"Prima di giudicare la mia vita metti le mie scarpe" di Ornella Favero Ristretti Orizzonti, 21 febbraio 2015 Una riflessione sui giornali con redazioni nelle carceri, e sulla chiusura di "Sosta Forzata". "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere metti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io. Vivi il mio dolore, i miei dubbi, le mie risate. Vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e soprattutto prova a rialzarti come ho fatto io". (Luigi Pirandello). Se dovessi dire che cosa sono oggi i giornali realizzati nelle carceri, direi che sono la traduzione pratica di questo invito di Luigi Pirandello a mettersi le scarpe dell'Altro. E a vivere il suo dolore, i suoi dubbi, le sue cadute, non per giustificarli, ma per capire. Noi lavoriamo per raccontare e far capire una realtà complessa come quella delle carceri, e allora perché dobbiamo sempre combattere per essere riconosciuti, e perché un giornale come Sosta Forzata, dal carcere di Piacenza, che fa una informazione seria, credibile, equilibrata, molto più di tanta informazione "professionale" urlata e approssimativa, non deve più uscire, perché si deve togliere alla città una voce così importante? È strano, ma se a imporre al nostro Paese di umanizzare le sue carceri è l'Europa, allora si muovono tutti in gran fretta per aprire le celle, per non rischiare di dover risarcire i detenuti trattati in modo poco civile. In realtà sono anni che i giornali con redazioni nelle carceri si battono per portare un po' di umanità nelle galere, anzi no si battono per portare umanità e responsabilità. Questa precisazione credo sia fondamentale, perché "elargire" umanità ai detenuti senza dargli la responsabilità della propria vita è una operazione puramente di facciata. Ma qualcuno dell'Amministrazione penitenziaria ha voglia di venire davvero a dare un'occhiata a realtà come le nostre redazioni? E di garantire a queste redazioni un minimo di autonomia e dignità? Sono anni che i nostri giornali informano sulle carceri, anni che dicono quello che ora l'Europa ci ha costretto ad ammettere, anni che volontari professionalmente preparati e professionisti, come fa Carla Chiappini con Sosta Forzata, lavorano fianco a fianco con le persone detenute per sensibilizzare la società su questioni delicate come le pene, la sicurezza, l'importanza di un carcere che responsabilizzi invece di incattivire. Tanto per fare un esempio di stretta attualità, nei nostri giornali nessuno si permetterebbe di lasciarsi andare a commenti brutali e irresponsabili come quelli comparsi su Facebook in questi giorni, a proposito del suicidio di un detenuto, ad opera di personale dell'amministrazione penitenziaria. Certo, sono le cosiddette "mele marce", noi non generalizziamo, noi non accusiamo la Polizia Penitenziaria, però una cosa la vogliamo dire: e se fossimo stati noi a denunciare che ci sono agenti che dopo un suicidio dicono "Uno in meno", qualcuno ci avrebbe creduto? Ma noi siamo persone equilibrate, noi facciamo sempre le giuste distinzioni, noi capiamo che la gran parte degli agenti lavora con serietà e umanità, noi capiamo anche che in carceri così poco umane, in situazioni così degradate, chi ci vive e chi ci lavora può perdere la sua umanità e diventare simile alle bestie. Pur dentro carceri poco umane, noi facciamo dei giornali responsabili, e siamo abbastanza avviliti di dover ogni giorno lottare per essere riconosciuti e accettati. Avviliti di vedere che un piccolo giornale che da anni riesce a fare cose grandi, di qualità, di spessore come Sosta Forzata, dal carcere di Piacenza, non esca più con le solite motivazioni che vanno bene per tutte le stagioni: motivi di sicurezza. Ma ci possono spiegare di quale sicurezza parlano? Noi che facciamo questi giornali garantiamo sempre sicurezza e trasparenza, perché lavoriamo alla luce del sole, per raccontare le carceri come sono, e siamo disposti sempre a mettere in discussione quello che scriviamo, a confrontarci, a scavare a fondo per informare in modo onesto. Insegniamo l'onestà dell'informazione a chi le regole non le ha mai rispettate, e ora impara a farlo perché ha dei lettori e capisce quanto è importante essere persone credibili e responsabili. Sosta Forzata e Ristretti Orizzonti, assieme ad altri giornali da tante carceri italiane, da anni lavorano fianco a fianco, e da anni si battono per accorciare quella distanza tra la società dei "buoni" e quella dei "cattivi", che nasce dall'illusione che il male riguardi solo loro, "i cattivi". E lo fanno coinvolgendo le scuole e la società, e facendo sentire un po' meno isolati non solo i detenuti, ma anche chi nelle carceri ci lavora, e ha bisogno di veder sostenuto e rispettato il suo lavoro. All'Amministrazione penitenziaria chiediamo allora non di chiudere, ma di permettere di aprire altre redazioni; all'Amministrazione penitenziaria chiediamo di riconoscere finalmente il nostro ruolo e i nostri spazi, la nostra capacità di comunicare e la ricchezza dell'informazione che facciamo; all'Amministrazione penitenziaria chiediamo di venire anche a imparare qualcosa da noi, perché i nostri giornali sono spesso scuole di quella comunicazione responsabile, di cui anche l'Amministrazione penitenziaria ha un gran bisogno. Giustizia: il diritto alla conoscenza… mamma mia quant'è lontano di Piero Sansonetti Il Garantista, 21 febbraio 2015 I radicali da un po' di tempio hanno aperto questa nuova battaglia: il diritto alla conoscenza. Che naturalmente è anche la conoscenza del diritto. E sembra un tema vago, laterale. Come succede spesso alle battaglie di Pannella. Mi è tornato in mente ieri, quando a pagina sei del "Corriere della Sera" ho letto, quasi causalmente, un sottotitolino, scritto piccolo piccolo. Il titolino diceva così: "Non ritenuta credibile la minaccia dei barconi". Mi sono ricordato che un paio di giorni fa il Corriere della Sera aveva aperto il giornale con uno scoop, e cioè con la rivelazione, fornita da fonti coperte dei servizi segreti, che i terroristi dell'Isis stavano usando i barconi dei profughi per invadere il nostro paese. E quella notizia, ripresa da tutti i giornali e le Tv, e che aveva invaso i talk-show, non era passata inosservata all'opinione pubblica, che aveva assunto l'idea che problemi migranti e problema-terroristi si fossero unificati. Magari non proprio che tutti i migranti fossero terroristi, ma qualcosa del genere. Non tutte le notizie determinano degli spostamenti importanti nell'opinione pubblica. Questa notizia, data col gusto del clamore, è una di quelle che spostano l'opinione pubblica. Era falsa. Così come del resto chi avesse avuto voglia di ragionare due minuti poteva capire anche da solo. I terroristi non hanno bisogno dei barconi per entrare in Italia. Ed è improbabile che abbiano raggiunto col gommone Parigi o Copenaghen. Ma la grancassa dei mass media supera agilmente le obiezioni del buon senso. Benissimo, i servizi segreti hanno dato la smentita. E la smentita è stata quasi nascosta dal principale giornale italiano (vedremo oggi se gli altri giornali la daranno vistosamente, ma ne dubito). Ecco, questo è un esempio evidente di diritto alla conoscenza negato. La disconoscenza provocata da una notizia falsa e dalla sua amplificazione televisiva e giornalistica, non sarà rimossa, e il risultato è l'aggravarsi di un pregiudizio nei confronti dei profughi africani e di un innalzamento del tasso del razzismo in Italia. Si potrebbero fare tantissimi altri esempi di notizie gonfiate, o del tutto false, che nel giro di pochi giorni si rivelano tali ma nell'opinione pubblica restano vere. Proprio ieri ad esempio si è fatto credere che rom avevano rubato una macchina della polizia, e un certo numero di esponenti politici hanno rilasciato dichiarazioni indignate (poi si è scoperto che era una macchina finta, e che era stata usata per un film, e non apparteneva alla polizia). Ma nella violazione del diritto alla conoscenza non c'è solo un elemento di "falsificazione" attiva. Cioè di distribuzione di notizie non vere, ma rilevanti. C'è la parte passiva: le notizie vere, e rilevanti, che non vengono fornite al pubblico. È sempre di ieri l'esempio dei suicidi in carcere. I giornali non parlano mai dei suicidi. E non parlano mai delle carceri e delle condizioni inumane nelle quali si vive lì dentro. Si svegliano però perché un poliziotto cretino ha scritto una idiozia a proposito di un suicidio. La notizia che viene fornita non è quella del suicidio, o del carcere, ma quella della ferocia degli agenti di custodia. Cioè viene diffusa un'altra falsa informazione, perché gli agenti di custodia non sono feroci, e sono vittime del carcere, non sono loro i carnefici. Il diritto all'informazione è un diritto essenziale. È il pilastro di una democrazia. In Italia oggi non esiste. E non è desiderato. In Italia, per vent'anni, si è pensato che diritto all'informazione fosse identificabile con lotta a Berlusconi. E su questa idiozia si è costruito un blocco-intellettuale. Giustizia: lavoro dei detenuti, più tutele per la prevenzione infortuni di Stefano Maria Corso (Università Bocconi di Milano) www.ipsoa.it, 21 febbraio 2015 In materia di prevenzione infortuni gli adempimenti a carico di un imprenditore che volesse avvalersi del lavoro dei detenuti si allineano a quelli richiesti nei confronti di ogni altro lavoratore. Il Ministero della Giustizia, con regolamento in vigore dal 4 febbraio 2015, disciplina l'applicazione delle misure prevenzionistiche a tutela dell'incolumità psico-fisica dei lavoratori anche ai detenuti con conferme e peculiarità rispetto ai rapporti di lavoro "esterni". Irrinunciabili il servizio di prevenzione e protezione, il documento unico di valutazione dei rischi da interferenze e la sorveglianza sanitaria, ma con i dovuti correttivi. Il lavoro è una componente essenziale del trattamento rieducativo dei condannati in espiazione di pena (presenza media 50.000 per un turn over annuo di quasi il doppio); centinaia di edifici penitenziari richiedono quotidianamente manutenzione e periodicamente interventi di più ampio respiro; la sicurezza del lavoro (da chiunque espletata, interno od esterno alla struttura) deve essere compiutamente garantita, in modo da non compromettere la salute e le peculiari esigenze custodiali e di mantenimento dell'ordine e della disciplina. Il carcere non può essere luogo "vuoto di diritti", anche perché lo Stato assume uno specifico impegno di protezione e tutela di chi - suo malgrado - diventa ospite della struttura. Questo principio vale sia per il personale operante negli istituti penitenziari (come agenti di polizia penitenziaria, psicologi ed educatori) sia per i detenuti o gli internati lavoratori che svolgono una certa attività. Le strutture giudiziarie e penitenziarie, in quanto luogo di lavoro, rientrano a pieno titolo nell'ambito di applicazione del d.lgs. 9 aprile 2008 n. 81, recante il Testo Unico in materia di salute e sicurezza, che - non a caso - vi dedica peculiare attenzione (es., artt. 3 e 13). Il detenuto, come soggetto coattivamente inserito in una struttura, ha il diritto di essere ristretto in una struttura igienica, luminosa, areata e sicura per quanto concerne la sua incolumità fisica. Il detenuto che accetta opportunità lavorative in carcere deve poter espletare gli incombenti lavorativi senza essere esposto ai rischi di un ambiente insicuro e compromettente per la sua integrità fisica. In Italia non è previsto il lavoro forzato; il lavoro carcerario è previsto (e caldeggiato) come un'opportunità di impiego del tempo, di apprendimento di un mestiere che, in prospettiva, ne faciliti un reinserimento a fine pena nella società libera e, infine, come fonte di reddito per migliorare le condizioni di vita in carcere, risarcire il danno da reato, pagare le spese processuali e di mantenimento in carcere, contribuire ai bisogni della famiglia. Comunque sia, forzato o volontario, svolto per conto dell'amministrazione penitenziaria o per entità esterne, il lavoro del detenuto non può non essere lavoro sicuro, esattamente come il lavoro di un soggetto libero. Lavoro carcerario - questa volta inteso come lavoro in carcere - è anche quello di chi è chiamato dall'esterno a svolgere la propria attività lavorativa in una struttura penitenziaria. Da un lato, il committente pubblica amministrazione deve mettere a disposizione un ambiente di lavoro sicuro e con eventuali insidie segnalate e/o rimosse. Dall'altro, non possono venir trascurate le peculiari esigenze connesse al servizio istituzionale espletato e le specifiche peculiarità organizzative delle strutture giudiziarie penitenziarie. Il lavoro del detenuto e il lavoro che l'esterno espleta in luogo carcerario non devono diventare occasione per favorire evasioni o compromissioni dell'ordine e della disciplina carceraria. Ne consegue l'importanza del decreto 18 novembre 2014 n. 201, in vigore dal 4 febbraio 2015, con cui il Ministero della Giustizia ha adottato il regolamento previsto dal Tu della sicurezza sul lavoro in merito alle norme prevenzionistiche riguardanti non solo il personale operante negli istituti