del Vangelo. I detenuti del carcere di Volterra che da anni seguono Armando Punzo nelle sue rappresentazioni e nel sogno-provocazione di un teatro stabile nella Casa di reclusione continuano a stupire. Il 22 febbraio, si sono misurati con uno dei testi sinottici, il Vangelo di Marco. E lo hanno fatto in televisione, nella trasmissione domenicale di Canale 5 "Le frontiere dello spirito" in cui il cardinale Gianfranco Ravasi commenta i testi sacri. Rosario, Edmond, Gaspare, Ivan, Anton e un altro degli attori simbolo dell'esperienza volterrana, Aniello Arena si sono cimentati in questa avventura. Storie diverse di vita, esperienze di redenzione in salita che continuano a sorprendere ad ogni appuntamento. E poi Armando Punzo, che all'inizio degli anni 80 ha scoperto Volterra e ha creduto in un sogno che è diventato qualcosa più del semplice teatro in carcere ma che ha annullato le sbarre e, per un certo verso, rappresentato un'esperienza terapeutica senza precedenti. I carcerati hanno letto, dal primo libro di Marco, i versi 12-15. Subito dopo lo Spirito lo sospinse nel deserto e vi rimase quaranta giorni, tentato da satana; stava con le fiere e gli angeli lo servivano. Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù si recò nella Galilea predicando il vangelo di Dio e diceva: "Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo". Poche righe ma significative che si legano a doppio filo con la loro esperienza di tentazione-redenzione. "Quando sono entrato in carcere ho visto gli attori della Compagnia della Fortezza nelle prove - ha raccontato Rosario, un detenuto - non avrei mai creduto di potermi esibire in pubblico. Invece ce l'ho fatta e da quel giorno mi sono sentito meglio. La lettura del Vangelo è stata diversa perché si basava solo sulla parola. Per un certo verso mi sono sentito ancora meglio perché so che quella Parola è importante per moltissime persone". Iraq: l'orrore a puntate chiuso nelle gabbie dell'Isis di Renzo Guolo La Repubblica, 23 febbraio 2015 Ancora un video dell'Is. L'orrore a puntate questa volta mette in scena, nella sua logica terribile seriale, ventuno peshmerga curdi. Portati in giro, chiusi in gabbie, per le strade di una località indicata come parte del Wilayat di Kirkuk, zona della provincia irachena sotto il controllo jihadista. Anche questa volta, come già nelle spiagge libiche, i prigionieri sono trascinati, per il collo o il bavero, dai loro carcerieri non tutti in nero e a volto coperto. Poi sono fatti entrare nelle gabbie. Costruzioni metalliche, disposte a quadrato, che non svolgono solo la funzione di custodirli e renderli visibili, in una sorta di panopticon islamista, a uso di sorveglianti e folle plaudenti, o intimorite, e delle fotocamere dei mujahidin; ma che rinviano, come già le tute arancioni, a Guantánamo e alle stie per umani nelle quali venivano reclusi i prigionieri degli americani. Ma qui, dopo il tragico rogo del giordano Muadh al-Kasasbeh, la gabbia evoca immediatamente il fuoco. E, puntualmente il video mostra proprio quelle fiamme. Come a lasciare intendere un destino già segnato. Poi i prigionieri sono intervistati, o meglio interrogati, sulla loro identità, provenienza, appartenenza politica, confessione religiosa, da un comandante militare con tanto di microfono che parla in curdo. E che si rivolge, in primo luogo, alla popolazione locale. Sono loro, curdi come gli ostaggi, i destinatari del messaggio dell'Is. È a loro che l'uomo, in abiti beige e turbante bianco, si rivolge quando dice: "La nostra guerra non è contro i musulmani curdi ma contro gli infedeli e i loro infidi agenti". Indicando come nemico i governanti curdi che non solo condividono una concezione etnica e non religiosa della loro identità ma sono anche alleati delle potenze "crociate" e dei "governanti empi" della Mezzaluna. L'interrogatorio-intervista, con gli insistiti primi piani, ha la funzione di mostrare il prigioniero ma anche di renderlo riconoscibile, di individualizzarlo. Prospettiva che rende più naturale l'empatia con quanti vedranno il video e sperano, e magari premono, per la sua salvezza. Oppure solleva, nelle polverose strade mesopotamiche e in quelle solo apparentemente asettiche della Rete, la muta di caccia dei fautori dell'odio vendicatore che inneggiano alla morte del "miscredente" che ha osato combattere quanti si battono per i " diritti di Dio". Le gabbie e il loro degradato contenuto sono poi issate a bordo di pick up bianchi, vigilate da uomini in nero che sventolano vessilli nero-cerchiati, e fatte sfilare tra una folla maschile apparentemente esultante. Il clamore della folla, reale o meno, è coperto dalla solita colonna sonora retoricheggiante che accompagna le "gesta" dei seguaci del Califfo Nero. Infine, cambio di scena, fatti scendere dai furgoni i prigionieri