Giustizia: l'allarme di Zagrebelsky "ddl riforme costituzionali, democrazia in pericolo" di Andrea Giambartolomei Il Fatto Quotidiano, 22 febbraio 2015 Il potere accentrato nelle mani di una persona, con un parlamento indebolito e i cittadini senza rappresentanza. Sette giorni dopo la nottata di discussione sul Ddl sulle riforme costituzionali, Libertà e giustizia e Anpi lanciano un nuovo allarme per salvare i diritti degli elettori. Lo hanno fatto ieri pomeriggio a Torino in un incontro intitolato, "Legge elettorale e riforma del Senato: era (ed è) una questione democratica", con Sandra Bonsanti (presidente di Libertà e Giustizia), Antonio Caputo (difensore civico della Regione Piemonte), Carlo Smuraglia (a capo dell'Anpi) e Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte costituzionale. Le associazioni sono pronte a lanciare una campagna: "Noi vigileremo il secondo passaggio della riforma costituzionale", ha affermato la Bonsanti, mentre per il professore torinese "c'è bisogno che la società civile si riprenda il suo ruolo, società civile che non è quella dei salotti romani frequentati dai politici, ma quella degli imprenditori disposti a dare denaro e tempo per imprese sociali, individui, associazioni e gruppi politici". Tutti i partecipanti sono rimasti impressionati dall'immagine dell'aula di Montecitorio quasi vuota durante la discussione della riforma: "Le responsabilità stanno certamente in quelli che hanno deciso di uscire dall'aula - sostiene il costituzionalista -, ma soprattutto la responsabilità è della maggioranza che deve garantire un contesto deliberativo in cui ci sia posto per tutti". C'è un altro aspetto paradossale che ha marcato il professore: "Si sta discutendo la riforma della Carta in un parlamento che la Corte costituzionale ha giudicato incostituzionale". Queste modifiche vengono fatte senza valutare le voci critiche: "Le considerazioni che vengono da parti come le nostre vengono completamente ignorate o demonizzate". Nessuno disturbi il manovratore. "La democrazia deliberativa è fatta di discussioni ed è un processo in cui si mettono insieme idee, contributi e proposte. È un'idea diversa da quella per cui chi vince deve agire indisturbato". Concorda con questa lettura di Zagrebelsky il difensore civico Caputo. Secondo lui cambiare il Senato, facendolo eleggere dai consiglieri regionali e dandogli meno poteri, "aumenta la sfiducia i cittadini nei confronti delle istituzioni". Sfidare il governo sul tema delle riforme costituzionali però non sarà facile. Il presidente dell'Anpi Smuraglia lo sa: "Abbiamo pensato di entrare sul tema a gamba tesa. Sarà difficile perché per molti cittadini sono cose lontane". Eppure le gravità segnalate da Smuraglia sono tante, non solo su Italicum e riforma del Senato. "Sono arrivati alla Camera e al Senato due riforme su cui il governo ha messo la fiducia, sebbene si vanti di avere un'ampia maggioranza. In questo modo cadono gli emendamenti e la discussione". In un anno di vita dell'esecutivo si è arrivati a 34 voti di fiducia. "C'è un ricatto", afferma, e questo ricatto si ripropone ogni volta che viene paventato lo spauracchio dello scioglimento anticipato del parlamento. Un altro elemento sottolineato da Smuraglia riguarda il Jobs Act: "Questa è una legge delega quasi in bianco, fatta in modo che - in mancanza di criteri precisi - il governo possa fare quello che vuole". Il governo non ha neanche preso in considerazione due pareri conformi di Camera e Senato contro i licenziamenti collettivi, pareri ai quali dovrebbe attenersi: "Il governo non ne ha tenuto conto. Anche questo è un modo per far diventare il parlamento inutile". Così come diventano inutili i pareri di partiti svuotati e sindacati disprezzati dall'esecutivo. Secondo la Bonsanti c'è un percorso tracciato: "Quanto abbiamo detto qui porta a pensare che ci sia un movimento che porta verso una persona sola - riepiloga prima di fare una domanda a Zagrebelsky. È possibile che il governo stia preparando una riforma delle istituzionali che possano cadere nelle mani di una persona con obiettivi meno democratici?". "Il rischio c'è", risponde lui. Giustizia: la riforma penale di Gratteri? A San Marino è legge dall'800 di Errico Novi Il Garantista, 22 febbraio 2015 Pm che fanno anche da Gip, custodia cautelare illimitata, è il sogno dei forcaioli e, sulla Rocca, una realtà. Custodia cautelare infinita. Indagati sbattuti dentro senza neppure si debba spiegare loro perché. Fase preliminare del processo che si chiude solo in caso di aperta confessione. È il meraviglioso mondo con cui parte della magistratura italiana sogna di sostituire l'attuale codice. Ma è anche la concretissima riforma proposta da una Commissione insediata a Palazzo Chigi e guidata, per volontà di Matteo Renzi, da Nicola Gratteri. Concretissima nel senso che il procuratore aggiunto di Reggio Calabria l'ha messa nera su bianco in 130 articoli. Non nel senso che se ne possa ipotizzare, a oggi, una sua effettiva approvazione in Parlamento. C'è infine un mondo reale, una specie di laboratorio d'avanguardia, in cui davvero quei principi sono legge. È la Repubblica di San Marino. Non una dittatura africana, ma lo staterello da 30mila anime che si erge nel cuore del Belpaese, sul monte Titano. Lì la giustizia penale è sul serio fatta così, come la sogna Gratteri. 11 quale forse dovrebbe studiarne con attenzione il funzionamento. Va detto che il codice di procedura penale sammarinese è rimasto per anni sconosciuto, non certo inapplicato ma reso efficace solo per casi giudiziari minori, marginali. Insomma, ci hanno dovuto fare i conti solo i poveri cristi. Si tratta peraltro di un ordinamento d'annata: risale al 1878, ha cioè la bellezza di 137 anni. Il Codice Rocco a confronto è la modernità. Adesso però quel sistema penale ha cominciato a esibire tutta la propria, terribile potenza medievale. A San Marino infatti nel giugno scorso è scoppiata una piccola, particolarissima Tangentopoli. È stata ribattezzata subito Titanopoli, dal nomo della Rocca, ma soprattutto ha visto coinvolti esponenti politici di primo piano della Serenissima Repubblica. Tra loro Claudio Podeschi e Fiorenzo Stolfi, più volte ministri. Entrambi arrestati, il primo insieme con la consorte di origine slovena, Biljana Baruca. Storie di licenze bancarie che si presume concesse in modo irregolare e altre vicende di supposta corruzione. Scandalo e indignazione, serenissimi in presidio davanti al piccolo carcere dei Cappuccini (ricavato nell'ala di un convento, per cui carcerati e frati dividono le stesse mura) e così via. Ecco però emergere il primo dettaglio: gli arrestati non hanno neppure potuto comunicare con i loro avvocati, I quali hanno saputo dell'arresto solo attraverso le notizie diffuse dagli organi di informazione. Podeschi, Stolfi e gli altri avrebbero avuto il diritto teorico di comunicare la loro condizione a un parente o ad altri soggetti terzi, così come previsto dall'articolo 10 del regolamento penitenziario sammarinese. Ma poiché il pm, da quelle parti, è contemporaneamente anche gip, nessuna autorità terza si è premurata di imporre il rispetto dei diritti di difesa. Questo tanto per cominciare. Poi si passa ai colloqui. Ad autorizzarli è sempre la stessa persona, lo stesso magistrato, Doppia veste, appunto: la mattina commissario della legge (cioè pm), la sera giudice inquirente (cioè gip). Se la prende comoda, ci mette almeno un giorno a dare il via libera per l'incontro in carcere tra l'indagato e i suoi difensori. Quando poi l'evento si verifica dura al massimo una mezz'oretta. Neppure il tempo di imprecare. "Tale restrizione ha sostanzialmente compresso il pieno svolgimento delle facoltà difensive", scrivono gli avvocati di Podeschi, Massimiliano Annetta e Stefano Pagliai, nella segnalazione al Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti. Organismo che dovrebbe verificare il rispetto della Convenzione europea dei diritti dell'uomo in tutti gli Stati del Vecchio continente. Ma che, a ormai 8 mesi dal ricorso, non ha dato ancora cenni di vita. ranno a credere che la giustizia penale di San Marino funzioni ancora secondo regole premoderne. Il Comitato per la tortura aveva infatti già ravvisato qualche stranezza nell'ordinamento della Serenissima Repubblica, e nell'ormai lontano febbraio del 2008 aveva trasmesso un rapporto con delle raccomandazioni sulle norme da adeguare ai principi della Cedu. Devono essersi fidati. E hanno fatto male. A San Marino in questi sette anni il codice di procedura penale è rimasto quello del 1878. È sempre lo stesso in base al quale l'interrogatorio dovrebbe avvenire entro 24 ore, ma il termine non è perentorio e il Pm-Gip ben si guarda dall'ordinarne a se stesso l'osservanza. Gli atti istruttori in base ai quali si procede all'arresto vengono secretati. Nel senso che non ne viene riferito alcunché, non esistono comunicazioni che possano vagamente ricordare il nostro avviso di garanzia. Si viene arrestati e basta. Gli avvocati Annetta e Pagliai hanno inserito anche questo aspetto, evidente, nella loro segnalazione. Nello specifico, viene violato l'articolo 5 della Convenzione europea per i diritti dell'uomo. A Strasburgo, da otto mesi, continuano a stropicciarsi gli occhi, increduli e incerti sul da farsi. A San Marino invece si danno da fare. Gran parte dogli arrestati di Titanopoli è stata scarcerata perché, secondo quanto riportano i piccoli ma vivacissimi media locali, avrebbero confessato. Podeschi no. Lui e la compagna negano ogni addebito. E restano dentro. Anche perché, altra chicca, lì sulla Rocca la custodia cautelare non ha limiti. I termini sono indefiniti. E questo, insieme al resto, è stato segnalato dai legali di Podeschi sia al Comitato per la tortura che alla Corte europea per i diritti dell'uomo. Gratteri potrebbe studiare il caso. Leggersi le carte. E trarne due possibili conseguenze: compiacersi per un sistema in cui la giustizia, così come lui la intende, esiste davvero. O rendersi conto che la sua riforma potrebbe generare mostri. Giustizia: il falso in bilancio talvolta è una necessità di Alberto Cisterna (Magistrato) Il Garantista, 22 febbraio 2015 Il reato di "falso in bilancio" trasforma come sempre una questione delicata, sotto il profilo giuridico e sociale, in una crociata ideologica poco propensa a guardare la sostanza dei problemi. In tipico italian style, ossia l'unica democrazia in cui si spacchettano ed impacchettano reati non per colpire o allentare la morsa su certe condotte, ma per far prevelare una bandiera e consumare qualche vendetta. Un po' di chiarezza, allora, non guasta. Di processi per falso in bilancio, mediamente, in Italia se ne celebrano pochi, molto pochi. È come la corruzione, molto percepita e poco perseguita. In genere si tratta di vagonate di carte destinate alla prescrizione sempre e comunque. Ma si sa, in qualche caso eccellente, per qualche indagine mediaticamente in auge, il reato torna utile e allora si discute della necessità imprescindibile di punire il falso in bilancio in modo più severo e al riparo dalla prescrizione. I fautori della severità possono giustamente obiettare che una norma meno lasca e benigna di quella vigente favorirebbe comportamenti virtuosi, costringendo i falsari a mettersi in riga e a rispettare la legge. Doveva accadere la stessa cosa per i graffitari, per gli affittuari di case agli immigrati, per il miracoloso divieto di propaganda elettorale da parte dei mafiosi, per tutti i pacchetti sicurezza degli ultimi anni pieni di "norme manifesto" per lo più