Giustizia: l'ultima vergogna del carcere di Michele Serra La Repubblica, 19 febbraio 2015 C'è solo una cosa peggiore del rosario di odio e di bestialità snocciolato, a proposito del suicidio di un ergastolano rumeno nel carcere di Opera, da alcuni agenti di custodia sulla pagina Facebook del loro sindacato ("uno di meno" è il commento che li riassume tutti). Questa cosa peggiore è la motivazione con la quale i responsabili di quel sito hanno rimosso quei commenti disumani. Non sono stati cancellati perché ripugnanti. Non perché inaccettabili da parte di dipendenti dello Stato, e sulla pagina ufficiale di un sindacato; non perché esultare per una morte è comunque, ovunque disgustoso; ma perché "hanno ingenerato strumentalizzazioni tali da comportare un possibile danno di immagine al Corpo di Polizia penitenziaria". Come sia possibile "strumentalizzare" frasi che, in perfetta autonomia e chiarezza, esprimono giubilo per la morte di un disgraziato, non è lecito sapere. Quello che si sa, invece, è che uno dei veri, profondi problemi del nostro Paese, quasi al completo, è l'atroce ipocrisia che impedisce di attribuire un senso, una gravità, una responsabilità agli atti, ai comportamenti, alle parole delle persone. Una per una, individuo per individuo, cittadino per cittadino. Gli episodi di progressiva retrocessione delle forze dell'ordine a una mentalità, come dire, pre-statale e pre-costituzionale, da guerra per bande, da squadre di bravacci dedite solamente allo spirito di corpo e del tutto dimentiche dei propri doveri d'ufficio, sono purtroppo numerosi. Un sindacato (qualunque sindacato) ha il dovere e il diritto di denunciare le condizioni di durezza, di basso salario, di scarsa considerazione nelle quali lavorano i suoi iscritti. Lavorare nelle carceri e in generale per l'ordine pubblico, per garantire la tranquillità e la pace di chi ha la pancia piena, non è facile e meriterebbe maggiore rispetto e considerazione da parte dello Stato e della collettività intera. Ma uomini in divisa che ragionano (e scrivono) da delinquenti, con un gergo cinico e sbracato, perdono il diritto a qualunque rivendicazione. Loro sì che strumentalizzano e sputtanano la giusta casa di chi, per pochi quattrini, fa il proprio difficile dovere nelle carceri. È in atto un processo, preoccupante, di proletarizzazione dello Stato e dei suoi servitori, esposti a una deriva di frustrazione e di arretramento sociale. Da Bolzaneto in poi, questo processo non è più occulto; e la fibrillante visibilità dei social network non fa che metterlo in luce in tutta la sua desolante carica autodistruttiva. L'episodio di ieri, per quanto solo verbale, ha innescato, e per fortuna, una severa reazione delle istituzioni e di larga parte dell'opinione pubblica. Sarebbe bello se perfino i responsabili di quella pagina Facebook e di quel sindacato, invece di perdere il loro tempo con la scemenza ipocrita delle "strumentalizzazioni", si mettessero al lavoro per esigere, dallo Stato, più rispetto, più diritti, più quattrini; e dai loro iscritti, una considerazione più alta, o almeno più decente, del proprio lavoro, dunque di se stessi. Agenti di custodia che ragionano e si esprimono come ultras da strapazzo tradiscono non solo la propria uniforme, ma anche quel poco o tanto di civiltà che resta in quel deposito di carne che sono le carceri italiane. Giustizia: detenuto romeno si impicca, alcuni agenti lo insultano su Facebook di Luca Fazio Il Manifesto, 19 febbraio 2015 Ioan Gabriel Barbuta, 39 anni, domenica scorsa si è tolto la vita nel carcere di Opera (Mi). Sul social network del sindacato Alsippe alcuni poliziotti penitenziari si felicitano per il suo gesto. C'è chi esulta: "Uno di meno, spero che abbia sofferto". E chi si augura "più corde e sapone". Il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria ha aperto un'indagine interna e già oggi riferirà al ministro della Giustizia Andrea Orlando Il detenuto Ioan Gabriel Barbuta, 39 anni, rumeno, una condanna definitiva all'ergastolo per omicidio, domenica scorsa ha deciso di mettere fine alla sua esistenza. Si è impiccato in cella nel carcere di Opera, alle porte di Milano. Sono tragedie piuttosto comuni che non scandalizzano gli addetti ai lavori: nel 2014 si sono uccisi 43 detenuti, significa che più o meno ogni otto giorni le guardie penitenziarie devono raccogliere un cadavere. "Purtroppo, nonostante il prezioso e costante lavoro svolto dalla polizia penitenziaria, pur con le criticità che l'affliggono, non si è riusciti a evitare tempestivamente ciò che il detenuto ha posto in essere nella propria cella", si legge in un comunicato del sindacato Sappe. Questa volta però non ci sono solo le note ufficiali a sottolineare il sesto suicidio del 2015 nelle carceri italiane. Ci sono anche le considerazioni che alcuni agenti di un altro sindacato di polizia penitenziaria (Alsippe) hanno postato su una pagina Facebook. Sono cose che fanno schifo anche solo a pensarle, ma è molto istruttivo vederle esibite con tanta leggerezza sui social network, perché a commentare la notizia sono stati poliziotti penitenziari. Il primo a pronunciarsi esibisce anche i titoli, dice di essere un ispettore presso il ministero della Giustizia: "Ottimo speriamo abbia sofferto". Il commento successivo concorda: "Uno di meno, che sicuramente non avrebbe scontato la pena per intero, ci sarebbe costato parecchi denari e che all'uscita avrebbe creato di nuovo problemi. Spero che abbia sofferto". Sembra quasi il programma di un partito politico, o un sondaggio su ciò che pensa l'opinione pubblica. A seguire una ventina di commenti. "Consiglio di mettere a disposizione più corde e sapone". E ancora: "Collega scala la conta". La categoria solidarizza anche: "Sicuramente i NS colleghi saranno indagati! E che cazzo vuoi mettere che la vita di un delinquente, non debba essere tutelata e chi come noi lavora in mezzo a questa feccia umana non debba subire la giusta punizione!!". Solo un tale invita gli agenti a non insultare i morti. Questa la risposta sgrammaticata: "Lavora all'interno. Poi vedrai. Specialmente extracomunitari. X questo mestiere devi ava er core nero". I nomi non sono stati resi noti, ma sembra che alcuni siano rappresentanti sindacali. Identificarli non sarà difficile. Luigi Pagano, vice capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (Dap), non sembra disposto a fare sconti. Conosce come pochi altri la realtà del carcere, per una vita è stato direttore di San Vittore. "È una cosa indegna - spiega - abbiamo incaricato il nostro nucleo investigativo di ricostruire i fatti. Se sarà accertato che gli autori di quei commenti sono poliziotti penitenziari, ovviamente agiremo di conseguenza anche in sede disciplinare". E ancora: "Commentare con uno di meno o frasi simili la morte di un detenuto significa oltraggiare una persona e allo stesso tempo offendere anche un corpo, quello della polizia penitenziaria, che ogni giorno lavora per rendere più umane le carceri italiane e per fare fronte alle tante difficoltà quotidiane che si incontrano nell'ambiente penitenziario. Quanto accaduto è davvero inaccettabile". Dura, ma non potrebbe essere diversamente, anche la presa di posizione del segretario del Sappe, Donato Capece: "Esultare per la morte di un detenuto è cosa ignobile e vergognosa. Il suicidio in carcere è sempre, oltre che una tragedia personale, una sconfitta per lo stato. Chi ha dato dimostrazione della sua stupidità ed insensibilità se ne assumerà le responsabilità". Le indagini non dovrebbero incontrare ostacoli. Il ministro della giustizia, Andrea Orlando, già oggi convocherà il capo del Dap per conoscerne l'esito. E nei prossimi giorni incontrerà le sigle sindacali della polizia penitenziaria "per discutere dell'accaduto e di come evitare che simili inqualificabili comportamenti possano ripetersi". Poi dovrà rispondere a un'interrogazione parlamentare presentata da Sel, "si tratta dell'ennesimo episodio che conferma la necessità di una commissione di indagine parlamentare sulle morti in carcere" ha commentato Daniele Farina. I non troppi politici che hanno espresso disgusto, tra cui molti senatori del Pd che si sono appellati al ministro, invocano punizioni esemplari. Giusto, ma sarebbe il minimo sindacale. Forse, per non derubricare la vicenda nel solito capitolo delle "poche mele marce", sarebbe meglio capire come intendono relazionarsi le amministrazioni penitenziarie con quella nuova sigla sindacale che prima ha ospitato e poi rimosso quei commenti. Giustizia: le condizioni disumane delle carceri diventano notizia solo se… di Giuseppe Candido Il Garantista, 19 febbraio 2015 Suicidio al carcere di Opera, a Milano. Il Sappe lancia l'allarme per le condizioni inumane dei penitenziari, ma per Repubblica.it la notizia diviene un'altra. La versione online del quotidiano diretto da Ezio Mauro, mercoledì 18 febbraio, pubblica un articolo a firma di Giuliano Foschini e Marco Mensurati, col titolo in bella evidenza su alcuni commenti usciti sulla pagina Facebook di un sindacato di polizia penitenziaria: "Suicidio in carcere, atroci commenti di alcuni agenti su Fb: Uno di meno". "Un uomo si suicida nel carcere di Opera", scrivono i due giornalisti. Ma aggiungono subito dopo: "gli agenti di Polizia penitenziaria - come rivela Repubblica.it - si esibiscono in un diluvio di commenti di questo genere: "Meno uno". "Un rumeno in meno", "mi chiedo cosa aspettino gli altri a seguirne l'esempio". Nessuno cenno alla condizione ancora disumana e degradante delle carceri che nell'ottobre 2013 ha indotto il presidente della Repubblica emerito Giorgio Napolitano a inviare - secondo l'articolo 87 della Costituzione - un messaggio alle Camere per chiedere di "riconsiderare le ostilità a un provvedimento di amnistia e indulto". Un messaggio ancora tragicamente attuale e che come Radicali, proprio perché rimasto inascoltato dal Parlamento cui era rivolto, abbiamo deciso di mettere al centro della nostra iniziativa politica. Per ottenere qualche condivisione in più sui social, i giornalisti aggiungono la frase ad effetto: "L'ultima vergogna italiana è qui, in un gruppo Facebook di un sindacato di agenti, dove nelle ultime ore si è scatenata una caccia all'uomo che rischia di avere gravi conseguenze". Trattandosi di un articolo online uno si aspetterebbe di trovare almeno il collegamento che conduce alla pagina incriminata dove, secondo gli autori, sono apparsi questi commenti che consentono di dire: è Repubblica ad aver "rivelato" la notizia. Invece niente, c'è solo una immagine di alcuni commenti su Facebook senza che si capisca nemmeno su quale pagina siano. Poi si scopre che questi commenti sono stati fatti sulla pagina di un piccolo sindacato di polizia, l'Al.Si.Ppe., che tra l'altro ha subito rimosso i commenti incriminati scusandosi: "Non è nostra abitudine censurare i commenti dei nostri followers pubblicati sul nostro profilo di Facebook, ma visto il contenuto e fermo