penitenziari ma anche gli stessi detenuti o internati lavoratori. Leggi anche: "Sicurezza sul lavoro nelle strutture giudiziarie le novità del regolamento" Fondamentale è che la sicurezza nel carcere è considerata valore subvalente rispetto alla sicurezza e salute nei luoghi di lavoro (art. 2 comma 1): la tutela della incolumità ed integrità fisica è il principio conduttore cui si devono adeguare le misure strutturali e organizzative necessarie per garantire la disciplina carceraria. Sempre l'art. 2 del D.M. elenca le esigenze da tener presenti comunque in occasione di esecuzione di lavori all'interno del circuito penitenziario: si va dalla non interferenza con l' "ordinato esercizio della funzione giurisdizionale", alla tutela della sicurezza dei luoghi da attentati a sabotaggi (mediante garanzia della piena operatività del personale di custodia) fino al mantenimento delle misure di rapida evacuazione dei detenuti (e del personale) in presenza di situazioni di pericolo, quali "idonei percorsi per l'esodo". In questa prospettiva, di considerazione del carcere alla stregua di un qualsiasi luogo di lavoro, viene ribadito che sono irrinunciabili il servizio di prevenzione e protezione, il documento unico di valutazione dei rischi da interferenze e la sorveglianza sanitaria. Ne consegue che, almeno in materia prevenzionistica, gli adempimenti a carico di un imprenditore che volesse avvalersi del lavoro dei detenuti non si discostano di molto da quelli richiesti nei confronti di ogni altro lavoratore. Logicamente, tuttavia, si impongono dei correttivi: i servizi di vigilanza (da non confondere con il controllo sui detenuti) sono affidati "in via esclusiva" all'apposito servizio istituito con riferimento alle strutture penitenziarie mentre, solo tra i lavoratori detenuti, non trovano applicazione - ai sensi dell'art. 2 comma 5 del decreto - gli artt. 47 e 50 del Tu, con questo derogando all'istituzione dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (siano essi aziendali, territoriali o di sito) negli istituti penitenziari. I rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (art. 4) del personale interno devono, inoltre, tener conto del fatto che quota dei lavoratori interessati è formata da detenuti, soggetti per definizione "meno liberi" di fare osservazioni critiche nei confronti dell'amministrazione penitenziaria, ma di necessità destinatari di una tutela non minore rispetto a quella da assicurare ai lavoratori liberi che accedono alla struttura carceraria. In conclusione, si evince l'importanza di quest'ultimo decreto anche per tutti gli imprenditori che volessero fare domanda per usufruire, nella propria attività, del lavoro dei detenuti all'interno degli stessi istituti penitenziari. Purtroppo, ormai da anni, mancano veri incentivi tali da rendere economicamente allettante questa possibilità, tuttavia, anche una maggior chiarezza a livello normativo costituisce di per sé un passo in avanti indice di una rinnovata attenzione del legislatore. Giustizia: cosa ci dicono quelle frasi choc sul detenuto suicida di Alberto Laggia Famiglia Cristiana, 21 febbraio 2015 Hanno provocato indignazione i commenti usciti sulla pagina Facebook di un Sindacato di polizia Penitenziaria alla notizia del suicidio di un detenuto. Ma non basta condannare gli autori. Bisogna meditare sul degrado del nostro sistema penitenziario che produce morte tra i detenuti. E anche tra le guardie carcerarie. "Uno di meno", "speriamo abbia sofferto", "Consiglio di mettere a disposizione più corde e sapone", "Uno in meno che sicuramente non avrebbe scontato la pena…". E via di seguito con commenti di questo tenore. Le frasi shock, poi cancellate, hanno iniziato a riempire la pagina Facebook dell'Alsippe, uno dei sindacati (minori) di polizia penitenziaria, già domenica scorsa, in seguito alla notizia del suicidio nel carcere milanese di Opera di un detenuto rumeno, condannato nel 2013 all'ergastolo per omicidio. Tra i commenti più censurabili c'erano quelli di alcune guardie carcerarie. Scoppia, inevitabile, il caso: il Dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap) avvia un'indagine formale, i sindacati condannano all'unisono l'accaduto. Lo stesso ministro della Giustizia, Andrea Orlando, si vede costretto a intervenire convocando il Dap. E il caso diventa inevitabile oggetto di polemica politica. Intanto quelle frasi offensive e indecenti, seppur rimosse dal social network, rimangono stampate nella mente di tutti, pesano come macigni e non solo sull'immagine della polizia penitenziaria. Ci si stupisce e ci si indigna, un po' ipocritamente, come sempre. Non lo si sa ancora che quello sfogatoio virtuale, anonimo (ma non troppo) che è la rete può mostrare il meglio, ma anche il peggio di noi? Che quella valvola di sfogo che sono i social network, può esaltare i sentimenti più nobili, diffondere con un click istanze solidaristiche e moti di generosità, come, altresì, viralizzare le più sordide reazioni di pancia e far esplodere i pensieri più beceri e infami? Quanto accaduto ci può lasciare interdetti perché insinua, come alcuni hanno giustamente osservato, un dubbio pesante: ma dov'è stanno mai la sicurezza e la certezza del diritto se persino chi indossa un'uniforme, e che dovrebbe essere custode della vita di un uomo, sebbene colpevole di reati, può dimenticare la dignità della persona e il rispetto davanti al dramma della morte? Quasi nessuno invece, al di là della condanna "politically correct" delle frasi indecenti (e ci mancherebbe), ha colto la serietà della questione che ha a che fare con i diritti civili e lo stesso Stato di Diritto: quant'accaduto in rete i giorni scorsi ci dice soprattutto il livello di degrado e di disumanizzazione del nostro sistema carcerario che, invece di produrre redenzione e reinserimento sociale, produce angoscia e morte. Il saldo annuo dei detenuti morti per suicidio è terribile: nel 2014 i suicidi sono stati 43 (fonte "Ristretti Orizzonti"). Quasi uno alla settimana. Dal 2000 ad oggi i carcerati che si sono tolti la vita sono stati 850. Ma non basta: nel 2014 a suicidarsi sono stati anche dieci agenti penitenziari. Come dire: uno ogni quattro detenuti. A riprova che il sistema penitenziario è un trita-esistenze e colpisce anche chi là dentro vi lavora. S'è calcolato che nelle carceri italiane ci si suicida con una frequenza che è 19 volte superiore rispetto alle persone libere. La pena di morte è stata cancellata da tempo dal nostro ordinamento. Ma di carcere si muore. E tanto. Giustizia: Raguso (Osapp); hanno punito noi agenti per coprire le vere magagne di Agnese Pini Il Giorno, 21 febbraio 2015 Rino Raguso, classe 1977 è vice segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria Osapp. "Mi hanno detto: adesso non fare tu qualcosa di inconsulto. Ma io li ho fermati: non mi conoscete proprio, ho risposto, risparmiatemi almeno certi commenti". Questo glielo hanno detto dopo la lettera di sospensione dal servizio... "Sì, ore 14 di giovedì. Nessun preavviso. Solo tre pagine al computer in cui si diceva che avevo leso l'immagine dell'amministrazione penitenziaria". Rino Raguso, classe 1977, ispettore di polizia a 24 anni, da cinque commissario a San Vittore, da dieci nel sindacato Osapp, di cui è vice segretario generale. È tra i 16 poliziotti sospesi dal servizio dopo i commenti - violenti e offensivi - apparsi su Facebook sul suicidio di un detenuto di Opera, Ioan Gabriel Barbuta, che stava scontando l'ergastolo per omicidio. In che cosa consiste la sospensione? "Dimezzamento dello stipendio e revoca delle mie funzioni. Il tutto anche se io non ho approvato né risposto ai commenti apparsi in rete. Ho solo condiviso sulla pagina Facebook dell'Osapp un articolo neutro sulla notizia del suicidio, come facciamo con qualunque altro fatto rilevante legato alla vita carceraria. Comunque non è questo il punto". E qual è? "È che si colpisce il piccolo per coprire le magagne del forte. È un metodo: il sistema penitenziario fa acqua da tutte le parti? Bene, troviamo i capri espiatori, puniamo gli agenti per dire:guardate, abbiamo dato la giusta lezione". Però i commenti erano feroci, su questo sarà d'accordo. "Sì, non difendo certe esternazioni. Però siamo in uno Stato di diritto, anche la punizione deve essere inflitta secondo le regole: invece non c'è stata nessuna garanzia". Cosa spinge degli agenti di polizia a lasciarsi andare in questo modo? "Al netto dell'imbecillità? Beh, dal fatto che ci sono agenti che non metabolizzano il disagio, e il disagio è tanto, è troppo". Ma che succede in carcere quando un detenuto si suicida? Si fa festa? "Gli agenti sono uomini, e posso dire che al 95% la reazione per la morte di un altro uomo è quella di sgomento, di prostrazione. È terribile vedere un altro uomo morire. Si parla di suicidi fra detenuti, ma tra gli agenti penitenziari c'è il più alto numero di suicidi rispetto a tutte le forze di polizia". Però non tutto è lindo, in carcere. "No, certo. Ma questo non è dovuto tanto agli agenti quanto alla cattiva gestione dei vertici. Al fatto che, ad esempio, il rapporto tra detenuti e agenti è spesso sbilanciatissimo. A Opera ci sono 1.200 carcerati a fronte di 700 poliziotti. E così vivono male tutti. Chi sta dietro le sbarre e chi ci sta davanti". Carceri: Mirabelli (Pd): nessuna guardia di Opera coinvolta "Oggi, insieme con il consigliere regionale Onorio Rosati, sono stato nel carcere di Opera dopo il suicidio del cittadino romeno Ioan Gabriel Barbuta, condannato all'ergastolo, insultato via Facebook da un gruppo di guardie carcerarie e da rappresentanti sindacali dell'Alsippe. Abbiamo trovato un istituto in cui direzione e personale sono molto colpiti ed esprimono tristezza per il suicidio, il secondo dall' inizio del 2014. Nessuna guardia carceraria in servizio ad Opera è stata sospesa o è coinvolta nei farneticanti commenti su Facebook". Lo dice il senatore Franco Mirabelli, capogruppo del Pd nella Commissione Antimafia, eletto a Milano. "È importante sottolineare - continua Mirabelli - come nessun agente di Opera sia coinvolto nello sconvolgente episodio su Facebook, perché dalla narrazione mediatica non si poteva escludere. Invece, tutte le guardie coinvolte e sospese non prestano servizio ad Opera e quindi si sono rese responsabili anche di aver messo in difficoltà e in cattiva luce chi quotidianamente lavora con attenzione e senso dello Stato in un carcere difficile, in cui sono presenti molti ergastolani e c'è un reparto di 41 bis. Ad Opera è stato da tempo attivato un programma di sostegno psicologico ai detenuti e di prevenzione degli atti autolesionistici. Tutto il personale è coinvolto ed impegnato per migliorare ancora le condizioni di detenzione ed evitare altri drammi". Sappe: sospensione agenti è provvedimento sproporzionato "Non ho avuto alcuna esitazione ad affermare che esultare per la morte di un detenuto è cosa ignobile e vergognosa. Ma altrettanto abnorme e sproporzionata è stata la risposta dell'Amministrazione Penitenziaria, su sollecitazione del Ministro della Giustizia: sospendere dal servizio 16 appartenenti alla Polizia Penitenziaria è un provvedimento sbagliato ancorché formalmente irregolare. Quelle frasi sono da censurare senza se e senza ma, ma un percorso disciplinare ha regole e forme da rispettare che, in questo caso specifico, non sono state osservate" Lo dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, commentando i provvedimenti assunti dal Dap nei confronti di alcuni degli autori di certi messaggi apparsi su social network rispetto al suicidio di un detenuto a Milano Opera. "Il Dap - prosegue il leader del Sappe che ieri pomeriggio ha incontrato il Guardasigilli Orlando - con questi provvedimenti, ha dimostrato ancora una volta di essere incapace di gestire situazioni critiche, tant'è che, invece di cercare di capire le cause di certi fenomeni (ancorché gravi) pensa solo a reagire in maniera eclatante e sproporzionata, al solo scopo di evitare ogni assunzione di responsabilità. Sospendere dal servizio un poliziotto, senza un percorso disciplinare che preveda contestazione e difesa, è fuori dalle norme previste ed è un'anomalia illegittima che, infatti, l'Amministrazione Penitenziaria non ha mai adottato. Ripeto e lo ribadisco. Il suicidio di un detenuto è sempre - oltre che una tragedia personale - una sconfitta per lo Stato e dunque ci vuole il massimo rispetto umano e cristiano ancor prima di quello istituzionale. Chi ha scritto messaggi stupidi, gravi e insensibili se ne assumerà le responsabilità. Ma sospenderli dal servizio d'ufficio mi sembra davvero abnorme e sproporzionato". Assistenti sociali: bene pugno di ferro ministro "L'episodio degli insulti su Fb a un detenuto suicida è inqualificabile. È il sintomo di un malessere sordo e profondo che mal si addice alla importante e fondamentale funzione che - silenziosamente - la polizia penitenziaria svolge quotidianamente all'interno delle carceri italiane": così Silvana Mordeglia, presidente del Consiglio nazionale dell'Ordine degli Assistenti sociali, che plaude al "pugno di ferro" del ministro della Giustizia Orlando. "È