sono fatti inginocchiare con i soliti boia mascherati alle spalle. Questa volta non in morbide, anche se fatali, sabbie ma in un duro selciato. A monito di quanto sta per accadere, scorrono intanto le scene dell'orrendo sgozzamento dei copti sulle rive libiche. Poi, ancora primi piani delle vittime designate, affiancati da didascalici cartelli che ne ricordano identità e le " colpe". Vite che sembrano troncate da quel cartello nero che scende di colpo come una ghigliottina. E che evoca un'imminente decapitazione. Un video che appare più sofisticato di quello sull'esecuzione dei copti che secondo la Fox sarebbe stato manipolato attraverso il "rotoscoping": tecnica che permette di "catturare" l'immagine da un altro video e inserirla in uno nuovo. Tra gli indicatori di questa manipolazione l'anomala altezza degli uomini in nero, che avevamo già segnalato. Del resto, a proposito di anomalie, era apparsa quanto meno incauta una simile esibizione di forza in una località che si voleva a pochi chilometri da Tripoli. Troppo rischiosa, in un contesto militarmente instabile e in cieli affollati da droni. Il rotoscoping aveva, probabilmente, lo scopo di rendere il video più simile a quelli della "casa madre". Per trasmettere il senso che, Libia o Iraq o Siria, si tratta sempre della medesima battaglia. Condotta dal medesimo esercito: quello dell'Is. Del resto, nella guerra psicologica e di propaganda non è rilevante ciò che è vero ma ciò che è verosimile. E come tale la rappresentazione del massacro è volutamente apparsa. Di autentico bastano le vittime, quelle sì drammaticamente reali. Indonesia: detenuto cattolico brasiliano fucilato senza che gli siano concessi i sacramenti www.ilsussidiario.net, 23 febbraio 2015 È crisi diplomatica tra Brasile e Indonesia dopo che Marco Archer Cardoso Moreira, un cittadino brasiliano condannato a morte per traffico di stupefacenti, è stato fucilato senza che gli venisse concesso di ricevere i sacramenti. È quanto denuncia Padre Charles Burrows all'agenzia australiana Fairfax Media sostenendo che per motivi non chiariti non gli è stato permesso di raggiungere il carcere dove era rinchiuso l'uomo per dargli i sacramenti della confessione e della comunione come prevede la legge. Moreira è stato fucilato il 18 gennaio scorso, padre Brown sottolinea come l'uomo fosse in stato di depressione estrema, letteralmente trascinato a forza fuori della cella mentre piangeva e si disperava per essere fucilato. Tutto questo senza che gli fosse permesso di incontrare il sacerdote per un momento almeno di consolazione e di penitenza. L'ambasciata brasiliana in Indonesia ha espresso il suo disappunto per l'episodio chiedendo spiegazioni in merito. I due paesi sono in mezzo a un duro scontro diplomatico: la scorsa settimana il presidente Dilma Rousseff ha rifiutato di riconoscere il nuovo ambasciatore indonesiano in Brasile. Tutto questo, sembra, perché recentemente il paese asiatico aveva condannato e ucciso già un altro prigioniero brasiliano, Rodrigo Gularte, nel braccio della morte dal 2004 per contrabbando di cocaina. L'uomo, secondo la difesa, soffriva di schizofrenia paranoie e per tale motivo gli si sarebbe dovuta evitare la condanna a morte. Tailandia: due anni e mezzo di carcere per aver offeso il re in recita teatrale per studenti Askanews, 23 febbraio 2015 Altro caso conferma crescente pugno duro della giunta militare. Due anni e mezzo di carcere per aver offeso il re in una recita teatrale per studenti: sono due giovani di 23 e 26 anni le ultime vittime della campagna di censura che la giunta militare tailandese porta avanti con pugno duro dopo il colpo di stato del 2014. L'opera incriminata per cui uno studente, Patiwat Saraiyaem, e un attivista, Porntip Mankong, finiscono dietro le sbarre si intitola "La fidanzata del lupo" ed è andata in scena a ottobre 2013 nella prestigiosa università Thammasat di Bangkok, in occasione del 40esimo anniversario di una rivolta studentesca repressa nel sangue dall'esercito. "La corte ritiene che le loro azioni nel quadro di un dramma recitato davanti a un vasto pubblico abbia recato grave pregiudizio alla monarchia", ha concluso il giudice, leggendo il verdetto in un'aula colma di giornalisti, a testimoniare come questo caso sia diventato nel Paese del Sud-Est asiatico simbolo della repressione della libertà di parola. I due sono stati condannati per calunnia nei confronti della famiglia reale. Con i piedi nudi incatenati, il 23enne Patiwat Saraiyaem e la 26enne Porntip Mankong, sono rimasti impassibili davanti alla sentenza, che stabilisce in realtà cinque anni di carcere, ridotti a due e mezzo in virtù della "confessione" dei due imputati, definita "utile" dal giudice. "Accettano il verdetto, non ci sarà appello", ha dichiarato il loro avvocato, Pawinee Chumsri.