restanti le responsabilità personali per quanto si afferma scrivendo su Facebook alcune frasi riportate, hanno ingenerato una strumentalizzazione tale da comportare un possibile danno di immagine al Corpo di Polizia penitenziaria. Oltre a non essere assolutamente condivisibili da parte del nostro sindacato, pertanto abbiamo ritenuto opportuno cancellarli". Meglio tardi che mai, verrebbe da commentare. Ma allora la domanda è un'altra: quale è la notizia per Repubblica? Quella delle carceri sulle quali il giornale vuol far notare di essere attenta, o piuttosto quella che sono apparsi commenti indecenti relativamente al suicidio del cittadino rumeno? Per gli autori dell'articolo evidentemente la seconda. E in realtà Repubblica non rivela proprio un bel niente perché - ad onore del vero - a dare la notizia dell'ennesimo suicidio nelle patrie galere, il sesto del 2015, è stato direttamente il Sappe Lombardia, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria, con un comunicato diramato dal segretario Donato Capece che aveva posto al centro quello che definiva "un'emergenza purtroppo ancora sottovalutata, anche dall'Amministrazione penitenziaria". Un comunicato che era stato ripreso dalla carta stampata de Il Giornale, nelle pagine di Milano, il giorno 15 febbraio e, successivamente, dalle Cronache del Garantista, quotidiano molto attento alla tematica delle carceri, con un bell'articolo di Damiano Aliprandi pubblicato sulla versione cartacea martedì 17 e che, a differenza di Repubblica, si occupava dell'"uomo", del cittadino rumeno che non c'è più, di una persona che ha preferito togliersi la vita in carcere. Si trattava lì di voler documentare una condizione vergognosa, quella sì, di carceri in cui anche agenti, operatori sanitari e direttori, sono spesso vittime di uno stato che non rispetta più la sua stessa legge né quella internazionale e continua a trattare in modo inumano e degradante i detenuti e, con loro, tutto il personale che in quelle condizioni lavorano ogni giorno. La cosa strana è che sia la notizia dei commenti su Fb apparsa sul sito di Repubblica.it solo il 18 febbraio, sia quella sullo stesso sito ma relativa al "fatto" che porta la data del 14 febbraio, non sono mai stati pubblicate su carta, ma solo nella versione digitale. Giustizia: Luigi Pagano (Vicecapo Dap) "una vergogna per tutti gli uomini in divisa…" di Giuliano Foschini e Marco Mensurati La Repubblica, 19 febbraio 2015 C'è una cosa che mi fa particolarmente male di questa storia". Quale? "Il ricordo di tutte le volte in cui ho visto colleghi correre per provare a salvare detenuti con i polsi tagliati, o magari con il collo in qualche cappio. Ne hanno salvati tanti e li ho visti piangere quando non ce la facevano. Quei commenti sono un pugno alle nostre divise, al nostro impegno, al nostro lavoro". Luigi Pagano è il vice capo del Dap e, insieme con il numero uno Consolo, segue il caso denunciato da Repubblica.it. "C'era arrivata una segnalazione e avevamo già avviato un'indagine interna. Perché è una cosa indegna. Il nostro nucleo investigativo si è messo immediatamente al lavoro per ricostruire i fatti e valutare la portata delle frasi. Non posso per il momento dire niente sull'indagine anche perché i nostri vertici relazioneranno al ministro. Ma se sarà accertato che gli autori di quei commenti sono agenti penitenziari, agiremo di conseguenza in sede disciplinare. E non faremo sconti". Quegli agenti dicono che sono spinti alla barbarie dalle condizioni disumane nelle quali sono costretti a lavorare. "Questo è un altro discorso, ma non bisogna mischiare le cose. Commentare con "uno di meno", o "portate altre corde" una cosa tremenda come la morte di un detenuto, significa non solo oltraggiare la memoria di una persona ma offendere anche un corpo, quello della Polizia penitenziaria, che ogni giorno lavora per rendere più umane le carceri e per far fronte alle tante difficoltà quotidiane dell'ambiente penitenziario". Cosa rischiano ora quegli agenti? "Lo valuteranno i nostri organi ispettivi. Se si accerterà che ci sono agenti in servizio, si valuterà caso per caso: si va dalla censura, che però in un caso gravissimo come questo non so quanto sarebbe adeguata, alla sospensione del servizio fino all'allontanamento dal corpo". Giustizia: cacciateli via, non sono degni della divisa che portano di Donato Capece (Segretario Sindacato di Polizia Penitenziaria Sappe) Il Garantista, 19 febbraio 2015 Esultare per la morte di un detenuto è cosa ignobile e vergognosa. Il suicidio in carcere è sempre - oltre che una tragedia personale - una sconfitta per lo Stato. E ci vuole rispetto umano e cristiano ancor prima di quello istituzionale. Chi ha dato dimostrazione della sua stupidità ed insensibilità se ne assumerà le responsabilità. Quel che è certo è che individui che si rendono protagonisti di commenti così spaventosi verso un detenuto che si è tolto la vita, e così infamanti verso chi davvero, ogni giorno ci mette il cuore e il coraggio per rendere il più dignitosa possibile la vita dei carcerati, non rappresentano affatto le donne e gli uomini del Corpo Polizia Penitenziaria che ogni giorno lavorano nelle carceri con professionalità, abnegazione ma soprattutto umanità. Anzi, quanti si rendono protagonisti di dichiarazioni così insensate e poco rispettose della dignità umana danneggiano quanti operano ogni giorno in mezzo a enormi difficoltà e anzi sono spesso solidali con le esigenze dei detenuti spesso costretti a vivere in carceri inadeguati e incivili. Mi auguro che esternazioni così stupide e truci esternazioni, ancorché pubblicate sul profilo Facebook di una organizzazione sindacale assolutamente minoritaria, siano adeguatamente sanzionate da chi di dovere. Proprio in quella sede, una serie di utenti ha postato commenti che hanno dell'incredibile: "consiglio di mettere a disposizione più corde e sapone", "meno uno", oppure "lui è morto ma ora saranno indagati i nostri colleghi". Chiediamo che i responsabili di simili ignominie siano sottoposti a giudizio dagli appositi organi, e che vengano immediatamente destituiti. All'indomani della tragica morte del ragazzo, nel carcere di Opera, ho voluto ricordare la professionalità, la competenza e l'umanità che ogni giorno contraddistingue l'operato delle donne e degli uomini della polizia penitenziaria di Opera con tutti i detenuti per garantire una carcerazione umana e attenta pur in presenza ormai da anni di oggettive difficoltà operative come le gravi carenze di organico di poliziotti e le strutture spesso inadeguate. Siamo attenti e sensibili, noi poliziotti penitenziari, alle difficoltà di tutti i detenuti, indipendentemente dalle condizioni sociali o dalla gravità del reato commesso. Chi mostra di avere il "core nero", e per di più se ne vanta, deve essere allontanato subito da un luogo come il carcere che richiede piuttosto umanità appassionata e lealtà. Lealtà verso lo Stato, ma anche verso l'uomo. Anche verso l'uomo che sbaglia. Giustizia: Orlando "più diritti agli islamici in carcere, per evitare che passino alla jihad" di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 19 febbraio 2015 Il ministro della Giustizia Andrea Orlando propone di garantire le occasioni di culto Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha un obiettivo ambizioso: "Far sì che il rispetto dei diritti dei detenuti di religione islamica, oltre che doverosa applicazione dei principi costituzionali, sia anche strumento per prevenire la radicalizzazione e il reclutamento fondamentalista; una via per contrastare il proselitismo di chi ci vede come nemici dell'Islam". Il dato di partenza è una popolazione carceraria con circa diecimila "ristretti" provenienti da Paesi musulmani, seimila dei quali religiosi praticanti. In settanta penitenziari ci sono già ambienti adibiti a luoghi di culto. "Ma - spiega Orlando, premesso che stiamo operando per diminuire il numero dei detenuti trasferendoli nei Paesi d'origine, bisogna fare di più. L'effettiva tutela dei diritti fondamentali dell'individuo in generale, e nel carcere in particolare, è un elemento primario di contenimento del rischio di radicalizzazione. Anche perché abbiamo sperimentato l'esempio contrario: vicende come quella di Guantánamo dimostrano che, come sostenuto dall'indagine del Senato Usa, misure estreme, oltre a violare i diritti fondamentali delle persone, non sono di ausilio effettivo nella lotta al terrorismo globale ma rischiano di alimentarlo". Da dove nasce questa convinzione, ministro? "Anche da un dato di fatto: alcuni autori dei gravissimi attentati che si sono verificati di recente, a Parigi come a Copenaghen, hanno visto nascere o crescere il loro estremismo proprio nelle prigioni, dove si sono probabilmente rafforzati i rapporti con organizzazioni radicali e violente". Qual è, allora, la risposta giusta? "Garantire e far rispettare i diritti, la cui negazione è il primo presupposto del reclutamento radicale. Impedire la pratica legittima del culto religioso significa innescare una vera e propria bomba. Allo stesso tempo, però, bisogna evitare che le pratiche di gruppo diventino un mezzo di proselitismo che alimenti il pericolo. La linea di confine è molto sottile, bisogna essere attenti e bravi. Per questo ci stiamo impegnando anche a tessere rapporti con le comunità islamiche e a inserire nel circuito il maggior numero possibile di mediatori culturali". Per controllare ciò che avviene nelle "moschee" attrezzate all'interno dei penitenziari? "No, questo è impossibile. Il compito di acquisire informazioni in chiave antiterrorismo spetta ad altri; non a caso abbiamo consentito, con il decreto legge appena approvato, che i servizi segreti, con precisi presupposti, possano accedere negli istituti per colloqui informativi. Per parte nostra dobbiamo creare e far rispettare un clima che favorisca la convivenza e il rispetto di tutti. Tutti gli operatori carcerari devono esserne consapevoli". Detto nel giorno in cui alcuni agenti della Polizia penitenziaria hanno inneggiato al suicidio di un detenuto rumeno, suona un po' velleitario. "Si tratta di un episodio intollerabile, per il quale abbiamo già avviato accertamenti, e chiesto alle organizzazioni sindacali di prendere le distanze. Ma mi sento di dire che si tratta di un fatto tanto inaccettabile quanto isolato, che non va enfatizzato: sono certo che i sentimenti degli agenti penitenziari non si confondono con quelle posizioni". Dalle carceri arrivano segnali di pericolo per la sicurezza? "Registriamo atteggiamenti ostili e conflittuali di detenuti di origine musulmana, che non dobbiamo generalizzare. Non tutti coloro che protestano, anche in maniera sbagliata o illegale, sono potenziali terroristi. Tuttavia monitoriamo ogni segnale e siamo in grado di intervenire con fermezza". Non teme accuse di "buonismo", nel momento in cui la minaccia del terrorismo di matrice islamica viene esaltata ai massimi livelli? "No, visto che