una ferita insanabile e una offesa bruciante - aggiunge Mordeglia - verso quegli agenti, e sono la maggioranza, che offrono la loro dedizione e la loro professionalità all'interno del pianeta carcere per dare dignità e decoro ai detenuti chiamati a compiere quel percorso di riabilitazione che è il fine ultimo della pena cui sono condannati". "Quanti come noi conoscono la realtà carceraria - prosegue - non possono e non devono restare silenziosi davanti a un fatto come questo. Bene dunque ha fatto il ministro Orlando e l'intero Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria a prendere verso i responsabili provvedimenti immediati e severi. Serve non lasciare zone d'ombra o anche solo zone grigie. Nel pieno rispetto delle prerogative di ciascuno, quindi anche verso quelle degli agenti raggiunti dai provvedimenti, serve andare fino in fondo senza guardare in faccia nessuno". Mordeglia ricorda poi che "il Paese non ha mai mostrato grande attenzione al problema delle carceri: è un bene che ora si registri una sia pur ancora tiepida mobilitazione delle coscienze, perché è bene ricordare che la dignità di un carcere è lo specchio della dignità di un nazione". Giustizia: il reato di chi riduce in schiavitù di Antonio Bevere Il Manifesto, 21 febbraio 2015 Nel nostro ordinamento giuridico prevede e punisce il reato di riduzione o mantenimento in schiavitù e il reato di riduzione o mantenimento in servitù. La rilevanza penale del disumano sfruttamento dell'uomo sull'uomo e la predisposizione degli strumenti per punire severamente i responsabili sono presenti nell'ordinamento giuridico dello Stato fascista. Nel codice Rocco, con l'impegno assunto dalla Convenzione di Ginevra del 1926, all'art. 600, erano previste due ipotesi criminose: la riduzione in schiavitù e la riduzione in condiziona analoga alla schiavitù. La nozione di schiavitù era fornita dall'art.1 della Convenzione di Ginevra del 1926 che la definisce come "lo stato o la condizione di un individuo sul quale si esercitano gli attributi del diritto di proprietà o alcuno di essi". La norma, introdotta con la legge del 2003 e modificata con un decreto legislativo del 2014, scandisce con maggiore chiarezza la duplice ipotesi criminosa: 1) riduzione e mantenimento in schiavitù, nella quale il soggetto attivo "esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà", trattandola quindi come una cosa e utilizzandone la capacità lavorativa senza limite e senza possibilità di resistenza della vittima. 2) riduzione e mantenimento in servitù, nella quale il soggetto attivo "riduce o mantiene una persona in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all'accattonaggio o comunque a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento e comunque al compimento di attività illecite che ne comportino lo sfruttamento. La riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione ha luogo quando la condotta è attuata mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di vulnerabilità, di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante la promessa o la dazione di somme di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona". In entrambi i casi il colpevole è punito con la reclusione da otto a venti anni; la pena "è aumentata da un terzo alla metà se i fatti di cui al primo comma sono commessi in danno di minore degli anni diciotto o sono diretti allo sfruttamento della prostituzione o al fine di sottoporre la persona offesa al prelievo di organi". Lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo nelle forme e nei contenuti più incivili può aver luogo quindi in vari campi (sesso, accattonaggio, prostituzione, lavoro, commercio di organi umani), ma alcune riforme legislative in corso di attuazione nel mercato del lavoro ci inducono a trattare solo l'attuale ipotesi di riduzione o mantenimento in servitù, sotto il profilo del cd lavoro servile, che è ben scandito dal comma 1 (secondo periodo) e dal comma 2 dell'art. 600 c.p. che hanno sostituito la più vaga ipotesi residuale del vecchio testo del codice fascista (condizione analoga alla schiavitù). Dal testo della norma e dall'interpretazione effettuata dalla dottrina e dalla giurisprudenza, emerge un'esauriente descrizione dei soggetti attivi e passivi, della condotta, dell'evento di questo reato. Il soggetto attivo è chi (datore di lavoro o chi - cd caporale - eserciti i poteri corrispondenti), approfittando di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità dell'altro contraente, talvolta avvalendosi del reclutamento e avviamento al lavoro in violazione del divieto di intermediazione, stipuli un accordo o crei una situazione di fatto (Cass. n. 3909/1990) in cui la persona che presti la propria opera (il lavoratore dipendente) in uno stato di soggezione continuativa (cioè di limitazione della propria libertà di autodeterminazione) costringendola a prestazioni lavorative che ne comportano lo sfruttamento (tipo servitù della gleba (cfr. Cass. n. 2841/2007). Passando all'esame della giurisprudenza consolidatasi sulla schiavitù va innanzitutto riconosciuto alla sentenza n. 2841/2007 il ruolo di pietra angolare, per passare da una interpretazione della norma del codice penale non simbolica , ma funzionale a un tutela effettiva della dignità della persona, che si traduca nel rispetto effettivo dell'art. 36 della Costituzione . Va da sé che gran rilievo può avere la funzione dell'interpretazione giurisprudenziale, nel tracciare precisi confini tra trasgressione delle norme di diritto civile e trasgressione di norme di diritto penale Nel complesso la giurisprudenza ha correttamente rilevato che si tratta di un reato a condotta multipla e a forma libera, con evento a forma vincolata (che comprende lo stato di soggezione e la prestazione che ne deriva), di natura permanente (la protrazione dell'offesa del bene tutelato della personalità individuale dipende dalla volontà dell'agente) e abituale ( più condotte della stessa specie si ripetono nel tempo, come si desume dalla definizione dell'evento come soggezione continuativa‚ accompagnato da una pluralità di prestazioni del soggetto passivo). In relazione alla nozione di stato di soggezione e della correlata limitazione della libertà di autodeterminazione del contraente più debole del rapporto di lavoro, la giurisprudenza più recente ha stabilito che non è necessaria, per la sussistenza del reato, la totale privazione della libertà personale del lavoratore. È stato infatti stabilito che, ai fini della configurabilità del reato di riduzione in schiavitù, è necessaria la costituzione, da parte dell'agente, dello stato di soggezione continuativa, che determina una compromissione di durata prolungata nel tempo della capacità di autodeterminazione della persona offesa, senza che sia necessaria un'integrale privazione della libertà personale: rapportato alla limitazione in concreto alla libertà del dipendente, la soggezione e lo sfruttamento lavorativo non sono esclusi nel caso di residua libertà di autodeterminazione che non intacchi il contenuto essenziale della supremazia del soggetto attivo (Cass. n. 8370/2014; n. 25408/2014; n. 44385/2013). Fa comunque riflettere sulla mobilità di questo confine, sia l'incalzare della crisi dell'occupazione, sia un orientamento interpretativo, secondo cui non integra l'evento di riduzione o mantenimento di persone in stato di soggezione consistente nella privazione della libertà individuale, "la condotta dell'offerta di un lavoro con gravose prestazioni in condizioni ambientali disagiate verso un compenso inadeguato, qualora la persona si determini liberamente ad accettarla e possa sottrarsi una volta rilevato il disagio concreto che ne consegue" (Cass. n. 13532/2011) . Dinanzi al pericolo di configurazione di questo tipo di libertà fittizia, che escluda lo stato di soggezione continuativa, c'è da chiedersi quale libertà sia riconoscibile al contraente debole, nell'anno in corso e in quelli a venire, di sottrarsi al lavoro servile previsto e punito dal codice penale (confinato finora nell'agricoltura del Meridione), dinanzi al consolidamento della disoccupazione in tutto il paese, aggravata dalla modifica delle norme sulle mansioni, sul controllo a distanza dei lavoratori dipendenti, sull'ampliamento dei contratti a termine, sulla facoltà dei contratti collettivi a livello aziendale di disciplinare il rapporto di lavoro anche in deroga alla legge, sulla riduzione a ipotesi marginali della reintegrazione nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo. Giustizia: processo trattativa Stato-mafia. Calabria: norma su 41 bis era molto generica Ansa, 21 febbraio 2015 Il 26 giugno 1993 il Dap inviò al ministro della Giustizia, Giovanni Conso, una nota dove si proponeva di non prorogare più di trecento provvedimenti di 41 bis "per creare un clima positivo di distensione nelle carceri". Nel novembre del 1993 il ministro lasciò decadere il carcere duro per 334 detenuti. Su questa circostanza ha deposto Andrea Calabria, ex direttore dell'ufficio detenuti del Dap, durante il processo sulla trattativa Stato-mafia. "Non ricordo bene come siano andate le cose - ha spiegato - Sul piano della valutazione politica del ministro non so nulla". "Per i rinnovi del 41 bis - ha detto - serviva una motivazione circostanziata, basata non solo sulla posizione giuridica ma anche di elementi individualizzati. Il problema proveniva da una formulazione generica del 41 bis, che adesso è molto più preciso". Secondo la Procura, la sostituzione del direttore del Dap Nicolò Amato con Adalberto Capriotti costituì il tentativo di mettere alla guida del Dipartimento un uomo che avrebbe garantito il suo sostegno al dialogo sul carcere duro ai boss avviato da parte dello Stato con la mafia. Per evitare nuove stragi e omicidi eccellenti, sempre secondo i pm, pezzi delle istituzioni avrebbero trattato con Cosa nostra concedendo, oltre all'impunità al boss Bernardo Provenzano, un alleggerimento dei 41 bis realizzato, nel novembre del 1993, con la mancata proroga di oltre 300 provvedimenti di carcere duro. "La nota - ha detto Calabria - aveva a che fare con la situazione interna alle carceri perché l'estensione del 41 bis a molti detenuti aveva creato una serie di problemi anche a livello di gestione. Emettere il 41 bis per un soggetto che veniva dalla libertà era abbastanza semplice, cosa diversa era la proroga. Questo ci ha costretto a chiedere, man mano che i decreti arrivavano a scadenza, informazioni ai servizi centrali, alla polizia, ai carabinieri, alle procure". Il pm Nino Di Matteo ha chiesto a Calabria come mai il 29 ottobre, appena prima che Conso desse il suo benestare per il mancato rinnovo dei 41 bis, la Procura di Palermo ricevette una nota nella quale si chiedeva un parere per prorogare o meno il carcere duro per i 334 detenuti per i quali il regime penitenziario sarebbe scaduto il 2 novembre. "Un tempo troppo ristretto - ha ammesso Calabria, che firmò quella richiesta. Di sicuro sono informazioni che avevamo già chiesto in passato e in quel caso cercavamo solo di fare il punto della situazione. Del resto, le forze dell'ordine non avevano l'obbligo di risponderci a quei tempi. Comunque, anche se i 41 bis erano scaduti, nulla impediva, nel caso fossero pervenute informazioni sui detenuti che andassero verso una indicazione di carcere duro, che fossero ripristinati". Toscana: il Garante regionale dei detenuti in visita alle carceri "sovraffollamento e topi" di Damiano Aliprandi Il Garantista, 21 febbraio 2015 Ancora sovraffollamento, celle troppo piccole, troppi detenuti con problemi di handicap e invasione di topi. Continua il sopralluogo da parte del garante dei detenuti Franco Corleone negli istituti della regione toscana. Dopo la visita del carcere di Arezzo dove ha riscontrato numerosi problemi, è stata la volta del carcere di Prato e quello di Lucca. Secondo il garante, la struttura di Prato risulta "complessa", stretta tra "luci ed ombre" e con un'alta concentrazione di detenuti in specifici reparti. Il sovraffollamento dichiarato da Corleone si riferisce al reparto di alta sicurezza in cui stanno in 67, invece dei 48 previsti, e dove si contano "tre persone per cella, alcune delle quali con pene detentive lunghe". Nonostante il limite dei 3metri quadrati a persona sia rispettato "considero stravagante - ha dichiarato sempre il garante - l'idea che in celle di 14 mq si possano alloggiare tre brande. Lo spazio minimo vitale ne risente pesantemente". Corleone ha quindi verificato la presenza di persone con handicap per le quali già la cella "costituisce una invalidità". L'accesso al bagno è, per esempio, "difficoltoso" e la loro sistemazione non è "idonea". La complessità del carcere è data inoltre dalla presenza di collaboratori di giustizia e sex offender sistemati oltre la capienza ordinaria e per i quali la stessa struttura lamenta carenza di personale e mancanza di progetti specifici. "Ho già inviato una lettera all'assessore Luigi Marroni - ci tiene ad informare Corleone - proprio per immaginare azioni di recupero per coloro che si sono macchiati di reati sessuali e che, in assenza di progetti