inutili o inapplicate. Una selva di reati per una società che smarrisce l'etica liberale ogniqualvolta inciampa in dinamiche sociali che non riesce a controllare in altro modo. Tornando al falso in bilancio, non si può non fare i conti con una realtà sommersa, nota a molti e resa pubblica da nessuno. Ossia che molte, tante, troppe aziende per continuare ad accedere al credito bancario e finanziario nel rispetto dei parametri imposti dagli accordi di Basilea, hanno truccato le carte. Molti imprenditori onesti, per sopravvivere alla crisi e avere aperti i rubinetti della liquidità in banca hanno semplicemente alterato i bilanci, facendo risultare utili e plusvalenze inesistenti. Si pensi solo ai danni prodotti dal crollo del mercato immobiliare e dalla conseguente svalutazione dei cespiti che dovrebbe essere riportata nei bilanci delle società, impoverendole. Irrigidire proprio ora le norme sul falso in bilancio senza accordare una moratoria o, purtroppo, un condono sarebbe esiziale, oltre che inutile. Rischierebbe di far annegare molte imprese proprio nel momento in cui si vede un barlume di luce in fondo al tunnel della crisi. E quindi che fare? Per i furbi, per i mafiosi e per i corruttori che falsificano i bilanci per nascondere utili e sottrarsi al pagamento delle tasse esiste già un altro reato "manifesto": l'auto-riciclaggio che manda in cella chi occulta il profitto di un qualunque reato, anche di quello di falso in bilancio, per destinarlo ad attività illegali. E, poi, si potrebbe agire sui reati fiscali per chi evade. Ma per la stragrande massa dei falsari di "necessità", per quelli che hanno aggiustato le carte per sopravvivere ai parametri del Fondo monetario o della Banca Europea, deve pensarsi ad un percorso diverso, di riemersione lenta e graduale dal buio delle carte false alla luce dei bilanci trasparenti e veri. Una società fondata sull'economia di mercato non può rinunciare a un bene del genere su cui si gioca la reputazione di un intero sistema produttivo e di un Paese. Ma non può farlo dalla mattina alla sera solo per assecondare l'ennesima spinta mediatica ed ideologica. È un problema immane che coinvolge gran parte del sistema bancario e tante aziende, l'ideologia è un lusso che non ci possiamo permettere. Giustizia: un furto ogni 2 minuti, più 126% in 10 anni. Polizia "pene lievi e molti recidivi" di Leonard Berberi e Fabrizio Caccia Corriere della Sera, 22 febbraio 2015 "C'è un solo modo per non farsi rubare i soldi dai ladri - confessò un giorno "Er Secco", autentica autorità a Roma in materia di furti in abitazione, ai carabinieri che l'avevano appena colto in flagrante. Qual è il modo? Mangiarseli, i soldi. Rinunciando a cucirli dentro il materasso o a nasconderli nel cestello della lavatrice. Perché tanto noi ladri ci arriviamo...". In effetti, l'ultimo rapporto del Censis è impressionante: 689 furti in appartamento ogni giorno in Italia, 29 ogni ora, uno ogni due minuti. L'istituto di ricerca ha calcolato che negli ultimi dieci anni il reato è più che raddoppiato, passando dai 110.887 furti denunciati nel 2004 ai 251.422 del 2013, con una crescita del 126,7 per cento. Solo nell'ultimo anno l'incremento è stato del 5,9 per cento. Considerando il numero dei reati rispetto alla popolazione residente, le province più bersagliate sono risultate: Asti (9,2 furti ogni mille abitanti), Pavia (7,1), Torino (7,1) e Ravenna (7,0). Quelle in cui i furti in casa sono aumentati di più in assoluto: Forlì-Cesena (al primo posto con una crescita del 312,9 per cento in dieci anni), Mantova (+251,3), Udine (+250), Terni (+243,7) e Bergamo (+234,3). La zona in generale più flagellata? Sicuramente il Nord-Ovest, dove nell'ultimo anno i furti sono stati 92.100, aumentati del 151 per cento rispetto al 2004. Oltre il 20 per cento dei "colpi" denunciati in tutta Italia avviene comunque in sole tre province: Milano (19.214 reati), Torino (16.207) e Roma (15.779). Maria José Falcicchia è la dirigente dell'Ufficio prevenzione generale della Questura di Milano racconta: "Solo a Milano calcoliamo 1-2 arresti al giorno di persone colte in flagranza. Ad agire sono per lo più singoli e gruppi strutturati. Quanto alle nazionalità, si tratta in prevalenza di georgiani e di cittadini provenienti dall'ex Jugoslavia (serbi, montenegrini, ecc.) e cileni". I georgiani sono i più organizzati e mettono a segno colpi importanti. I cileni sono i cosiddetti "acrobati": scavalcano muri e salgono su ponteggi. "È più raro, invece, cogliere in flagranza gli italiani". "Er Secco", per esempio, a Roma fu (perché ormai pare si sia ritirato) uno specialista dei furti "da scavalco". Il topo d'appartamento - così funziona di solito - si fa il giro dei palazzi la mattina, infila le "biffe", che sono sottili linguette di carta, nelle fessure delle porte e poi passa la sera a vedere come stanno. Se le "biffe" sono cadute, vuol dire che qualcuno è rientrato in casa. Se invece stanno ancora là, allora via libera. "I ladri scelgono sempre di più le abitazioni private - sostiene il Censis - perché oggi in negozi, banche, uffici postali e strade commerciali ci sono sistemi di sicurezza, come le telecamere. Ma anche perché si è certi di trovare nelle case un bottino da portar via, soprattutto in questa stagione di crisi in cui gli italiani hanno ridotto i consumi e hanno preferito tenere i risparmi sotto il materasso". Il problema - sottolinea Falcicchia - è che gli arrestati vengono processati per direttissima però le pene non sono pesanti. E molti sono anche recidivi. "Con il ministro Orlando abbiamo allo studio adeguamenti - promette il viceministro della Giustizia, Enrico Costa. Occorrerà introdurre delle norme che garantiscano una pena effettiva". Marco Dugato, ricercatore di "Transcrime", il centro di ricerca sulla criminalità transnazionale dell'Università Cattolica di Milano e di quella di Trento, rivela che si sta lavorando, d'intesa con il ministero dell'Interno, anche allo sviluppo di un "modello predittivo" dei furti in casa, in modo da arrivare a prevenirli. Vedrà la luce nei prossimi mesi e si basa sulle "regolarità" (orari, indirizzi) osservate. Un esempio? "Dal lunedì al giovedì a Milano il numero dei furti è uguale, con due picchi tra le 8 e le 10 e tra le 17 e le 20 - dice Dugato. Il giorno con il più alto numero di colpi è il venerdì, quando la gente esce a divertirsi. Sabato è un altro giorno complicato. La domenica, invece, è più tranquilla. Parlando di zone, l'area che va da piazzale Loreto a Porta Romana è quella più interessata. Ma in tutta la città ci sono degli "hot spot", dei punti caldi. E addirittura degli "street segment", porzioni di vie lunghe tra i 250 e i 500 metri che registrano più furti nello stesso numero civico nel giro di uno o due anni. A opera della stessa banda o di bande diverse". L'assedio è continuo. Giustizia: il Sottosegretario Ferri "vigilanza attenta nei penitenziari contro il terrorismo" Ansa, 22 febbraio 2015 "C'è una grande attenzione a verificare questi fenomeni, a controllare in modo peculiare e puntuale questa situazione all'interno dei penitenziari. Luoghi che non vanno sottovalutati perché possono essere punti di incontro e contatto. La vigilanza è molto attenta". Così il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Maria Ferri, rispondendo a una domanda sulle misure antiterrorismo in corso nei penitenziari, a margine di un convegno a Firenze. "La risposta del Governo anche stavolta è stata pronta, concreta ed efficace - ha proseguito. Il decreto antiterrorismo dà norme nuove, sia a magistratura sia a forze dell'ordine, e in questo quadro anche il ministero della Giustizia sta monitorando la situazione all'interno dei suoi istituti". "Si stanno intensificando i controlli, distinguendo sempre tra il rispetto della libertà di religione, che è giusto garantire, e fenomeni di reclutamento o di eventuale presenza di cellule". Un'attività, ha concluso Ferri, che viene fatta "anche verificando la storia di chi entra in carcere e i possibili contatti con l'esterno, non solo nelle visite, ma anche quando il detenuto sconta la pena e quando esce". Giustizia: caso Yara; Bossetti e quelle cimici in carcere scoperte dai compagni di sezione di Giuliana Ubbiali Corriere della Sera, 22 febbraio 2015 Il carpentiere: Yara mai salita sul mio furgone. Nuova istanza di scarcerazione depositata dall'avvocato. Massimo Bossetti in carcere gioca a carte, guarda la tv, incontra la moglie Marita tutte le settimane, una volta al giovedì e una al sabato, e ogni ultimo sabato del mese vede i tre figli. Mamma Ester e la sorella Laura Letizia vanno da lui in altri giorni. I familiari hanno sei colloqui a settimana. Nella sezione protetta dove si trova dal giorno del suo compleanno, il 28 ottobre, dopo quattro mesi in isolamento, il carpentiere accusato di aver ucciso Yara parla poco o nulla del suo caso giudiziario. Meno ancora dopo che alcuni detenuti si sono accorti di quelle lucine strane. Cimici. Tutti zitti tranne che per un diffuso onomatopeico "shhhh". Tolte. Non scandalizza che ci fossero, perché le intercettazioni ambientali sono uno strumento di indagine molto utilizzato anche nel mondo parallelo dietro le sbarre. Come per l'omicidio di Mario Gaspani, ucciso il 26 marzo del 2011 nella sua casa di Boltiere. Prima vennero arrestati i fratelli Salvatore e Bruno Antonio Luci, ritenuti gli esecutori materiali. Furono loro, intercettati in carcere, a fare il nome di Stefania Colombo, la moglie della vittima ritenuta la mandante, e all'allora amante di lei Salvatore Massaro Cenere. Mentre è imminente la chiusura delle indagini, l'avvocato Claudio Salvagni ritenta di portare Bossetti fuori dal carcere. Istanza numero cinque. Due le strade. La prima: gip (respinta), appello a Brescia (respinta) e Cassazione (udienza mercoledì prossimo). La seconda: gip (respinta) e ora un nuovo appello. L'istanza è stata depositata ieri mattina, al fotofinish cinque minuti prima delle 13, perché nel frattempo l'avvocato era rimasto bloccato in autostrada dove un tir si era ribaltato. Ce l'avrebbe fatta comunque, perché si era già preparato all'imprevisto consegnando una copia degli atti a una collega di Brescia. In 50 pagine il difensore contesta il nuovo no del gip Ezia Maccora. Tre i punti fondamentali. Il Dna. Salvagni aveva chiesto al giudice di scarcerare Bossetti sulla base della relazione in cui il consulente del pm, Carlo Previderè, indica l'anomalia del Dna. Ma il gip ha scritto che "c'è una piena compatibilità di caratteristiche genetiche" tra il profilo dell'indagato e quello di "Ignoto 1", e che non importano le "apparenti anomalie" rilevate nelle analisi del Dna mitocondriale. Nuovo attacco dell'avvocato: "Ho sottolineato la carenza di motivazioni, perché il gip accredita l'ipotesi del pm senza spiegare perché". Le ricerche al computer di casa Bossetti con il termine "tredicenni" e altre parole hard. "Non c'è stata nessuna navigazione su quei siti. Uno li cerca e poi non ci entra? Quelle sono ricerche auto-generate dal computer tramite altri siti che non c'entrano con la pedopornografia". La testimone che ha detto di aver visto Bossetti con una ragazzina, fuori dalla palestra, il settembre precedente l'omicidio. "È inattendibile - chiosa Salvagni, a quattro anni dal delitto e a cinque mesi dal fermo". Capitolo a parte, le fibre trovate sui leggings e sul giubbotto di Yara identiche anche per colore a quelle dei sedili del furgone del carpentiere. L'avvocato ha rivisto Bossetti ieri, dopo giorni. "Mi ha detto: "Yara non è mai salita sul mio