con il decreto abbiamo introdotto i reati per contrastare i foreign fighters, rafforzato i poteri dell'intelligence e il coordinamento tra gli inquirenti. E poi sono proprio le strutture del terrorismo a giovarsi di reazioni arbitrarie e contrapposizioni di civiltà che rendono più agevole il reclutamento tra chi è nato e cresciuto in Occidente. Anche perché non siamo di fronte a organizzazioni strutturate in maniera tradizionale, con affiliazioni e gerarchie ben definite, bensì a un fenomeno che indica nemici da colpire, rispetto ai quali chiunque, pure da solo, può decidere di agire come e quando crede. Del resto io non rivendico nessuna particolare intuizione; quello che sto dicendo non è altro che la posizione espressa dall'Unione europea su questi temi". Lei ha fatto cenno ai nuovi poteri assegnati anche ai Servizi all'interno delle carceri, auspicando però che se ne faccia "un uso prudente". Vede qualche rischio? "Più che segnalare rischi intendo sottolineare che si tratta di norme fondamentali nell'azione di contrasto varate in una situazione eccezionale, e le agenzie di intelligence sono le prime ad esserne consapevoli. Dobbiamo evitare che regole funzionali a colpire un determinato fenomeno diventino la regola generale, che contrasterebbe con i principi fondamentali dell'ordinamento". Orlando: con compressione diritti detenuti rischio è effetto boomerang (Ansa) Occorre contenere i rischi di radicalizzazione nelle carceri, tenendo presente che oltre un terzo dei detenuti proviene da paesi islamici. Lo ha detto il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, nel corso di un convegno della fondazione Icsa. Le carceri, ha spiegato, "sono dei luoghi in cui si può strutturare una visione estremista dell'Islam, con capacità di proselitismo, ma bisogna assicurare il diritto di culto negli istituti per evitare l'effetto boomerang come Guantánamo". Orlando ha ricordato che tra le misure contenute nel decreto antiterrorismo approvate la settimana scorsa, c'è anche quella che consente agli agenti dei servizi segreti di fare colloqui in carcere, dietro richiesta del premier e previa autorizzazione del procuratore generale della Corte d'appello di Roma. È una novità, ha aggiunto, "per la quale auspico un uso prudente: può essere uno strumento efficace per acquisire informazioni essenziali". Secondo il Guardasigilli, "serve una riflessione sui percorsi di radicalizzazione che possono avvenire in carcere, ma bisogna stare attenti a legiferare sotto la spinta del populismo penale. Se si riduce l'area dei diritti c'è il rischio di favorire il proselitismo, agevolando la visione di un Occidente nemico dell'Islam". Ai fini di un efficace controllo di quanto avviene in carcere, Orlando segnala tuttavia tre criticità: "l'incertezza sull'identificazione dei clandestini detenuti, la mancanza di comunicazione con le comunità islamiche fuori dal carcere, la scarsa presenza di mediatori culturali. Sono indispensabili strumenti di sostegno ai detenuti, spesso fragili sul piano culturale, familiare, economico e a rischio" di finire vittime della propaganda jihadista. Giustizia: l'Italia è il Paese europeo con il più numeroso personale penitenziario Agi, 19 febbraio 2015 L'Italia è il Paese europeo con il più numeroso personale penitenziario, dopo la Russia, nonostante abbia una popolazione carceraria meno ampia rispetto ai principale paesi europei. Lo segnala il rapporto annuale del Consiglio d'Europa, pubblicato nel mese di febbraio. Il Consiglio d'Europa è un'organizzazione che non fa parte dell'Unione europea, anche se comprende tutti i membri Ue, più gli altri paesi del continente europeo, dall'Islanda alla Turchia, dalla Russia all'Azerbaijan. Il rapporto sulle carceri pubblicato a febbraio fa la fotografia della situazione nei 50 paesi membri aggiornata al settembre 2013. A quella data, l'Italia risulta essere, dopo la Russia, il paese europeo con il più numeroso personale carcerario, pari a 45.772 unità. In Russia il personale carcerario ammonta a circa 300.000 unità. In Germania i dipendenti delle istituzioni penitenziarie sono 36.800, in Francia 35.000, in Gran Bretagna 38.600. In Italia il numero più elevato di personale si contrappone a una popolazione carceraria significativamente inferiore a quella di tutti i principali paesi europei, cioè Germania, Francia, Gran Bretagna, ma anche Spagna e Polonia, nonché ovviamente Russia. Il rapporto indica anche il numero di suicidi in carcere per paese. Nel 2012 se ne sono registrati 153 nei penitenziari italiani. Di più solo in Russia (4124), Turchia (345), in Gran Bretagna (192), Spagna (191) e Francia (166). Rispetto al numero totale dei carcerati, però, il tasso di suicidi in Italia è inferiore alla media europea dove si contano 11,1 suicidi per 10.000 carcerati, a fronte di 8,5 su 10.000 in Italia. Giustizia: braccialetti elettronici finiti, così restano in carcere i beneficiari dei domiciliari di Giuseppe Pipitone Il Fatto Quotidiano, 19 febbraio 2015 L'ultimo caso è quello di Pino Faraone, il consigliere comunale palermitano nella lista di Crocetta, accusato di tentata estorsione. Per il tribunale del Riesame può scontare la custodia cautelare presso il suo domicilio. Ma vista l'assenza dei dispositivi è rimasto recluso nel carcere Pagliarelli. Undici milioni di euro per duemila braccialetti ogni anno: cinquemila e cinquecento euro l'uno. Non sono gioielli, non hanno diamanti e preziosi, ma sono delle semplici cavigliere che servono a controllare i detenuti agli arresti domiciliari. Solo che adesso sono finiti. E il risultato è che i detenuti beneficiari dei domiciliari non potranno tornare a scontare la custodia cautelare a casa ma rimarranno in carcere. L'ultimo caso è quello di Pino Faraone, il consigliere comunale palermitano del Megafono, la lista del governatore della Sicilia Rosario Crocetta. Faraone era stato arrestato nel blitz antimafia della procura di Palermo il 9 febbraio scorso: è accusato di tentata estorsione. Quattro giorni dopo il Tribunale del Riesame accoglie la richiesta dei legali di Faraone e gli concede gli arresti domiciliari. Solo che i giudici hanno dato al consigliere comunale la possibilità di scontare la custodia cautelare a casa sua, vincolandola con l'applicazione del braccialetto elettronico. Che però, come racconta il quotidiano livesicilia.it, sono esauriti: e in attesa che se ne liberi uno, Faraone è rimasto recluso nel carcere Pagliarelli di Palermo. Solo l'ultimo imbarazzante episodio di una vicenda tragicomica. La storia dei braccialetti elettronici comincia nel 2001 con un primo accordo tra il Ministero dell'Interno e la Telecom. All'inizio l'utilizzo delle cavigliere elettroniche era previsto solo nelle province di Milano, Torino, Roma, Napoli e Catania. Poi nel 2003 Telecom sottoscrive un altro accordo, che prevede la fornitura di 400 braccialetti in tutta Italia. Il costo è di dieci milioni l'anno fino al 2011: il totale ammonterà alla fine a ottantuno milioni tondi. Peccato che nel frattempo i braccialetti usati siano soltanto quattordici. Cinque milioni per ogni cavigliera: una spesa bacchettata aspramente anche dalla Corte dei Conti. Ecco dunque che nel 2013 parte il nuovo appalto: se lo aggiudica sempre la Telecom che questa volta fornisce duemila braccialetti di controllo. A questo punto sembra che la moda delle cavigliere elettroniche esploda nei vari Tribunali del Riesame. Tanto che già il 19 giugno 2014 il capo della Polizia Alessandro Pansa avverte in una circolare che sono attivi "1.600 dispositivi, con una previsione di saturazione del plafond di 2.000 unità entro giugno". Il bello è che il contratto attuale non prevede la possibilità dell'aumento del numero di cavigliere elettroniche da parte di Telecom. Occorrerebbe dunque rifare nuovamente l'appalto milionario. Ipotesi che è già sul tavolo del Ministro dell'Interno Angelino Alfano. Dal Viminale, nell'estate del 2014, facevano sapere di aver "avviato le iniziative volte alla definizione di un Capitolato tecnico da porre a base di una gara per il nuovo servizio di braccialetto elettronico, ma i tempi necessari allo svolgimento della procedura non consentiranno l'attivazione del servizio prima di marzo-aprile del prossimo anno". Tradotto significa che fino alla primavera del 2015 le forze di polizia dovranno farsi bastare i duemila braccialetti elettronici che hanno in dotazione, mentre il numero dei detenuti continua a crescere sfiorando quota 65mila. E chi avrà la fortuna di vedersi riconoscere gli arresti domiciliari, dovrà sperare anche di trovare un braccialetto elettronico libero. Giustizia: ddl anticorruzione; dopo le ultime modifiche prescrizione solo alla Camera di Beatrice Migliorini Italia Oggi, 19 febbraio 2015 Salta l'aumento fino alla metà del termine di prescrizione per i reati contro la pubblica amministrazione. La disposizione, infatti, sarà rinviata nel testo ad hoc al vaglio della commissione giustizia della camera insieme ai nuovi termini di prescrizione per il reato di falso in bilancio. Resta invariato, invece, l'aumento della pena fino alla metà per i recidivi così come previsto dall'art. 161 del codice penale. Continuano le votazioni al ddl anticorruzione in commissione giustizia al senato anche se i tempi rischiano di dilatarsi. Ieri, infatti, dopo aver respinto il primo terzo degli emendamenti presentati all'art. 1 (modifica alle pene per i reati di corruzione), hanno trovato accoglimento solo due proposte di modifica (identiche tra loro) che hanno portato all'eliminazione della lettera c) del comma 1 dell'art. 1. Così facendo, quindi, è stata eliminata la disposizione che prevedeva un amento dei termini di prescrizione fino alla metà per i reati contro la pubblica amministrazione. Disposizioni di questo tipo, infatti, saranno tutte rinviate nel testo al vaglio della commissione giustizia della camera. Stessa sorte, quindi, anche per i termini del falso in bilancio per stessa ammissione del sottosegretario alla giustizia Cosimo Maria Ferri che, a margine della seduta, ha precisato che "la decisione politica è quella di concentrare l'esame sulla prescrizione nel ddl all'esame della camera". Sul fronte falso in bilancio, poi, la commissione continua a restare in attesa della decisione dell'esecutivo. Calendario alla mano, infatti, il testo del ddl anticorruzione è calendarizzato per l'esame dell'aula di palazzo Madama giovedì prossimo. Il rischio, però, è quello di andare in aula senza il mandato al relatore. Le forze di opposizione, infatti, hanno promesso di fare ostruzionismo ad oltranza se il governo non manterrà la promessa di presentare il nuovo testo sul falso in bilancio in commissione e non direttamente in aula. "Non è nostra intenzione rallentare i lavori della commissione", ha spiegato a Italia Oggi Ferri, "abbiamo bisogno di tempo, però, per mettere a punto un testo che trovi la sintesi di tutte le posizioni e sia allo stesso tempo corretto ed efficace da un punto di