specifici e abbandonati nelle celle, al termine della pena potrebbero essere nella stessa condizione e a rischio recidiva". La situazione igienico-sanitaria riscontrata, è "difficile". Il carcere è situato in località Maliseti, luogo che in origine indicava una zona paludosa. "L'umidità è notevole - ha osservato Corleone, proprio oggi sono arrivati i nuovi materassi ma le condizioni restano gravi. Mi aspetto che Asl e Comune facciano le verifiche del caso vista anche la triste abitudine di buttare gli scarti del cibo fuori dalle celle con il conseguente aumento della voracità e della presenza di topi". Nel reparto di media sicurezza, invece, è applicata la procedura della cosiddetta "vigilanza dinamica", ovvero le celle aperte per otto ore al giorno. "È un dato positivo - chiosa Corleone - che si aggiunge alla presenza di una sede del polo universitario che però registra la presenza di sole sette persone a fronte delle 17 previste su carta". E il Garante quindi osserva: "Voglio verificare perché non è pienamente utilizzato, anche in ragione dell'importanza che potrebbe avere in termini di reinserimento dei carcerati". Corleone ha quindi concluso la sua visita ricordando le numerose lettere ricevute dai detenuti nelle quali si chiede "attenzione" alle condizioni sanitarie. "Non sono riuscito a parlare con il responsabile della struttura sanitaria - conclude il Garante - perché da contratto la sua presenza è limitata a sole tre ore al giorno. Non credo sia una soluzione adeguata. Solleciterò un intervento perché alcuni detenuti non sembrano in condizioni compatibili con il carcere o meritano di essere trasferiti in altre strutture". Poi è stata la volta del carcere di Lucca dove ha riscontrato altri problemi. "Abbiamo superato le criticità di sovraffollamento del passato con punte di 200 detenuti ma ad oggi - spiega Corleone - ancora le presenze non corrispondono alla capienza. Le celle non sono adatte alla reclusione, sono troppo piccole, la sala colloqui non è a norma e il locale infermeria è inadeguato". Anche in questo carcere, quindi, il degrado avanza. Per Corleone nel carcere San Giorgio di Lucca bisognerebbe "eliminare il bancone divisorio tra detenuto e visitatore nella sala colloqui, annettere un locale all'infermeria e ristrutturare la seconda sezione da dedicare alle attività ricreative e culturali dei carcerati". Con queste modifiche al San Giorgio - sempre secondo il garante - ci sarebbe una situazione più accettabile. La Casa circondariale di Lucca, ha ricordato il garante, "ha una capienza di 91 carcerati e ne ospita 121, dei quali 72 tossicodipendenti. Il carcere è piccolo ed è ubicato in una struttura antichissima all'interno delle mura di cinta della città in pieno centro storico, e in origine ospitava un convento di monache di clausura per poi essere trasformato in penitenziario in epoca napoleonica". Il tour nelle carceri toscane continua e probabilmente troveranno altre spiacevoli "sorprese". Veneto: il Governatore Zaia "solo 1 condannato su 3 è in carcere colpa di leggi colabrodo" Sesto Potere, 21 febbraio 2015 "Tra le principali cause, se non la principale, del dilagare della criminalità ci sono leggi colabrodo infarcite di scappatoie per i delinquenti. Vanno cambiate e indurite immediatamente, a cominciare dal taglio della condizionale, dall'ampliamento dell'istituto della legittima difesa, dall'aumento delle pene e dalla certezza che vengano scontate. Governo e Parlamento la smettano di dilapidare tempo su epocali quanto discutibili riforme e comincino a occuparsi seriamente delle reali necessità dei cittadini". Lo dice oggi il Presidente della Regione del Veneto Luca Zaia. Il governatore prende spunto da un'inchiesta pubblicata tra ieri e oggi da un diffuso quotidiano locale, dalla quale emerge tra l'altro che nel Capoluogo Berico è in carcere per furti e rapine solo un condannato su tre. "Vicenza è uno spaccato estremamente significativo di tutto il Veneto - dice Zaia - e in questa provincia nel 2014 sono stati compiuti quasi 18.500 reati. Che solo un condannato su tre sia in carcere è un dato gravissimo, che grida vendetta e che dimostra aldilà di ogni ragionevole dubbio che leggi colabrodo eccessivamente buoniste e garantiste vanificano la battaglia quotidiana condotta da Forze dell'Ordine e Magistratura. Loro li buttano dentro e poi un cavillo qualsiasi li rimette fuori. Per uno Stato che vorrebbe essere di diritto è una vergogna". "Faccio appello alle coscienze di tutti i Parlamentari - aggiunge Zaia - perché questa è una richiesta forte della quale mi faccio io interprete, ma che viene dalla popolazione veneta, che percepisce sempre di più la criminalità come una piaga gravissima e chiede risposte. Da dove devono venire se non dalla legge?". "Anche ieri, intanto - aggiunge Zaia - le cronache dicono che in Veneto sono stati compiuti numerosi reati e stavolta, a farne maggiormente le spese, è stata Padova: all'Arcella un giovane coraggioso è riuscito a bloccare due ladri che avevano già fatto fuori 11 garage su 20; a Loreggia predoni già nel giardino di una casa sono stati bloccati dal pianto di una bambina che ha richiamato l'attenzione del padre; derubata la mamma del tecnico Salviato, da poco liberato dopo un rapimento in Libia; svuotato un negozio di biciclette a Cittadella; serie di colpi in tutta la città e provincia. Intanto i cittadini di Teologridano la loro esasperazione per i furti in casa. Nel Veneziano, un commerciante di Jesolo sorprende 3 ladri in casa, li mette in fuga e ammette che, se fosse stato armato, avrebbe sparato; ladro scatenati a Caorle con 3 case svaligiate al quartiere Sansonessa; a Campagna Lupia, rubati 130 quintali di pesce con un carro frigo. A Treviso l'ennesima baby gang all'opera in pieno centro ha accerchiato una cittadina per rubarle la borsetta. Nel vicentino sono state razziate case, macchine e scuole e i Sindaci chiedono di incontrare il Prefetto". "Se i responsabili di questi reati verranno presi dalle Forze dell'Ordine e saranno condannati dai magistrati - conclude Zaia - si sappia che solo uno su tre andrà davvero in carcere, gli altri due potranno continuare indisturbati. Lo Stato di diritto si è arreso". Ascoli Piceno: detenuto morto in carcere. Parla l'aggressore "non volevo ucciderlo" Corriere Adriatico, 21 febbraio 2015 Ieri mattina l'avvocato Umberto Gramenzi si è recato nel carcere di Marino per incontrare il suo assistito, Mohamed Ben Alì, il ventiquattrenne tunisino indagato dalla Procura di Ascoli per la morte in carcere di Achille Mestichelli. Nel corso del colloquio l'avvocato Gramenzi ha potuto raccogliere la versione dei fatti fornita dall'extracomunitario. I motivi della tragica rissa sarebbero da ricondurre ad una banale discussione, una delle tante che si registrano frequentemente nelle celle del carcere in cui sono costretti a vivere i detenuti in condizioni difficili per il sovraffollamento, scoppiata fra Mestichelli e il tunisino. "Stando a quanto mi ha riferito il mio assistito - dice l'avvocato Gramenzi - i due si sono attaccati per futili motivi. Sembrerebbe che ad un certo punto Mestichelli abbia cercato di addossarsi a Mohamed il quale ha reagito spintonandolo energicamente". "Mestichelli si è sbilanciato ed ha tentato di aggrapparsi alla branda senza però riuscirvi". "Dapprima ha battuto la testa contro uno sgabello di ferro e poi è finito sul pavimento restandovi esanime. Ben Alì mi ha giurato che non era sua intenzione causare al compagno di cella conseguenze tanto gravi. A suo dire si sarebbe trattato di una fatalità". Massa Carrara: pari opportunità in carcere, i detenuti possono scegliere medico curante di Melania Carnevali Il Fatto Quotidiano, 21 febbraio 2015 Quello della città toscana è il primo carcere in Italia ad aprirsi a questa novità. Inoltre i familiari potranno monitorare il loro stato di salute attraverso uno sportello informativo. La sanità dentro le carceri deve essere uguale a quella fuori. È partendo da questo sacrosanto principio che l'Asl di Massa Carrara ha avviato due progetti all'interno della casa di reclusione massese, facendo da apripista in Italia nel miglioramento dell'assistenza sanitaria dei detenuti. O meglio: nel creare quelle pari opportunità in campo sanitario, tra il dentro e il fuori, che in Italia non esistono. Punto primo: i detenuti potranno scegliersi il medico di fiducia e non saranno più costretti ad avere il primo disponibile. Punto secondo: i familiari potranno monitorare il loro stato di salute attraverso uno sportello informativo; quello che forse i parenti dei vari Stefano Cucchi, Marcello Lonzi, Aldo Bianzino e di tutti i strani morti "per cause naturali" sotto la custodia dello Stato avrebbero desiderato. Quello di Massa è il primo (e al momento unico) carcere in Italia ad aprirsi a questa novità. A idearla e promuoverla sono stati Franco Alberti, responsabile del presidio distrettuale del carcere massese e Bruno Bianchi, vicedirettore sanitario dell'Asl, che chiariscono a ilfattoquotidiano.it che per uguaglianza nel diritto alla salute fra detenuti e liberi "non s'intende solo uguaglianza nell'offerta dei servizi sanitari", ma "pari opportunità nell'accesso al bene nei livelli di salute e delle particolari condizioni di vita in regime di libertà". Prima di questo progetto, infatti, i detenuti nel penitenziario massese - come ancora nel resto d'Italia - erano costretti a farsi visitare dal medico di turno. Succedeva quindi che il medico fosse uno sconosciuto e che cambiasse ogni settimana. Mancava il rapporto di fiducia fra il medico e il paziente e, soprattutto, la continuità nella diagnosi. "In questo modo la sanità è completamente inefficiente - spiega Alberti - perché ogni visita è come se fosse la prima. La percezione del detenuto poi è quella di una sanità repressiva e non curativa. E anche questo è un fattore che può provocare patologie". E infatti, stando alle statistiche, i detenuti hanno più bisogno di cure rispetto ad altri. Se si guarda lo stato di salute di quelli toscani rispetto ai cittadini liberi si nota infatti che il 41% dei carcerati soffre di disturbi psichiatrici rispetto al 2,5% degli altri. O, solo per fare un altro esempio: oltre l'11% dei detenuti soffre di malattie infettive e parassitarie rispetto al 2% dei non detenuti. "Curare i detenuti - chiarisce il vicedirettore sanitario - significa rendere la loro detenzione migliore e creare un percorso di rieducazione". I 240 detenuti del penitenziario di Massa quindi hanno potuto scegliersi il medico di fiducia fra gli 8 del presidio sanitario. Ognuno dei quali ha giorni e orari di visita stabiliti, proprio come fuori dal carcere. Per le emergenze rimane il medico di turno e ci sono poi 13 specialisti (psicologo, ortopedico, chirurgo). Per quanto riguarda lo sportello informativo: è situato in uno dei locali del carcere, sarà aperto il primo e il terzo mercoledì del mese e permetterà ai parenti (previo consenso dei detenuti) di accedere alla cartella clinica. A dare le informazioni, al momento, è il responsabile del presidio, ma in futuro ci saranno gli stessi medici di fiducia. Insomma, un modello che si spera venga emulato nelle altre carceri. Questo, sia chiaro, prima del 2008 non sarebbe stato possibile. Prima della finanziaria del governo Prodi infatti le competenze del servizio sanitario nelle carceri erano in mano al Ministero di Grazia e Giustizia. Solo nel 2008 sono state trasferite a quello della Salute e si è creata la possibilità di portare la sanità pubblica dentro le mura del carcere. Certo, molto, quasi tutto, dipende ancora dall'amministrazione penitenziaria e dalla sua apertura a questo tipo di iniziative. Nel caso massese l'Asl ha trovato terreno fertile, tant'è che il servizio sanitario all'interno dell'istituto penitenziario massese è una chicca, se confrontato al resto d'Italia. Dal 2002 quel carcere è diventato anche un punto di riferimento regionale per soggetti disabili autosufficienti, anche transitori, che necessitano di riabilitazione fisica e di soggetti affetti da Hiv di livello intermedio. È stata creata una palestra all'interno dell'infermeria per la riabilitazione e percorsi assistenziali per i pazienti sieropositivi. È stata fatta poi formazione del personale sanitario e penitenziario "perché curare un detenuto non è come curare un cittadino libero", chiarisce il responsabile del presidio. Certo, rimangono criticità come la palestra ridotta, le poche ore di riabilitazione, il sovraffollamento carcerario (240 detenuti con una capienza di 176 posti letto), ma quello che conta, adesso, è il buon esempio. Piacenza: il Garante Gromi; facciamo ripartire "Sosta Forzata", il giornale del carcere di Patrizia Soffientini Libertà, 21 febbraio 2015 Carcere, sempre più dolente e ora anche "muto". Lo testimoniano i recenti episodi di autolesionismo, i tentativi di suicidio, la sospensione del giornale Sosta Forzata quando ancora nel novembre 2013 la direttrice della Casa circondariale, Caterina Zurlo, scriveva nel suo editoriale sulla pubblicazione: "Continuiamo così, nella speranza dell'ascolto ma consapevoli soprattutto dell'importanza di poterci