Appello per Elisabetta Zamparutti al Comitato europeo per la prevenzione della tortura www.radicali.it, 18 febbraio 2015 Sosteniamo la candidatura di Elisabetta Zamparutti a membro italiano per il Comitato per la prevenzione della tortura (Cpt) del Consiglio d'Europa perché ne conosco l'impegno e l'esperienza ventennale, con Nessuno tocchi Caino ed il Partito Radicale, contro la tortura e le pene o i trattamenti inumani o degradanti, a partire dalla pena di morte. Una dedizione che le ha permesso, durate la XVI legislatura, dal 2008 al 2013, di essere tra i parlamentari più attivi nel far funzionare gli strumenti istituzionali in materia di diritti umani, a cominciare dalle visite ispettive nei luoghi di reclusione del nostro Paese. Saper coniugare, come ha fatto in questi anni, conoscenza e rispetto delle regole con la dimensione creativa e propositiva di nuovo diritto, di nuovi diritti umani, è la miglior garanzia per il corretto funzionamento di un'istituzione sovranazionale come il Consiglio d'Europa, faro per il rispetto degli obblighi internazionali relativamente all'affermazione dei diritti fondamentali. Sottoscrivono Don Ciotti, fondatore Gruppo Abele e dell'Associazione Libera Umberto Veronesi, IEO Istituto Europeo di Oncologia Furio Colombo, già Presidente del Comitato per la Difesa dei Diritti Umani della Camera dei Deputati Tullio Padovani, Ordinario di Diritto Penale, Scuola Superiore S. Anna di Pisa Giulio Maria Terzi, ex Ministro degli Esteri Andrea Pugiotto, ordinario di Diritto Costituzionale, Università di Ferrara Davide Galliani, Ricercatore in Istituzioni di diritto pubblico, Università degli Studi di Milano Mario Lana, Presidente Unione Forense Diritti Umani, Chargé des missions auprès du Bureau Fidh Carmen Bertolazzi, Presidente Associazione Ora d'Aria Nadia Bizzotto, referente carcere della Comunità Papa Giovanni XXIII Ornella Favero, Ristretti Orizzonti Bruno Mellano, Garante detenuti Regione Piemonte Pronto Intervento Disagio Elisabetta Rampelli, Segretario generale dell'Unione Italiana Forense Carla Rocchi, Presidente Enpa Sergio Segio, curatore del Rapporto sui diritti globali e direttore di Associazione Società Informazione Fulvio Abbate, scrittore Achille Bonito Oliva, critico d'arte Liliana Cavani, regista Francesca d'Aloja, artista Maria Grazia Chiarcossi, studiosa Stefania Craxi Roberta Mazzoni, sceneggiatrice, regista e scrittrice Susanna Tamaro, scrittrice Oliviero Toscani, fotografo Giustizia: l'Europa, i diritti umani e il "negazionismo carcerario" di Santi Consolo di Dimitri Buffa L'Opinione, 18 febbraio 2015 C'è una forma di negazionismo, quello sullo stato attuale delle carceri italiane, che è il sottoprodotto ideologico del nuovo verbo governativo. Santi Consolo, il nuovo responsabile del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, o Dap, ne incarna suo malgrado l'essenza. Anche se poi la linea politica è il ministro Guardasigilli, Andrea Orlando, che la dà, e in ultima analisi lo stesso Premier Matteo Renzi. La "vulgata", adesso che con qualche trucco siamo riusciti a disinnescare, ma solo a tempo, la mina europea costituita dalla Cedu, è quella di dire che siccome ci sono, poniamo, circa diecimila presenze in meno tra i detenuti, gli altri adesso se la spasserebbero tra le sbarre. Cioè: non preparano più il cibo nello stesso angusto spazio con "vista tazza del cesso" che utilizzano anche la mattina per ben altri bisogni corporali. Hanno pertanto docce calde, riscaldamenti, strutture per passare il tempo che non siano le brande da cui fissare il soffitto 20 ore su 24 , strutture per la rieducazione, assistenza psicologica e sanitaria. Un paradiso e un miracolo, insomma. Tutte cose che nei paesi del Nord Europa, pur nel rigore punitivo che le carceri sempre rappresentano, si danno per scontate. Mentre noi ci accontentiamo di sfoltire un po' le presenze, con decine di leggi che si sovrappongono e si contraddicono, ma senza volere fare un'amnistia che pure, insieme all'indulto, altro non sono che due istituti previsti dalla Costituzione in apposito articolo. Tanto che l'ex capo dello stato ne parlò anche in messaggio alle camere nell'ottobre del 2013, senza che questo messaggio sia mai stati discusso né in Parlamento né tanto meno sui media più o meno di regime. Santi Consolo ora è stato preso di petto per questo ottimismo trionfalistico un po' di repertorio, da Rita Bernardini, combattiva segretaria di Radicali italiani, oltre che persona esperta delle carceri. Non fosse altro perché le visita tutte, alcune più volte l'anno, molto più spesso di quanto non lo abbia mai fatto alcun predecessore di Santi Consolo in passato. A lui , però, diamo il beneficio dell'inventario. Anche se "comincia male", per dirlo alla romana. E infatti Rita Bernardini, a proposito delle cifre sulla nuova capienza carceraria, dopo i provvedimenti tampone del governo Renzi, parla con ironia di "moltiplicazione dei pani e dei pesci". Cioè di miracoli. "La moltiplicazione dei pani e dei pesci non è azione che appartiene agli umani - dice la Bernardini in un comunicato - così come la moltiplicazione dei posti nelle infami carceri italiane non è nelle mani del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria anche quando fosse animato dalle migliori delle intenzioni che, per noi radicali, consistono nel far rientrare nella legalità costituzionale il trattamento fuorilegge subito dai detenuti negli istituti penitenziari italiani". Ma sul trattamento fuori legge, polemica sui posti e sulla capienza a parte, scatta quel riflesso che porta al discorso del "negazionismo carcerario". Paragone quanto mai appropriato nel momento che la Camera si sta preparando a varare la legge sul negazionismo della Shoà del popolo ebraico. "Sorprendono pertanto - secondo Rita Bernardini - le dichiarazioni del Capo del Dap, Santi Consolo, che ha annunciato che nei 202 istituti penitenziari non c'è più un detenuto che vive in spazi inferiori ai 3 metri quadrati, che i posti regolamentari sono ora in totale 50.538 e che - sempre secondo il capo del Dap - questo risultato è stato ottenuto grazie alla manutenzione straordinaria, salvo poi ammettere che 4.636 posti sono inagibili". In pratica lo stesso gioco delle tre carte che ha avuto la sua efficacia in Europa, si cerca ora di riproporlo in Italia, senza tenere conto, da parte del Dap, che i radicali ormai le carceri le conoscono quasi come i carcerati stessi. D'altronde, come sostiene Rita Bernardini stessa, "l'aumento dei posti regolamentari strabilia ancora di più se si tiene conto che il Dap afferma (vedere per credere, le tabelle messe a disposizione sul sito del Ministero della Giustizia) che i posti sono calcolati sulla base del criterio di 9 mq per singolo detenuto + 5 mq per gli altri". Non si sa, sostiene la Bernardini, "se il Capo del Dap abbia fatto i conti tenendo sottocchio le planimetrie degli istituti penitenziari, quello che è certo è che a tutt'oggi in Italia ci sono almeno 70 istituti (vedere tabelle ministeriali) che con i dati del Dap (non con i nostri) hanno un sovraffollamento che va dal 130% al 210%". Poi la chiosa finale, dove non manca un po' di ironia: "poiché sono usa a fare fiducia alle persone che assumono nuovi incarichi (come nel caso del dottor Santi Consolo) quel che posso fare è proporre al nuovo Capo del Dap di consentirmi di accompagnarlo per una serie di visite in alcuni dei 70 istituti per verificare insieme quale sia il trattamento riservato ai detenuti in Italia". Un tour per le carceri, insomma, come quelli che si portano i liceali a fare ad Auschwitz. I negazionismi si curano così, più che con le leggi. Giustizia: movimento pacifica scomparso, politici mascherati da generali di complemento di Fausto Bertinotti Il Garantista, 18 febbraio 2015 Il tema della guerra ha trovato in Europa un panorama politico devastato. In Italia in particolare. Un paese con la nostra storia politica si trova a essere orfano non solo della grande politica ma di un influente movimento pacifista. Le bandiere arcobaleno che avevano ricoperto finestre e strade delle nostre città sono state dimesse e