furgone, glielo giuro" - dice Salvagni. È ancora determinato a provare la sua innocenza. Non molla. Una persona colpevole sarebbe crollata". Intanto si aggiungerebbe un altro indizio, rivelato dalla trasmissione Quarto Grado: piccolissimi frammenti metallici sui vestiti di Yara che sarebbero compatibili con le polveri trovare sui sedili del furgone. Difesa: Yara uccisa da mancino non con coltello comune La difesa scava nelle presunte lacune dell'inchiesta che ha portato in carcere oltre otto mesi fa Massimo Bossetti perché pensa siano state "indagini a senso unico", e nelle quali sono state "spacciate come verità assolute" risultati di accertamenti, invece, "tutti da interpretare". L'avvocato Claudio Salvagni schiera tutta l'artiglieria pesante di consulenti e, in una conferenza stampa nel suo studio di Como, fa spiegare loro le conclusioni, o meglio le ipotesi alternative a cui sono giunti. L'arma del delitto non è un cutter o un semplice coltello, quindi non un attrezzo da lavoro da muratore o un coltello comune. Per il medico legale Dalila Ranalletta, stando alle lesioni trovate sul corpo, in particolare un taglio alla gola, si tratterebbe, invece, di un'arma importante (con lama spessa oltre due millimetri) che potrebbe essere simile a quella usata nel Kali filippino, una particolare tecnica di combattimento. Un'arma, inoltre, che potrebbe essere stata usata da un mancino, a giudicare dalla direzione in cui sono stati inferti i colpi, mentre Bossetti è destrimane. Tutti da interpretare anche i tagli che la ragazza aveva sui polsi. Yara uccisa altrove? - Per la dottoressa Ranalletta, la posizione del corpo, non rannicchiata come doveva essere se la ragazza morì effettivamente per il freddo nel campo di Chignolo d'Isola, il fatto che i vestiti che indossava non fossero tagliati nonostante ferite sul corpo e la circostanza che la sua maglietta fosse intonsa nonostante la ferita alla gola, fanno pensare che Yara sia stata uccisa altrove e che l'assassino l'abbia spogliata e poi rivestita. Le ricerche su tredicenni nel computer. La difesa contesta siano rilevanti le ricerche nel computer di Bossetti riguardo tredicenni (Bossetti ha ammesso che con la moglie guardava film porno) e il consulente informatico, Giuseppe Dezzani, spiega che una sola volta compare la parola tredicenne e che potrebbe essersi generata "automaticamente, non manualmente". Molte di queste ricerche non sono state datate e, ragiona Dazzani, mentre l'accusa sostiene che in un caso, il 29 maggio, una di queste ricerche è stata effettuata mentre Bossetti era in casa, in un altro, il 7 maggio, un'altra identica è stata effettuata mentre il muratore, ed è provato per tabulas, era al posto di lavoro in un cantiere. Il rebus del Dna. L'avvocato Salvagni insiste sulla mancata corrispondenza tra il dna nucleare, attribuito a Bossetti, trovato sul corpo della ragazza e quello mitocondriale trovato sui reperti piliferi analizzati che non appartiene a Bossetti. "Circostanza insolita, a detta dei consulenti della Procura ma che si vuol far passare come solita". Anche questo è oggetto di un ricorso depositato ieri ai giudici del Riesame di Brescia. I filamenti di tessuto dell'autocarro. Gli investigatori ritengono che sui leggins di Yara siano stati trovati dei filamenti compatibili con il tessuto dei sedili dell'Iveco Daily di Bossetti. Di 200mila veicoli che hanno sedili con quelle caratteristiche individuati dai carabinieri del Ros solo quello di Bossetti è transitato quel giorno a Brembate il 26 novembre del 2010, quando Yara scomparve. Per il criminologo Ezio Denti quel tessuto è invece usato "anche per treni e autobus". "Hanno verificato gli investigatori quale tessuto avevano i sedili del bus che usava Yara per andare a scuola?", chiede Denti. L'avvocato Salvagni, insomma, farà "tutto il possibile per dimostrare l'innocenza di Massimo Bossetti. "Un'innocenza - spiega - nella quale credo fermamente". Il legale ha anche ricordato la testimonianza di una donna che aveva parlato di un uomo dell'Est da lei conosciuto, e che le aveva raccontato di avere una relazione con una ragazzina 13enne che forse si chiamava Yara. "Perché non ritenerla attendibile - sottolinea - mentre sono sempre attendibili testi della Procura?". Giustizia: caso Concordia; la Procura al Tribunale del Riesame, chiede arresto Schettino di Michele Giuntini Ansa, 22 febbraio 2015 La procura di Grosseto insiste. Francesco Schettino può scappare e va arrestato subito, in carcere. I pm da stamani giocano la carta del riesame, e hanno presentato un ricorso contro il tribunale. Obiettivo è la richiesta fatta - ma rigettata - dagli stessi giudici di Grosseto del processo sulla Costa Concordia che hanno condannato Schettino a 16 anni senza, però, mandarlo in prigione. Tutto ciò sullo sfondo - tutto finto - dell'Isola dei Famosi, il reality show per cui un rappresentante di Schettino, Francesco Pepe, si interessò circa un'eventuale partecipazione del comandante, anche se poi non c'è stato seguito: era una trappola de Le Iene. Che rischia di farlo andare in carcere. Infatti quella trattativa, risalente al novembre 2014, circa tre mesi dopo diventa possibile quid novi per gli inquirenti, incoraggiati a rinnovare la richiesta di una custodia cautelare immediata. "Schettino deve andare in carcere", ribadiscono in procura. "Le preoccupazioni sulla sua fuga che avevamo, erano fondate", ha commentato Maria Navarro, attualmente procuratore capo facente funzioni di Grosseto. E "tra gli elementi che ci hanno convinto a fare ricorso c'è senza dubbio anche la recente puntata delle Iene", ha aggiunto. Sembra che il ricorso al riesame fosse già nelle intenzioni, da giorni. Ma sarebbe stato perfezionato in fretta nelle ultime ore. Quando? Proprio dopo che è andata in onda l'ultima puntata della trasmissione, due sere fa. Le Iene hanno intavolato una specie di trattativa tra un personaggio vero, con un ruolo reale, Francesco Pepe, che finora ha seguito per Schettino i rapporti coi mass media, e falsi emissari impegnati nella burla. Per la procura gli abboccamenti confermano l'intenzione malcelata di Schettino di poter, un giorno, allontanarsi dall'Italia. Il reality, infatti, si tiene in un luogo esotico. E nel blitz delle Iene è girata anche un'ipotesi di compenso intorno ai 2 milioni di euro. Schettino ha smentito tutto. Ha detto di non sapere di questa trattativa se non qualcosa dal suo avvocato difensore Domenico Pepe. Affermazioni che hanno fatto scoppiare un'altra "bomba" nell'entourage del comandante. L'avvocato Domenico Pepe la notte scorsa ha deciso di rinunciare al mandato di difensore e l'ha comunicato al tribunale. Francesco Pepe, che ne è figlio, invece ha affidato il suo commento a una nota: "Non posso accettare che Schettino si permetta di sostenere che io abbia agito senza essere stato incaricato da lui ed a sua insaputa". E ancora: sono "sempre stato io a seguire i rapporti con la stampa e le trattative con i media con il totale appoggio e l'autorizzazione del comandante, ovviamente, sempre preventivamente e successivamente informato di tutto". "Isola" compresa, anche se poi fu detto no. Toscana: chiusura dell'Opg di Montelupo, i Radicali manifestano davanti alla Regione Ansa, 22 febbraio 2015 I Radicali fiorentini dell'Associazione per l'iniziativa radicale "Andrea Tamburi" hanno manifestato davanti la sede della Regione Toscana in piazza Duomo a Firenze per chiedere chiarezza e trasparenza sulle sorti dell'Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo Fiorentino. "Abbiamo appreso che recentemente la Regione Toscana ha sottoposto ai Ministeri della Salute e della Giustizia la proposta di trasferire gli internati dell'Opg di Montelupo Fiorentino in una struttura appartenente all'amministrazione penitenziaria di Massa Marittima - hanno dichiarato Massimo Lensi, già consigliere provinciale e membro del Comitato nazionale di Radicali Italiani, e Maurizio Buzzegoli, segretario dell'Associazione "Andrea Tamburi" e membro della Direzione nazionale di Radicali Italiani - se questo progetto andasse in porto, agli internati, per l'ennesima volta, sarebbe negata la possibilità di scontare la pena in una struttura sanitaria con adeguati percorsi terapeutici". Intanto, sabato 28 febbraio, si terrà proprio a Montelupo Fiorentino (presso il circolo "il Progresso") il XV Congresso dell'Associazione "Andrea Tamburi" al quale parteciperà anche il leader storico dei Radicali, Marco Pannella. Toscana: Sappe; chiusura Opg, spreco di investimenti per struttura perduta per sempre www.gonews.it, 22 febbraio 2015 Il 20 febbraio del 2014, il Provveditore regionale dell'Amministrazione penitenziaria della Toscana, Carmelo Cantone, ha incontrato le Organizzazione Regionale regionali della polizia penitenziaria annunciando ufficialmente che entro il 31 marzo 2015 gli effetti della legge n. 9/2012 avranno luogo. Gli internati attualmente presenti nell'Opg di Montelupo F.no dovranno cosi lasciare la struttura penitenziaria per essere consegnati al servizio sanitario nazionale o in altre cd. strutture intermedie o nei casi di non dimissibilità trasferiti nella Rems (residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza sanitarie) individuata nella città di Pistoia, presso un ex convento da ristrutturare. Le parole dell'Amministrazione Penitenziaria sembrano smentite da una relazione del Governo, di recente riportata in Parlamento, dove parrebbe invece che la Rems per la Toscana e l'Umbria sia stata individuata in luogo dell'attuale Casa Circondariale di Massa Marittima. Il Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria) plaude all'evidente passo in avanti compiuto dalle istituzioni con la definitiva "cessione" dei malati di mente al Servizio Sanitario Nazionale, ma non comprende le ragione per cui il prezzo da pagare sia la chiusura definitiva dell'attuale sito penitenziario. Sono svariati milioni di euro "dai 5/6 milioni" quelli spesi dal Dap per adeguare la sede dell'Opg di Montelupo F.no agli standard di detenzione moderna, all'indomani dei lavori della Commissione parlamentare, presieduta dall'allora On. Ignazio Marino. Pertanto tutto faceva presagire il mantenimento della struttura per altre finalità penitenziarie. Ad oggi l'Amministrazione Penitenziaria continua a sborsare migliaia di euro al mese per delle impalcature ancora installate presso la struttura di Montelupo e € 180.000,00 sono le spese inutilmente elargite per un modernissimo impianto di aereazione mai andato in funzione. Non esiste, secondo quanto riferito in sede d'incontro, un concreto piano di riconversione-utilizzo della struttura, eventualmente con detenuti a basso indice di pericolosità. Se da un lato le notizie sul destino degli internati si rincorrono a vicenda dall'altro lato - continua il Segretario Nazionale del Sappe Pasquale Salemme - nessuno a speso ancora una sola parola per giustificare lo spreco di un così imponente investimento di denaro pubblico per una struttura penitenziaria che andrà perduta per sempre. I baschi azzurri di Montelupo F.no e di Massa Marittima non sanno a quale destino affidarsi ed è per questo che il Sappe, congiuntamente alle altre OO.SS. regionali, ha richiesto un urgente incontro con i vertici dell'Amministrazione Penitenziaria centrale e a breve calendarizzerà una conferenza stampa sulla chiusura della struttura. Lombardia: Castiglione; dimessi 263 pazienti non pericolosi, quasi pronti gli 8 mini-Opg di Bruna Bianchi Il Giorno, 22 febbraio 2015 Di proroga in proroga è arrivato il momento di dare un taglio a quelle strutture