esprimere e prima ancora riflettere e valutare in un'assoluta libertà che nessuno potrà - questa, sì - mai toglierci. Avanti tutta, a vele spiegate, Sosta Forzata!". Quale sia oggi la "temperatura" dietro le mura delle Novate lo chiediamo al garante delle persone detenute, Alberto Gromi. La cronaca degli ultimi giorni ci consegna fatti gravi. Il sovraffollamento è superato, il disagio e la disperazione no. "In carcere, in generale, e in quello di Piacenza in particolare i tentativi di suicidio sono molto numerosi. Piacenza ha una situazione dove l'eccellenza è la sanità, la struttura psichiatrica e psicologica di sostegno, persone con problemi psichiatrici vengono trasferite molto spesso qui e in quest'alta percentuale di detenuti con problemi psichiatrici va inquadrato il tema dei suicidi e dei tentativi di suicidio. L'autolesionismo ha altre motivazioni, viene praticato soprattutto fra detenuti di una certa cultura, come i magrebini. Anche nei loro Paesi se in un ufficio pubblico non ottengono ciò che vogliono, si tagliano. Questo dà molti problemi ai detenuti non appartenenti a quella cultura che all'improvviso si trovano la cella piena di sangue. In carcere, non va dimenticato, c'è anche un'attenzione altissima verso l'Hiv, la sieropositività. Questo crea molti conflitti". Allora dove risiede la radice del disagio? "Attualmente, lo confermo, non è più legato al sovraffollamento, o meglio, le celle del vecchio padiglione sono fatte per una persona, ce ne stanno due ma senza i problemi di prima, quando erano in tre e ciò era fuori dai parametri indicati dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo e dal governo. Il problema è un altro. Voglio ricordare, a questo proposito, l'importantissima circolare del provveditore regionale sull'umanizzazione della pena, a commento della disposizione di apertura delle celle nelle carceri di media sicurezza, questa apertura c'è anche a Piacenza. Ma i detenuti vagano per ore nei corridoi, non sanno cosa fare, diventano fondamentali allora il lavoro, la scuola, la cultura e i vari corsi". Cosa si sta facendo, in concreto? "Bisogna chiarire che si fa una certa confusione, anche da parte del volontariato, fra intrattenimento e formazione. Tutto serve, l'intrattenimento è utile, ma è necessaria una serie di attività che responsabilizzino il detenuto, il quale è meglio venga coinvolto anziché restare in una situazione passiva. Sono necessarie attività che aiutino la riflessione e l'auto consapevolezza". In tal senso fa molto discutere la sospensione del giornale Sosta Forzata: come la giudica, ci sono dei margini per recuperare? "Ci sono due aspetti. Un aspetto è la lesione del diritto di espressione dei detenuti. E questo un garante lo deve affermare: è una lesione grave. Il secondo aspetto è che manca uno strumento che in termini penitenziari si dice "trattamentale", vale a dire tutta l'attività di rieducazione e socializzazione. Sosta Forzata è un giornale che, come tutti quelli che lo leggono possono constatare, riporta riflessioni e non notizie, se non raramente. Perché la redazione di Sosta Forzata lavora sulla scrittura autobiografica, consente una riflessione sulla propria vita, c'è tutta una letteratura sulla funzione terapeutica della scrittura autobiografica. Normalmente escono tre numeri all'anno, ma tutte le settimane un gruppo di dieci o quindici detenuti - e sono pochi, il lavoro dovrebbe riguardare moltissimi detenuti - fanno una riflessione su di sé, questo li porta a prendere consapevolezza del proprio reato, non è un percorso facile. La riflessione che normalmente il detenuto fa, essendo in carcere, il suo unico obiettivo riguarda il processo, la liberazione anticipata, l'amnistia, se ci sarà o non ci sarà, il permesso-premio. E siccome non ha risposte o comunque non ne ottiene di immediate, struttura soltanto un atteggiamento di rabbia e di rivendicazione. Si sente vittima. Lui non può sentirsi vittima, ma noi lo costringiamo in questa strettoia. Ci sono altre esperienze, ad esempio una volontaria va tutte le settimane ad incontrare un gruppo particolare di detenuti, i cosiddetti protetti, i sex offender, per far emergere una riflessione". Ma ci sono senz'altro degli equilibri e dei confini da rispettare. "Nel carcere come nella scuola e in tutte le istituzioni totali, penso ai manicomi degli Anni 70, alle caserme, a quelle che non sono comunità volute ma costrette, si è cercato di introdurre all'interno, essendo strutture fortemente istituzionalizzate, elementi di comunità, di relazioni calde, quello che definiamo come umanizzazione. Questi due elementi convivono in equilibrio molto precario, l'istituzione continuamente tenta di prevaricare la comunità e la comunità reagisce e cerca di imporsi, di difendersi. Secondo me, bisognerebbe trovare una mediazione. Sosta Forzata è espressione della comunità del carcere, deve riprendere cercando di dialogare con l'istituzione, con l'amministrazione penitenziaria, anche magari trovando un modus vivendi concordato e previsto nei limiti del possibile: come si forma la redazione, che caratteristiche deve avere, quali i vincoli non superabili che l'istituzione pone. Rafforziamola questa esperienza, non spegniamola". La Spezia: ex Sindaco Giorgio Pagano ai detenuti "la parte migliore di noi è l'alternativa" www.cittadellaspezia.com, 21 febbraio 2015 L'ex sindaco presenta il suo libro con un colloquio con i detenuti di Villa Andreino. L'avvocato Alessandra Ballerini: "La politica non deve rincorrere la pancia della gente, semmai deve elevare le coscienze". "La vera felicità non sono i soldi ma la libertà". Parole che hanno un significato ancora più incisivo, se pronunciate di fronte ad una quarantina di detenuti. Le ha pronunciate l'ex sindaco della Spezia, Giorgio Pagano, parafrasando il presidente uruguaiano Pepe Mujica, nel corso dell'incontro in cui ha spiegato di fronte ai carcerati di Villa Andreino i contenuti del suo ultimo libro, "Non come tutti" (Edizioni Cinque Terre), attraverso di una conversazione con Alessandra Ballerini, avvocato civilista, specializzato in diritti umani e immigrazione. "L'iniziativa di oggi - hanno spiegato nell'introduzione Licia Vanni, responsabile dell'Area trattamentale, e Agostino Codispoti, funzionario giuridico pedagogico, che hanno organizzato l'evento - è la prima di una serie di incontri che proseguirà il mese prossimo con la presentazione di Fifty, il libro di Paolo Asti. Stiamo affrontando un periodo difficile, che vede le prigioni riempirsi delle classi più povere della popolazione. Abbiamo pensato di invitare Pagano e Ballerini perché crediamo che siano tra i pochi che hanno ancora la capacità di trasmettere un po' di fiducia". Di fronte a una platea attenta e interessata, Alessandra Ballerini ha preso la parola per presentare l'autore: "Con Giorgio condivido alcune passioni, tra queste quella per la Costituzione e l'uguaglianza. Troppo spesso si pensa che aiutando gli ultimi si tolgano diritti agli altri, invece è fondamentale tenere salda la mira verso il principio dell'uguaglianza. Questo è uno dei concetti che emergono dalla lettura del libro". Pagano ha quindi spiegato perché nel corso del suo mandato dedicò tanta attenzione all'avvio di attività che coinvolgessero anche i detenuti, come per il ripristino delle aiuole di Passeggiata Morin. "Per conoscere un Paese bisogna andare a vedere lo stato delle sue galere. E il carcere deve essere un momento di rieducazione", ha esordito il presidente dell'associazione Mediterraneo tenendo in mano il volume che ha come copertina la fotografia di un murale realizzato da un detenuto proprio all'interno di Villa Andreino. "Come dice Italo Calvino ne Le città invisibili, nell'inferno in cui viviamo dobbiamo cercare ciò che non lo è. Questo è il ruolo della politica, questo è il compito della sinistra. Dobbiamo evitare il rischio di combattere una guerra tra ultimi e penultimi: non si può cercare di dare lavoro ai disoccupati togliendo diritti a chi un'occupazione ce l'ha. È chi possiede, chi è ricco che deve rinunciare a qualcosa. Ritornando alla metafora dell'inferno, ciò che non lo è, è la parte migliore di noi: il vero cambiamento è personale, prima che sociale. La vera riforma è quella della nostra vita. Nella comunità di San Benedetto - ha detto Pagano, ricordando Don Andrea Gallo - faccio notare che gli assistiti, dopo aver cambiato la loro vita, esserne ritornati padroni, diventano assistenti". Oltre agli aspetti sociologici, nell'incontro sono stati affrontati anche temi riguardanti l'attualità italiana: "La politica - ha affermato l'avvocato Ballerini, riferendosi alle dichiarazioni di Matteo Salvini contro i soccorsi agli immigrati nel canale di Sicilia - non deve rincorrere la pancia della gente, non ne deve cavalcare le paure. Semmai deve fare il contrario: deve elevare le coscienze, deve insinuare il dubbio". Pagano ha infine ripercorso le tappe del suo ultimo periodo da sindaco. "Nella mia vita ho sempre avuto la libertà come faro, e il potere è un elemento che la limita fortemente. Per questo rimasi al mio posto per completare il mandato invece di dare le dimissioni per andare verso la Camera dei deputati. La mia canzone è "Like a Rolling Stone", la canzone del cambiamento, della rottura. Non credevo più nel mio stesso partito che stava per trasformarsi, vedevo il degrado incipiente e ho deciso di cambiare vita, di fare attività politica dal basso. Per questo nel mio libro dico che la sinistra non può essere come tutti, deve distinguersi, anche proponendo soluzioni che possono essere impopolari. La Bossi-Fini e la Fini-Giovanardi riempiono le carceri di persone che non costituiscono un reale pericolo per la società, bisognerebbe parlare di amnistia e di abolizione di queste leggi, anche se oggi sul tema della sicurezza la linea è all'esatto opposto". Un giovane detenuto di 27 anni ha portato la sua testimonianza di immigrato: "Avevo 14 anni e navigammo per 6 ore su un gommone. Sbarcai a Lecce e presi il treno a Bari, scesi alla stazione spezzina senza conoscere nessuno. Venni affidato ai servizi sociali e oggi sono qua per scontare un errore che ho commesso: spero di avere una seconda occasione per ricostruirmi una vita. Quando partii dall'Albania il mio Paese stava molto peggio, mentre in Italia tutto sembrava andare a gonfie vele. Per quel viaggio rischioso pagai un milione di lek, l'equivalente di 700 euro". La situazione è cambiata e oggi un giovane albanese potrebbe attraversare l'Adriatico senza doversi imbarcare illegalmente. "Oggi dall'Albania all'Italia non occorre il visto d'ingresso, per tre mesi un cittadino albanese - ha concluso l'avvocato Ballerini - può stare sul territorio italiano. La sinistra deve proporre idee rivoluzionarie, proprio come questa: 13 anni fa nessuno avrebbe pensato che la situazione sarebbe cambiata in questo modo. Perché oggi non possiamo fare una proposta simile per altri Paesi in guerra, attraverso un visto per asilo? Il viaggio aereo costerebbe meno, non ci sarebbero i rischi di due giorni e due notti di gommone, non ci sarebbero tante risorse a disposizione delle mafie e il 2014 non si sarebbe concluso con quattromila cadaveri ripescati tra le onde". Pisa: il Garante dei detenuti in visita al carcere Don Bosco "tante le criticità da risolvere" www.pisatoday.it, 21 febbraio 2015 Dalla necessità di una ristrutturazione totale della cucina all'abbandono dei lavori nell'edificio Gs1, passando per un eccessivo numero di detenuti, molti dei quali condannati per reati di droga connessi alla legge Fini-Giovanardi. Ecco cosa è emerso dalla visita di Franco Corleone. Tappa a Pisa oggi per il garante dei detenuti della Regione Toscana Franco Corleone, che nel suo tour dei penitenziari toscani, ha fatto visita al carcere Don Bosco per fare il punto sulla situazione della struttura e sulle condizioni dei detenuti. "Secondo il direttore, per rendere vivibile il carcere Don Bosco di Pisa servirebbero 60 interventi di ristrutturazione o manutenzione. Da quello che ho visto stamani, il più urgente sarebbe senza dubbio quello della cucina, che presenta una situazione drammatica - ha esordito Corleone - le prescrizioni dell'Asl sono puntuali, ma secondo la direzione gli interventi sull'esistente non risolverebbero i problemi, per cui sarebbe necessario smantellare l'attuale cucina e realizzarne una nuova in altri locali". La questione della mancanza di risorse e anche la questione di un loro non corretto utilizzo torna più volte nelle parole di Corleone. "Il Don Bosco è un carcere sul quale, pur non essendo vecchissimo, pesa fortemente l'inadeguatezza delle strutture - ha detto - la sezione femminile, ad esempio, che ospita 11 detenute su una capienza massima di 13, ha riaperto da poco dopo alcuni lavori di ristrutturazione per eliminare problemi idraulici. Ebbene, si sono mantenuti i servizi igienici aperti senza alcun rispetto della privacy. È l'emblema di un'amministrazione che non ha le idee chiare, che quando spende i pochi soldi a disposizione lo fa per interventi che alla fine non rispondono alle indicazioni dei regolamenti". Un altro esempio "di uso