spesso dimenticate. Cos'è, quando c'è, un movimento pacifista? È una presenza potente, partecipata e popolare che forma un senso comune che costituisce una cultura e domanda una politica ambiziosa. In Italia ha affondato le sue radici in quell'articolo 11 della Costituzione che prevede per il nostro paese il ripudio della guerra. La marcia Perugia-Assisi ha testimoniato in molte occasioni l'emergere di questa cultura, fino a segnare la presenza di intere generazioni politiche sulla scena del paese. Anche la politica-politica viene scossa da questi movimenti che a volte riescono persino a ridisegnarne la geografia, qualche volta anche grandi partiti storici segnati da una forte idea della disciplina interna, ne sono stati scossi, come quando nel 1991, di fronte alla prima guerra del Golfo, un gruppo di parlamentari guidati da Pietro Ingrao si ribellò al partito comunista italiano. Del resto, la coppia pace e guerra ha sempre segnato di sé la politica, proponendo ad essa drammatici ma significativi aut-aut. Oggi non intravediamo nulla di tutto questo. È come se il pensiero unico, covato sulla economia e cresciuto sulla governabilità, avesse acquistato strada facendo una capacità pervasiva, tanto da toccare anche l'alternativa tra pace e guerra. Nel pensiero unico tutto viene ridotto a ridicoli e desolati dibattiti come quelli che siamo costretti ad ascoltare sulla Libia. Come in un bar dove tutti i tifosi di calcio si scoprono allenatori per disquisire sulla tattica di gioco, così l'inabissarsi della politica porta in luce dilettantesche dispute tra politici che si mascherano da generali di complemento. La guerra, considerata come una scelta a disposizione, conduce a cercare di capire se si deve fare con l'Onu o senza, come deve essere composta la compagine dei volenterosi, con quali missioni procedere - peacemaking, peacekeeping o peace-enforcement - e procedere per via aereo o per terra, e con quali tecnologie. Dietro, lontana, oscurata, è la mozione - tanto radicale quanto di buon senso - del rifiuto della guerra. Ma adesso è derubricata. Con questa questione capitale . Ma c'è una seconda questione che la politica dovrebbe affrontare. Non basta individuare la minaccia per la pace e la convivenza civile. Non basta avere una comprensibile preoccupazione, per resistenza propria e di un popolo per giustificare il ricorso alla guerra. Una minaccia alla sicurezza non è sufficiente per motivare una scelta securitaria. Non lo è all'interno di un paese quando, di fronte all'emergere di fenomeni di violenza, si invoca uno stato di polizia. Ma non lo è neppure nelle relazioni internazionali quando, di fronte a una minaccia che viene dalla guerra, si proponga di rispondervi con la guerra. Ora l'unica cosa sicura che si può dire è che dal 1991 ad oggi tutte le guerre che l'Occidente ha intrapreso, per domare la minaccia esterna e per imporre la sua pace, sono state drasticamente falsificate, e in generale si può dire che le guerre dell'Occidente in questo ultimo quarto di secolo hanno sconvolto le realtà a cui si sono tragicamente applicate, generando oltre che distruzione e morte, rancori profondi e l'elezione, in tanta parte di quella popolazione, dell'Occidente a proprio nemico. Anche l'emergere di fondamentalismi religiosi, laddove non si manifestavano da lungo tempo, si può dire che abbia questa genesi. La spirale guerra-terrorismo, che ha attraversato il passaggio tra gli ultimi due secoli, non ha visto il terrorismo sconfitto dalla guerra, bensì dalla guerra è stato sospinto a diverse rinascite. Oggi il terrorismo dell'Isis ci angoscia per la disseminazione di distruzione dell'umanità e per la sua oscena pubblicità. Ma la lezione dell'Afghanistan è insormontabile. Non si sconfigge il terrorismo colpendo un paese in cui quello pensa di radicarsi. Il terrorismo è per sua natura deterrorializzato. L'Isis di Al Baghdadi non si propone di occupare la Libia, di farne il suo regno, ma di mimetizzarsi in quel territorio come in quello iracheno o siriano o in altro paese ancora. Tutti gli studiosi seri studiano, insieme alle linee di faglia del conflitto tra sciiti e sanniti, i conflitti tribale di interessi legati al petrolio che occupano territori dove è venuta meno una qualche unità statuale, e clamorosa è diventata la crisi di quelle classi dirigenti, spesso passate dall'autoritarismo alla scomparsa. La Libia è uno dei teatri di questi conflitti che espongono i territori a ogni penetrazione. Tutto si può fare per ritrovare il bandolo della matassa tranne che presentarsi loro come una forza di occupazione. Ma questa coazione a ripetere la guerra - e questa volta senza neppure l'illusione di essere una potenza risolutrice, e senza l'altrettanto nefasta illusione di esportare con la guerra la propria democrazia - è semplicemente impresentabile. Una vera idiozia. Se si assume la verità di una analisi del conflitto libico come quella che è venuto proponendo Lucio Caracciolo, allora bisognerebbe, al contrario di tutto questo, riscoprire le strade della politica. Si dice "prima la diplomazia", ed è sempre meglio che dire "i tamburi di guerra". Ma è pur sempre poca cosa. La diplomazia è l'arte del mettere in relazione virtuosa, o almeno non distruttiva, le diverse forze in campo. Ma qui il problema più grande è quello di suscitare il protagonismo di nuove forze e di nuove culture. Bisognerebbe cominciare dal Mediterraneo. Averlo dimenticato, in nome di un'Europa separata dal mondo, guidata dalla sua moneta e chiusa in una fortezza, peraltro assai precaria, è stato disastroso. Per contrastare i venti di guerra, devono risollevarsi le culture di pace, i dialoghi tra diverse sponde del mediterraneo, tra le civiltà che lo alimentano, tra le religioni che ne attraversano gli spazi pubblici. Un movimento pacifista non è solo il pur necessario "no" alla guerra. È la mobilitazione di questa energia . Se si riprende questo filo che l'Italia in altri tempi ha, pur con limiti seri, saputo intrecciare con i fili che provenivano dalle altre civiltà che si affacciano sul mediterraneo, si possono porre le basi di una nuova cooperazione e di un nuovo modello di sviluppo in cui il ponte tra il nord e il sud del mediterraneo e la traduzione delle sue lingue possono costruire civiltà e sconfiggere le barbarie. Anche la cooperazione economica, unica via strategica per affrontare nel medio periodo il grande e difficilissimo tema dell'immigrazione, potrebbe trovare le strade oggi impedite. Ci può essere bisogno di qualche intervento straordinario, non di guerra naturalmente, ma di un intervento delle Nazioni Unite dell'Europa per impedire fin dall'origine le imprese dei mercanti di schiavi e di morte. È possibile fin d'ora immaginare una strategia concreta di contrasto ai mercanti di armi, veri grandi signori di questi drammatici teatri. Se si pensa alla mobilitazione di forze internazionali, questo dovrebbe essere il terreno di una ricerca e di una messa in opera. Altrimenti cosa ci stanno a fare le Nazioni Unite? Giustizia: in Gazzetta ufficiale referendum per abrogare eccesso colposo da Codice penale Public Policy, 18 febbraio 2015 È stato pubblicato in Gazzetta ufficiale l'annuncio della Corte di cassazione di una richiesta di referendum popolare - avanzata dal comitato promotore "Per la libera difesa" - per l'abrogazione dell'articolo 55 del codice penale sull'eccesso colposo. L'articolo che si vorrebbe abrogare prevede che se nel compiere uno dei fatti previsti dall'articolo 51 al 54 del codice penale (esercizio di un diritto o adempimento di un dovere; difesa legittima; uso legittimo delle armi; stato di necessità) "si eccedono colposamente i limiti stabiliti dalla legge o dall'ordine dell'autorità ovvero imposti dalla necessità, si applicano le disposizioni concernenti i delitti colposi, se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo". "Il Movimento per la libera difesa - si legge sul sito internet del comitato - vuole rimuovere quegli ostacoli che non consentono ai cittadini di difendere da soli i propri diritti, i propri beni ed i propri interessi. Lo scopo dell'iniziativa referendaria è