vista giuridico". Giustizia: pm Piercamillo Davigo; la responsabilità civile dei magistrati è incostituzionale di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 19 febbraio 2015 L'approvazione della responsabilità civile dei giudici si avvicina, e fra le toghe cresce la preoccupazione per una riforma che non piace e crea allarme. L'Associazione nazionale magistrati ha convocato d'urgenza un comitato direttivo straordinario, sabato prossimo, per affrontare l'argomento prima del dibattito alla Camera, che potrebbe essere l'ultimo se passerà il testo già varato dal Senato. A sollecitare questa riunione è stato Piercamillo Davigo, l'ex pm di "Mani pulite" e leader della neonata corrente Autonomia e indipendenza, gli scissionisti del gruppo conservatore Magistratura indipendente. Secondo Davigo il momento è grave, e tocca all'Anm sottolineare "alcuni punti fermi e presupposti costituzionali a tutela dell'indipendenza della magistratura" intaccati dal disegno di legge in via di approvazione. Il primo argomento è la bugia di fondo ribadita a fondamento della riforma, e cioè che la richiesta viene dall'Unione europea; non è così, perché la corte di giustizia esige solo di inserire "la violazione manifesta del diritto dell'Unione" tra le cause di colpa grave di cui i magistrati devono essere chiamati a rispondere. La legge che sta per essere votata, invece, è andata molto più in là. Per esempio eliminando il filtro del tribunale sull'ammissibilità delle richieste di risarcimento. È una delle novità introdotte per impedire la "sostanziale inaccessibilità del rimedio". Davigo ricorda una sentenza della Corte costituzionale secondo cui "la previsione del giudizio di ammissibilità della domanda garantisce adeguatamente il giudice dalla proposizione di azioni manifestamente infondate che possano turbarne la serenità, impedendo, al tempo stesso, di creare con malizia i presupposti per l'astensione e la ricusazione". Senza il filtro, infatti, si metterebbero giudici e pm a rischio di azioni presentate al solo fine di creare condizioni di incompatibilità per liberarsi del magistrato sgradito. "L'abolizione del filtro di ammissibilità è quindi all'evidenza costituzionalmente illegittima", sentenzia Davigo, oggi giudice di Cassazione. Non solo: "L'introduzione del travisamento del fatto e delle prove in termini" tra i nuovi motivi per promuovere l'azione civile contro i giudici, presenta "aspetti di incertezza che rischiano di creare altri gravi problemi". Davigo poi suggerisce di pretendere da subito una limitazione dei "carichi esigibili" di un lavoro che "diventa più rischioso e faticoso", anche a causa della nuova legge sulla responsabilità civile. Una rivendicazione che mette in luce l'aspetto più sindacale che politico della vicenda, da parte della corrente più a destra dei giudici. Ma sulla denuncia dei rischi della riforma sono allineati tutti i gruppi. Compreso quello di sinistra di Area, dall'interno del quale però arriva l'invito a evitare iniziative che rischierebbero di rivelarsi controproducenti, come lo sciopero o lo sciopero bianco. Giustizia: trattativa Stato-mafia; è il giorno di Fabbri, il sacerdote che scelse Capriotti di Patrizio Maggio L'Ora Quotidiano, 19 febbraio 2015 È prevista per stamattina la testimonianza del vice di Cesare Curioni, Capo dei cappellani delle carceri. L'ex presidente Scalfaro avrebbe chiesto ai due sacerdoti di aiutarlo nella scelta del sostituto di Nicolò Amato al vertice del Dap. Il vertici del Dap in sostituzione di Nicolò Amato nel 1993? Li scelsero i sacerdoti dei penitenziari. Ne è sicuro monsignor Fabio Fabbri, ex vice-capo dei cappellani delle carceri, testimone questa mattina al processo sulla Trattativa Stato-mafia. Fabbri era il vice di monsignor Cesare Curioni, capo dei cappellani delle carceri, amico quarantennale del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. E fu proprio l'allora capo dello Stato a convocare i due sacerdoti nel giugno del 1993, quando decise di far fuori Amato dai vertici dell'amministrazione penitenziaria. Al colloquio era presente pure Fabbri, che ha ricordato quell'incontro nel marzo del 2012, deponendo al processo per la mancata cattura di Bernardo Provenzano a Mezzojuso nel 1995. Il presidente della Repubblica Scalfaro spiegò il perché della sostituzione al vertice del Dap? Per Fabbri, Scalfaro non fece mistero di un'antica "ruggine" nei confronti di Amato: "Il suo tempo è finito- si lamentò - una volta lo cercavo e mi ha fatto aspettare due giorni, quando non ero ancora nessuno". Poi, prosegue Fabbri, "il presidente disse che gli avevano fatto tre nomi, e che li aveva nel suo cassetto. Ma nessuno di questi aveva possibilità. Chiese, a me e a Curioni, di aiutare Conso a scegliere il nuovo dirigente del Dap". In pratica una delega per individuare il nome "giusto" che, secondo l'ipotesi accusatoria dei pm Nino Di Matteo, Vittorio Teresi, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene, avrebbe garantito il suo sostegno al dialogo avviato con la mafia sul carcere duro. La mattina successiva all'incontro con Scalfaro, il monsignore ed il suo vice si recarono pertanto dal Guardasigilli Giovanni Conso. E lì fu proprio Fabbri a dare il suggerimento giusto. "Mi venne in mente - ha detto in aula Fabbri al processo Mori-Obinu - che per quel ruolo era perfetto un mio caro conoscente: Adalberto Capriotti, procuratore a Trento, che era un uomo mite, molto religioso, un uomo di chiesa. Conso si alzò: andò nella stanza attigua, consultò dei libroni e disse: si, potrebbe essere! E mi diede incarico di prendere contatti". Fabbri ha però negato l'esistenza di un eventuale rapporto tra pezzi delle Istituzioni e detenuti mafiosi, Fabbri ha replicato. "Quello che so è che i cappellani non hanno mai digerito il 41 bis, l'hanno sempre osteggiato perché era anti-umano, e lo facevano presente nei vari incontri con i vescovi, ma anche con me e soprattutto con Curioni". L'alleggerimento delle condizioni carcerarie per detenuti mafiosi è - nella ricostruzione dell'accusa - uno degli elementi della Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra. Giustizia: caso Ilaria Alpi; Fnsi e Usigrai, oggi finalmente possibile arrivare alla verità Adnkronos, 19 febbraio 2015 "Ancora una volta è stata una inchiesta giornalistica, vera e coraggiosa, a scoprire i fatti e le piste giuste per fornire nuovi elementi per ricostruire la verità storica dell'assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, una delle tragedie e dei misteri italiani. La Fnsi e l'Usigrai chiedono ora che si approfondiscano anche in sede giudiziaria gli elementi emersi dall'intervista di "Chi l'ha visto?" e che si arrivi a quella verità e giustizia che la famiglia Alpi chiede giustamente da 21 anni". È quanto si legge in una nota diffusa dal presidente Fnsi Santo Della Volpe e dal segretario dell'Usigrai Vittorio Di Trapani sul caso della giornalista e dell'operatore uccisi in Somalia. "Ora, infatti, è possibile riaprire le indagini sull'assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. L'importante inchiesta della trasmissione "Chi l'ha visto" di Rai3 con l'intervista al teste Ahmed Ali Rage, detto Jelle, rivela nuovi inquietanti particolari sull'assassinio dei due colleghi giornalisti del Tg3, uccisi a Mogadiscio il 20 marzo di 21 anni fa. Alì Rage ha detto d'essere stato indotto a fare le dichiarazioni false che accusarono un connazionale somalo, Hashi Omar Hassan, oggi in carcere per quel duplice omicidio, condannato anche in Cassazione a 26 anni di pena definitiva", si legge nella nota. "Chi avrebbe indotto il teste Rage a fare quelle accuse? Ci sono coinvolgimenti dei servizi segreti italiani? E se fosse vero quello che il teste ora rivela alla trasmissione ‘Chi l'ha visto?', chi aveva interesse a dare questa versione dei fatti, accusando un innocente? Si voleva chiudere il caso per coprire alte ed altre complicità? C'è materia sufficiente per chiedere la riapertura del caso e del processo", affermano Della Volpe e Di Trapani. "Per scoprire se le dichiarazioni del teste Rage siano vere e se in carcere sia rinchiusa oggi una persona innocente. Ma anche e soprattutto per arrivare ai veri colpevoli e mandati dell'assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hravatin. Una Verità e Giustizia che pretendiamo ed alla cui mancanza non ci siamo mai rassegnati", concludono. Somalo scagionato: voglio essere scarcerato prima possibile "Quando ho saputo che Gelle ha ritrattato ho provato rabbia, perché questa cosa si sapeva da anni" dice Hashi Omar Assan, il somalo in carcere per l'omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, intervistato da Carla Manzocchi per "Restate scomodi", in onda alle 15.40 su Radio1 Rai. Il supertestimone del caso Alpi, Ahmed Ali Rage, detto Gelle, raggiunto dalla trasmissione di RaiTre "Chi l'ha visto", ha ritrattato le sue accuse contro Hashi. "Se Gelle non fosse stato raggiunto da una giornalista" dichiara Hashi Omar Assan "io restavo a farmi 26 anni di carcere perché ai magistrati non interessava. Quelli che mi accusavano erano alla ricerca di un capro espiatorio: mi hanno condannato, e li è finita" Alla domanda: "Cosa farà adesso? chiederà la revisione del processo?" Hashi Omar Assan risponde: "Il mio avvocato chiederà la revisione del processo. Ma ci vorrà qualche mese, io non posso aspettare, voglio essere scarcerato prima possibile, sono tanti anni di carcere senza motivo". Giustizia: caso Chiatti; vizio procedura, annullata ordinanza che dispone la Casa di cura di Giampaolo Grassi Ansa, 19 febbraio 2015 Servirà una nuova udienza per stabilire se Luigi Chiatti, il cosiddetto "mostro di Foligno", una volta scontata la condanna potrà tornare libero o dovrà essere rinchiuso in una casa di cura e custodia. In appello è stata infatti annullata l'ordinanza con cui il magistrato di sorveglianza di Firenze aveva disposto il ricovero di Chiatti quando, fra qualche mese, uscirà dal carcere. La marcia indietro o, meglio, la frenata, è dovuta a una questione procedurale: una relazione psichiatrica è stata allegata agli atti troppo ardi, non lasciando così agli avvocati di Chiatti il tempo necessario per studiarla. In questo modo, dicono i giudici d'appello, è stato violato il diritto di difesa. Insomma, a differenza del magistrato di sorveglianza, che aveva stabilito il ricovero nella casa di cura e custodia rilevando il persistere della pericolosità sociale di Chiatti, stavolta i giudici non si sono pronunciati sulle condizioni psichiatriche del detenuto, ma si sono limitati a rilevare un inciampo burocratico. Chiatti, 47 anni, è in carcere a Prato, dove sta scontando una pena a 30 anni per gli omicidi di Simone Allegretti, 4 anni, e Lorenzo Paolucci, 13, commessi nei primi anni Novanta. Già nella sentenza perugina d'appello del 1996, poi divenuta definitiva, i giudici avevano previsto che, una volta scontata la pena, Chiatti venisse sottoposto a "misura di sicurezza