giudiziarie che l'ex presidente Napolitano nel 2011 aveva definito "un autentico orrore, indegno di un paese civile". Il 31 di marzo i sei Opg, ospedali psichiatrici giudiziari, devono chiudere. Uno solo resterà aperto, benché trasformato in mini-Opg, perché ritenuto un modello internazionale, addirittura di riferimento per la cura di quelle persone che hanno compiuto delitti, a volte atroci, senza esserne consapevoli e perciò pericolose ma non da rinchiudere in un carcere. Questo unico Opg è quello di Castiglione delle Stiviere, non un ex manicomio criminale, non un carcere, ma un luogo ospedaliero con medici e infermieri dove la malattia mentale viene curata. L'Opg in provincia di Mantova, sarà anche l'unico a costruire le Rems (le residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza) al suo interno, mantenendo così nella struttura principale i detenuti con patologie gravi che hanno compiuto reati gravi. Saranno otto per il momento, una sorta di mini Opg dentro quello grande, che risponderanno così al requisito richiesto dal decreto legge del 2011 (lo svuota carceri). In futuro però dovranno essere solo sei e altre due Rems verranno create a Limbiate (nell'ex manicomio Mombello da ristrutturare) con 20 posti letto ciascuna. Nel frattempo è stato rispettato il programma di svuotamento dei detenuti non pericolosi, previsto appunto entro il 31 marzo, a Castiglione come altrove: "Quest'anno abbiamo dimesso 263 pazienti e ne sono entrati 161, quindi abbiamo 100 persone in meno". Il direttore dell'Opg è soddisfatto: "Noi ci trasformiamo in Rems ma continuiamo nel percorso terapeutico specifico - spiega Andrea Pinotti. Castiglione resterà l'eccellenza e il riferimento anche per il territorio. In sostanza saremo l'ospedale specialistico mantenendo le nostre capacità di essere altamente specializzati per la psichiatria forense". I "matti da slegare" sono usciti in totale sicurezza. Per loro si sono aperte altre porte, quelle della propria famiglia o di comunità terapeutiche già presenti sul territorio, ma nessuno di loro è socialmente pericoloso: "Si è tenuto conto della loro patologia e continueranno il percorso di cure e recupero che stavano compiendo qui". Resteranno nell'attuale Opg, in stanze più piccole costruite appositamente, i pazienti che non hanno potuto essere dimessi perché con una patologia attiva e una attiva pericolosità sociale. Le rems dovranno sostituire l'attuale struttura che è destinata all'abbattimento. Anche i pazienti dimessi dovevano venire inseriti nelle 12 strutture previste per loro che la Regione doveva costruire in Lombardia, ma non si poteva attendere oltre (tre i rinvii di chiusura degli Opg) e si è trovata un'altra soluzione. Bisognava comunque ottemperare al "definitivo superamento" deciso dopo la visita a sorpresa nel 2010 dei senatori della Commissione giustizia negli Opg "lager" di Aversa e Barcellona Pozzo di Gotto. Castiglione non è mai rientrata nell'orrore ("mai usato metodi di coercizione") e perciò non farà la fine degli altri. Non chiude neppure la struttura femminile che ospita le madri assassine. Liguria: domani Convegno sugli interventi sociali in ambito penale nella Biblioteca Berio Adnkronos, 22 febbraio 2015 Lunedì 23 febbraio dalle 9 alle 13 gli assessori al welfare e alla formazione della Regione Liguria Lorena Rambaudi e Pippo Rossetti parteciperanno al convegno su "Reclusi-inclusi: interventi sociali in ambito penale", dedicato ai progetti di recupero di detenuti presso la sala dei Chierici della Biblioteca Berio di Genova. All'iniziativa organizzata dal dipartimento welfare della Regione Liguria parteciperanno, tra gli altri, Catia Taraschi direttore dell'ufficio detenuti del provveditorato regionale dell'amministrazione penitenziaria della Liguria, Paola Carbone del centro giustizia minorile di Torino e Santina Spanò responsabile ufficio esecuzione penale esterna di Genova. "L'obiettivo - spiega l'assessore Rambaudi - è quello di fare il punto sugli interventi sociali collegati al carcere e su quanto messo a punto dalla Regione Liguria per creare una rete di soggetti del terzo settore che operano nelle carceri per realizzare progetti e interventi per migliorare la qualità della vita delle persone recluse e il loro reinserimento sociale". Ascoli Piceno: detenuto morto, l'autopsia svela lesioni interne e fratture multiple Ansa, 22 febbraio 2015 Presentava molteplici fratture e lesioni il corpo di Achille Mestichelli, il detenuto ascolano di 53 anni morto il 18 febbraio scorso nell'ospedale di Ancona, dove era stato ricoverato il 13 febbraio in seguito a quella che era stata descritta come una caduta dovuta alla spinta di un compagno di cella, Mohamed Ben Alì, un tunisino di 24 anni, ora indagato per omicidio preterintenzionale. L'autopsia, condotta dal professor Adriano Tagliabracci, e durata oltre quattro ore, ha messo in luce un quadro ben più grave. Pur in assenza di ecchimosi diffuse, il medico legale ha riscontrato sul cadavere la frattura dell'osso temporale del cranio (causa della morte), ma anche di sette costole, di una vertebra lombare, del bacino e della milza. "Lesioni assolutamente non compatibili con l'ipotesi di ferite provocate da una caduta a terra, conseguenza di una banale spinta, come sostiene invece l'indagato", afferma l'avvocato Felice Franchi che assiste i familiari di Mestichelli. Sulle braccia della vittima c'erano anche segni non compatibili con dei colpi, per cui non è da escludere che Mestichelli sia stato tenuto fermo mentre veniva colpito. Anche se i segni potrebbero essere stati determinati dalle manovre dei sanitari durante le cure. I risultati definitivi dell'autopsia verranno depositati entro 60 giorni. Sull'episodio i carabinieri hanno raccolto anche le testimonianze di altri 4 compagni di cella di Mestichelli e di Alì (arrestato nell'ambito di un'operazione antidroga). Si tratta di due italiani e due tunisini. Imperia: detenuto tenta il suicidio, salvato dagli agenti penitenziari di Maurizio Vezzaro La Stampa, 22 febbraio 2015 Ha tentato di impiccarsi legando un lenzuolo a una sbarra ma per fortuna è stato notato e salvato dal personale del penitenziario di Imperia. F.V., 40 anni, un detenuto di origini campane in carcere a Imperia a scontare una condanna per droga (uscirà in ottobre) è ora ricoverato in osservazione all'ospedale, dove è giunto a bordo di un'ambulanza della Croce rossa. F.V. era in isolamento a causa di un provvedimento disciplinare. Forse la durezza della punizione ma anche alcuni problemi familiari (non è riuscito a telefonare alla convivente ed era preoccupato) hanno peggiorato il suo malessere fino a spingerlo a tentare di togliersi la vita. Quando i poliziotti di servizio sono intervenuti, il viso dell'uomo stava già assumendo colorazioni cianotiche. In cella è andata poi la squadra del 118 che ha prestato le prime cure. Quando la barella con sopra l'uomo è stata fatta entrare nell'ambulanza, F.V. era cosciente. Le condizioni all'interno dei penitenziari italiani, nonostante varie riforme e miglioramenti introdotti nel tempo, restano pessime rispetto agli standard europei. Il sovraffollamento, la scarsità di progetti che prevedano il recupero e il reinserimento sociale, la convivenza tra detenuti che spesso, oltre alla lingua, non condividono religione e cultura, sono causa di tensioni e stress che spesso si ripercuotono sulla salute del recluso. Depressione e ansia sono tra le patologie più diffuse. Napoli: sangue, piscio e botte da orbi… benvenuti nella "cella zero" di Poggioreale di Giuseppe Candido Il Garantista, 22 febbraio 2015 La colla numero zero. La chiamano così a Poggioreale, la Casa circondariale di Napoli tristemente nota per il suo atavico sovraffollamento che, in passato, ha superato il 178% raggiungendo presenze di tremila detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 1.680 posti. Mura umide, ammuffite, luride di sangue. Finestra con le sbarre, finestre tenute sempre chiuse e, soprattutto, nessuna telecamera. Salvatore Esposito col suo documentario pubblicato dall'Internazionale - attraverso le testimonianze di numerosi ex detenuti del carcere partenopeo - ricostruisce una realtà agghiacciante, tragica e, allo stesso tempo, drammatica. Il cortometraggio lungo poco più di cinque minuti, come sottolinea l'avviso agli utenti, "contiene immagini cruente". La cella numero zero del carcere di Poggioreale è una stanza due metri per tre con "una finestra sempre chiusa". Le testimonianze di ex detenuti sono diverse, ma sono montate in modo che le frasi ricostruiscano con fedeltà ciò che in questa cella pare avvenisse: "Se ti giri e ti guardi intorno trovi pareti sporche di sangue". "Sangue di persone", spiega la testimonianza, "che si sono dovute pulire le mani sporche di sangue sul muro". In quella colla, aggiunge un'altra dello testimonianze, "vengono picchiati tutti i detenuti, tutti quelli che commettono delle coso che a loro non stanno bene". E ancora: "Si mettono tre o quattro poliziotti intorno a te e, con la scusa che ti fanno qualche domanda, ti riempiono di botte. Ti scassano senza pietà. Sia che tu sia un boss sia che tu sia un ragazzo normale, a loro non interessa". Un altro aggiunge: "mi hanno picchiato senza motivo, facendomi uscire sangue dappertutto". E un altro ancora aggiunge il particolare sul diritto alla cura: "Mi dicevano: prendi quella pillola. La pillola di Padre Pio, la chiamavano, perché era una pillola che utilizzavano per qualsiasi patologia. Ho sentito dire a un infermiere: "oggi con chi ci divertiamo?". E ho pregato Dio di farmi trasferire e - aggiunge - non mi vergogno di dire che ho pianto davanti un assistente sociale e da quando sono uscito ho ancora bisogno di psicofarmaci per dormire", Non c'è dubbio che chi ha sbagliato debba pagare, ma la condanna è già la detenzione. Non si può aggiungere alla galera anche la tortura di carceri immonde e in cui possono accadere cose del genere. Non può essere che in un luogo in cui si viene affidati allo Stato, "se entra un bravo ragazzo, entra vivo ed esce morto". Anche se questo bravo ragazzo fosso il peggior criminale, non è comunque tollerabile che, affidati nelle mani dello Stato, si venga costretti al suicidio di liberazione. E non serve indignarsi per gli indegni commenti di qualche cretino sulla pagina Fb. È un discorso culturale e di rispetto della legalità: la pena non può essere inumana né violare la dignità della persona. Le immagini del documentario riprendono il viso e il corpo tumefatto e senza vita di Federico Perna, morto a 34 anni in quel carcere. La madre, disperata, di fronte la tomba, dice che "non si può morire così a 34 anni". Anche se, secondo l'autopsia, sarebbe invoco morto per una "grave ischemia cardiaca acuta". La cella zero era stata creata nel 1981, si legge nei testi di coda del documentario, nel 1981 e, "nel 2013 dopo le denunce dei detenuti il dipartimento dell'amministrazione penitenziaria ha avviato un'indagine e, dopo pochi mesi, la direttrice del carcere Teresa Abate venne trasferita e alcuni agenti furono "allontanati dai reparti". Ma tralasciando il compito di individuare i responsabili di questa vergognosa vicenda che, evidentemente, spetta alla magistratura, ò naturale che, so in un carcere dove potevano stare solo 1.680 detenuti si è arrivati ad ospitarne tremila, non erano ( e non sono) soltanto i detenuti ad essere costretti a vivere in condizioni degradanti. In condizioni che sposso "ispirano" i suicidi di liberazione che non accennano a diminuire nelle patrie galero. In quelle condizioni inumane