chiaro: si vuole abrogare una norma per poterne usare altre cinque. Per usare la legittima difesa, l'adempimento di un dovere, l'uso legittimo delle armi, lo stato di necessità ed il consenso dell'avente diritto - proseguono i promotori - oggi, dianzi il fallimento dello Stato, diventa necessario cancellare quella sesta norma che limita l'affermazione delle prime cinque. Quella che ci spinge non è affatto l'idea del cittadino che si faccia giustizia da sé e si sostituisca ai poteri pubblici. Vogliamo, soltanto, vivere in una società che ci difenda dal crimine con gli strumenti appropriati", concludono. Giustizia: ddl sul Falso in bilancio, ostruzionismo dopo il blitz del governo di Dino Martirano Corriere della Sera, 18 febbraio 2015 L'annuncio di un accordo riservato maggioranza-governo sull'eliminazione delle soglie di non punibilità per il falso in bilancio non è piaciuto ai membri della commissione Giustizia del Senato che si sono sentiti tagliati fuori e che, ora, presentano il conto al Guardasigilli Andrea Orlando. E a nulla è servito, in serata, un colloquio a Palazzo Madama tra il ministro del Pd, il viceministro Enrico Costa (Area popolare-Ncd) e il presidente della commissione Francesco Nitto Palma (Fi), secondo il quale "l'atteggiamento del governo è stato irrispettoso" nel momento in cui è stato deciso di bypassare la commissione e di presentare l'emendamento in Aula. Oggi il governo dovrebbe dunque comunicare se ci sarà quel cambio di rotta che però, almeno fino a ieri sera, Costa non riteneva possibile. Il giro di vite - via la soglia di non punibilità per il falso in bilancio sotto del 5% del fatturato - è una novità perché gli emendamenti precedentemente depositati dal governo al ddl Anticorruzione andavano nella direzione diametralmente opposta mentre il testo base del relatore Nico D'Ascola (Ncd) non prevedeva questa ipotesi. Nel merito, la commissione è spaccata (Forza Italia e i socialisti sono a favorevoli al ripristino delle soglie) mentre nel metodo tutti i partiti hanno contestato l'approccio del governo che vuole risolvere in aula un passaggio così delicato. Ha protestato Palma (Fi): "Forza Italia non ha presentato molti emendamenti, non era nostra intenzione fare ostruzionismo e se il governo accetta di discutere del falso in bilancio in commissione questo testo verrà votato velocemente". Giacomo Caliendo (Fi) ha garbatamente polemizzato con il vice ministro Costa e ha confermato che a suo parere le soglie di non punibilità devono rimanere. Lo stesso ha fatto il socialista Enrico Buemi. Proteste sono arrivare anche da Giuseppe Lumia (Pd): "L'accordo sul falso in bilancio raggiunto nella maggioranza con il ministro Orlando è positivo, l'estensione dell'area di non punibilità è un vero passo in avanti, ma ora il governo presenti in commissione l'emendamento che traduce l'accordo individuato". In questo clima, Forza Italia ne ha approfittato per rallentare i lavori della commissione: "Interventi ostruzionistici di Forza Italia, votare il provvedimento anticorruzione è proprio contro la loro natura", ha osservato il grillino Enrico Cappelletti. Maggioranza e Forza Italia, comunque, hanno fatto fronte comune quando si è trattato di bocciare gli emendamenti del M5S che chiedeva di raddoppiare i termini di prescrizione per i reato contro la Pubblica amministrazione. Alla Camera, poi, il presidente dell'Associazione nazionale magistrati, Rodolfo Sabelli, ha stroncato la riforma governativa in materia penale che contiene anche le norme sulla prescrizione: "È un ddl complesso ma disorganico che interviene su singoli punti senza affrontare nel complesso i nodi critici del processo penale. L'Anm, infine, mostra di non fidarsi della genericità della delega. "C'è il rischio, senza definire i criteri che il legislatore delegato dovrà rispettare, che il governo si trasformi in legislatore ordinario". Giustizia: il pm Nordio "leggi confuse producono tangenti, non serve inasprire le pene" di Goffredo Pistelli Italia Oggi, 18 febbraio 2015 La Procura di Venezia ha sede nell'ex-Manifattura Tabacchi vicino a Piazzale Roma, laddove la città è legata all'Italia da un lembo di terra. Ed è forse perché lavora coi piedi per terra che le opinioni di Carlo Nordio, procuratore aggiunto, noto alle cronache per le sue inchieste del ramo veneto di Tangentopoli, in cui portò a processo i big politici dell'epoca, da Gianni De Michelis, socialista, già ministro degli Esteri, al potentissimo Carlo Bernini, dc e già titolare dei Trasporti, forse per questo, dicevamo, che le posizioni di Nordio, sulla giustizia e sul ruolo dei giudici, sono sempre equilibrate e di buon senso. Trevigiano, classe 1947, Nordio è in magistratura dal 1977. Lavorò, giovanissimo, sulla colonna veneta delle Brigate Rosse, ma la notorietà gli venne quando, nel filone locale di Mani pulite, indagò anche Achille Occhetto e Massimo D'Alema, archiviandone successivamente le posizioni. Oggi si occupa dell'inchiesta Mose, che ha visto patteggiare la maggior parte degli indagati, tanto è stato efficace il lavoro della Procura. Inchiesta che, a breve, potrebbe arrivare alla chiusura delle indagini per gli altri protagonisti. D.. Nordio, con l'inchiesta Mose è tornato a occuparsi di corruzione. Che differenze riscontra fra allora e oggi? R.. Quello che rilevammo per tabulas, coi documenti cioè, è che il meccanismo di finanziamento, illegale e clandestino, della politica, rifletteva la forza degli schieramenti: alla Dc toccava il 40% delle opere pubbliche, cioè determinare i vincitori delle gare, al Psi, il 30%, al Pci, il 20. E comunque, senza questa ultima quota, il sistema non girava. D. Sempre di finanziamenti alla politica, si parlava... R. Certo, un sistema molto blindato, che copriva i costi della politica, salvo qualche piccola eccezione, in cui si riscontrava la destinazione personale, di questo o quel dirigente politico. D. Oggi, invece? R. Oggi, quel che colpisce, è una frammentazione politica che ha portato a una diversificazione notevole dei beneficiari. D. Vale a dire? R. Oltre ai partiti, ci sono finanziamenti personali a politici, e anche responsabili di organismi di controllo: nell'inchiesta Mose sono coinvolti magistratura contabile, delle acque, finanzieri. Rispetto al passato, però, s'è aggiunta una caratteristica che rende ancora più grave il quadro. D. Di che si tratta? R. A questa valanga di danaro pubblico distratto, s'è aggiunto lo spreco. D. Lo spreco? R. Mi spiego. In tutti i Paesi del mondo esiste la corruzione. Però... D. Però? R. Però, in genere, all'estero accade che il fatto corruttivo avvenga materialmente a opere finite. Si fanno i lavori cioè, li si fanno bene e che funzionino, e si pagano i pubblici ufficiali che hanno facilitato la cosa. D. Da noi, invece? R. Da noi si decide prima chi pagare e poi si fanno le opere, magari se ne inventano anche di inutili. D. Non vorrà dire, anche lei, che il Mose era inutile? R. No, ovviamente. È un'osservazione generale, su una tendenza che, vent'anni orsono, era appena accennata e che oggi, invece, è esplosa. Ma non è finito qui. D. Perché? R. Perché di dissipazione ce n'è stata anche di altro tipo e nella più perfetta legalità, ai fini di pura aggregazione del consenso politico, per cui si sono distribuiti a pioggia contributi. D. Si riferisce ai finanziamenti che il Consorzio Mose distribuiva su tutto il territorio e anche oltre, dal raduno estivo Vedrò di Enrico Letta alla fondazione del Marcianum dell'allora patriarca Angelo Scola? Ma insomma, erano contributi alla luce del sole e legali, come ha detto anche lei, quasi si trattasse di una sorta di responsabilità sociale di impresa del consorzio stesso. R. I nomi li ha fatti lei ma, comunque, quella della responsabilità sociale mi pare un'interpretazione benevola (ride). In gergo si diceva, appunto, "aggregare consenso politico". D. Procuratore, però il cittadino si domanda: perché, dopo l'ondata di Mani Pulite, le grandi inchieste tornano vent'anni dopo? R. Credo che le procure abbiano sempre svolto il loro lavoro. Semmai, per almeno un decennio dopo Tangentopoli, c'è stato un rallentamento