discutibile delle risorse" è rappresentato "dall'edificio Gs1, che doveva diventare il centro clinico nazionale per i detenuti sottoposti al regime del 41bis". L'impresa, ha spiegato il garante, "ha abbandonato i lavori per mancati pagamenti e ora ci sono ovunque materiali di risulta abbandonati e arbusti che d'estate possono rappresentare un pericolo di incendio o un rifugio per i ratti. Non so quanto sia costato questo intervento, ma adesso ci ritroviamo con una cattedrale nel deserto. Anche questo dà la misura di un'amministrazione penitenziaria cieca e irresponsabile nella chiarezza degli obiettivi e nella gestione del denaro pubblico". Svolti solo per metà anche i lavori al centro clinico del carcere, "dove oltretutto la presenza della dirigente sanitaria è ridotta perché è oberata di incarichi". La struttura di Pisa, ha ricordato Corleone, ospita 235 persone rispetto alla capienza massima di 216. Il 30 per cento dei detenuti ha una condanna per reati di droga connessi alla legge Fini-Giovanardi. "Dovremo però approfondire - ha aggiunto - per capire se a loro carico gravino condanne per altri tipi di reato. Comunque, anche qui come ieri a Lucca, è emerso il problema del mancato inserimento presso le comunità terapeutiche dei detenuti per reati di droga. È un problema, questo, che richiede una soluzione". Il polo universitario, che può accogliere 16 detenuti, è frequentato soltanto da 6 o 7 persone. "È una situazione del tutto simile a quella di Prato e su questo punto serve avviare una riflessione particolare per rilanciare queste strutture" ha evidenziato ancora il garante. Corleone ha ricordato inoltre che è partito il progetto per la raccolta differenziata dei rifiuti e che sono attivi, a rotazione, 40 posti per lavori domestici interni al carcere e che solo 2 o 3 persone hanno un'occupazione fuori dal penitenziario; i semiliberi sono 16, le telefonate sono con le schede "e quindi le comunicazioni sono libere" e ci sono 5 animatori, "anche se ne servirebbero di più. Ma al solito, mancano risorse. Per nuovi animatori, che magari dovrebbero essere dei Comuni e non dell'amministrazione penitenziaria, e anche per i direttori. Il carcere di Pisa, ad esempio, non ha un vicedirettore ed è un grande limite per un carcere complesso come questo". Corleone ha aggiunto "la grande preoccupazione" per la sicurezza rispetto alle condizioni di vivibilità: "Dall'esterno, ad esempio, non possono essere introdotti né tabacchi né trucchi. Capisco che possano esserci stati episodi di introduzione in carcere di sostanze vietate, ma questo clima di soli divieti toglie libertà e, soprattutto, non responsabilizza i detenuti". Infine, il garante ha auspicato che rientri in funzione a pieno regime la biblioteca della sezione femminile. In questa stessa sezione, inoltre, "la cucina potrebbe essere utilizzata per fare corsi o impiantare attività per fare produzioni da vendere all'esterno. Sarebbe utile, anche perché molte detenute, in prospettiva dell'uscita, devono saper affrontare al meglio i problemi di affidamento o della sospensione di affidamento dei figli. Emerge, insomma, "un limite nell'affrontare la questione degli affetti delle persone recluse", a significare che "per molti reati sarebbero utili altre misure di pena". Padova: detenuti e studenti universitari, inaugurato l'Anno accademico del carcere di Silvia Quaranta Il Mattino di Padova, 21 febbraio 2015 Cerimonia al Due Palazzi, presente il rettore Zaccaria. Momento ricreativo con la Banda Osiris. Siglato un nuovo protocollo d'intesa tra l'Università degli studi di Padova ed il Provveditorato regionale dell'Amministrazione penitenziaria, che porterà a migliorare le condizione di studio nelle carceri del Triveneto. La buona notizia arriva nello stesso giorno in cui, al Due Palazzi, si celebra l'inaugurazione dell'anno accademico: la cerimonia si è aperta con i saluti istituzionali e la consegna dei badge universitari, che da quest'anno, anche in carcere, sostituiscono i vecchi libretti. A seguire un momento più ludico, con lo spettacolo della banda Osiris. La nuova convenzione si inserisce all'interno di un percorso che, a Padova, dura da oltre dieci anni, e ha già condotto alla laurea più di venti carcerati: "Gli iscritti, tra tutti gli anni in corso, sono stabilmente intorno alla cinquantina" spiega il direttore della casa di reclusione di Padova, Salvatore Pirruccio "e ogni anno almeno due concludono gli studi". Una parte selezionata degli studenti detenuti può usufruire di spazi dedicati, con tanto di aula studio e saletta informatica. I corsi sono ristretti alle facoltà che non necessitano di laboratori in strutture attrezzate, quindi principalmente al campo umanistico, ma tra i tanti progetti per il futuro c'è anche quello di portare i detenuti fuori dalle mura carcerarie, per permettere loro di utilizzare tutte le risorse universitarie a disposizione. Il tutto, naturalmente, in condizioni di assoluta sicurezza. Per ora, il Bo aprirà le iscrizioni a tutti gli istituti penitenziari del Triveneto: "Il nostro impegno sarà maggiore" spiega il rettore, Giuseppe Zaccaria "anche perché con la convenzione ci impegniamo a condividere momenti di riflessione e formazione sul tema dello studio universitario in carcere, con l'organizzazione di incontri e la realizzazione di studi e ricerche specifiche". La convenzione mette nero su bianco anche una serie di facilitazioni economiche di non poco conto: non solo borse di studio per i più meritevoli, ma anche rimborso delle tasse, del costo dei libri di testo ed un premio finale di rendimento. Il Bo gode, tra l'altro, di una specifica convenzione anche con il Ministero della Giustizia, sottoscritto nel 2007 e rinnovato nel 2013. Dopo la presentazione all'Università i relatori si sono spostati alla casa di detenzione, per l'inaugurazione dell'anno accademico. Hanno partecipato un centinaio di detenuti, che hanno letteralmente riempito l'auditorium. Presente alla cerimonia anche Enrico Sbriglia, provveditore regionale reggente: "Il mio sogno" ha detto "è quello di un campus universitario penitenziario. Un luogo che fin dall'ingresso sia dominato dalla vita e che dia il senso dell'opportunità della pena: non mi interessa la storia che avete alle spalle, ma il futuro che avete davanti. È per questo che siete qui". A conclusione lo show della banda Osiris, che per l'occasione ha intrattenuto gli studenti con una versione in latino della canzone Stand by me, seguita una serie di esilaranti esibizioni. Porto Azzurro (Li): l'ex direttore Carlo Mazzerbo assolto "perché il fatto non sussiste" www.tenews.it, 21 febbraio 2015 Concluso il dibattimento di primo grado per l'ex direttore della Casa di reclusione di Porto Azzurro: era accusato di rivelazione di segreti d'ufficio. Si è concluso con un'assoluzione "perché il fatto non sussiste" il processo di primo grado che vedeva fra gli altri sul banco degli imputati Carlo Mazzerbo, già direttore della casa di Reclusione di Porto Azzurro, attualmente direttore delle carceri di Massa Marittima e di Gorgona. Mazzerbo, 57 anni, era stato accusato di rivelazione di segreti d'ufficio, ai sensi dell'articolo 326 del Codice Penale, per avere (nell'ipotesi accusatoria) rivelato ad alcuni agenti del carcere longonese che erano in corso delle indagini e delle intercettazioni su di loro, nell'ambito di un'inchiesta su un presunto giro di droga . L'inchiesta era partita nel 2010, e già durante il dibattimento processuale pare che fossero emersi degli elementi contradditori sulle effettive responsabilità del funzionario. Il pubblico ministero, nella sua requisitoria aveva chiesto per lui 1 anno di pena, ma nell'udienza conclusiva che si è tenuta a Livorno giovedì 19 febbraio Carlo Mazzerbo - che nell'occasione era difeso dall'avvocato Marco Talini di Livorno - è stato assolto. "Da operatore della giustizia ho sempre avuto fiducia - ha dichiarato a caldo Mazzerbo - anche se da innocente ho avuto paura. È stato per me un periodo difficile - ha aggiunto - ma ho trovato la forza nel lavoro". Oltre a Mazzerbo sono stati assolti altri quattro imputati elbani, tra cui un agente di Polizia Penitenziaria, che erano a giudizio per altre imputazioni. Resta pendente una seconda indagine che ha come teatro il carcere longonese, riguardante le attività della Cooperativa San Giacomo. Nuoro: Progetto europeo Exchange of Methodologies, confronto sulla didattica in carcere La Nuova Sardegna, 21 febbraio 2015 Meeting internazionale dei docenti coinvolti nel progetto europeo Exchange of Methodologies. Didattica in carcere: è il tema di cui si è discusso a Nuoro grazie a un progetto finanziato dall'Unione europea, On/off Exchange of methodologies in education of detainees, portato avanti dal Ctp dell'Istituto comprensivo n° 3 di Nuoro. Un vero e proprio meeting internazionale, così come previsto dal progetto, che coinvolge diverse nazioni e che stavolta ha visto padroni di casa i docenti del Ctp barbaricino, nei locali dell'Europedirect, in via Manzoni, concesso dal Comune (partner del progetto, di cui è coordinatrice Raffaela Podda). Ogni insegnante ha parlato della propria esperienza nelle sedi carcerarie in cui operano e hanno operato negli scorsi anni: Casa circondariale di Macomer, Casa circondariale di Badu ‘e Carros, Casa di reclusione di Mamone. Durante la seconda giornata di lavori tutto il gruppo è entrato nella struttura di Badu e Carros e come già fatto nei meeting precedenti, ha visitato la struttura carceraria con un'attenzione particolare agli ambienti scolastici. La direttrice del carcere, Carla Ciavarella, ha illustrato il sistema penitenziario italiano e che cosa sia il percorso riabilitativo dei detenuti che un domani dovranno reinserirsi in un contesto sociale. Il dirigente scolastico Antonio Alba, invece, ha introdotto i lavori sottolineando le notevoli difficoltà che spesso devono superare i docenti che operano all'interno di strutture detentive, considerando che il ministero della pubblica istruzione italiana non prevede particolari corsi di aggiornamento e preparazione per chi affronta un lavoro difficile e impegnativo come questo. "On/off Exchange of methodologies in education of detainees" è un progetto finanziato dall'Unione europea che vede coinvolte sei sedi carcerarie e cinque nazioni differenti. Per l'Italia, partecipano al progetto il Ctp di Nuoro con le sedi di Badu e Carros (casa circondariale), Macomer (casa circondariale), Mamone (casa di reclusione); il Ctp di Augusta che gestisce l'istruzione nel carcere di Brucoli (Sicilia); la Spagna con la città di Almeria; il Portogallo con la città di Faro; la Francia con la città di Bordeaux e la Turchia con la città di Afyonkarahisar. Sarà quest'ultimo carcere a ospitare (a maggio) il prossimo meeting Il progetto si occupa di didattica nelle scuole carcerarie, in particolare lo scambio di metodologie didattiche tra i diversi gruppi docenti. Durante il meeting a Nuoro i colleghi delle diverse scuole carcerarie si sono confrontati discutendo non solo delle metodologie, ma della preparazione dei docenti che operano all'interno delle carceri, della motivazione che spinge i detenuti a frequentare le aule scolastiche, della riforma che in Italia è in corso per tutta l'educazione degli adulti e di dispersione scolastica. Dopo i lavori intorno al progetto, i colleghi stranieri hanno poi avuto l'occasione di essere accompagnati alla scoperta del carnevale barbaricino sfruttando l'appuntamento internazionale per far conoscere la Sardegna interna, non solo per le bellezze naturali, ma anche per quelle insolite e meno conosciute delle tradizioni carnevalesche. Napoli: Progetto Ssde e Fondazione Milan, 4 detenuti Nisida faranno corso da allenatore Ansa, 21 febbraio 2015 Quattro giovani detenuti del carcere minorile di Nisida impegnati in un corso da allenatore di calcio che darà loro una prospettiva di lavoro una volta scontata la pena. È questo il progetto lanciato oggi nella sede dell'istituto penitenziario dalla Ssde (Società sportiva dilettantistica Europa) e Fondazione Milan con il patrocinio del Comune di Napoli. I quattro giovani frequenteranno un corso di sei mesi teorico e pratico con allenatori federali grazie ad un servizio di autobus che li preleverà da Nisida per portarli nella sede della scuola in Corso Europa. "Lo sport - ha spiegato Mario Del Verme, presidente della Ssde - ha una responsabilità civile e sociale e questo progetto coniuga sport e inclusione sociale. Parteciperanno anche altri sedici ragazzi provenienti da quartieri difficili di Napoli come la Sanità e Poggioreale". Il progetto si realizza anche grazie all'impegno della Fondazione Milan che "proprio oggi compie 12 anni e li festeggia al meglio con questa iniziativa", ha detto il segretario generale Rocco Giorgianni. "Finora abbiamo realizzato 110 progetti con un investimento complessivo di dieci milioni di euro - ha proseguito - in Italia e nel mondo. Mettiamo lo sport a disposizione di chi è in condizione di disagio, sfruttando la forza dello sport per l'inclusione sociale. Da quest'anno mettiamo in campo programmi "nostri" in partnership con associazioni no