della casa di custodia e cura per anni tre". Il provvedimento era stato confermato nei mesi scorsi dal magistrato di sorveglianza di Firenze che, sulla base anche a una relazione psichiatrica, aveva rilevato in Chiatti l'assenza di "qualsiasi revisione critica e consapevolezza" dei delitti commessi. Secondo il magistrato, in maniera univoca i dati ribadivano la "pericolosità sociale" di Chiatti e la necessità di collocarlo "in un contesto adeguatamente contenitivo". La decisione depositata oggi non mette in discussione queste valutazioni, che si basano sugli stessi atti che avrà a disposizione il nuovo magistrato di sorveglianza chiamato a decidere, per l'ennesima volta, se fra qualche mese Chiatti potrà tornare libero o dovrà essere ricoverato e tenuto sotto controllo in una casa di cura. Lettere: la gabbia di Massimo Gramellini La Stampa, 19 febbraio 2015 Un ergastolano si suicida in prigione e sulla pagina Facebook di un sindacato di polizia penitenziaria compaiono commenti di tenebra: "un rumeno di meno", "mi chiedo cosa aspettino gli altri a seguirne l'esempio". Stupore, scandalo, indignazione. E il solito carico insopportabile di ipocrisia. Come se molti secondini non avessero mai formulato questi pensieri anche prima che la tecnologia permettesse loro di farli conoscere a tutti. Come se, oltre a pensarli, non li avessero già espressi fin troppe volte in pestaggi e torture. Ma, soprattutto, come se si trattasse di qualche malapianta cresciuta in un giardino di rose anziché dell'ovvia conseguenza di un sistema in cui carcerieri e carcerati condividono le stesse brutture e combattono l'ennesima guerra tra poveri. La galera in Italia non è un centro di recupero, ma una soffitta orrenda dove stipare rifiuti umani che almeno metà della popolazione vorrebbe vedere sparire per sempre, non fosse altro perché teme che qualche garbuglio legale riesca a rimetterli in libertà molto prima del meritato e del dovuto. Le statistiche urlano che il carcere riesce a cambiare soltanto chi lavora, possibilmente in un luogo sano. Eppure nella pratica comune i condannati vivono da parassiti e la pena viene espiata in ambienti fetidi e brutali, tranne per chi è abbastanza ricco e mafioso da potersi permettere un trattamento privilegiato. Rendere civili le carceri e dare un senso alla galera non porta voti, quindi è considerato uno spreco. La politica ci risparmi almeno la sua indignazione per la beceraggine di certi immondi carcerieri. È lei ad averli disegnati così. Lettere: viva l'Italia, metà giardino e metà galera di Ludovico Martocchia www.europinione.it, 19 febbraio 2015 Nessuno si occupa più del sovraffollamento delle carceri: tutto è stato risolto? Per il governo sì, anche se la situazione è ancora critica. Le condizioni pietose delle prigioni italiane negano il diritto più basilare di ogni persona umana, italiana o straniera: la dignità. La situazione delle carceri dimostra il livello di civiltà di un paese. Lo ripetiamo spesso, un concetto che tutti sostengono. Però poi, in fin dei conti, cosa ci importa di chi sta dall'altra parte? Per noi, dell'Italia "metà giardino", usando le parole di Francesco De Gregori, non è rilevante se tre delinquenti vivono in meno di sette metri quadrati di spazio. Tanto, appunto, sono delinquenti, mica persone. Ancor di più se sono stranieri o tossico dipendenti. In base all'ultimo rapporto del Consiglio d'Europa, aggiornato a settembre, in Italia sarebbero 64.835 i detenuti per una capacità totale delle celle di 47.703 posti. In poche parole per 100 posti ci sono 148 detenuti, contro una media europea di 95. Dati vecchi: il ministro della giustizia Orlando insieme al nuovo responsabile del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, Santi Consolo ha in parte rassicurato: "nei 202 istituti italiani non abbiamo più nessun detenuto ristretto in spazi di meno di tre metri quadri: abbiamo aggiunto circa 2.000 posti, recuperati grazie al lavoro nelle strutture degli stessi detenuti". Una buona notizia, anche se i Radicali, famosi per queste battaglie, smentiscono. Sembrerebbe che la media sia giusta, ovvero che ci siano più di tre metri per ogni detenuto, ma permangono almeno 70 istituti con un sovraffollamento che va da 130% al 210%, secondo la segretaria radicale Rita Bernardini che riporta i dati del Dap. A quanto pare le circostanze non sono chiare ed effettivamente se la drammatica situazione in cui vivono i carcerati italiani fosse realmente risolta, assomiglierebbe ad un miracolo. I dati dell'Istituto Antigone in parte sostengono un'effettiva riduzione dei detenuti, sarebbero 53 mila grazie al decreto svuota carceri emanato l'agosto scorso dal governo in risposta alle sentenze della Corte di Strasburgo. Tuttavia il focus si sposterà sulla condizione degli stranieri nelle celle per l'assenza di interpreti, probabilmente una delle questioni più gravi che porta ad una vera e propria discriminazione - bisogna anche ricordare che circa il 34% della popolazione carceraria è straniera. Rimane il fatto che tra i problemi delle carceri italiane non ci siano solo i metri abitali e quindi le strutture antiquate, ma anche l'incertezza della pena. La lentezza della giustizia italiana fa sì che ci siano oltre il 35% dei reclusi in attesa di una sentenza. Tanto per aggiungere, mancano anche le opportunità di lavoro socialmente utili, che rappresentano il pilastro per un sistema penitenziario con l'obiettivo della reintegrazione nella società. Anzi si potrebbe dire che le carceri italiane sembrano destinate alla "reintegrazione nella criminalità", vista la tendenza recidiva di coloro che hanno scontato la pena. Peggiora i dati della giustizia italiana anche un altro numero: dal 1991 si sono susseguiti 23 mila casi di ingiusta detenzione. L'esempio lampante è di Giuseppe Gullotta, in carcere per 22 anni anche se innocente. Gli avvocati spingono per un risarcimento di svariati milioni di euro che difficilmente arriveranno. In prima linea c'è l'opposizione dell'Avvocatura di Stato. Si potrebbe parlare anche di un altro fattore: i decessi e i suicidi (131 in totale nel 2014). Non è un caso che in nove anni di presidenza, Giorgio Napolitano sia intervenuto con un solo messaggio alle camere, proprio sul sovraffollamento delle carceri, proponendo amnistia e indulto. Le critiche sono state tante, anche giustificate, perché a beneficiare di un tale provvedimento potrebbe essere prima di tutto chi in carcere non c'è andato mai - per reati di concussione, abuso d'ufficio, peculato e corruzione. Insomma, garantire la vivibilità nelle carceri è senza ombra di dubbio necessario. Primo per un'utilità sociale: carceri decenti vogliono dire anche detenuti maggiormente reinseribili nella società e che non tornano a delinquere. Secondo, perché rappresenta un dovere morale garantire la dignità umana di una persona. Tra l'altro è un diritto appartenente a tutte le tradizioni della storia italiana su cui si basa la Costituzione: la tradizione cattolica per l'attenzione agli ultimi, la tradizione socialista per la considerazione di chi vive in condizioni di assoluta disuguaglianza, la tradizione liberale perché il diritto ad una vita dignitosa è un diritto inalienabile della persona umana. Ascoli: detenuto muore in ospedale, indagato il compagno cella che l'avrebbe fatto cadere Ansa, 19 febbraio 2015 È morto nell'ospedale di Torrette ad Ancona Achille Mestichelli, un ascolano di 53 anni che era detenuto nel carcere di Ascoli Piceno. Per il decesso è indagato con l'accusa di omicidio preterintenzionale un compagno di cella, Mohamed Ben Alì, tunisino di 24 anni, arrestato nei giorni scorsi nell'ambito di una operazione antidroga. Secondo le testimonianze degli altri detenuti rinchiusi nella stessa cella (due italiani e due tunisini), Alì avrebbe spinto Mestichelli che sarebbe caduto battendo violentemente la testa. L'uomo aveva riportato gravi lesioni e un trauma cranico, e nella notte fra il 13 e il 14 febbraio scorsi era stato ricoverato nell'ospedale di Ancona, dove era stato operato d'urgenza. Oggi i medici hanno dichiarato la morte cerebrale. La famiglia di Mestichelli ha autorizzato l'espianto degli organi. Domani il pm Umberto Monti affiderà l'autopsia. Cosenza: la testimonianza "il piccolo Cocò assassinato perché il nonno voleva pentirsi" di Carlo Macrì Corriere del Mezzogiorno, 19 febbraio 2015 Il piccolo Cocò Campolongo, 3 anni, è stato ucciso per vendetta nei confronti del nonno Giuseppe Iannicelli, 52 anni, trafficante di droga di Cassano allo Ionio. L'uomo voleva pentirsi e raccontare il traffico di stupefacenti nell'Alto cosentino. Sapeva, però, che la sua vita era in pericolo e perciò portava con sé il nipote, convinto che la presenza del bimbo potesse evitargli rappresaglie. Una precauzione che non ha fermato i killer. Il 16 gennaio 2014 Giuseppe Iannicelli, la compagna "Betty" Taoussa, 27 anni, e il piccolo Cocò (sotto) sono stati uccisi a colpi di pistola e mitraglietta e i loro corpi dati alle fiamme dentro una Punto, in campagna a Cassano. Una strage che commosse anche il Papa che a Cassano, nel corso di una messa per ricordare il piccolo, aveva "scomunicato" i mafiosi. La decisione di pentirsi Giuseppe Iannicelli l'avrebbe comunicata con una lettera dal carcere alla moglie Maria Rosaria Lucera, anche lei in galera per spaccio. "Ci hanno abbandonato, non abbiamo più soldi e siamo arrestati" avrebbe detto l'uomo che scontava una pena a 10 anni. A raccontarlo al procuratore aggiunto di Catanzaro Vincenzo Luberto è stato Battista Iannicelli, fratello di Giuseppe. La lettera non è stata trovata. Ma forse qualcuno aveva deciso di tappargli la bocca. La vita di quell'uomo per i suoi carnefici valeva 50 centesimi, come la moneta trovata sul luogo della strage. Battista Iannicelli ha parlato anche delle visite di suo fratello a casa degli Abbruzzese, noti come gli "zingari", clan sanguinario la cui roccaforte è a Cassano. Anche a quegli incontri Iannicelli portava il nipotino. Prato: il Garante regionale Corleone "la condizione del penitenziario è a luci e ombre" www.gonews.it, 19 febbraio 2015 È una struttura "complessa", stretta tra "luci ed ombre" quella fotografata dal garante dei detenuti della Regione Toscana, Franco Corleone, in visita oggi, mercoledì 18 febbraio, al carcere di Prato. Secondo per capienza, l'istituto penitenziario conta 605 presenze per una capienza teorica di 700. Ma il sovraffollamento dichiarato da Corleone si riferisce al reparto di alta sicurezza in cui stanno in 67, invece dei 48 previsti, e dove si contano "tre persone per cella, alcune delle quali con pene detentive lunghe". Nonostante il limite dei 3mq a persona sia rispettato "considero stravagante - ha dichiarato il garante - l'idea che in celle di 14 mq si possano alloggiare tre brande. Lo spazio minimo vitale ne risente pesantemente". Corleone ha quindi verificato la presenza di persone con handicap per le quali già la cella "costituisce una invalidità". L'accesso