della corruzione. Si diceva che i fatti si fossero notevolmente ridotti, magari a prezzi molto più alti. Poi c'è stata la ripresa e le inchieste sono state a scoppio ritardato. C'è state però ha una regione anche tecnica. D. In che senso? R. Nel senso che se si vuole fare un'indagine seria, e cioè non semplicemente gettare le reti con le intercettazioni telefoniche, pescando a strascico qualche notizia di reato... D. Cosa si deve fare? R. Bisogna puntare a individuare la costituzione dei fondi neri, ossia quei reati valutari e finanziari coi quali si realizzano somme extra-bilancio che sono poi la leva corruttiva. D. Le famose provviste, insomma. R. Esatto. E le indagini in questa direzione sono molto complesse: la falsa fatturazione, la frode fi scale, non si individuano guardando le denunce dei redditi. C'è bisogno di un'analisi dei flussi finanziari dalla quale può scattare il controllo, il pedinamento, la verifica. Ci vuol tempo. D. E quindi come ci si deve muovere, per arginare questo fenomeno? R. Guardi, la prima vera questione è sciogliere il guazzabuglio normativo attraverso il quale il pubblico ufficiale ha una discrezionalità assoluta. Poche leggi e procedimenti semplificati. La confusione normativa rende l'uomo ladro. D. Quindi non c'è bisogno di nuove fattispecie di reato o di inasprire le pene, secondo lei? R. In questi venti anni le pene non sono diminuite. Si fa sempre il caso del falso in bilancio, dicendo che è stato depenalizzato, ma è una frottola. D. Come, una frottola? R. Sì, si tratta di una legge tecnicamente fatta male, ma ancora oggi vale quattro anni di reclusione. E di falsi ce n'erano a iosa pure prima. Mi creda, non sarà l'inasprimento delle pene a fermare i corrotti. Prenda tutti i nuovi reati introdotti negli ultimi anni, dall'insider trading alla legge 231 del 2001, quella sulla responsabilità delle persone giuridiche, o anche il reato di concussione per induzione previsto dalla recente legge Severino, secondo me un grave errore. Le pare che questi reati sia spariti? D. No, anzi. Ma perché sulla concussione la legge Severino è sbagliata? R. Perché, da un punto di vista razionale, chi è indotto a pagare una mazzetta, è pur sempre una vittima. E poi c'è un aspetto pratico... D. Quale, procuratore? R. Se chi accetta di pagare la mazzetta decidesse di collaborare, venisse cioè qui, nella mia stanza, a dirmi che ha accettato le richieste di un pubblico ufficiale infedele... D. Si dovrebbe autoaccusare... R. Non solo, in quanto imputato di un altro processo, avrei dovuto averlo sentito col suo avvocato e, tutte le rivelazioni che mi avesse fatto in assenza del legale, non sarebbero utilizzabili nell'indagine. D. Si diceva di sciogliere il garbuglio legislativo. Basterebbe? R. No, ci vogliono giudizi rapidi, in un processo che funzioni, e pene certe. Oggi se uno ruba in tre case diverse in un giorno, teoricamente potrebbe prendere fi no a 10 anni per ogni distinto reato, ossia 30 anni. Invece ne prende uno e mezzo e non sconta neppure un giorno. D. E questo cosa significa? R. Significa che tutta la filosofi a dei nuovi reati crolla di fronte al fatto che sono inapplicabili. D. Adesso c'è un'Autorità sulla corruzione, affidata tra l'altro a un suo collega: Raffaele Cantone. Può servire, preventivamente? R. Aver creato un'autorità con poteri effettivi e averla affidata a un professionista che conosce i trucchi del mestiere, per così dire, è una buona cosa, ci mancherebbe. Rischia però di diventare velleitaria se non si mette mano al sistema normativo bizantino. Nella complessità estrema, c'è sempre qualche facilitatore che si fa avanti ad aprire le porte. Dobbiamo arrivare un sistema che di porte ne abbia una sola, sennò non c'è authority che tenga. I corrotti non vanno solo puniti, vanno disarmati, bisogna tagliargli le unghie. D. Il governo lavora a una riforma del processo e la commissione del ministero della Giustizia, affidata a un altro magistrato, Nicola Gratteri, ha dato molti spunti anche a riguardo dell'informatizzazione e dell'aumento delle pene. Anzi forse un po' più che spunti. R. Non mi stupisco che un pm veda il problema sotto la lente deformante della propria esperienza. Così come non mi stupisco che il politico voglia assecondare la voglia di sangue dei cittadini indignati. Ma io preferirei vedere il problema sotto una prospettiva più larga. Quella di ridurre e semplificare il nostro assurdo sistema normativo, vera fonte di corruzione. Sulla vicenda vorrei citarle però Senofane. D. Un filosofo greco, così a occhio... R. Presocratico. Invecchiando, sto infatti diventando un filosofo del diritto (ride). D. Citiamolo. R. Diceva che i Traci erano biondi e immaginavano Dio biondo come loro. E, aggiungeva, che se un triangolo potesse pensare, immaginerebbe la divinità triangolare. D. Per cui un pm, dice lei... R. Con un pubblico ministero penale si rischia di vedere le vicende con una lente deformata. Ora lei obietterà che anche io sono stato nella medesima posizione. Giustizia: il procuratore di Venezia Nordio "l'obbligatorietà dell'azione penale? è follia" 9Colonne, 18 febbraio 2015 "Pur nella mancanza di risorse, ci sono capi degli uffici giudiziari che razionalizzano e che applicano criteri manageriali. Altri, invece, sono eccellenti giuristi, ma non sono bravi manager di giustizia" ma "se il governo mi manda in pensione anticipata, da 75 a 70 anni, ben 500 giudici, fra cui i capi ufficio brillanti di cui sopra, la giustizia non diventa certo più veloce". Così il procuratore di Venezia Carlo Nordio in una intervista ad Italia Oggi parla della lentezza della giustizia italiana e sottolinea che "il problema sarà che il Csm impiegherà due anni almeno per sostituire tutti quelli che vanno in quiescenza. Per scegliere il nuovo procuratore capo di Palermo, ci ha messo un anno. Poi, chi vincerà i concorsi, prima di diventare di ruolo impiegherà tre anni. Avremmo un buco di cinque anni. Spero proprio che il governo se ne renda conto, che ci sia un cambio di rotta". E sull'obbligatorietà penale prevista in Costituzione dice: "Dico da venti anni che è una follia e che aveva senso quando il processo era inquisitorio. Dopo la legge Vassalli non più" e "non troverà un solo paese anglosassone che, con quell'impianto processuale, si permetta l'azione penale obbligatoria. Si persegue quello che il public prosecutor, il procuratore distrettuale, ritiene utile indagare. Da noi un procuratore può decidere di applicare un concetto cronologico e di lavorare sui fascicoli in ordine di tempo, che fanno statistica. A prescindere dalla loro gravità". Nota che il procuratore americano "non ha nessuna possibilità coercitiva, che spetta al giudice, mentre al giudizio provvede una giuria popolare. È il "balance of powers", l'equilibrio dei poteri, del processo accusatorio. Noi abbiamo adottato il processo americano solo in piccola parte: è come aver messo in piedi una Ferrari ma col motore della 500". Riguardo al taglio delle ferie inoltre sottolinea: "Se vogliono ufficializzare una riduzione di 10 giorni lo facciano pure. Ma ci sono magistrati che non riescono a fare neppure i 30 giorni a cui si vuol arrivare. E il lavoro notturno o festivo non viene mai recuperato o passato a straordinario, perché anche questo è il bello del nostro lavoro. Entrare nella logica del cartellino, avverto, è pericoloso, perché ci sono indagini che impegnano i pm fino alle 2-3 di notte. Che facciamo? Recuperiamo l'indomani? Mi pare che questo aspetto venga trattato grossolanamente". Giustizia: ddl sui reati ambientali in dirittura. Orlando: no al ravvedimento operoso di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 18 febbraio 2015 Il ministro della Giustizia Andrea Orlando detta la linea sui reati ambientali. E cancella il "ravvedimento operoso" per i delitti, confermando invece l'emendamento che, per quanto riguarda le contravvenzioni, ne prevede l'estinzione, nei casi più leggeri, a fronte del rispetto di una serie di prescrizioni. Intanto il Senato procede nell'esame della riforma e approva una prima tranche di correzioni. Con emendamento votato in seduta notturna in