profit e sportive. La scelta di Napoli? Abbiamo trovato un'associazione e delle istituzione locali disponibili e ci siamo impegnati qui, come abbiamo già fatto con il programma di alfabetizzazione motoria lanciata proprio a Napoli un mese e mezzo fa". Il progetto ha trovato infatti il pieno appoggio del Comune di Napoli che, ha spiegato l'assessore allo sport Ciro Borriello, "vede opportunità di sviluppo sociale anche attraverso il calcio, che è questo che vediamo nel progetto Nisida e non quello visto ieri a Roma in occasione della partita di Europa League. Il Milan ci sostiene e fa onore al club che più ha vinto al mondo il fatto di collaborare alla crescita del tessuto sociale italiano. Per questo il Comune starà sempre al loro fianco". Rossano Calabro (Cs): a "Il Volo", vincitore di Sanremo, il Premio realizzato dai detenuti www.ecodellojonio.it, 21 febbraio 2015 Andrà anche a "Il Volo", vincitore del 65esimo Festival di Sanremo il Premio realizzato dai detenuti del carcere di Rossano. Il riconoscimento, simbolico, già apprezzato dal critico musicale Dario Salvatori, sarà consegnato insieme al Premio Casa Sanremo del maestro orafo crotonese Michele Affidato. Giuseppe Greco, coordinatore per la Calabria del dietro le quinte ospitale della kermesse canora, è già a lavoro per l'edizione 2016. Dario Salvatori, volto noto della tv e osservatore attento di tutto ciò avviene al Teatro Ariston e dintorni nella settimana dedicata alla musica italiana, ha molto apprezzato quel pianoforte in legno, curato nei piccoli particolari dai detenuti del carcere di Rossano. Salvatori - ha avuto modo di intervistarlo, Greco - si è detto riconoscente e commosso per quella voglia di riscatto che quell'oggetto cela nelle sue forme e che meriterebbe forse una maggiore attenzione. Chissà, Salvatori potrebbe decidere di venire a salutare personalmente gli ospiti della casa circondariale diretta da Giuseppe Carrà. È solo questione di giorni per la consegna del Premio Casa Sanremo, rispetto alla data del 14 febbraio, serata in cui si è concluso il Festival. Giuseppe Greco incontrerà ed intervisterà "Il volo". Confermato anche quest'anno dal patron di Casa Sanremo, Vincenzo Russolillo, per il coordinamento dello spazio Calabria, Greco è già a lavoro per l'edizione 2016. Casa Sanremo - dichiara Greco - è una vetrina che, al pari delle più importanti fiere e manifestazioni internazionali che raccolgono intorno a se operatori turistici e buyer, offre l'occasione alle aziende di farsi conoscere fuori dai confini regionali; ai territori di presentare il proprio patrimonio identitario, agli artisti di far conoscere il proprio talento. Eccellenza e qualità, sono le caratteristiche che hanno accomunato anche quest'anno i protagonisti Made in Calabria di Casa Sanremo. Da I Gradino 23 agli Ancia Libera, da Perla di Calabria, ai barman della Abp guidato da Massimo Toscano, dalla Tenuta Labonia alle amministrazioni comunali di Trebisacce e Crosia, dall'Eurographic alla Masseria Forciniti, dall'Azienda Agricola Zootecnica Silana di Domenica Ruffolo, al Gal Sila Greca, dal Maestro Michele Affidato a Igreco, da Pedròs allo chef Mario Lavorato del patron di Casa Sanremo Vincenzo Russolillo, fino all'interior deisgner Cataldo Formaro. La ricerca di nuove eccellenze per l'edizione 2016 è già iniziata. Droghe: l'eredità di Fini e Giovanardi, almeno 3mila persone sono ancora detenute di Duccio Facchini www.altreconomia.it, 21 febbraio 2015 Da parte del governo nessuna azione per rideterminare le pene da scontare. La legge che inaspriva le pene per la detenzione di droghe è incostituzionale da un anno, ma almeno 3mila persone sono ancora detenute. È trascorso un anno dalla dichiarazione di "illegittimità costituzionale" della legge "Fini-Giovanardi" sulle sostanze stupefacenti, ma sono almeno 3mila le persone che ne stanno ancora patendo -in carcere- le conseguenze. Breve riepilogo: è il 12 febbraio 2014 quando la Corte Costituzionale cancella (tra gli altri) anche quell'articolo "4-bis" che, parificando le droghe "leggere" alle droghe "pesanti", aveva elevato le pene per la detenzione delle prime: se prima la forbice andava da due a sei anni (con una multa da 5.164 euro a 77.468 euro), quella successiva -più punitiva- ammetteva pene da sei a venti anni (e multa da 26mila a 260mila euro). La logica avrebbe suggerito che, tolta la norma, venisse ridiscussa la pena. Ma questo passaggio è ancora oggi negato ad almeno 3mila persone. "Almeno", visto che dati certi e aggiornati sui condannati potenzialmente interessati dalla rideterminazione della pena non ce ne sono da più di sette mesi: l'ultima dichiarazione sul punto del ministro della Giustizia Andrea Orlando risale infatti ai primi giorni di giugno 2014. Pochi mesi prima il Governo aveva deciso di rispondere alla sentenza della Corte Costituzionale attraverso il "decreto Lorenzin" (36/2014), sprovvisto però di alcuna misura automatica di "revisione" per i condannati, cui è rimasta come unico strumento l'"incidente di esecuzione", cioè avanzare una richiesta formale di rideterminazione della pena. L'iniziativa legislativa dell'esecutivo vide come co-relatore il senatore di maggioranza del "Gruppo Area Popolare (Nuovo Centrodestra, Udc)" Carlo Giovanardi, padre della norma bocciata dalla Consulta. Una scelta emblematica che secondo Stefano Anastasia, ricercatore di Filosofia e Sociologia del diritto presso l'Università di Perugia nonché presidente dell'associazione "Società della Ragione" - che più di ogni altra si è battuta per raggiungere il traguardo storico della sentenza della Consulta sulla "Fini-Giovanardi", rende tutt'ora "difficile immaginare che dal punto di vista legislativo e non solo, questo esecutivo possa prendere iniziative particolarmente significative". Tra loro, ad esempio, la convocazione di una nuova Conferenza nazionale sulle politiche antidroga, che, pur prevista dalla legge con cadenza triennale, è ferma alla quinta edizione risalente al marzo 2009 (sottosegretario alla Presidenza del Consiglio competente, Carlo Giovanardi). La continuità è segnata anche dal contenuto della "Relazione sui dati relativi allo stato delle tossicodipendenze in Italia" a cura del Dipartimento politiche antidroga presso la presidenza del Consiglio, presentata dal ministro per le Riforme costituzionali e i rapporti con il Parlamento Maria Elena Boschi - referente del Governo in materia - e trasmessa alle Camere nel settembre 2014. La relazione ricalca infatti l'impostazione di tutte le precedenti - e contestate - versioni redatte quando la guida del Dipartimento era in capo a Giovanni Serpelloni (che ha lasciato nella primavera 2014), che dell'ex ministro Carlo Giovanardi ha sempre condiviso approccio e modalità in tema di droghe. Le parole "leggere" e "pesanti" non compaiono mai, a differenza di un paragrafo dedicato al "monitoraggio online dei rave party illegali" (ne sarebbero stati censiti 139 tra il 2010 e il 2014). Non un riferimento agli effetti della normativa smentita dalla Consulta, che ha rappresentato al contrario una fonte del "flusso informativo" della Relazione riproposta al Parlamento: come se nulla fosse intervenuto. E del resto nulla è intervenuto nell'interesse di chi sta scontando quella che la Società della Ragione, Antigone, il Cnca, la Cgil e il Forum droghe hanno definito una "pena illegittima". Chi ha provato a intervenire, non essendo mai stato nominato il Garante nazionale dei detenuti, è stato il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Toscana, Franco Corleone: "Ho invitato tutti i colleghi garanti a inviare formalmente delle lettere ai procuratori della Repubblica per sollecitarli a esaminare gli incidenti di esecuzione, inoltrandomi successivamente notizie degli esiti. Qualche risposta c'è stata, ma nulla di straordinario purtroppo". Tra le (poche) risposte c'è stata quella del garante istituito dal Comune di Milano, Alessandra Naldi, che all'inizio del dicembre scorso ha inviato alla Procura generale presso la Corte d'Appello di Milano una richiesta sul modello di Corleone. "Alla data attuale - si legge nella nota di replica del 17 dicembre 2014 della Procura - sono pervenute [...] circa 51 richieste di rideterminazione della pena delle sentenze irrevocabile di condanna [...]. La Corte di Appello di Milano ha accolto tali istanze circa nel 20% dei casi ed ha rideterminato la pena delle predette sentenze". Il numero degli incidenti di esecuzione presentati in tutta la Lombardia è ancora oscuro, così come per il resto delle Procure del Paese. A Corleone sono arrivate altre due segnalazioni, quelle di Firenze e Napoli. "A Napoli - spiega il garante dei detenuti della Toscana - la Procura presso il Tribunale ha esaminato 233 casi di incidente di esecuzione, mentre a Firenze, che ha fatto in proprio una ricerca sui fascicoli, gli incidenti di esecuzione in materia di droga erano 400, 44 dei quali relativi alle droghe leggere. E solo in 7 casi si è proceduto alla rideterminazione della pena". "Purtroppo brancoliamo nel buio - racconta Stefano Anastasia. Non possiamo che predisporre modelli preconfezionati per richiedere di avviare la procedura dell'incidente di esecuzione, affidandoli poi ai garanti, alle associazioni e ai familiari. Quello che chiediamo da tempo al Governo - prosegue - è di inviare una segnalazione puntuale alle Procure affinché si attivino autonomamente per verificare i casi da valutare e su cui decidere. E, infine, segnalare il caso agli interessati, che il più delle volte non sono nemmeno a conoscenza dell'esistenza di questo diritto, non potendo contare su una continuità di assistenza legale anche in carcere. Eppure basterebbe poco, considerando il fatto che sia il ministero della Giustizia sia l'amministrazione penitenziaria hanno tutti i nominativi dei condannati per violazione dell'articolo sulle droghe, anche leggere, e per la quale si ritrovano in carcere. Potrebbero, cioè, scrivere agli utenti informandoli dell'avvenuto. A un anno di distanza il rischio concreto però è che quelle pene illegittime siano state in buona parte scontate, ingiustamente". Chi potrebbe e dovrebbe chiarire gli obiettivi del Governo è il ministro competente (Boschi), che, attraverso il suo ufficio stampa, ha però fatto sapere di non poter rispondere alle domande di Altreconomia per i "troppi impegni parlamentari e istituzionali". La riforma della legislazione sulle droghe non è in agenda. La Sessione speciale delle Nazioni Unite sulle droghe (Ungass) fissata nel 2016, intanto, si avvicina e l'Italia rischia di presentarsi con un impianto normativo risalente in alcune parti al 1990 (la cosiddetta legge "Iervolino-Vassalli"). E con la consapevolezza di aver fatto scontare una pena illegittima ad "almeno" 3mila persone. Una legge fuoriluogo "Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali". Era questo l'incipit del decreto 272/2005 - poi convertito in legge nel febbraio 2006 - da cui prese le mosse la "Fini-Giovanardi". Il cui risultato più tangibile è stato quello di produrre detenzione: a dimostrarlo, anche nel 2014, è stata la quinta edizione del "Libro bianco" sulla normativa a cura di Fuoriluogo.it. Nel 2013 (ultima rilevazione), su 59.390 ingressi negli istituti penitenziari per ogni tipologia di reato in Italia, il 30,56% era riferibile alla "detenzione di sostanze illecite" (l'articolo 73 del D.P.R. 309/1990 riformato in senso punitivo dalla Fini-Giovanardi). Tutto ciò ha comportato che nel 2013 i ristretti per droga rappresentassero il 37,3% dell'intera popolazione detenuta. Una stretta legislativa che non ha riguardato però il grande traffico di sostanze stupefacenti (previsto all'art. 74 del Dpr 309/1990): erano solo 810 i detenuti per "associazione finalizzata al traffico illecito" contro gli oltre 17mila per la "sola" detenzione. Altro capitolo è quello dei Servizi per le tossicodipendenze (Sert), costretti a fare i conti con un aumento dell'utenza pari al 23% dal 2006 ad oggi, a fronte però del blocco degli operatori chiamati a farvi fronte. Per la Funzione Pubblica Cgil, infatti, la media nazionale vede 154 utenti per medico, 213 per psicologo, 148 per infermiere, 273 per assistente sociale e 300 utenti per educatore. Personale che quando è stato trasferito o pensionato è stato sostituito nel 48 % dei casi da operatori con contratti atipici. Grecia: sarà chiuso il Cie di Amygdaleza, un passo avanti contro la tortura agli immigrati di Damiano Aliprandi Il Garantista, 21 febbraio 2015 Ora è ufficiale, la Grecia abolirà i centri di identificazione ed espulsione. In particolar modo sarà abolito il famigerato Cie di Amygdaleza, in cui - secondo i media ellenici - negli ultimi giorni i poliziotti si sarebbero organizzati in veri e propri squadroni del terrore per picchiare e torturare gli immigrati. A confermarlo, sono stati i ministri dell'Immigrazione e della Protezione dei cittadini del nuovo governo Tsipras. Con un comunicato stampa i due ministri hanno anche annunciato altre misure che portano a un radicale cambiamento della politica ellenica verso gli immigrati, facendo seguire subito i fatti a quello che era il programma