al bagno è, per esempio, "difficoltoso" e la loro sistemazione non è "idonea". La complessità del carcere è data inoltre dalla presenza di collaboratori di giustizia e sex offender sistemati oltre la capienza ordinaria e per i quali la stessa struttura lamenta carenza di personale e mancanza di progetti specifici. "Ho già inviato una lettera all'assessore Luigi Marroni proprio per immaginare azioni di recupero per coloro che si sono macchiati di reati sessuali e che, in assenza di progetti specifici e abbandonati nelle celle, al termine della pena potrebbero essere nella stessa condizione e a rischio recidiva". La situazione igienico-sanitaria riscontrata, è "difficile". Il carcere è situato in località Maliseti, luogo che in origine indicava una zona paludosa. "L'umidità è notevole", ha osservato Corleone. "Proprio oggi sono arrivati i nuovi materassi ma le condizioni restano gravi. Mi aspetto che Asl e Comune facciano le verifiche del caso vista anche la triste abitudine di buttare gli scarti del cibo fuori dalle celle con il conseguente aumento della voracità e della presenza di topi". Nel reparto di media sicurezza, invece, è applicata la procedura delle celle aperte per otto ore al giorno. "È un dato positivo" che si aggiunge alla presenza di una sede del polo universitario che però registra la presenza di sole sette persone a fronte delle 17 previste su carta. "Voglio verificare perché non è pienamente utilizzato", ha osservato il Garante anche in ragione "dell'importanza che potrebbe avere in termini di reinserimento dei carcerati". Corleone ha quindi concluso la sua visita ricordando le numerose lettere ricevute dai detenuti nelle quali si chiede "attenzione" alle condizioni sanitarie. "Non sono riuscito a parlare con il responsabile della struttura sanitaria perché da contratto la sua presenza è limitata a sole tre ore al giorno. Non credo sia una soluzione adeguata. Solleciterò un intervento perché alcuni detenuti non sembrano in condizioni compatibili con il carcere o meritano di essere trasferiti in altre strutture". Oristano: Sdr; a detenuto 71enne sospeso farmaco neurologico prescritto a Fossombrone Ristretti Orizzonti, 19 febbraio 2015 "Desta forti perplessità la decisione assunta dai medici del carcere di Oristano di sospendere a un ergastolano palermitano 71enne un farmaco contro tremori e spasmi, precedentemente prescritto dai colleghi di Fossombrone dopo visita neurologica e psichiatrica. Ciò soprattutto perché ne aveva confermato la prescrizione, fino al 2020, il medico di Massama in occasione della visita d'ingresso nella Casa Circondariale oristanese". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell'associazione "Socialismo Diritti Riforme", accogliendo la segnalazione dei familiari di Francesco Di Matteo, preoccupati per le conseguenze sul congiunto, e del legale del detenuto avv. Federica Poltronieri. "Il farmaco, prescritto per controllare una sindrome dovuta alla prolungata assunzione di antidepressivi, veniva assunto - osserva Caligaris - dal detenuto dal 4 marzo 2014 in seguito a visita psichiatrica e neurologica. La terapia è proseguita anche quando l'uomo, in regime di alta sicurezza, è stato trasferito a Massama il 27 settembre successivo. Proprio per continuare l'assunzione regolare del farmaco, i medici di Fossombrone hanno dotato il paziente di una sufficiente scorta di medicinale in grado di coprire il periodo di stabilizzazione nella nuova residenza. All'atto dell'ingresso nell'Istituto oristanese, in occasione della ineludibile visita, il farmaco è stato confermato fino al 2020". "Nel frattempo l'uomo a ottobre è stato sottoposto a visita psichiatrica che ha confermato la prescrizione farmacologica rimandando per la successiva prosecuzione a un nuovo esame neurologico che è stato puntualmente richiesto il 9 ottobre 2014. Anche le due successive visite psichiatriche del mese di novembre hanno confermato la terapia che però - sottolinea Caligaris - è stata interrotta il 19 dicembre scorso senza che sia stato eseguito l'esame neurologico". "Lo sconcerto per la decisione assunta nasce anche dal fatto che non risulta sia stato prescritto un farmaco alternativo a quello assunto in precedenza laddove si tratta di composti chimici che richiedono un continuum terapeutico. Insomma sono trascorsi circa 4 mesi dalla richiesta di accertamento neurologico. È vero purtroppo che i tempi di attesa non sono decisi dai medici penitenziari quanto dalla disponibilità dei posti nei presidi esterni. Resta però il fatto che da circa 2 mesi a un detenuto non viene più somministrato un farmaco nonostante - conclude la presidente di SDR - le reiterate conferme da parte degli psichiatri. Un situazione che fa riflettere anche perché può avere conseguenze invalidanti su una persona che ha il diritto alle cure come tutti i cittadini". Monza: tre detenuti al lavoro nel parco della Villa Reale grazie a un percorso riabilitativo www.monzatoday.it, 19 febbraio 2015 La collaborazione tra il Consorzio Parco e Villa Reale e la Casa Circondariale ha avviato tre ristretti a un tirocinio formativo per il lavoro in esterna. Dalla cella all'aria aperta per occuparsi di manutenzione del verde e di piccoli lavori all'interno del Parco di Monza. Grazie alla collaborazione tra il Consorzio Villa Reale e Parco di Monza e la Casa Circondariale e alla convenzione stipulata con Manpower Srl tre detenuti del carcere monzese hanno intrapreso un percorso di attività lavorativa esterna. L'iniziativa, attuata al termine del periodo di reclusione, ha l'obiettivo di garantire l'acquisizione di una specifica professionalità, spendibile nel processo di reinserimento sociale, nell'intento di abbattere la recidiva con interventi rieducativi e di riabilitazione. Il 26 gennaio i tre detenuti hanno intrapreso il tirocinio extracurricolare (previsto dall'art. 4, comma 1, della Legge 381/1991) e il percorso formativo terminerà il 25 aprile. Per il primo mese è previsto un orario part-time, mentre nei successivi due la collaborazione sarà a tempo pieno: in questo periodo i tirocinanti saranno affiancati da un tutor e si occuperanno di piccoli interventi di manutenzione del verde, taglio erba, raccolta foglie e ramaglie, sistemazione vialetti. Sarà un'opportunità importante per la riabilitazione e il reinserimento che consentirà loro sotto la guida di un esperto di imparare le tecniche di sistemazione dell'arredo urbano e di potatura, l'utilizzo di attrezzature agricole e degli strumenti di protezione. "La collaborazione con il Consorzio Villa Reale e Parco di Monza è stata fondamentale: i comuni intenti hanno reso possibile un progetto di valore sociale. Grazie alla sensibilità e alla disponibilità della direzione del Consorzio è stato possibile cementare ancor di più l'integrazione con il territorio e far conoscere le iniziative dell'Istituto. L'auspicio è che possano essere intraprese altre forme di utile collaborazione reciproca" ha dichiarato Maria Pitaniello, direttore della Casa Circondariale di Monza. Torino: la realizzazione delle borse Trakatan nella Casa circondariale Lorusso e Cotugno di Erika Guerra www.mole24.it, 19 febbraio 2015 Raramente il carcere viene dipinto come un luogo da cui può anche scaturire qualche risultato positivo e il più delle volte ci si riduce a parlare unicamente del sovraffollamento e dei costi che gravano sulle casse pubbliche. Ci sono persone e associazioni, però, che vogliono fare in modo che i detenuti possano continuare a mantenersi attivi imparando o continuando a praticare un mestiere, in modo da contrastare la condizione di disagio in cui vivono e da aiutarli a diventare nuovamente membri attivi della società. I progetti che negli ultimi anni hanno coinvolto i detenuti del carcere di Torino sono tanti, ma uno sta riscuotendo un particolare successo: la realizzazione delle borse Trakatan. Nati dall'idea imprenditoriale di due giovani creativi, questi accessori vengono fatti serigrafare all'interno della casa circondariale Lorusso e Cotugno e sono stati apprezzati anche all'estero per la loro originalità. Le borse, infatti, vengono già vendute in Giappone e, più generalmente, in Asia e nel 2015 i due imprenditori intendono aprirsi anche al mercato statunitense. Il successo di Trakatan dimostra che le imprese che decidono di impiegare dei detenuti non solo concretizzano la propria volontà di restituire un messaggio positivo alla società e al territorio, ma sono effettivamente in grado di dare ai propri clienti un prodotto di qualità e dal design innovativo. Le collaborazioni esterne, però, non sono l'unico tipo di attività cui hanno partecipato i detenuti torinesi in questo periodo. In una conferenza stampa tenutasi la settimana scorsa (con la partecipazione della Fondazione Saint Gobain e della Compagnia di San Paolo), sono infatti stati presentati i risultati ottenuti nella riqualificazione degli ambienti carcerari, che ha coinvolto anche 40 detenuti. Gli interventi promossi sono di vario tipo: dalle migliorie in ambito energetico alla realizzazione di uno spazio che permetta alle mamme di trascorrere del tempo in carcere con i loro bambini. Questo progetto è particolarmente importante non solo perché è stata un'ulteriore occasione di formazione professionale per i detenuti, ma anche perché ha permesso loro di essere direttamente coinvolti nel rendere più vivibile l'ambiente del carcere e di migliorare la permanenza di chi ha fiducia nel ritorno ad una vita normale. Roma: servizi anagrafici anche per detenuti, c'è l'accordo tra il IV Municipio e il Garante di Anna Grazia Concilio www.romatoday.it, 19 febbraio 2015 Anche i detenuti di Rebibbia potranno esercitare il loro diritto di cittadinanza. Sciascia: "Questo protocollo d'intesa è fondamentale". È stata approvata la delibera per il Protocollo d'Intesa tra il Municipio IV e il garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Grande la soddisfazione in Municipio del Presidente Sciascia e l'assessore Muto. Il Presidente Emiliano Sciascia dichiara: "Questo protocollo d'intesa è fondamentale perché permette alle persone domiciliate, residenti o dimoranti nel Comune di Roma, prive della libertà personale o comunque limitate nell'autonomia, di esercitare i propri diritti di partecipazione alla vita civile e di fruire dei servizi messi a disposizione sul territorio, in questo caso di quelli anagrafici". Maria Muto, assessore alle politiche sociali, servizi alla persona, Attività di promozione della Famiglia e dell'Infanzia e alle Politiche di promozione della salute del Municipio, aggiunge: "Regolarizzare la propria situazione anagrafica e vedersi rilasciare i documenti è un diritto-dovere per tutti. Con questo protocollo d'intesa si intende garantire anche ai detenuti della Casa Circondariale di Rebibbia di poter esercitare il loro diritto di cittadinanza e di poter gestire la loro situazione genitoriale in tutte le azioni di rilevanza giuridiche e sociali necessarie alla