commissione al Senato il 26 gennaio, nel disegno di legge è stata inserita una causa di non punibilità per i delitti colposi se si ripara al danno commesso. Senza limiti. In sostanza con quest'impostazione, anche per le fattispecie più gravi, cioè disastro ambientale (pene previste da 5 a 10 anni) e inquinamento ambientale (da 2 a 6 anni, da 30mila a 100mila euro di multa, con aggravanti per le aree protette), si profilava la possibilità di una non punibilità, se non c'è dolo e se c'è il ravvedimento operoso da parte del colpevole. Ora l'intenzione è quella di sostenere un impianto diverso, per cui anche nell'ipotesi colposa, non si potrà applicare il ravvedimento operoso ai delitti. "Il principio di fondo - ha spiegato Orlando al termine di un'audizione parlamentare alla commissione sul ciclo dei rifiuti - è distinguere le condotte gravi, cioè i delitti, da quelle meno gravi, ossia le contravvenzioni, che possono essere risolti anche per via amministrativa. Questo anche allo scopo di non sovraccaricare il processo penale". "Ci sono emendamenti - ha aggiunto Orlando - che mirano a prevedere semmai un'attenuante, a determinate condizioni, al posto della non punibilità: il Governo è orientato in questa direzione". E l'Aula del Senato, dove l'esame proseguirà nei prossimi giorni ha approvato un emendamento presentato da Felice Casson (Pd) che aumenta le pene in caso di lesioni che derivano da inquinamento ambientale. Si prevede che se, dall'inquinamento ambientale, come conseguenza non voluta dal reo, deriva una lesione personale, ad eccezione delle ipotesi in cui la malattia ha una durata non superiore a venti giorni, si applica la pena della reclusione da due anni e sei mesi a sette anni; se è provocata una lesione grave la reclusione da tre a otto anni; in caso di lesione gravissima la pena della reclusione da quattro a nove anni. Resta la pena della reclusione da 5 a dieci anni se ne deriva la morte. Giustizia: ilpm Reggio Calabria Gratteri "difensori al processo anche in videoconferenza" Ansa, 18 febbraio 2015 "Abbiamo previsto la facoltà per i difensori di partecipare all'udienza dai propri studi mediante collegamento in videoconferenza". Lo ha detto il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, riferendo le conclusioni cui è la giunta la Commissione per la revisione della normativa antimafia. "Si sono ampliati poi - ha aggiunto Gratteri - i casi di partecipazione degli imputati al processo mediante videoconferenza, con particolare riferimento, tra l'altro, ai reati di criminalità organizzata, al fine di ridurre i rischi e i costi connessi allo spostamento tra vari istituti penitenziari, lasciando, comunque, intatta la facoltà del giudice di disporre la presenza personale dell'imputato in udienza ove lo ritenga necessario, con la sola esclusione dell'ipotesi di soggetto detenuto al quale siano state applicate le misure di cui all'art. 41 bis". "Al fine della valorizzazione del ruolo dell'avvocato - ha detto ancora Gratteri - e per evitare atti d'impugnazione inadeguati dinanzi al giudice di legittimità e, quindi, a garanzia dell'imputato e delle altre parti private, si è previsto che il ricorso per Cassazione non possa essere presentato personalmente dall'imputato". Giustizia: Cassazione; "braccialetti elettronici" dovuti, va motivata la mancata adozione di Dario Ferrara Italia Oggi, 18 febbraio 2015 Dopo il decreto svuota carceri l'applicazione del braccialetto elettronico è la modalità di controllo ordinaria della cautela domiciliare: il giudice può evitarla soltanto esponendo le ragioni per le quali non la ritiene necessaria. Ma questo significa anche che non sussiste alcun onere di motivazione aggiuntiva se il giudice ritiene che la restrizione domiciliare non sia sufficiente per le esigenze cautelari rilevate. È quanto emerge dalla 6505/15, pubblicata il 16 febbraio dalla seconda sezione penale della Cassazione. Interposizione esclusa. È accolto contro le conclusioni del procuratore generale il ricorso di uno degli indagati per la rapina di un orologio di pregio. Ma ciò solo perché il Riesame che conferma la custodia in carcere non considera le indagini difensive che offrono un alibi all'interessato. Ma attenzione: dopo l'ultimo Svuota-carceri il braccialetto elettronico è la regola della custodia domiciliare e dunque l'applicazione può essere esclusa soltanto con motivazione ad hoc. Attenzione, però: il fatto che gli arresti domiciliari con il controllo elettronico esprimano oggi la modalità ordinaria di applicazione della cautela domiciliare fa in modo che essi non configurino un nuovo tipo di cautela. E dunque questa misura cautelare non si frappone nella scala della gravità tra l'arresto domiciliare "semplice" e la custodia in carcere: non si configura quindi alcun onere di motivazione aggiuntiva se il giudice ritiene che la restrizione domiciliare non sia adeguata per far fronte alle esigenze cautelari nel caso di specie. Giustizia: caso Yara; Ris di Parma "sui vestiti fibre dei sedili del furgone di Bossetti" di Giuliana Ubbiali Corriere della Sera, 18 febbraio 2015 Fili e percentuali di colore dei sedili sono identici. Per l'accusa è la prova "risolutiva" contro il muratore. Controllati duemila proprietari di vetture simili: quel giorno nessun altro si trovava nella bergamasca. Al Ris di Parma hanno simulato la scena. Un capitano donna dei carabinieri è salita sul furgone Iveco Daily di Massimo Giuseppe Bossetti e si è seduta sul sedile. Quando è scesa, sui vestiti aveva appiccicate fibre del tessuto sintetico di tipo industriale che lo riveste. Fili gialli, grigi, blu e celesti come quelli che Yara Gambirasio aveva sui leggings e sul giubbotto che indossava la sera del 26 novembre 2010, quando è sparita dalla palestra di Brembate Sopra e non è più tornata a casa. L'ha uccisa il carpentiere di Mapello, moglie e tre figli, è convinto il pubblico ministero Letizia Ruggeri. Che il 16 giugno l'ha mandato in carcere principalmente perché il suo Dna corrisponde a quello di Ignoto 1, il presunto killer, trovato sugli slip e sui leggings della vittima. Poi sono trapelati altri elementi che chi indaga ritiene siano forti. Anzi "risolutivi", in questo ultimo caso. Le fibre colorate - decine - sono distribuite sugli indumenti di Yara nella stessa percentuale, in proporzione, con cui compongono il rivestimento. Analizzate al microscopio, corrispondono per caratteristiche chimiche, morfologiche e cromatiche a quelle dei rivestimenti. Ma i sedili dell'Iveco di Bossetti sono così personalizzati da poter sostenere che quel tessuto appartenga solo a quel furgone? In realtà sono di serie. C'è però un passaggio precedente che giustifica la sicurezza degli inquirenti. Sono risaliti a 2.000 Iveco Daily immatricolati nel Nord Italia, da Reggio Emilia in su. Li hanno controllati e fotografati tutti. Poi hanno verificato dove si trovassero i proprietari, il 26 novembre del 2010. Qualcuno è stato convocato per chiederglielo, ma per buona parte è bastato verificarlo con le celle telefoniche agganciate dai loro telefonini. Nessuno di loro risulta essere stato nella zona di Brembate Sopra, il giorno dell'omicidio. Nessuno tranne Bossetti, che ci passava abitualmente per tornare dal lavoro - come ha sempre detto - e che alle 17.45 di quella sera ha agganciato la cella di Mapello compatibile con quelle catturate dal cellulare della bambina. E che - è convinzione del pm - era sull'Iveco che la sera del delitto ha girato nella zona del centro sportivo, dalle 18 alle 18.47, e che è stato filmato dalle telecamere di una banca sulla via della casa di Yara, di una ditta e del distributore di benzina sulle vie di lato e davanti alla palestra. L'accertamento sulle fibre si può ripetere. Per questo motivo non è stato coinvolto nessun consulente di parte. Se non fosse trapelato da notizie giornalistiche, l'avvocato Claudio Salvagni l'avrebbe saputo solo a inchiesta chiusa. Non sa che reazione ha avuto Bossetti. Lo vedrà venerdì, dopo il deposito dell'appello a Brescia contro il secondo recente no del gip alla scarcerazione. Sbotta alla notizia delle fibre: "Guarda caso esce a una