politico di Syriza illustrato durante la recente campagna elettorale. L'abolizione dei Cie avverrà in maniera graduale. Le prime azioni punteranno con una scrematura: saranno rilasciati tutti i minori non accompagnati, le donne incinte, i bambini, gli anziani, i malati, le vittime di tortura, le famiglie, i disabili e tutte le categorie più vulnerabili di persone finora detenute. Coloro che presenteranno problemi di salute, saranno trasferiti in ospedali e strutture sanitarie; inoltre ci sarà la liberazione immediata di tutti i richiedenti asilo e l'abolizione della decisione ministeriale - presa dal precedente governo greco nel 2014 - che permetteva la detenzione nei centri per un periodo superiore ai 18 mesi, aspetto questo che è contrario alle direttive europee in materia; inoltre, per gli immigrati irregolari detenuti nei Cie per più di 18 mesi, ci sarà il conseguente rilascio. Il passo successivo del governo ellenico sarà la costruzione di una vera e propria l'alternativa ai cie, proponendo l'obbligo di firma in un commissariato di polizia o l'obbligo di dichiarare la propria residenza. Le stesse misure alternative si potranno applicare, secondo la nota dell'esecutivo di Atene, anche ai sans papiers che da ora in avanti vivranno nel paese. Ma non finisce qui. Il governo Tsipras si prepara a cancellare l'operazione Xenios Zeus, il durissimo piano di intervento della polizia messo a punto dal governo di Antonis Samaras - duramente contestato da Amnesty International e molte altre organizzazioni umanitarie - per combattere l'immigrazione illegale. Xenios Zeus è stato per molte ong uno dei più violenti interventi contro gli immigrati mai messo in atto in Europa. Il protocollo è stato messo a punto dal vecchio esecutivo di Samaras per coprirsi le spalle a destra nei momenti in cui Alba Dorata viaggiava attorno al 10% nei sondaggi e dava in sostanza mano libera alle forse dell'ordine per bloccare, identificare e trattenere cittadini stranieri. Ordini che tradotti sul campo, si sono trasformati in diversi episodi "di abusi impuniti da parte della polizia", come ha scritto Amnesty International in un rapporto dello scorso aprile Un esame delle operazioni tra aprile 2012 e giugno 2013 dell'organizzazione umanitaria ha raccontato di oltre 120mila persone fermate e identificate spesso in modo piuttosto brusco su basi puramente razziali. "Le forze dell'ordine sono state usate in modo indiscriminato dalle autorità - aveva detto all'epoca Jezerca Tigani, direttore di Amnesty per l'Europa - Invece di mantenere l'ordine si sono accaniti su gruppi vulnerabili di persone. E le loro azioni non sono state monitorate e perseguite". Ricordiamo anche che il neo vice ministro della Protezione del cittadino e dell'ordine pubblico - che corrisponde al ministro degli interni nostrano - ha anticipato che la sua prima azione politica sarà la completa abolizione del carcere di tipologia c, una sorta di 41 bis in salsa greca, la detenzione di rigore nei confronti dei detenuti accusati o condannati definitivamente per terrorismo, ma anche dei prigionieri comuni per reati di grave entità. Queste azioni di governo rischiano però di aprire qualche focolaio di tensione con Anel, il partito di destra - quindi non assolutamente sensibile a queste tematiche - che garantisce a Syriza la maggioranza in Parlamento. Ma non è detto che non trovino voti tra i moderati di centro sinistra per tradurre in legge questi loro intenti di carattere umanitario e di rafforzamento dello stato di diritto. Egitto: i migranti-prigionieri di Karmooz, da 112 giorni dietro le sbarre di Chiara Cruciati Il Manifesto, 21 febbraio 2015 Egitto. Fuggiti dalla Siria, 73 palestinesi e siriani abbandonati dai trafficanti d'uomini in mare sono ancora oggi detenuti dal Cairo. Da 10 giorni 50 di loro rifiutano il cibo per chiedere la libertà. Da 112 giorni Mohammed Darwish è detenuto in Egitto nella stazione di polizia di Karmooz. Non è un criminale, è un migrante. Mohammed è palestinese: la sua famiglia prima del 1948 viveva nel villaggio di al-Shajara, a Tiberiade. Le milizie sioniste l'hanno cacciata dalla propria casa. Hanno trovato rifugio in Siria: Mohammed è nato nel campo profughi palestinese di Homs. Da 10 giorni Mohammed e altri 49 migranti siriani e palestinesi rifiutano il cibo per avere indietro la libertà, nel silenzio delle organizzazioni internazionali mondiali. Mentre in Italia si levano le voci di chi grida all'invasione islamista, il dramma reale è quello dei migranti che tentano di raggiungere le nostre coste: per la prima volta l'anno appena trascorso ha visto l'arrivo di siriani e palestinesi, migranti di guerra e non di fame. "Ho deciso di lasciare la Siria all'inizio del 2014 - racconta al manifesto Mohammed, dalla stazione di polizia di Karmooz. La situazione era degenerata". Gli anni precedenti Homs, ribattezzata dai media occidentali "la sposa della rivoluzione", era diventata roccaforte delle opposizioni dell'Esercito Libero Siriano, ma anche di gruppi islamisti come al-Nusra. Dopo tre anni di assedio, Damasco ha ripreso la città. "Ero ricercato dalla polizia siriana perché non avevo svolto il servizio militare. Lavoravo come direttore di un'organizzazione per bambini del campo. La mia attività, come quella di altri attivisti, era malvista. Vivevamo nella paura di raid dentro il campo, c'erano molti arresti e alla fine, dopo una bomba in un negozio, la gente del campo ha cominciato a far pressione sui gruppi armati ribelli perché consegnassero se stessi e le armi. Poco dopo ho deciso di lasciare Homs". Il 23 febbraio 2014 Mohammed saluta i genitori e la sorella. Per affidarsi nelle mani di un trafficante siriano: "Ho pagato mille dollari per farmi portare in Turchia e poi in Italia - continua - Amici che avevano compiuto la traversata prima di me mi avevano dato informazioni. Avevo optato Svezia, dove vivono mia sorella e mia zia, ma mio fratello minore è riuscito ad arrivare in Olanda. Quella era la mia nuova meta". Quella mattina alle 8 Mohammed sale su un'auto insieme ad altri palestinesi in fuga. L'autista riesce a portarli al di là del primo checkpoint governativo, per entrare nelle zone controllate ancora da sacche di ribelli: "Il primo giorno abbiamo attraversato 4 checkpoint, ogni volta il cuore mi balzava in gola". I giorni successivi Mohammed e i suoi compagni di viaggio cambiano tre auto e tre autisti, passano posti di blocco dello Stato Islamico e delle opposizioni, verso nord attraverso Hama e Aleppo. Fino a Bab al-Hawa, frontiera con la Turchia: "La notte precedente al grande salto non abbiamo chiuso occhio. La mattina dopo a bordo di una barca abbiamo attraversato un fiume. Eravamo in Turchia. Ma non era finita: siamo rimasti là per dei mesi, aspettando che un barcone ci portasse in Europa". Ad ottobre il gruppo di siriani e palestinesi si era ingrossato: 104 persone. Era ormai l'ora della partenza: il 25 ottobre comincia il viaggio, nove giorni in mare. "In acque internazionali abbiamo scoperto che il trafficante aveva intascato tutto e non aveva versato la quota al proprietario del barcone. È iniziato il nostro calvario: ci hanno trasferito da una barca all'altra sotto la minaccia delle armi. Dicevano di volerci gettare a mare. Alla fine ci hanno abbandonato in un'isola egiziana disabitata". Era l'1 novembre. È spuntato un telefono, qualcuno ha chiamato in Egitto. Poco dopo la guardia costiera egiziana è giunta a portarli in salvo, nel porto di Abukir. "Quella stessa sera ci hanno rinchiuso nella stazione di polizia di Karmooz, a Alessandria - ci racconta Mohammed. Ci hanno diviso in tre gruppi e mandato in tre diverse celle-dormitorio. Sono cominciati gli interrogatori, prima della polizia, poi della procura generale. Il Cairo ha trovato un accordo con la Coalizione Nazionale Siriana (la federazione delle opposizioni moderate al presidente Assad, ndr) e deciso di liberare i cittadini siriani. Solo loro. Così 31 siriani con in mano il passaporto sono stati rimandati in Turchia dove sono stati accolti dalla Coalizione, gli altri 15 siriani senza passaporto sono ancora in Egitto. Noi, palestinesi rifugiati, non contiamo abbastanza: siamo tutti detenuti, tutti e 58. Siamo prigionieri "liberi", non siamo ufficialmente accusati di nulla né detenuti ma non possiamo andarcene". Sono 73 quelli ancora rinchiusi a Karmooz: tra loro 8 donne e 15 bambini. Hanno aperto una pagina Facebook, Karmooz Refugees, e 50 di loro hanno lanciato il 9 febbraio lo sciopero della fame: "L'ambasciata palestinese in Egitto non fa nulla. Anzi, ci fa pressioni per farci accettare qualsiasi soluzione. Di che soluzione parlano? Non ce ne sono e noi vogliamo solo tornare dalle nostre famiglie. L'Unhcr ci assicura un pasto al giorno: riso, un pezzo di pane, un pomodoro e un cetriolo. Ogni due settimane un medico Onu ci visita, in molti casi servono analisi approfondite, ma non possiamo uscire. Non c'è riscaldamento: per la notte abbiamo tre coperte a testa, una la usiamo come materasso. Siamo stanchi". Prigionieri di trafficanti di uomini prima e ora delle autorità egiziane, quelle del nuovo alleato di ferro al-Sisi la cui crociata anti-islamista va premiata, dicono Washington e Bruxelles. Tanto a pagare sono gli ultimi. Venezuela: incriminato il Sindaco di Caracas, è stato rinchiuso nel carcere dei "golpisti" Agi, 21 febbraio 2015 In Venezuela è stato convalidato l'arresto del sindaco di Caracas, Antonio Ledezma, incriminato da un magistrato per "cospirazione e associazione" in attività sovversiva per il presunto coinvolgimento in un piano golpista sostenuto dagli Stati Uniti. Il 59enne oppositore del presidente Nicolas Maduro, rieletto nel 2013, è stato rinchiuso nel carcere militare di Ramo Verde, nella periferia della capitale, dove da un anno esatto è detenuto Leopoldo Lopez, un altro leader del movimento anti-chavista. Ledezma era stato arrestato venerdì con uno spettacolare blitz in cui gli agenti avevano sfondato la porte del suo ufficio e sparato in aria. L'arresto giunge a un anno dall'inizio delle proteste dell'opposizione che chiedevano le dimissioni di Maduro, il successore del defunto presidente socialista Hugo Chavez, che innescarono scontri e la morte di 43 persone e che portarono all'arresto di Lopez. La popolarità di Maduro è scesa al 20% a causa della crisi che attanaglia il Paese sudamericano dove scarseggiano i beni di prima necessità e l'inflazione è alle stelle. Gli Stati Uniti, che di recente hanno approvato un altro pacchetto di sanzioni contro funzionari del governo venezuelano, si sono detti "profondamente preoccupati per il clima di crescente intimidazione contro gli oppositori", come ha sottolineato l'assistente del Segretario di Stato Roberta Jacobson. "L'unico modo per risolvere i problemi del Venezuela", ha ribadito, "è il dialogo tra i venezuelani e non il tentativo di mettere a tacere le critiche". Gran Bretagna: due killer presto sposi, primo matrimonio gay in prigione Agi, 21 febbraio 2015 Si terrà a breve nel Regno Unito il primo matrimonio gay della storia fra due detenuti omosessuali. Due britannici in carcere per omicidio, Mikhail Ivan Gallatinov di 40 anni e Marc Goodwin di 31 anni, hanno ottenuto il via libera dal ministero della giustizia e da un tribunale per sposarsi nella prigione di Full Sutton, East Yorks. I giudici che hanno acconsentito alla cerimonia hanno tuttavia vietato alla coppia di condividere la stessa cella dopo il matrimonio. Entrambi sono in carcere, ma per omicidi differenti, da diversi anni. In particolare Goodwin era stato condannato a 18 anni di prigione nel 2007 per un omicidio a sfondo omofobico. Come riporta il Daily Mirror, l'uomo faceva parte di una gang che imperversava a Blackpool, nota località balneare nell'Inghilterra occidentale, e che era dedita ai pestaggi di omosessuali. Da quando il matrimonio gay è legale, nel marzo del 2014, le autorità non possono vietare le unioni dello stesso sesso in prigione. Russia: concorso tra i detenuti per la costruzione di armamenti con ghiaccio e neve www.rainews.it, 21 febbraio 2015 In Siberia gara tra detenuti in occasione di una festa nazionale per costruire carri armati e missili con la neve ed il ghiaccio 20 febbraio 2015I funzionari del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria russa della città di Omsk in Siberia (55 Fsin) in occasione della festa nazionale Giornata del difensore della patria (ex Festa dell'Armata Rossa) hanno indetto un concorso particolare tra le squadre dei detenuti - la costruzione degli armamenti pesanti in grandezza naturale con la neve e il ghiaccio. Missile di neve (Fonte: Amministrazione penitenziaria russa) Le foto delle opere vincitrici sono state caricate sul sito ufficiale dell'Amministrazione penitenziaria locale. Il primo posto è stato assegnato alla squadra che ha costruito il super sofisticato missile balistico su rampa mobile "Topol-M" elaborato nei minimi dettagli, comprese le luci di posizionamento. Il secondo posto se lo è aggiudicato la squadra che ha costruito il carro armato russo della Seconda Guerra Mondiale "T-34", anche questo fedele all'originale nei minimi particolari.