partecipazione alla vita civile" S.M. Capua Vetere (Ce): il "Tribunale Dreyfus" pubblica dossier sulla Casa circondariale di Paolo Mesolella www.caserta24ore.it, 19 febbraio 2015 Pubblicato e reso disponibile dal sito del "Tribunale Dreyfus" un dossier di una decina di pagine redatto da Domenico Letizia, attivista dell'associazione "Nessuno Tocchi Caino" e già segretario dei Radicali Caserta, sullo stato delle problematiche della struttura penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere. Il dossier analizza le problematiche della casa circondariale sammaritana dall'estate del 2012 fino alla fine del 2014. Sfogliando le varie pagine si evidenziano le emergenze: la mancanza periodica di acqua per i detenuti, l'alto tasso di sovraffollamento, problematiche legate ai prezzi con le ditte esterne che appaltano beni di prima necessità ai detenuti, le difficoltà della polizia penitenziaria e del personale penitenziario, la mancanza di adeguate cure mediche per i detenuti. Tra le pagine vengono analizzate anche le varie iniziative intraprese, nel corso di questi anni, per tentar di non far calare l'attenzione sulla struttura penitenziaria e le proposte avanzate. Il Tribunale Dreyfus, presieduto da Arturo Diaconale direttore de "L'Opinione", agisce come "tribunale ombra" per svolgere contro-processi sui casi più eclatanti e significativi emettendo giudizi morali e politici che fanno discutere, raccoglie e mobilita le vittime della malagiustizia in nome dei principi dello stato di diritto e della democrazia liberale. Perugia: in tribunale detenuto aggredisce agente di Polizia penitenziaria con un morso Adnkronos, 19 febbraio 2015 Ha dato un morso ad uno degli agenti della polizia penitenziaria che lo stava portando via dall'aula in cui aveva precedentemente dato in escandescenza. Il fatto è accaduto stamattina nell'aula C del tribunale penale di Perugia durante un'udienza del giudice Daniele Cenci. Il detenuto nigeriano, a processo per maltrattamenti in famiglia, si è messo ad urlare in aula e si è reso necessario allontanarlo. Ma mentre la scorta della penitenziaria lo stava riaccompagnando al cellulare che lo avrebbe riportato nel carcere di Viterbo, lui ha morso un agente al braccio. E, nonostante il giubbotto della divisa è riuscito a causargli un grosso ematoma e addirittura a fargli uscire del sangue. Sembra anche che il nigeriano nell'aggressione si sia rotto un dente. L'agente si è poi recato in ospedale per farsi controllare, mentre il detenuto è stato portato via. Napoli: i giovani detenuti dell'Ipm di Nisida studiano per diventare allenatori di calcio Il Mattino, 19 febbraio 2015 Si presenta domani nel carcere minorile di Nisida il progetto della Società sportiva dilettantistica Europa e della Fondazione Milan. Venti ragazzi, tra cui quattro ospiti del carcere minorile, seguiranno un percorso formativo per diventare allenatori di calcio e potranno lasciare la struttura per seguire i corsi. Allenare il proprio futuro costruendo la libertà attraverso la formazione, sognando di diventare allenatore di calcio professionista. Il progetto "Sport e Inclusione Sociale" si rivolge a minori dai 14 ai 21 anni, italiani e stranieri, che necessitano di un accompagnamento educativo ed un sostegno nella ri-definizione e nella realizzazione del proprio percorso di crescita. Per il primo anno di sperimentazione si stima di coinvolgere 15/20 minori per ciascuna scuola calcio. Domani alle ore 11 la conferenza di presentazione nella sala studi del carcere minorile di Nisida. Bologna: la compagnia teatrale degli ex detenuti alla Dozza "il teatro ci ha reso liberi" di Emanuela Giampaoli La Repubblica, 19 febbraio 2015 "In carcere ho passato 35 anni della mia vita, ma questa è la prima volta che ci entro da uomo libero. Ed è una strana sensazione". Aniello Arena è oggi un attore famoso, voluto da Matteo Garrone nel suo "Reality" premiato a Cannes. Ma era un "fine pena mai". Un ergastolano. Entrato giovanissimo nelle fila della camorra, l'ha salvato l'incontro con la Compagnia della Fortezza, acclamata in tutt'Europa, e con Armando Punzo, il regista che la fondò 27 anni fa, dentro al carcere di Volterra. Sabato e domenica saranno all'Arena del Sole con lo spettacolo "Santo Genet". Ma oggi alle 18, in teatro, incontreranno chi vuole conoscere la storia della più celebre compagnia teatrale italiana nata dietro le sbarre. Ieri, quell'esperienza unica, Punzo e Arena l'hanno portata nel cuore della Dozza. "Volevo far teatro, ma non volevo lavorare con attori professionisti. Ero a Volterra, in un teatrino proprio sotto il carcere, in pieno centro, e pensai che avrei trovato lì le persone col tempo per dedicarsi al mio progetto. Non volevo portar sollievo, volevo fare teatro. Le mie ragioni sono sempre state quelle del teatro". Punzo lo racconta a una platea di un centinaio di detenuti, uomini e donne che qui scontano una pena. Molti di loro seguono il laboratorio di Paolo Billi, che da otto anni, all'esperienza del carcere minorile, affianca il lavoro dentro la Dozza. Altri fanno parte del coro Papageno, voluto da Claudio Abbado. Labili frammenti di normalità dietro le sbarre. Punzo spiega come lavora, Aniello ripercorre i suoi esordi, la scoperta di Shakespeare, Brecht, Pasolini. Lui che aveva la quinta elementare. Sul muro scorrono immagini degli spettacoli della Compagnia della Fortezza. Allestimenti sontuosi, ricchissimi di scene e costumi. Incredibile pensare che nascano in quelle condizioni, in una cella di tre metri per nove. "Ma come ci siete riusciti?", chiede una detenuta. "È stato difficilissimo risponde il regista, che in quella celletta passa ancora tutti i giorni dell'anno, sabati e domeniche incluse. All'inizio, tutti contro. Gli agenti per primi. Poi vedevano che il nostro lavoro portava ad abbassare il livello di conflittualità e che il carcere di Volterra s'andava trasformando in uno dei più vivibili". Gli ospiti della Dozza ascoltano, sognano e sperano, protestano per quel che manca. "Vi siete dimenticati delle donne irrompe una carcerata di mezz'età , qui siamo 66 e più volte abbiamo chiesto di fare teatro, anche da sole". Risponde la direttrice Claudia Clementi: "Non è semplice, avete le Pigotte, la sartoria". Ma è il teatro ciò che vogliono, e il perché lo spiega una di loro, neanche trent'anni: "Vedere Aniello Arena è la prova che un'altra strada è possibile. Un ex detenuto che fa altro nella vita è la dimostrazione che la rotta delle nostre esistenze si può invertire. Noi ci stiamo provando". Proprio Aniello conclude, recitando l'Amleto. Applaudono tutti, guardie comprese. Finché tocca loro ricordare che il tempo è scaduto. E si torna in cella. Unione Europea: prigioni secrete Cia, la Corte dell'Aja conferma condanna alla Polonia www.euronews.com, 19 febbraio 2015 La Corte europea per i diritti dell'uomo ha confermato la condanna contro la Polonia per aver ospitato sul proprio territorio un carcere della Cia. La condanna, decisa lo scorso 24 giugno, è arrivata nel corso del processo riguardante i maltrattamenti subiti nel 2002-2003 da un cittadino palestinese e uno saudita, detenuti in condizioni inumane in Polonia da agenti statunitensi prima di essere spediti nella prigione di Guantánamo. La Corte dell'Aja ha rigettato le contestazioni delle autorità polacca confermando la sentenza di giugno. Varsavia dovrà ora avviare un'inchiesta interna e rimuovere gli ufficiali in carica in quegli anni, che hanno coperto e facilitato le azioni degli statunitensi. La Polonia è anche chiamata a pagare ai due uomini, tuttora detenuti a Guantánamo 230mila euro. Oltre alla Polonia, secondo un rapporto pubblicato dal think tank Open Society sarebbero una cinquantina i Paesi ad aver collaborato con la Cia dopo l'11 settembre. Marocco: 1.500 migranti subsahariani "trattenuti" in 18 Centri di detenzione temporanea Ansa, 19 febbraio 2015 Oltre 1.500 migranti subsahariani sono in stato di fermo dallo scorso 11 febbraio in 18 Centri di detenzione temporanea in Marocco, dopo essere stati espulsi dagli accampamenti sul monte Gurugú, vicino alla frontiera di Melilla, secondo la denuncia della Ong marocchina Gadem, citata oggi dai media spagnoli. L'associazione per la difesa dei migranti ha denunciato i fermi come arbitrari, perché i subsahariani sono stati sgomberati dal monte, dove erano accampati in attesa del momento opportuno per scavalcare la frontiera con l'enclave spagnola in Marocco, e trasferiti "contro la loro volontà" su autobus in varie città marocchine, in attesa di essere rimpatriati nei paesi d'origine. Le forze di sicurezza marocchine hanno realizzato la scorsa settimana retate a tappeto, per smantellare gli accampamenti dei migranti africani, bruciando le tende da campeggio e gli averi dei subsahariani, secondo le testimonianze raccolte dalla Ong Gadem fra i detenuti nei centri di 18 città marocchine. Fra i fermati, denuncia l'associazione, ci sono numerosi minori e migranti che hanno chiesto asilo politico. Vari gruppi sono confinati anche a Kariat Arkam, nel nord del paese, e a Taroudant e Guelmin, al sud del Marocco, mentre un gruppo di almeno un centinaio di subsahariani è detenuto ad Agadir e altrettanti a Essaouira. Svizzera: droghe in carcere; il direttore "controlli intensificati, usiamo il pugno duro" di Davide Illarietti www.tio.ch, 19 febbraio 2015 Ore 21.30: una ventina di agenti, tra guardie carcerarie e uomini dell'unità cinofila della Polizia cantonale, mettono a setaccio il carcere La Stampa. Cercano droga, oggetti contundenti, farmaci nascosti dai detenuti negli spazi comuni. Bottino del blitz scattato pochi giorni fa: niente. Zero. Nisba. "È un buon segno, significa che le nuove misure sono servite" spiega il direttore Stefano Laffranchini. Quali misure, in particolare? "Abbiamo introdotto controlli delle urine regolari, a cadenza settimanale, secondo uno schema random in modo che i detenuti non possano prepararsi, inoltre abbiamo intensificato la collaborazione con l'unità cinofila della Polizia cantonale per controllare tutti i pacchi in entrata e gran parte dei visitatori". E il risultato? "Dai molteplici test delle urine effettuati sui detenuti da novembre a oggi, nessuno è risultato positivo. Questo non è un buon motivo per non effettuare ulteriori controlli, come il blitz di cui sopra, anche perché oltre alle droghe ci sono anche altre sostanze...". Ad esempio? "Potrebbe avviarsi un commercio di medicamenti psico-attivi all'interno del carcere, ansiolitici e pastiglie varie. Per impedirne l'accumulo e lo scambio tra detenuti abbiamo introdotto restrizioni e controlli sul consumo di tutti i medicamenti". L'alcol è un altro problema riscontrato in passato... "Sì, i detenuti fanno fermentare la frutta con ricette speciali a base di zucchero e lievito, sono scaltri. Abbiamo introdotto controlli regolari con l'etilometro e inasprito le sanzioni pecuniarie e disciplinari". Gli etilometri cosa hanno rilevato? "All'inizio qualche positività