settimana dall'udienza in Cassazione (contro il primo no alla scarcerazione, ndr). Commento una notizia giornalistica con tutti i benefici del dubbio. Ma esiste un Dna del tessuto che dice che è proprio quello dei sedili del furgone di Bossetti?". Legale: ogni elemento letto sempre contro Bossetti "Ancora una volta mi trovo a commentare perizie di cui non ho neppure l'atto di avvenuto deposito e di nuovo ho la sensazione che tutto viene letto contro Massimo Giuseppe Bossetti". Così Claudio Salvagni, legale del 44enne muratore in carcere con l'accusa di aver ucciso Yara Gambirasio, commenta le ultime indiscrezioni relative a un supplemento d'indagine del Ris di Parma sul furgone dell'indagato: sui leggings della 13enne di Brembate di Sopra, scomparsa il 26 novembre 2010, sarebbero stati ritrovati fili del sedile del camioncino del suo presunto assassino. Una notizia che il legale non può né confermare né smentire, ma su cui osserva: "un conto è capire se c'è una compatibilità su quanto trovato sui leggings della vittima e il materiale presente sul furgone di Bossetti, un altro è dire che è compatibile con un tipo di tappezzeria di serie che, in quel caso, indicherebbe solo un modello di furgone. Ma tanto - aggiunge - tutto viene letto contro il mio assistito; ci difenderemo a processo". E mentre la procura va verso la chiusura indagine, l'avvocato Salvagni si prepara al nuovo appello da presentare al Riesame - dopo la bocciatura ‘bis' del gip di Bergamo - e all'udienza in Cassazione fissata per il prossimo 25 febbraio. Giustizia: caso Alpi; testimone ritratta. La madre di Ilaria: liberate il ragazzo, è innocente di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 18 febbraio 2015 "Questa è un'altra Ustica. Ci credo poco che queste rivelazioni riescano a tirare fuori dal carcere un innocente". È scettico l'avvocato Douglas Duale. Stasera a Chi l'ha visto, Federica Sciarelli manderà in onda la ritrattazione del falso supertestimone: Ahmed Ali Rage, detto Jelle, che sostenne di aver visto il somalo, Omar Hashi Hassan, sparare a Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Ma in realtà, rivela ora, avrebbe mentito, su pressioni "degli italiani che avevano fretta di chiudere il caso", in cambio di denaro. "Che ci fossero state pressioni da parte dell'ambasciatore Hashi lo dice" rivela il legale. "Lui stesso venne portato all'ambasciata da Jelle con una scusa: faceva parte di una lista di testimoni, attesi dalla procura di Livorno e dalla commissione Gallo per deporre sui maltrattamenti subiti da alcuni militari italiani" spiega. Il diplomatico gli avrebbe chiesto collaborazione, in cambio di soldi, per sfrondare quella lista. "Poi, racconta Hashi, l'ambasciatore si alzò con una scusa e Hashi vide che gli stava scattando foto. E allora se ne andò". "In seguito - continua il legale - Hashi venne avvicinato da Jelle che gli propose un "business". Gli disse che gli italiani volevano chiudere il caso Alpi e gli avrebbero offerto dei soldi se si fosse accusato dell'omicidio. Lo avvertì anche di non andare a deporre in Italia, Hashi lo mandò al diavolo. E venne perché non aveva nulla da nascondere. All'arrivo fu arrestato. Ma è innocente. Al processo di primo grado venne fuori tutto e fu assolto. Ma dopo venne condannato ed è ancora è in carcere. Ma non si capacita ancora del perché". "Spero tanto che venga scarcerato" dice la mamma di Ilaria Alpi, Luciana, che attende con trepidazione di sapere chi ha depistato e perché. "È un ragazzo buono. L'anno scorso per la prima volta ha avuto un permesso di mezz'ora, mi ha telefonato: "Mamma è per te che dici a tutti che sono innocente che l'ho avuto. Grazie". Capirai. Io e mio marito abbiamo sempre pensato che fosse innocente. Aspetto i colpevoli veri". Giustizia: caso Ruby; ma se non c'è il reato, perché dovrebbero aver mentito i testimoni? di Tiziana Maiolo Il Garantista, 18 febbraio 2015 Il procuratore capo di Milano, Edmondo Bruti Liberati, reduce di una vittoria a tavolino (e che tavolino!) sul suo (ex) vice Robledo, ha usato la fanfara delle grandi occasioni. Con un comunicato stampa ha annunciato di aver disposto perquisizioni nelle case di una serie di giovani amiche di Berlusconi e persino di un avvocato, Luca Giuliante, il primo difensore di Ruby. Ha anche interrogato il ragionier Spinelli, il "cassiere". Voleva controllare le uscite, anche recenti. Il Grande Fratello aveva notato "recenti movimentazioni di danaro sui conti correnti". Berlusconi è sospettato di generosità. L'inchiesta, detta "Ruby ter", a riprova dell'accanimento che ricorda tanto le indagini sulla mafia, dormicchiava da un anno, da quando era stata aperta al termine del processo nel quale Berlusconi era stato condannato. Del fatto che nel frattempo un altro dibattimento e altri giudici avessero ribaltato quella sentenza e assolto, alla procura di Milano importa poco, quel che conta è stabilire una volta per tutte che Arcore fosse una sorta di quartiere a luci rosse e le ragazze che frequentavano le cene, puttanelle prezzolate. Infatti il succo del "Ruby ter" - processo eterno come quello sulla morte di Borsellino, lì siamo al quater, dopo ventitré anni - è che le ragazze, che nel frattempo grazie allo scandalismo orchestrato dal solito circo mediatico-giudiziario, avevano perso il lavoro, siano state corrotte. La logica è sempre quella del complotto. La sub-cultura che lo ispira è analoga a quella del processo più ridicolo del secolo, quello che si chiama "Stato-mafia": quando si è incapaci di leggere la realtà storica, prima la si trasforma in storia criminale, poi si costruisce il complotto di oscure forze diaboliche. In questo caso i complottisti sarebbero Berlusconi e i suoi avvocati Longo e Ghedini i quali, insieme a un gruppo di ragazze, si sarebbero resi responsabili di "corruzione in atti giudiziari" e falsa testimonianza. Cioè gli aiuti economici sarebbero stati finalizzati a indurre le testimoni a mentire sulle serate di Arcore. Ma mentire su che cosa, dal momento che Silvio Berlusconi è stato assolto nel processo d'appello dai due reati di cui era imputato? Perché va sempre ricordato che nei processi non si giudicano (non si dovrebbe) la moralità e i comportamenti sessuali degli imputati. Si deve solo verificare se l'imputato abbia o meno commesso un determinato reato. Berlusconi doveva rispondere della famosa telefonata in questura in cui avrebbe concusso un signore che negava di esser stato concusso, ed è stato tardivamente assolto, in appello. Ma gli era cascata in testa anche l'accusa di "prostituzione minorile", un reato assurdo voluto da una maggioranza politica di centro-destra (nel nostro ordinamento esiste solo lo sfruttamento della prostituzione), di cui non si capisce bene neppure quale ruolo avrebbe svolto una persona come Berlusconi: quello di pappone o di fruitore? In ogni caso la corte d'appello ha detto che lui poteva benissimo non conoscere l'età di Ruby, l'unica minorenne (17 anni e mezzo) presente alle serate. Quindi, assolto. Su che cosa avrebbero quindi mentito le ragazze prezzolate? Il sospetto è, come sempre, che anche questo terzo processo (quarto, se si considera anche quello contro Emilio Fede e Lele Mora) voglia in realtà giudicare i comportamenti di Berlusconi più che la commissione di reati. Nessuno ha mai nascosto gli aiuti economici liberamente offerti da un signore molto ricco a una serie di sue amiche. Mantenute? Può darsi, come capita a tante e tanti. E allora? E se anche, come la Procura sospetta, queste elargizioni si fossero protratte nel tempo, se durassero tutta la vita? Quale reato sarebbe? Aspettiamo fiduciosi il "Ruby quater" per saperlo. Lettere: aiutate Alfio, è ridotto a un vegetale, ma è in cella da 24 anni Il Garantista, 18 febbraio 2015 Non è capace di intendere e di volere, non sa dove si trova né perché: sua madre non riesce più ad aiutarlo. La lettera che pubblichiamo è stata scritta da un gruppo di detenuti della Casa di Reclusione di San Gimignano. L'avevano inoltrato, prima della scadenza del suo mandato, al presidente della Repubblica Napolitano per chiedere la Grazia per un loro