e degradanti, ci si trova anche chi lì vi lavora. A chi dice che l'emergenza carceri è finita consiglio di andare a vedere che le file dei parenti dei detenuti davanti al carcere non sono finite. Come pure continuano le torture dei parenti che le file per vedere i propri cari devono farlo. L'emergenza carceri non è finita e, rame Radicali, continuiamo a mettere al centro della nostra iniziativa e della nostra azione politica gli obiettivi indicati dal Presidente emerito Napolitano nel discorso inviato alle Camere l'8 ottobre 2013 che è rimasto inascoltato. I cittadini avrebbero il diritto di conoscere. Il diritto alla conoscenza, che oggi Pannella vuole promuovere all'Onu come diritto umano, è un diritto fondamentale. E il diritto di conoscere per deliberare di einaudiana memoria. Solo così si può lottare contro l'indifferenza. Solo così si può sperare di continuare a vivere in una democrazia. Catanzaro: Uil-Pa; carcere con profonde carenze strutturali e automezzi con 300mila km Ansa, 22 febbraio 2015 "Il carcere di Catanzaro soffre di profonde carenze strutturali ma in Italia si posiziona nella fascia medio alta. Ciò rende bene l'idea di quale sia nel nostro Paese la situazione degli istituti di reclusione e delle condizioni in cui operano gli agenti della polizia penitenziaria". Così il segretario generale della Uil penitenziaria Eugenio Sarno ha sintetizzato l'esito di una visita compiuta stamani nella struttura insieme al segretario generale della Uil Carmelo Barbagallo ed al segretario generale della Uil-Pa Benedetto Attili. "Il fatto - ha detto Barbagallo - è che il Governo, per la spending review fa i tagli più facili, bloccando il turno over e peggiorando le condizioni di lavoro della polizia penitenziaria". Sarno ha anche denunciato la situazione di "illegalità" che riguarda il parco automezzi in dotazione al Corpo. "Abbiamo mezzi - ha detto - i più nuovi dei quali hanno percorso 300 mila chilometri. Se fossero privati sarebbero sottoposti a fermo amministrativo. Nonostante questo negli ultimi 14 mesi, da Catanzaro, abbiamo effettuato 2.505 traduzioni, 2.431 delle quali sui strada, trasportando 5.632 detenuti. Forse, la spending review, invece di prevedere tagli agli organici, dovrebbe prendere in considerazione l'impiego delle videoconferenza con le quali si abbatterebbe il numero di traduzioni". Tornando alla situazione del carcere, Sarno ha fornito alcuni dati: ad oggi i detenuti reclusi sono 564, 254 dei quali di alta sicurezza. Complessivamente 127 in attesa di giudizio, 113 hanno una condanna definitiva e gli altri sono in attesa di definizione del loro iter giudiziario. A fronte di questi numeri, ha sottolineato Sarno, l'organico della polizia penitenziaria "sarebbe addirittura superiore alla pianta organica, visto che ci sono 291 agenti contro 257. Ma la pianta organica è stata definita nel 2000 a fronte di una capienza di 350 detenuti. Ma poi è stato aperto un nuovo padiglione con 200 posti, il che porta il numero degli agenti necessari a 340". "È necessario - ha detto dal canto suo Attili - investire in infrastrutture e formazione del personale ed anche sul fronte economico, per rispettare il lavoro degli agenti". Macomer (Nu): al vaglio possibilità di destinare l'ex carcere a internati dimessi dagli Opg La Nuova Sardegna, 22 febbraio 2015 L'assessore regionale alla Sanità, Luigi Arru, ha verificato di persona lo stato del carcere di Macomer e la possibilità di utilizzarlo per attività alternative alla carcerazione legate al trattamento sanitario dei detenuti psichiatrici che con la chiusura dei manicomi criminali saranno dimessi da queste strutture e dei detenuti affetti da tossicodipendenze. Accompagnato dal sindaco, Antonio Succu, e dal comandante della Polizia penitenziaria, l'assessore Arru ha visitato il carcere mandamentale dando così seguito all'impegno assunto col sindaco durante l'incontro svoltosi presso la Presidenza della Giunta regionale il 6 febbraio. La visita era stata autorizzata dal direttore del carcere di Massama, Pierluigi Marci, al quale fa capo anche la struttura dismessa di Macomer. L'assessore regionale alla Sanità ha preso atto delle buone condizioni della struttura di Macomer, degli ampi spazi disponibili e delle potenzialità di riutilizzo. Si è poi riservato di valutare, con i consulenti dell'assessorato, la percorribilità delle ipotesi progettuali di riutilizzo presentate dal sindaco Succu. Si tratta di verificare la possibilità di destinare la struttura ai cosiddetti "detenuti difficili", ossia tossicodipendenti che talvolta presentano problematiche di tipo psichiatrico e se una parte della stessa struttura possa essere dedicata agli ex Opg (detenuti psichiatrici reclusi nei manicomi criminali di prossima soppressione). Il sindaco ha constatato che è in corso un rapido svuotamento dell'edificio. Si sta infatti procedendo a trasferire altrove tutte le attrezzature e quanto è necessario per il funzionamento della struttura nel caso in cui si dovesse puntare su soluzioni alternative alla carcerazione ordinaria. Ha chiesto perciò al Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria di fermare il trasferimento di attrezzature e arredi in attesa della verifica di un loro possibile riutilizzo all'interno del complesso. L'unica possibilità di riconversione del carcere di Macomer resta legata alle attività di giustizia. Impossibile una trasformazione per altri usi. Livorno: sono stata in visita al carcere, tutti dovrebbero entrare per rendersi conto di Giovanna Cepparello (Lista Buongiorno) www.gonews.it, 22 febbraio 2015 Appena uscita dalle Sughere, che ho visitato insieme ad una delegazione di Consiglieri Comunali, accompagnati, tra gli altri, dal Garante dei detenuti Marco Solimano e dalla Direttrice Perla Macelloni, il primo pensiero a caldo è stato questo: tutti dovrebbero vedere che cosa c'è dentro quella costruzione che si intravede dalla variante, presente ma lontana da tutto, non-luogo a pochi metri da una delle più frequentate zone commerciali della città. Perché da fuori il carcere è solo un edificio rosa, che ormai si integra all'interno dello scenario pre-urbano. Ma solo vedendolo dall'interno la percezione abitudinaria e quindi indifferente si trasforma in presa di coscienza reale, improvvisa quanto dolorosa. A Livorno abbiamo un carcere. Che non è affatto tra i peggiori d'Italia, ce lo dicono i dati e i numeri. Ma dove comunque molti detenuti vivono in condizioni che ledono i loro diritti fondamentali. In tre in celle anguste e fatiscenti, all'interno delle quali trascorrono praticamente tutta la giornata (circa 22 ore su 24). Il cesso si trova nella stessa stanzetta, minuscola, dove ripongono il cibo e cucinano, accanto ad un piccolo lavabo rigorosamente senza acqua calda. Abbiamo visto uova e biscotti accatastati intorno al wc, perché altro spazio non c'è. E molti frutti dell'ingegno, per sopravvivere in pochi metri quadri, come una scatola di pasta attaccata al muro che diventa un porta-carta igienica o una bottiglia di plastica rovesciata e ritagliata che si trasforma in porta- bicchieri di carta; una specie di art-attack della disperazione. Due docce, in una stanza che non corrisponde al minimo standard igienico, con pareti completamente piene di muffa, servono per decine di persone. Insomma, dentro quel pezzo di panorama livornese c'è una realtà di degrado, di dignità violata. Ancora una volta, come sempre più spesso capita di fare, serve ricordare la nostra Costituzione, così alta ma così disattesa, lontana dai fatti. Poche, semplici parole: Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato (Articolo 27, Comma 3). Inutile spendere anche un solo rigo per dimostrare che espressioni come senso di umanità e rieducazione non si conciliano neanche un po' con la situazione descritta sopra. Del resto, l'Italia è già stata condannata dalla Corte Europea per i diritti umani di Strasburgo. A fronte di tutto questo, credo che spetti alla politica promuovere una battaglia su questi temi. Che dovrà essere in primo luogo una battaglia culturale. Siamo ormai molto abituati ad utilizzare la mentalità aziendalistica in contesti che con l'azienda non hanno niente a che vedere. I diritti, in questo senso, vengono spesso percepiti come un qualcosa che deve essere meritato, guadagnato. Una sorta di premio sociale per gli adatti. E invece i diritti, alcuni diritti, sono per l'appunto universali, ovvero devono essere rispettati in qualsiasi situazione: la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, ad esempio, parla chiaramente di uguale dignità per tutti gli uomini, e di diritto a punizioni non degradanti. La dignità, quindi, deve essere garantita a prescindere da qualsiasi principio ‘meritocraticò. Su questo occorre promuovere una riflessione collettiva, specialmente in tempi di crisi, quando cioè alcuni diritti sono messi in discussione per molti, e diventa più difficile essere solidali, specie con chi ha violato la legge. Quando invece la solidarietà sociale (altro principio fondante della nostra Costituzione) potrebbe costituire un'arma appuntita contro la crisi. Proviamo ad esempio a pensare al tema della sicurezza, sempre più centrale nel comune sentire, se è vero che si diffonde ogni giorno di più la sensazione di vivere in contesti sociali poco sicuri. Chiaramente, i cittadini che escono da un'esperienza di detenzione degradante, nella quale è quasi completamente assente la rieducazione, molto probabilmente torneranno alla loro vita precedente. Torneranno, in molti casi, a delinquere. Il carcere italiano, quindi, diventa in questo caso un moltiplicatore dell'insicurezza sociale. Una delle tante prove che si vive meglio in una società dove vivono bene anche gli altri. Tutti gli altri, anche i detenuti. La solidarietà diventa quindi in questo caso capacità di comprendere che spesso i problemi altrui sono anche nostri. Senza contare che, e qui voglio invece entrare nell'ottica aziendalista che ho contestato rispetto al tema dei diritti universali, ma che può essere utile quando si parla di denaro pubblico, lo Stato Italiano spende molti soldi per mantenere il sistema carcerario cosi com'è. Spende, non investe, appunto, perché l'attuale sistema carcerario non migliora la società, ma anzi contribuisce al suo degrado. Rispetto alla Casa Circondariale Le Sughere, il Consiglio Comunale di Livorno si era già espresso, a dicembre, con una mozione che chiedeva la destinazione alla media sicurezza del nuovo padiglione che invece, purtroppo, è stato destinato proprio all'alta sicurezza. In ogni caso, garantiremo nei prossimi mesi la massima attenzione alla questione carceraria livornese, organizzando anche un Consiglio Comunale all'interno dell'istituto penitenziario, e cercando di promuovere iniziative che in qualche modo possano aprire una via di comunicazione tra i detenuti e l'assemblea cittadina. Oltre, naturalmente, a fare pressione sulle autorità competenti affinché i vecchi padiglioni possano finalmente essere ristrutturati. Chieti: l'ex Rsa di Ripa teatina diventa struttura sanitaria per internati dimessi dagli Opg www.chietitoday.it, 22 febbraio 2015 L'edificio esistente sarà interamente demolito per fare spazio ad una struttura nuova che ospiterà 20 persone. Lavori entro due anni, la spesa è di quasi 5 milioni di euro. Conto alla rovescia per la fine dell'ex Rsa Ripa Teatina: il sindaco Ignazio Rucci ha annunciato che a breve il vecchio edificio destinato a RSA verrà abbattuto e al suo posto, entro due anni, sorgerà una nuova struttura sanitaria a servizio delle carceri. In