è stata rilevata. Da un mese e mezzo a oggi, neanche un caso". Sembra insomma che qualcosa sia cambiato, rispetto alla precedente amministrazione. "Su questo non posso esprimermi. Certo il carcere è grande e qualcosa può sempre sfuggire anche ora, ma per quanto riguarda l'abuso di sostanze mi aspetto che gli ulteriori controlli nelle celle, che eseguiremo prossimamente, confermino questa tendenza positiva". I trucchi per aggirare i controlli. Che "qualcosa può sempre sfuggire", del resto, lo conferma anche la testimonianza di un ex detenuto ticinese, ospite per 5 anni della Stampa. "I metodi per aggirare i controlli delle urine sono diversi" racconta. "Il più efficace e praticato dai detenuti, è quello di nascondere nell'interno coscia un preservativo contenente l'urina di un altro detenuto "pulito" e sostituirlo al momento del prelievo senza farsi vedere. Io stesso non ci credevo finché non l'ho visto fare con i miei occhi, alla Stampa. Un altro metodo, più semplice, è quello di bere molto latte" aggiunge. Dicerie? Fandonie? Una cosa è sicura, conclude l'ex detenuto: "All'interno del carcere il consumo di stupefacenti era diffuso, senza parlare dell'abuso abnorme di psicofarmaci, almeno fino a quando sono uscito. Se adesso le cose sono cambiate radicalmente, ben venga". Israele: storia di Malak, 14enne palestinese messa in galera per aver lanciato una pietra di Damiano Aliprandi Il Garantista, 19 febbraio 2015 Una ragazzina di 14 anni, dopo 45 giorni di prigionia nel carcere israeliano, ha potuto finalmente riabbracciare i suoi familiari. Parliamo di Malak al-Khatib, una ragazzina palestinese di appena 14 anni arrestata lo scorso 31 dicembre dagli israeliani per aver lanciato una pietra. In un'intervista rilasciata a Asharq al-Awsat, la giovane palestinese ha dichiarato: "Sono felice dopo 45 giorni di prigionia di esser tornata qui e di aver potuto rivedere i miei amici e la mia famiglia". Malak ha anche raccontato le dinamiche del suo arresto, avvenuto il 31 dicembre scorso: un gruppo di soldati l'ha circondata e buttata a terra e dopo averla caricata con la forza su un veicolo militare, l'hanno trasportata in una centrale della polizia dove la ragazza e i suoi amici sono stati sottoposti a duri interrogatori. "Ho conosciuto la sofferenza, il dolore, ho sperimentato il freddo e l'umiliazione, ma non ho mai avuto paura per questo", ha dichiarato Malak. "Ciò che mi addolorava era il pensiero della mia famiglia e dei miei amici, avevo paura di non rivederli mai più", ha sottolineato la 14enne. La palestinese ha riacceso ancora una volta i riflettori sul problema dello stato di diritto che grava su Israele: la detenzione dei minorenni palestinesi. Sono 151 quelli detenuti al momento nelle carceri di Israele secondo un rapporto dell'organizzazione Military Court Watch. Di solito finiscono dietro le sbarre per avere lanciato qualche pietra contro i blindati o i militari israeliani: un reato da Corte marziale e Israele è uno dei pochi Paesi al mondo dove i minorenni (persino dodicenni) sono processati nei tribunali militari. È andata così anche per Malak, condannata a due mesi di reclusione e 1.500 dollari di multa. Ha confessato di avere raccolto da terra un sasso e di averlo lanciato contro alcune automobili mentre rientrava a casa da scuola a Beitin, in Cisgiordania. Inoltre, secondo la testimonianza di cinque militari, aveva con sé un coltello che voleva usare per pugnalare gli uomini della sicurezza israeliana in caso di arresto. Una confessione che il padre della ragazza è sicuro le sia stata estorta con intimidazioni e minacce, e non sarebbe una novità. "Una ragazzina di 14 anni circondata da soldati israeliani ammetterebbe qualsiasi cosa, anche di avere un'arma nucleare", ha detto all'agenzia palestinese Moon. È stato già denunciato altre volte l'impiego di minacce per estorcere confessioni a ragazzini privati dell'assistenza legale e persino della presenza dei genitori. La condanna arriva perfino dall' Unicef che critica gli israeliani per il trattamento che riservano ai minorenni palestinesi: ha parlato e portato prove di interrogatori che sono "un misto di intimidazioni, minacce e violenza psicologica, con il chiaro intento di costringere il bambino a confessare". Vengono spaventati a morte, con minacce che riguardano i famigliari, o sono messi in isolamento. Secondo Defense for Children International, nel 20 per cento dei casi, i bambini e adolescenti sono stati tenuti in isolamento in media per dieci giorni. E questo trattamento è riservato a ragazzi che sono poco più che bambini, spesso arrestati nel cuore della notte, anche se Tel Aviv dall'anno scorso ha un programma sperimentale che esclude gli arresti nottetempo. I mandati, però, secondo l'organizzazione Military Court Watch, vengono consegnati sempre dopo la mezzanotte. Malak ha fatto notizia scatenando indignazione e proteste in Cisgiordania soprattutto perché è una ragazza. Il suo volto ha campeggiato nelle piazze delle città palestinesi e la leadership palestinese si è rivolta alle Nazioni Unite per denunciare gli arresti indiscriminati di minorenni nei Territori occupati. Nel 47 per cento dei casi, vengono trasferiti in prigioni in Israele, dove è più complicate per i legali e i famigliari incontrarli. Una violazione delle Convenzioni di Ginevra. Inoltre, il sistema che prevede l'arresto e la detenzione di adolescenti e bambini, viola diverse norme internazionali sui diritti dell'infanzia. Statisticamente, ogni anno, le autorità israeliane arrestano un migliaio di minorenni e tra i 500 e i 700 sono processati in tribunali militari. In Israele, la totalità dei detenuti palestinesi minorenni e la maggior pare degli adulti incarcerati, sono arrestati tramite la famigerata detenzione amministrativa. È una misura - utilizzata anche dalla Cina, Egitto e Sri Lanka - che consente ai militari israeliani di tenere reclusi prigionieri basandosi su prove segrete, senza incriminarli o processarli e i palestinesi sono soggetti a detenzione amministrativa fin dal mandato britannico. Israele usa regolarmente la detenzione amministrativa in violazione della legge internazionale e dichiara di essere in un permanente stato di emergenza tale da giustificare l'uso quotidiano di questa pratica. La detenzione amministrativa israeliana viola molti standard internazionali; ad esempio, detenuti provenienti dalla Cisgiordania vengono deportati in Israele, violando direttamente la proibizione della Quarta Convenzione di Ginevra (Artt. 49 e 76) e ai prigionieri vengono spesso negate le visite dei familiari previste dagli standard internazionali e non vengono tenuti separati dagli altri detenuti, come prevedono le leggi internazionali. Nella Cisgiordania palestinese occupata, l'esercito israeliano è autorizzato a emanare ordini di detenzione amministrativa contro civili palestinesi sulla base dell'art. 285 del codice militare 1651. Questo articolo permette ai comandanti militari di detenere una persona fino a sei mesi, rinnovabili se vi sono ragioni sufficienti per presumere che la sicurezza della zona lo richiedano. Alla data di scadenza o appena prima, l'ordine viene spesso rinnovato, e non vi è alcun riferimento esplicito alla durata massima possibile, legalizzando così una detenzione senza scadenza. Gli ordini di detenzione vengono emanati al momento dell'arresto o, in seguito, spesso basandosi su "informazioni segrete" raccolte dai servizi israeliani. Quasi mai né il detenuto né il suo avvocato vengono informati delle ragioni dell'internamento o messi al corrente delle "informazioni segrete" quindi i palestinesi possono essere incarcerati per mesi, se non anni, in via amministrativa, senza mai essere informati sulle ragioni o sulla durata del loro internamento e vengono di solito informati dell'estensione della loro prigionia nel giorno in cui il precedente ordine scade così non hanno alcun modo di appellarsi contro la loro detenzione. Amnesty International è in prima fila per chiedere la sospensione della detenzione amministrativa. In un recente rapporto ha chiesto alle autorità israeliane di cessare di ricorrere alla detenzione amministrativa per reprimere legittime e pacifiche azioni degli attivisti dei Territori palestinesi occupati e di rilasciare tutti i prigionieri di coscienza, detenuti solo per aver esercitato in modo pacifico i loro diritti alla libertà di espressione e di associazione. Da anni l'organizzazione per i diritti umani lo chiede, tanto che in una nota scrisse: "Il sistema della detenzione amministrativa era inteso in origine come una misura straordinaria da applicare contro persone che rappresentavano una minaccia immediata e concreta. Israele lo ha usato per decenni per calpestare i diritti umani dei detenuti. È un relitto che deve essere demolito". Stati Uniti: ex detenuto di Guantánamo vince l'appello contro la condanna per terrorismo Ansa, 19 febbraio 2015 Un ex detenuto australiano di Guantánamo, David Hicks, ha vinto l'appello per annullare la sua condanna per terrorismo negli Stati Uniti. Un tribunale militare statunitense ha rovesciato la sentenza del marzo 2007, che riconosceva Hicks colpevole di aver fornito sostegno materiale al terrorismo. Il nuovo verdetto ha stabilito che l'accusa non avrebbe dovuto essere trattata da un tribunale militare poiché non aveva a che fare con crimini di guerra. Hicks, 39 anni, era stato catturato nel 2001 in Afghanistan, dove stava frequentando un campo di addestramento di Al Qaeda e dove aveva incontrato Osama bin Laden. È stato detenuto nel carcere di Guantánamo da gennaio del 2002 a maggio del 2007. Hicks ha detto di non essere interessato alle scuse ufficiali degli Stati Uniti, ma ha chiesto di essere risarcito per le cure necessarie per superare i traumi causati dalle torture subite durante la detenzione Arabia Saudita: confermati 15 anni di carcere ad attivista candidato a Premio Nobel Aki, 19 febbraio 2015 È stata confermata in appello la condanna a quindici anni di carcere per l'attivista saudita per i diritti umani Waleed Abulkhair, candidato al Premio Nobel per la Pace. Lo rende noto il Gulf Center for Human Rights spiegando che a confermare la condanna è stato un Tribunale penale d'appello specializzato in terrorismo. Abulkhair era stato riconosciuto colpevole in primo grado lo scorso luglio di varie accuse, tra cui "incitamento dell'opinione pubblica". A gennaio un altro tribunale ha ordinato ad Abulkhair di scontare la pena a 15 anni di carcere, inizialmente sospesa. Il 4 febbraio l'attivista è stato trasferito da Gedda al carcere di Riad. Abulkhair era l'avvocato del blogger saudita Raef Badawi, che sta scontando dieci anni di carcere ed è stato condannato a mille frustate con l'accusa di aver insultato l'Islam. Il blogger ha ricevuto la prima tranche di 50 frustate il 9 gennaio scorso, mentre le fustigazioni successive sono state sospese in seguito alla pressione esercitata dalla comunità internazionale sulle autorità di Riad.