compagno, Alfio Freni. È un ergastolano, entrato in carcere da giovanissimo a 19 anni, e ininterrottamente detenuto da 24 anni. Ma non è una persona come tutti gli altri perché Alfio ha gravi problemi mentali. Chi in carcere lo incontra racconta di una persona chiusa, estremamente remissiva, diffidente di tutto e di tutti e sembra spaventato dall'idea che vogliano da lui "confessioni: non comprende dove si trova, non sa difendersi, non si fa difendere. È un uomo completamente abbandonato dalla famiglia. A suo tempo era seguito solo dalla madre, ma ora è anziana, ammalata e non ha soprattutto risorse economiche per aiutarlo. A tratti quel che ha dentro esplode in comportamenti violenti e spacca tutto quello che ha in cella, per poi finire quindi isolamento con altrettante denunce per danni. I suoi compagni di detenzione sono sconvolti dalle sue condizioni, soprattutto trovano incomprensibile l'atteggiamento delle istituzioni. E quindi hanno preso a cuore il suo caso e si sono rivolti al presidente della Repubblica. Hanno deciso di non rimanere indifferenti, a differenza delle istituzioni che hanno semplicemente rinchiuso Alfio e buttato via la chiave. Per sempre. Ci auguriamo che l'attuale presidente della Repubblica Sergio Mattarella prenda a cuore questo caso. Illustrissimo Presidente della Repubblica Italiana Signor Presidente, siamo dei detenuti della Casa di Reclusione di San Gimignano (Siena), le scriviamo affinché interceda con un atto di Clemenza e di Grazia nei confronti di un detenuto di questa Casa di Reclusione. Le nostre parole sono mosse soltanto dalla compassione e dall'umanità che proviamo verso quest'uomo, il quale è entrato poco più che maggiorenne ed è da 24 anni detenuto ininterrottamente. Lo stesso, attualmente, per problemi "mentali" non ha alcuna possibilità di difendersi, in balia di se stesso oltre che del sistema giudiziario, e privo della capacità di intendere e di volere. Un diritto questo garantito dalla nostra Costituzione, sia dall'art. 3 (che assicura pari dignità sociale a tutti i cittadini davanti alla legge), sia dall'art. 27 (dove si dice che le pene non possono consistere in un trattamento contrario al senso di umanità, tendendo alla sua rieducazione). Come detenuti, e in quanto tali cittadini, anche se "ultimi degli ultimi" di questa società, ci appelliamo ad Ella, massima carica Istituzionale Garante della Costituzione, proprio in nome dell'imprescindibile diritto alla dignità, ed umanità di tutti gli uomini, nessuno escluso. Le scriviamo, di conseguenza, per porre fine ad un'infinita sofferenza di una vita umana, ormai non più consapevole della realtà in cui vive. Ci chiediamo a cosa serve allo Stato Italiano tenere detenuto, applicando la legge, un essere umano senza che l'espiazione della sua pena non sia collegata ad una speranza di rieducare collegata ad una tenue possibilità di libertà? O forse, meglio per lui, la morte? Nemmeno nei Paesi dove è in vigore la pena di morte è consentito l'applicazione di questa pena mostruosa, se il condannato a morte non è consapevole del suo stato, per cui addirittura viene sospesa la pena. Questo è il caso di Alfio Freni matricola n. KK029000779, il suo fine pena è "9999, Ergastolo": ma l'unica cosa che Freni comprende è fumare, o mangiare; e questo è possibile solo grazie allo spirito di solidarietà nostra, che ci facciamo carico di tutto affinché non sprofondi in un abisso senza ritorno. Quanto scriviamo è solo una piccola porzione della vita giornaliera dì Alfio, perché la sua non è una vita degna d'essere chiamata tale; sarebbe meglio chiamarlo "stato vegetale", risultando egli condannato ancor più dall'ergastolo della "natura", che da quello Stato Italiano. Alfio Freni è in uno stato di completo ed assoluto abbandono, l'unico collegamento della sua vita è la sua Mamma. Lei, pur in precarie condizioni di salute, l'ha sempre sostenuto in qualche modo. Ma anche questo legame, almeno per lui, si sta allontanando, i ricordi si fanno sempre più fievoli, tanto che egli perde ormai ogni controllo delle sue azioni. Questa povera donna è disperata, segue il figlio fin da quando, a 19 anni è entrato in carcere, non sa come poterlo aiutare, non avendo risorse economiche per poterlo fare. Signor Presidente, Ella è l'unica speranza di Alfio, ci sono moltissime cose che si potrebbero scrivere per meglio farle comprendere quanta e quale sofferenza, in- consapevole, viva quest'uomo, che non si rende conto né dello spazio né del tempo in cui vive. Noi, qui, non possiamo girare la testa dall'altra parte, facendo finta di non vedere la cella dove vive, restando indifferenti. La nostra coscienza ci impedisce di non provare una grande tristezza nell'assistere giornalmente a questo rito. Non possiamo guardare solo la nostra anche se dolorosa condizione, senza far nulla, e l'unica cosa che possiamo, dal posto dove ci troviamo, è scriverle. Mettere a conoscenza la sua persona caratterizzata, oltre che dall'alto profilo delle sue funzioni istituzionali, dalla sensibilità che Ella ha sempre avuto, come uomo, per i più deboli. Pertanto, qualora ritenesse opportuno valutare ed accogliere in qualche modo le nostre parole, ci renderebbe oltremodo felici di poter offrire il nostro contributo per liberare dalle "catene" un uomo, che non ha più nulla da chiedere alla vita, e che ha bisogno dell'umanità di tutta la società perché si possa sottrarre ad una fine certa, oltre che annunciata. Per quanto esposto chiediamo la Grazia per Alfio Freni, apponendo ognuno di noi la firma a sostegno della richiesta nella speranza possa essere accettata. Ringraziamo Lettere: hanno lasciato morire il mio Roberto… aiutateci Il Garantista, 18 febbraio 2015 Ci scrive la moglie del signor Roberto Jerinò, morto - secondo la denuncia - per noncuranza e disattenzione del carcere di Arghillà (Reggio Calabria). In seguito alla denuncia fatta in queste stesse pagine, Enza Rruno Rossio, deputata del Partito Democratico e membro della Commissione Bicamerale Antimafia, ha presentato una interrogazione parlamentare al Governo. Al momento, le indagini dirette dal pubblico ministero, dott. Giovanni Calamita, stanno procedendo e ci auguriamo che ci siano risvolti positivi affinché sia fatta giustizia. Mi chiamo Caterina Gligora e sono la moglie di Roberto Jerinò. A distanza di un mese e mezzo dalla morte di mio marito e dopo la peggiore sentenza che poteva essere emessa nei suoi confronti nel processo di appello in cui era imputato, per la prima volta scrivo queste poche parole per ricordare il suo nome. Prima di ogni cosa, non posso esimermi dal ringraziare pubblicamente, a nome mio e di tutta la mia famiglia, il Sig. Michele Caccamo e questa speciale sezione del Garantista "Lettere dal Carcere" che primi fra tutti, il 6 gennaio 2015, hanno ricordato mio marito raccontando la sua tragica fine. Un ulteriore ringraziamento lo rivolgo a Marco Pannella e Emilio Quintieri e tutti coloro che stanno facendo luce sul caso di mio marito. Sono una moglie, una madre e, soprattutto, una cittadina di questo Paese, sconcertata da quello che è successo, che oggi chiede Giustizia per quello che è accaduto a mio marito. Il 26 ottobre 2014, mio marito, un uomo buono ed educato, veniva colpito da un malore improvviso per cui sarebbe stato necessario un suo immediato ricovero in ospedale, ma così non fu e, quindi, aveva inizio il suo lungo calvario che lo ha portato alla morte il 23 dicembre 2014 presso l'Ospedale Riuniti di Reggio Calabria. Eppure, mio marito, tra le mura fredde di quella cella del carcere di Arghillà, cercava aiuto, ma nessuno che avesse le competenze per farlo lo ha aiutato, aveva il diritto di essere curato, aveva il diritto di vivere. Mi domando, ma in quale mondo viviamo?? In che Paese viviamo? Sono scioccata per tutto quello che ho visto negli ultimi due mesi di vita di mio marito. Non c'è umanità, questa è la fine del mondo. Vivere nelle carceri, significa vivere nel silenzio ogni sofferenza, essere isolati dal resto del mondo e si deve essere tanto forti perché il sostegno lo puoi ricevere tutto al più, un'ora a settimana dalla famiglia. Dinanzi al