questi giorni il direttore generale dell'Asl, Francesco Zavattaro, ha firmato la delibera con la quale approva il progetto preliminare. Quella a Ripa Teatina sarà una struttura riabilitativa con 20 posti destinata a ospitare i residenti in Abruzzo e Molise cui vengono applicate le misure di sicurezza richieste per i detenuti in stato di ricovero in ospedale psichiatrico, ma che supera i cosiddetti Opg. Nelle prossime settimane l'avvio delle procedure di gara con il sistema dell'appalto integrato, i lavori ammontano a 4.788.758, 11 euro. "L'intera progettazione - spiega il sindaco Rucci - terrà conto in modo rilevante del fattore sicurezza, fondamentale per la tranquillità dei residenti: saranno predisposte tutte le precauzioni attinenti alla sicurezza, avvalendosi di avanzati strumenti tecnologici". Già da marzo 2013 la direzione generale della Asl aveva presentato un progetto per recuperare l'area, successivamente il Ministero della Salute ha approvato il programma relativo alla realizzazione di una struttura per il superamento dei vecchi ospedali psichiatrici nel territorio di Ripa Teatina, al servizio delle carceri di Abruzzo e Molise. In attesa del progetto preliminare, i tempi si sono ulteriormente allungati e siamo arrivati al 2015. Il cronoprogramma ora prevede che i lavori finiscano nel dicembre 2017. "Come sindaco- assicura Rucci - vigilerò affinché i tempi non slittino ulteriormente". Udine: ex detenuto si rivolge a Strasburgo "in carcere risse, pestaggi, cibo scarso e droga" di Lodovica Bulian Messaggero Veneto, 22 febbraio 2015 Ex detenuto friulano si è rivolto alla Corte di Strasburgo per il risarcimento. La testimonianza a Radio Radicale: "Risse, pestaggi, cibo scarso e droga". "Un inferno". Celle da sei metri quadrati per tre detenuti. Il caldo "insopportabile" d'estate, e il freddo pungente dei mesi invernali. È dura la testimonianza di Nico, 54 anni, italiano, ex detenuto nel carcere di Udine, intervistato da Radio Radicale sulle condizioni dei reclusi di via Spalato. Oggi è in attesa dell'esito dell'istanza di risarcimento che ha presentato per aver subito un trattamento inumano e degradante. "Non so come ho fatto a venirne fuori, ma mi ero promesso che quando sarei uscito avrei fatto ricorso". Uno dei tanti, fioccati dopo che nel 2013 la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha condannato l'Italia per lo stato inumano delle sue carceri. La fotografia che emerge dal racconto all'emittente è drammatica. A Udine c'è la piaga del sovraffollamento, ma non solo. Secondo Nico, "c'è droga, ci sono le dipendenze, c'è l'ozio, estenuante, a scandire un tempo immobile, senza speranza. E ci sono le risse, i pestaggi. Il cibo scarso e spesso scaduto. C'è la paura". Nico ci è finito per colpa del gioco d'azzardo, che lo ha trascinato irrimediabilmente oltre il confine della legalità: prima i soldi prosciugati, poi la vergogna, e infine le truffe e la condanna per una serie di reati contro il patrimonio. "Perché quando entri nella spirale del gioco, fai una brutta fine" afferma. Oggi in via Spalato quelle 173 persone per soli 100 posti regolamentari - secondo gli ultimi dati forniti dal Ministero della Giustizia - lasciano solo due metri quadrati a detenuto all'interno delle celle. Nico ricorda soprattutto l'angoscia, che saliva la sera, prima di coricarsi: "Non volevo dormire, io non lo so come si fa dormire in un carcere". La giornata "inizia alle 8.30 - spiega - quando si aprono le celle e si esce all'aria in un piccolo piazzale in cemento, dove non si fa altro che camminare su e giù, non c'è nemmeno un campo per giocare a pallone". Si lasciano passare le ore, fino alle 11, quando si rientra per mangiare: "I pasti sono scarsi, e spesso poco buoni. Abbiamo più volte protestato, ma niente. Chi non ha i soldi per comprarsi qualcosa soffre la fame". Il pomeriggio scorre lento allo stesso modo, fino a notte. Esiste anche un laboratorio di legatoria, "ma ci lavorano soltanto due detenuti", rivela Nico, mentre ai corsi di formazione "nessuno partecipa, perché quando sei lì non hai voglia di niente". Da Radio Radicale gli chiedono se abbia assistito a episodi di violenza all'interno della casa circondariale, Nico riferisce di pestaggi ai danni di un detenuto marocchino considerato "irrequieto". Se, stando ai numeri, il carcere di Udine non spicca per particolari criticità, quel suicidio avvenuto nel 2012, l'ultimo in ordine cronologico, Nico se lo ricorda bene. Si chiamava Matteo, aveva 28 anni: "Aveva problemi di dipendenza - confessa l'ex carcerato. La sera prima del suicidio aveva dato segnali di malessere, io me ne accorsi e avvisai le guardie. La mattina dopo, lo trovarono impiccato". Ora Nico è un uomo libero e spera che il 26 febbraio giudice accolga la sua richiesta di risarcimento. Ma non è di certo la libertà che si aspettava, anzi. "Nessuno mi dà in lavoro - confida. Vivo grazie a mia madre, che ha 97 anni". Campobasso: "Ti racconto un libro", la scrittrice Antonella Cilento incontra i detenuti www.ecodelmolise.com, 22 febbraio 2015 Hanno attraversato un labirinto mozzafiato, dove la suspense regna incontrastata per tutta la durata della narrazione. Rivelazioni ed eventi inquietanti hanno scandito le pagine di un raffinato noir ambientato nella Napoli dei giorni nostri ed ora sono pronti ad incontrare di persona l'autrice del libro che li ha accompagnati in queste settimane di intensa lettura. Nell'ambito di Liberi di leggere, l'iniziativa di "Ti racconto un libro" - il laboratorio permanente sulla lettura e sulla narrazione promosso e realizzato dall'Unione Lettori Italiani con la direzione artistica e organizzativa di Brunella Santoli, e sostenuto dalla Fondazione Molise Cultura e dalla Regione Molise - Assessorato all'Istruzione e con il patrocinio della Provincia di Campobasso e del Comune di Campobasso, la scrittrice Antonella Cilento farà visita ai detenuti del carcere di Campobasso per discutere e confrontarsi su uno dei suoi libri più conosciuti, La paura della lince, che gli ospiti della casa circondariale hanno letto nelle ultime settimane. L'incontro, in programma sabato 21 febbraio alle ore 11 nell'istituto carcerario, è organizzato in collaborazione con il Laboratorio di lettura del carcere di Campobasso, condotto da Brunella Santoli, e rappresenta un'occasione unica di crescita culturale e umana, non solo per i detenuti, ma anche per gli organizzatori dell'appuntamento che da anni promuovono questo tipo di iniziativa che ha registrato sempre riscontri molto positivi. Oltre che su La paura della lince, i detenuti avranno l'occasione di confrontarsi anche su Asino chi legge in cui l'autrice raccoglie esperienze vissute negli ambienti e con le persone più disparati in un clima in cui chi ama leggere viene guardato con sospetto e trattato con sufficienza, quasi stesse buttando al vento tempo prezioso. Nel corso degli anni, Liberi di leggere ha ospitato alcune delle personalità più prestigiose della narrativa italiana, da Pino Roveredo a Ivan Cotroneo e Antonio Pascale, dando vita ad una formula innovativa di lettura basata sul confronto e la discussione e che ha di fatto creato le basi per il Laboratorio di lettura, un'esperienza realmente condivisa e che ha riscosso una straordinaria partecipazione. Un luogo in cui la lettura rappresenta un ritaglio di libertà e un modo per mantenere viva l'intelligenza e per elaborare un nuovo senso della vita. Il prossimo appuntamento con Ti racconto un libro è in programma martedì 3 marzo alle ore 18.30 nella sala conferenze della biblioteca provinciale Albino di Campobasso con Pino Roveredo e il suo Ballando con Cecilia, un romanzo toccante e di rara intensità a firma di uno degli autori più importanti del panorama narrativo italiano. Nisida (Na): "Professò, ma poi?"…. insegnare l'arte della sartoria in un carcere minorile di Elisabetta Longo Tempi, 22 febbraio 2015 Un famoso sarto di Napoli, Pino Peluso, ci racconta il suo corso "dietro le sbarre" del penitenziario minorile di Nisida. Dai clienti prestigiosi ai ragazzi difficili. Il sarto napoletano Pino Peluso non si è mai tirato indietro di fronte alle sfide difficili. Per questo non si è spaventato quando la Regione Campania gli ha proposto di andare a insegnare a detenuti minorenni la nobile arte della sartoria da uomo. Il carcere minorile di Nisida si trova su un'isoletta di fronte a Napoli, e lì Peluso sta insegnando ai ragazzi, da zero, a preparare un gilet anche se alla fine, come vedremo, non è solo questo il risultato. Ogni lunedì, martedì e venerdì il sarto si congeda dalla sua prestigiosa sartoria nel centro di Napoli per andare dai suoi studenti. Al mattino fa lezione a un gruppo di ragazze, quattro, al pomeriggio a undici baldi giovani. Peluso già insegna alla Camera europea dell'Alta sartoria, essendone il vicepresidente, ma questo è tutto un altro genere di "utenza". "Alle mie spalle - racconta a tempi.it - ho parecchie generazioni di sarti, è così è stato naturale seguire questa strada. A 12 anni già bazzicavo nel laboratorio dei miei genitori e, talvolta, invece che andare a scuola, andavo in uno dei tanti laboratori di sartoria presenti a Napoli. Non volevo andare alle superiori, avevo già la sartoria nel sangue". Oggi Peluso è un professionista affermato e sa bene quante ore e quanta pazienza occorra per preparare un abito di qualità. Pazienza e precisione, ecco le due parole che, nelle ore di lezione coi detenuti, diventano di fondamentale importanza: "Guai a perdere un solo attimo con loro. Bisogna sempre sollecitare la loro attenzione. È stato così fin dal principio. Sono ragazzi che non sanno cos'è l'attesa. "Fuori" sono stati abituati a prendere tutto e subito, poco importa se legalmente o illegalmente. La domanda che mi fanno più spesso è: "Professò, ma da grande cosa potrò fare?". Potresti fare il sarto, rispondo loro. "Ma qui a Napoli, sapendo i miei trascorsi, non mi assumerebbe nessuno". Quando ribatto loro che potrebbero andare altrove, avendo come punto di forza il saper cucire e l'essere napoletano, rimangono stupiti". Nel carcere di Nisida si tengono anche altre attività, come laboratori di falegnameria e artigianato. Quando hanno detto loro che il nuovo laboratorio sarebbe stato di "taglia e cuci" sono rimasti perplessi: "Ma non vorrete mica farci diventare delle sartine?". Poi, invece. "Siccome nel carcere vengono prodotti i classici pastori da presepe napoletano, alti 40 centimetri, ho proposto loro, dopo qualche lezione, se non volessero confezionarne i costumi. Mi hanno detto di no, che ci tenevano proprio a imparare a ideare un gilet, per indossarlo e farlo vedere alla mamma". "Sto insegnando loro anche storia del costume, non durante ore apposite, bensì nel corso delle lezioni. A un certo punto, mentre spiego il perché di una piega o un punto, racconto aneddoti inerenti alla storia della moda, e loro imparano senza rendersene conto. Se entrando in classe dicessi: "Oggi storia del costume", comincerebbero a volare palline di carta". Peluso non conosce i motivi per cui quei ragazzi si trovano privati della libertà, ma non importa: "Qualcuno mi ha detto che uscirà dal carcere tra una decina d'anni, uno che sarebbe uscito tra un paio di settimane, dispiaciuto di non poter completare il mio corso e imparare a fare quel gilet. Io spero che quei ragazzi un giorno vengano a bussare alla porta della mia sartoria, desiderosi di imparare. Se così fosse, sentirei di avere fatto il giusto". La Spezia: libro "Non come tutti" di Giorgio Pagano presentato in carcere Villa Andreino da Ass. Culturale Mediterraneo www.gazzettadellaspezia.it, 22 febbraio 2015 Il libro "Non come tutti" di Giorgio Pagano è stato presentato nel carcere di Villa Andreino, per iniziativa dell'Associazione Culturale Mediterraneo e della Direzione della Casa Circondariale. Era presente l'avvocato Alessandra Ballerini, impegnata, con l'Associazione Antigone, per i diritti umani nelle carceri. La riflessione, tenutasi nella cappella, ha coinvolto molti detenuti, operatori, volontari. Agostino Codispoti, funzionario giuridico-pedagogico, l'ha introdotta così: "La sinistra deve occuparsi dei più poveri, e i più poveri sono in carcere". Licia Vanni, responsabile dell'Area Trattamentale, ha detto: "Abbiamo invitato due persone in grado di infondere fiducia". Alessandra Ballerini ha presentato il libro di Pagano insistendo sul concetto di eguaglianza come cardine della sinistra, e sulla necessità che la sinistra non dimentichi gli ultimi: "a turno siamo tutti ultimi". Sono intervenuti molti detenuti, che hanno raccontato la loro storia: "abbiamo sbagliato, ma siamo persone anche noi, il carcere deve essere un luogo di rieducazione per il nostro reinserimento sociale, vogliamo dialogare di più con la società che sta fuori". Molte le domande, e anche le considerazioni politiche: "La politica si è staccata dalle necessità del carcere, e la sinistra non fa più la sinistra". Giorgio Pagano ha detto: "La sinistra non deve essere come tutti, deve far diventare popolari idee che oggi sono impopolari, come il decongestionamento e l'umanizzazione delle carceri, le pene alternative, l'abrogazione di leggi riempi-carceri come la Bossi-Fini sull'immigrazione e la Fini-Giovanardi sulle droghe leggere... La sinistra si è ormai omologata alla destra, deve tornare a usare parole sue, come eguaglianza e rappresentanza dei ceti più deboli, dei lavoratori, dei precari, degli emarginati. Ma la sinistra non rinascerà per la volontà di un leader illuminato, la ricostruiremo solo dal basso, nella società, tra le persone. Poi verrà il leader, come in Grecia e in Spagna: ma Syriza e Podemos sono nati da spinte sociali e culturali dal basso. Il vero cambiamento passa dal cambiamento personale, dalla riforma della nostra vita". Interrogato dalla Ballerini sulla sua riflessione sul potere e sulla libertà Pagano ha detto: "Il potere non è tutto, nemmeno i soldi. Come dice Pepe Mujica, ex Presidente dell'Uruguay, la felicità sta nella libertà, nel tempo da dedicare all'amore per gli altri, per gli amici, per la natura. Io ho avuto il coraggio di lasciare una via già tracciata, sicura e confortevole, e di rischiare rinunciando a tutto per ricominciare da capo. Non ne sono pentito, anzi: la felicità è realizzare ciò che si vuole veramente, alla ricerca della vita". Le conclusioni dell'incontro sono state dedicate a don Andrea Gallo e al concetto di speranza: "Come diceva don Gallo, il male grida forte, ma la speranza grida ancora più forte. La speranza è una virtù incancellabile, vivere veramente è sperare". Reggio Emilia: detenuti, studenti e attori… insieme nello spettacolo "Angeli e Demoni" Gazzetta di Reggio, 22 febbraio 2015 Progetto del Teatro dei Venti e del Coordinamento regionale Teatro Carcere Il regista: "Nostro obiettivo è fare incontrare parti diverse della società". Sul palcoscenico detenuti e internati della casa di reclusione di Castelfranco Emilia e della casa circondariale Sant'Anna di Modena, studenti della V A dell'Istituto Spallanzani di Castelfranco Emilia e gli attori del Teatro dei Venti. Insieme danno vita a "Angeli e demoni" in scena stasera alle ore 21 al teatro Herberia per la regia di Stefano Tè. Lo spettacolo è uno studio sulla Gerusalemme Liberata, un appuntamento fuori stagione con il Teatro Carcere a cura della compagnia Teatro dei Venti, esito di una residenza artistica promossa dalla Corte Ospitale. L'evento è una tappa dell'ambizioso progetto d'incontro tra carcere e società civile che la compagnia modenese sta elaborando col Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna i penitenziari di Modena e Castelfranco Emilia e i rispettivi Comuni. "Il 2015 per noi è l'anno dell'incontro tra il carcere e la città - dice il regista Tè - per questo, quando è possibile, cerchiamo di aprire i nostri laboratori di Teatro in Carcere anche alla cittadinanza. In questo caso lavorando insieme studenti, detenuti e gli attori del Teatro dei Venti. L'obiettivo è creare un racconto sul contemporaneo mettendo a confronto parti diverse del corpo sociale che solitamente non hanno voce". Il progetto sulla Gerusalemme Liberata è una grande sfida per tutte le realtà del Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna, un testo che porta in sé l'eco della guerra e di scontri tra civiltà che parlano anche del nostro presente. "Noi l'abbiamo accolta - prosegue - coinvolgendo l'istituto Spallanzani e gli attori della nostra compagnia in un lavoro a più livelli di lettura. In questa fase è fondamentale l'incontro con il pubblico, così come la possibilità di prove quotidiane, per questo dobbiamo ringraziare la Corte Ospitale che ha accettato di dare spazio ad un progetto così delicato". Stefano Tè svolge dal 2006 un laboratorio nella Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia al quale dal settembre 2014 si affianca quello nella Sezione Protetti della Casa Circondariale Sant'Anna di Modena. I laboratori permanenti in carcere possono essere definiti un'officina creativa, dove i detenuti hanno l'opportunità di sperimentare diverse forme di comunicazione artistica (musica, azione scenica, danza) nelle loro interazioni possibili. Le differenti discipline sono unite da un tema e da un confronto-scambio continuo. Il risultato del percorso confluisce sempre nella messa in scena di uno spettacolo aperto al pubblico, dentro e fuori le mura carcerarie. Pavia: venerdì Sherrita Duran ospite allo spettacolo di beneficenza del carcere di Voghera Ristretti Orizzonti, 22 febbraio 2015 Venerdì 27 Febbraio 2015 alle ore 18.00 c/o la "Casa Circondariale di Voghera" la cantante americana Sherrita Duran parteciperà cantando in qualità di ospite d'onore allo spettacolo di beneficenza "Insieme per la vita" per i bimbi del San Matteo malati di leucemia. L'evento è finalizzato, tramite l'Agal (l'Associazione Genitori e Amici del Bambino Leucemico) alla raccolta fondi da devolvere al reparto di Oncoematologia Pediatrica del Policlinico di Pavia. La raccolta si propone come obiettivo concreto quello di contribuire alla ristrutturazione della Sezione "Trapianto Midollo Osseo" del reparto pavese. Lo spettacolo prevede l'esibizione del "Coro dell'Arcobaleno" di Voghera, diretto da Nadia Cometto, in conclusione della serata alcuni detenuti, prepareranno un rinfresco per le persone che saranno presenti. L'evento è stato organizzato dal direttore reggente Mariantonietta Tucci, dalla Polizia penitenziaria e da tutto lo staff della Casa Circondariale di Voghera. Per poter accordare interviste a Sherrita Duran, contattare il numero 339.7303544 oppure ai recapiti sotto elencati. Ufficio Stampa Sherrita Duran. Luigia Castaldo. Tel. (+39)3393973711. Mail: ufficiostampa@sherrita.com. Libri: "Cattivi", di Maurizio Torchio. In prigione, con esattezza materica e sensoriale di Cecilia Bello Il Manifesto, 22 febbraio 2015 "Cattivi", il nuovo romanzo dello scrittore torinese classe 1970, da Einaudi. Notevole coesione stilistica: periodi brevissimi, icastici; parole, gesti e cose sbalzati e gravi. Maurizio Torchio mette in scena così l'io narrante di un recluso. "Ti senti meglio, diceva mia madre, se le parole ti calzano bene". Chi parla è un "cattivo", ovvero, per ben nota strada etimologica, "prigioniero" e "malvagio". È il protagonista del nuovo romanzo di Maurizio Torchio (Torino, 1970) ora uscito per Einaudi, Cattivi (pp. 186, euro 19,00). Un ergastolano che nell'infanzia è stato educato al valore delle parole: ne conosce la differenza col vuoto, e sa che in carcere non si può mentire, altrimenti "resti da solo, con quella voce che non è tua". Le sue parole sono lisce e compatte, ce le passa con la stessa consistenza, con la stessa corporeità che ha, nel mondo di fuori, una tazzina vera, bandita dal carcere perché potenzialmente pericolosa: "metti in bocca la tazzina ed è come avere un lavandino tra le labbra, tanto è spessa, pesante". "Cattivi" è un romanzo di grande coesione stilistica: periodi brevissimi, spesso nominali, icastici; movenze anaforiche e paratassi; connettivi ridotti, scarsi, predilezione per la determinatezza dell'asindeto; parole gesti e oggetti sbalzati, con peso di materia, gravi; voce densa, ispessita. Chi scrive - ma il tono ha l'efficacia di un racconto orale, chi racconta, è un io che quando compare, alla seconda pagina, dopo la descrizione minuziosa della perquisizione di un compagno rientrato da un permesso, lega il suo pronome a una negazione reiterata: "Io non sono mai uscito in permesso, né mai potrò uscirci". E poi, a ribadire con evidenza palmare l'assolutezza del suo universo di privazione, poche righe dopo ripete il suo pronome in un periodo nominale scarno, bisillabo, "Non io", e così chiude seccamente finanche la possibilità di incontrare donne ai colloqui. La scrittura è soppesata, tersa, d'inclinazione letteraria. Evocativa per ellissi e diversioni, per sospensioni o interruzioni a effetto. A tratti catalogatoria - "servono ginocchiere, un casco intorno alla testa; sulle mani: guanti; davanti agli occhi: una visiera. Gommapiuma, cordura, kevlar. Sopra al petto, davanti al cuore, ceramica antiproiettile. Paragambe, para braccia. Manganello, scudo, spray", puntuale e scandita. Perché pararsi per andare a picchiare un detenuto è un rituale e le armature amplificano il senso di sé e della violenza. Gli oggetti, nella semplice, nuda elencazione, si caricano delle emozioni provate sia da chi li indossa, sia da chi li subisce. La scrittura di Torchio punta all'esattezza materica e sensoriale, e attraverso questa all'impatto sul lettore. L'io narrante punta a guardare la realtà con occhio vigile e a darsi spiegazioni, punta alla lettura gnomica dei gesti e delle scelte: "il nero assorbe la paura da chi lo indossa, e la proietta fuori"; "fra chi ha le chiavi e chi non le ha non può esserci vera amicizia"; "non ci sono miracoli senza grotte, senza terra e pietre intorno". L'aspetto più riuscito del romanzo è il tono del protagonista condannato al "senza fine mai": il suo modo di esporre osservazioni e ricordi come da effettivi venti anni di reclusione, la conoscenza accumulata, le regole di comportamento introiettate, la capacità ormai acquisita di immaginare nei più minuti dettagli anche fatti che non vede, per i quali usa un tempo futuro che dà certezza alla congettura, che la fa lucida di smalto. Ha assorbito il respiro della struttura che lo punisce: "a forza di stare fermo, qui sotto, mi sono radicato nel cemento, innervato per tutto il carcere". A far sentire certa oralità, e il farsi del pensiero, sono la fluidità dei trapassi e delle connessioni analogiche. E la naturalezza del procedere narrativo, naturalezza artata, poiché la scrittura è polita, le interpunzioni fitte, ritmanti. Il romanzo è costruito intorno a un'individualità privilegiata, poche altre vi si accostano. Sprofondato, com'è, nei pensieri di chi narra, ha un forte sapore esistenziale, percorso a tratti da venature sentimentali. Se a dominare è l'espressione dell'io, l'uso mescolato delle particelle pronominali - si, ti, ci - è spia di un incedere più mosso, eterogeneo: dalla forma impersonale, al tu pure impersonale ma più coinvolgente, alla coralità del noi. Cattivi dà corpo a una realtà concentrazionaria atemporale, in luogo non definito - prigione in cui convergono molteplici modelli dell'ampia letteratura carceraria d'ogni lingua -, un'isola come molte, tra quelle spopolate e incolte, adibite a sedi penitenziarie; del protagonista non conosciamo il nome, gli altri sono identificati solo da soprannomi - Toro, Piscio, Comandante, la Professoressa, Martini, gli Enne, le guardie, salvo il direttore, non meritano neanche un soprannome. È un universo chiuso, in teoria finalizzato al recupero dei condannati, in realtà alla pura separazione dei pericolosi dagli innocui. Strumento considerato necessario al vivere sociale, al mantenimento della legalità, il carcere è in vero allegoria della società. È perfetto microcosmo per osservazioni sperimentali sulla vita di relazione, e sul suo abbrutimento, sul suo degrado. Ed è forza dello Stato - si rifletta sull'epigrafe dalla Politica di Aristotele scelta da Torchio, non nuovo a epigrafi da filosofi che ben conosce (Platone e Lucrezio nei suoi precedenti libri). Come ha ricordato Foucault, la prigione si richiama da anni al concetto del Panopticon, le cui procedure - "sorveglianza e osservazione, sicurezza e sapere, individualizzazione e totalizzazione, isolamento e trasparenza" - sono "forme concrete di esercizio del potere". Forme che investono i detenuti come torture inappellabili: dure sono le rievocazioni che il protagonista fa dei suoi anni d'isolamento, del buio totale inflitto per giorni, "Buio. Tutto l'infinito buio prima di nascere. Tutto l'infinito dopo". O della luce mai spenta di una lampadina blindata che fa emergere il vuoto della cella con il pavimento inclinato verso il buco centrale, "la tua bara converge verso quel buco". Il cemento è un oltraggio, il rumore delle chiavi d'ottone contro le sbarre per controllarne l'integrità è un oltraggio, l'odore della spazzatura che marcisce intorno al carcere e "sale fino al cielo" è un oltraggio. Così l'abbaiare continuo dei cani nell'intercinta, così l'incredibile (ma autentico) pane punitivo. E "ogni oltraggio è morte", scriveva Gadda nella Cognizione del dolore. La distinzione dei blocchi, sorvegliati/sorveglianti, è chiara in superficie, ambigua, invece, e complessa a scendere appena sotto. Che il carcere a suo modo dia certezza - anche tremenda - è cosa ovvia, che esista una distanza tra chi è dentro e chi è fuori, oltre i muri, è vero ma solo in parte. Soprattutto è sfuggente lo statuto di vittima: ci possono essere vittime che hanno ucciso, vittime che si legano ai loro carcerieri, e carcerieri a loro volta vittime. Il protagonista lo sa bene, per essere stato, nel mondo, carceriere di una donna sequestrata. Sette mesi in un nascondiglio scosceso nel fianco d'una montagna. E ci possono essere anche padri che si legano all'assassino del proprio figlio, perché "è difficile capire cosa fa il dolore, come lavora, come scava, chi mette in contatto e chi separa". Forse finiamo per amare, paradossalmente, chi ci toglie qualcosa. Solo un timore può destabilizzare ancora questa voce narrante che ha sopportato di uccidere una guardia e di pagarne le conseguenze, e che si sospetta - suo unico rimorso - assassino manovrato, strumento nelle mani di altre guardie. Solo la scomparsa dei carcerieri lo inquieta. Restare recluso dimenticato in un carcere deserto, silente, privo di mezzi. Allegoria e riflessione si aprono, allora, e investono pienamente la libertà, e il potervi credere. Immigrazione: i Magistrati di Area "rivedere il sistema di accoglienza e riformare i Cara" Ansa, 22 febbraio 2015 È necessario rivedere il sistema dell'accoglienza, con una robusta riforma di strutture quali i Cara, troppo ampie e dispersive e foriere di tensioni tra gruppi nazionali diversi, a favore di strutture più circoscritte anche con l'uso di beni immobili confiscati, grazie a procedure più fluide e semplificate di riutilizzo, in considerazione dell'urgenza. Lo afferma Area, il gruppo a cui aderiscono Magistratura democratica e Movimento per la Giustizia - art. 3, in un documento approvato a conclusione di due giorni di un seminario a Catania sul tema dell'immigrazione. Area, tra l'altro, auspica si possa incidere sulla Giustizia civile, con l'attivo contributo del Csm, con un'organizzazione che tenga conto dei carichi e della complessità delle procedure di riconoscimento della protezione internazionale adottando misure organizzative di potenziamento degli organici amministrativi e giudiziari a ciò adeguate: l'esempio del tribunale civile di Catania, davanti il quale pendono 2.350 procedimenti di protezione internazionale, fortemente legato alla presenza del Cara di Mineo, il più grande d'Europa, è emblematico della necessità di un simile intervento. Sul piano europeo, auspica Area, va sviluppata l'efficacia del Regolamento "Dublino 3", attraverso il potenziamento dei sistemi di tracciamento familiare al fine di rendere realmente residuale il criterio di radicamento della competenza nel Paese di primo ingresso. Riguardo ai minori stranieri non accompagnati è necessario promuovere da subito un cambiamento e insistere ancora su proposte già avanzate alle istituzioni competenti. Tra queste l'incentivo dell'utilizzo dello strumento già esistente dell'affido etero-familiare, per garantire l'integrazione sociale, con l'accoglienza dei minori stranieri non accompagnati presso famiglie disponibili. Irlanda: Operazione Demetrius, ecco la Guantanámo d'Europa di Caterina Soffici Il Fatto Quotidiano, 22 febbraio 2015 Amal Alamuddin (signora Clooney) difende "i 12 incappucciati": presunti complici dell'Ira negli Anni 70, torturati senza una accusa formale. Potrebbe essere la svolta di un caso che aspetta giustizia da mezzo secolo, quello di un gruppo di ex prigionieri irlandesi, arrestati, torturati, poi rilasciati senza che il governo britannico abbia mai formalizzato alcuna accusa contro di loro. Una specie di Guantánamo in terra d'Irlanda, dove i protagonisti sono conosciuti come The Hooded Men ("Gli incappucciati"), perché la maggior parte delle sevizie avveniva con un cappuccio in testa, che gli impediva quasi di respirare. Amal Alamuddin, ora signora Clooney, avvocato per i diritti civili di uno degli studi più agguerriti di Londra, già nel collegio di difesa di Julian Assange, è salita su un aereo per Belfast e ha incontrato un gruppo di superstiti degli Hooded Men. La discesa in campo della star dei diritti civili, potrebbe mettere la parola fine a una vicenda scandalosa che crea imbarazzo al governo britannico (e anche a quello americano) per alcuni fatti avvenuti nel 1971, in quella che è conosciuta come la Operazione Demetrius: tra il 9 e il 10 agosto, vennero arrestate 340 persone in una retata antiterrorismo. La maggioranza fu rilasciata quasi subito, solo un gruppo di 12 uomini, tra i 19 e 42 anni, furono incappucciati, denudati, marchiati con i numeri da 1 a 12 sulle mani e sulle piante dei piedi, portati nella base Raf di Ballykelly e sottoposti a cosiddetti "interrogatori approfonditi". I militari inglesi sono accusati di aver messo a punto in Irlanda in quell'occasione un metodo di tortura definito delle "Cinque Tecniche" per estorcere confessioni ai 12 Hooded Men, presunti terroristi e fiancheggiatori dell'Ira: incappucciamento, rumore bianco (musica al alto volume, ininterrotta per ore), punizioni corporali, privazione del sonno e del cibo. Le testimonianze di quanto avvenuto durante l'Operazione Demetrius sono sconvolgenti, come tutte quelle dei sopravvissuti ai campi di tortura: uno aveva provato a suicidarsi mettendo le testa nella tazza del water, un altro ricorda che sperava solo di morire per metter fine alle sofferenze. Si autodefinivano "I porcellini d'India" perché si sentivano usati dagli inglesi come cavie per testare le tecniche di tortura (uno di loro, John McGuffin, ha scritto un libro intitolato proprio "I porcellini d'In - dia"). Gli incappucciati nel 1976 avevano vinto una causa contro il governo inglese per maltrattamenti e violazione dei diritti umani. Ma due anni dopo l'Alta Corte Europea per i Diritti Umani aveva annullato la sentenza, dicendo che non c'erano abbastanza prove per definire le cinque tecniche come "tortura", ma solo "trattamento inumano e degradante". La sentenza è stata poi usata anche dall'amministrazione di George W. Bush, per definire quali erano le tecniche permesse e quali no: quindi le Cinque Tecniche britanniche sono state usate dalla Cia in Afghanistan, Iraq e poi in altri campi nel mondo. Ora il gruppo degli Incappucciati ha chiesto di riaprire il caso e, con l'appoggio del governo irlandese, vuole provare che a ordinare le torture fu proprio il governo britannico, in particolare l'allora ministro delle Difesa Peter Carrington, ora nominato Lord. Il quale però ha 95 anni e ha rifiutato ogni commento. L'intervento della signora Clooney, potrebbe essere decisivo. E almeno dal punto di vista mediatico ha già avuto il suo effetto, perché il caso è stato rilanciato dalla stampo britannica, tornata a parlare di una vicenda che vorrebbe dimenticare. Iran: impiccati due fratelli curdi, facevano parte partito opposizione Aki, 22 febbraio 2015 Sono stati impiccati i due fratelli attivisti curdi Ali e Habib Afshari. La notizia è stata comunicata dall'intelligence della città di Mahabad nel Kurdistan iraniano al fratello dei due giustiziati. Lo riferisce il sito d'informazione "Iran press news", spiegando che i due erano stati condannati alla pena capitale dal Tribunale della Rivoluzione di Mahabad perché riconosciuti colpevoli di aver attentato alla sicurezza nazionale in qualità di Mohareb (termine islamico per definire i nemici di Allah e dello Stato islamico). Ali e Habib, il primo 35enne e il secondo 23enne, erano stati arrestati nel 2011 dalle forze di intelligence dei Pasdaran nella regione Kurdistan in Iran. Stando al sito, i due, dopo 75 giorni di duri interrogatori e torture, erano stati trasferiti al carcere centrale di Orumieh e successivamente portati al carcere di Mahabad dove sono stati processati e condannati a morte dal Tribunale della Rivoluzione locale. I due erano inoltre accusati di aver fatto parte del partito d'opposizione curdo-iraniano Komeleh. I corpi degli attivisti non sono stati ancora consegnati alla famiglia e non si ha certezza del giorno esatto dell'avvenuta esecuzione. Pakistan: respinte sei richieste di grazia, da dicembre dieci i detenuti già saliti sul patibolo Ansa, 22 febbraio 2015 Il presidente pachistano Mamnoon Hussain ha respinto sei richieste di grazia presentate da detenuti condannati a morte per atti di terrorismo. Lo riferisce oggi il quotidiano Dawn. Si prevede quindi che nei prossimi giorni, siano eseguite le impiccagioni dei prigionieri tutti originari della provincia meridionale del Sindh. La decisione è già stata comunicata alle autorità penitenziarie competenti. Da quando il premier Nawaz Sharif ha deciso di sospendere la moratoria, Hussain ha già rigettato 17 domande di grazia di condannati nel braccio della morte. Era stata la strage di oltre 130 bambini in una scuola di Peshawar a metà dicembre a indurre il governo a prendere misure draconiane contro i jihadisti. Finora dieci condannati sono saliti al patibolo. Secondo fonti del governo, esiste una lista di 5.000 detenuti condannati a morte in via definitiva e che potrebbero essere quindi impiccati. La ripresa delle esecuzioni capitali ha sollevato le critiche dei difensori dei diritti umani e anche delle Nazioni Unite.