rigetto degli arresti domiciliari, la mia famiglia è caduta nello sconforto più totale. Mio marito aveva bisogno di cure e di affetto familiare, ma gli sono stati negati. Mi domando ancora una volta, ma quando succedono queste ingiustizie, lo Stato dov'è? I nostri politici pensano solo come possono salire al potere? Questa è una vergogna! Quello che è successo a mio marito, è successo anche ad altri detenuti, ma il problema è che domani potrebbe succedere ancora e noi non possiamo accettarlo. Sono tanto arrabbiata con lo Stato, perché non effettuano controlli per rendersi conto di questa difficile o addirittura mostruosa realtà delle carceri italiane e dei numerosi casi di mala sanità che attanagliano il nostro Paese. Hanno distrutto la mia vita e quella dei miei figli e che, per questo, finché avremo l'ultimo sospiro vogliamo che venga fatta giustizia e che i responsabili paghino le loro colpe. Ci affidiamo alla magistratura competente, per individuare tutti i colpevoli della morte di mio marito che non meritava l'ingiusta fine che ha fatto. Nessuno merita di morire così! In ultimo mi chiedo se la sera, il/i responsabile/i riescono a dormire in pace e se hanno la coscienza pulita. Di una cosa sono certa, un giorno dovrà o dovranno dare conto a Dio, perché solo lui dà la vita e solo lui può toglierla. Siamo tutti figli di Dio e mio marito lo era pure, ma, nonostante ciò, dopo tante ingiustizie che ha subito, gli è stato negato di entrare in Chiesa per avere un degno funerale. Chi è l'uomo per decidere chi deve entrare e chi non deve entrare nella Casa di Dio. Grido con tutta la mia voce, la vergogna per quello che è successo a mio marito. Con questa mia lotta, mi unisco a tutte quelle persone e quelle famiglie, che stanno soffrendo come me e la mia famiglia. Mi rivolgo anche a loro, non dobbiamo smettere di lottare e di chiedere che sia fatta giustizia. Rispetto per ogni vita umana, perché essa è un dono di Dio. Ascoli Piceno: detenuto ritrovato in fin di vita in cella, aperte due inchieste Corriere Adriatico, 18 febbraio 2015 Un detenuto, che da poco più di un mese si trova rinchiuso nel carcere di Marino, versa in gravissime condizioni nel reparto di rianimazione dell'ospedale regionale di Torrette dove è stato ricoverato nella tarda serata di venerdì scorso, subito dopo essere stato rinvenuto dagli agenti di polizia penitenziaria di turno privo di sensi all'interno della cella dove si trovava recluso. Si tratta del cinquantatreenne Achille Mestichelli abitante a Castel di Lama dove vive con gli anziani genitori. Ieri mattina quest'ultimi, assistiti dall'avvocato Felice Franchi, si sono recati in Procura per depositare un esposto in cui si chiede che vengano accertate le cause che hanno provocato al loro congiunto una lesione al cervello con conseguente coma che sembra possa rivelarsi irreversibile. Tra le ipotesi anche quella di un ictus. Achille Mestichelli nello scorso mese di gennaio era stato arrestato dai carabinieri della stazione di Castel di Lama in esecuzione di una sentenza definitiva. Era stato condannato a due anni di reclusione per aver commesso un furto, episodio risalente ad alcuni anni fa. Intorno alle 21 di venerdì scorso i detenuti con i quali divideva la cella hanno lanciato l'allarme in quanto il loro compagno dava flebili segni di vita. È stato prontamente soccorso e visitato dal medico di turno il quale, valutato il suo stato di salute, ha deciso che l'uomo venisse trasferito a Torrette dove si trova tuttora ricoverato in rianimazione intubato ed in coma profondo. Sono state aperte due inchieste: una da parte della Procura di Ascoli, l'altra dalla direzione del carcere. Dalle poche notizia che sono trapelate sembrerebbe che nella cella dove si trovava rinchiuso Achille Mestichelli vi fossero altri cinque detenuti: tre italiani e tre di nazionalità straniera. Dagli interrogatori che verranno effettuati dagli investigatori si potrà ricostruire la dinamica dei fatti. Il pesante sospetto è che il trauma riportato dal cinquantatreenne possa essere stato causato da uno o più colpi ricevuti al volto. Non si esclude, comunque, che possa essere caduto accidentalmente dal letto a castello dove si potrebbe essere sdraiato in attesa di prendere sonno. Le due inchieste, in attesa della chiusura delle indagini, sono state secretate. Arezzo: se il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle carceri www.informarezzo.com, 18 febbraio 2015 Il guano è alto almeno dieci centimetri e non è infrequente imbattersi in cadaveri rinsecchiti di piccione: la situazione del carcere di Arezzo risulta offensiva per la dignità umana. "La situazione del carcere di Arezzo non è affatto migliorata. Anzi, è peggiorata. E circa l'abbandono dei lavori di ristrutturazione da parte dell'impresa incaricata, se non otterrò risposte adeguate dovrò prendere in considerazione l'ipotesi di un esposto alla procura perché si valuti se ci sono responsabilità nell'utilizzo del denaro pubblico". Lo ha dichiarato il garante dei detenuti della Regione Toscana, Franco Corleone, dopo il sopralluogo di questa mattina al carcere di Arezzo, prima tappa di una serie di visite che nei prossimi giorni interesseranno i penitenziari di Prato, Lucca e Pisa. "Nonostante l'impegno dei consiglieri regionali, che hanno presentato e approvato più di una mozione, e nonostante gli interventi dei parlamentari, la situazione del carcere di Arezzo risulta offensiva", ha sottolineato Corleone. "Il deterioramento avanza. Adesso per spostarsi da una sezione all'altra servono gli stivali. Il guano è alto almeno dieci centimetri e non è infrequente imbattersi in cadaveri rinsecchiti di piccione". Il garante ha definito "impressionante" la stato di molte sezioni che "sono completamente abbandonate, come dopo un terremoto, con letti e materassi lasciati a sé stessi, così come i libri della biblioteca, le chitarre della sala e i computer della sala informatica". Tutto ciò è il risultato dei lavori di ristrutturazione, iniziati ma "interrotti improvvisamente". "Da quel momento", ha aggiunto Corleone, "è iniziato lo scarica barile tra l'Amministrazione penitenziaria e il commissario straordinario per l'edilizia carceraria. Domani i garanti dei detenuti della Toscana incontreranno il provveditore regionale e, se non ci saranno risposte sulla situazione di Arezzo, scriverò al dipartimento nazionale. Se anche in questo caso non avrò risposte valuterò l'ipotesi di presentare un esposto alla procura di Arezzo". Riguardo alla situazione dei detenuti, Corleone ha detto che ad oggi le persone incarcerate ad Arezzo sono 22, "ma con la ristrutturazione la struttura potrebbe ospitarne circa 100". Le sezioni utili, ha spiegato il garante, sono due: quella degli arrestati e quella dei collaboratori di giustizia (attualmente sono sei). Quest'ultima sezione è stata definita "abbastanza decente, anche se priva di laboratori dove svolgere una qualche attività", mentre la sezione degli arrestati e la micro sezione dei semiliberi "hanno celle piccole, passeggi angusti di sei metri per uno, reti sopra la testa, come ci si trovasse in un carcere di massima sicurezza". Il Garante regionale ha riferito che il direttore del carcere "ha proposto all'amministrazione penitenziaria un finanziamento per migliorare le condizioni di vita ed igienico sanitarie delle celle, "dove in molti casi i due detenuti devono condividere il wc senza alcun tipo di riservatezza, una situazione che è inaccettabile per la dignità della persona" e che è segno di inciviltà". "Spero", ha concluso, "che questi lavori di emergenza siano fatti al più presto, ma la questione della finta ristrutturazione, ci si è limitati solo a ritinteggiare le pareti esterne, va assolutamente risolta, anche perché ha provocato danni aggiuntivi, come aver ostruito l'accesso alla palestra. È una struttura che va riconcepita e serve un'assunzione di responsabilità da chi la può esercitare, perché ci sono gli atti del Consiglio regionale e quelli dei parlamentari che non possono essere ignorati". Padova: Telefono Azzurro, sessanta volontari per far da ponte tra detenuti e figli di Alberta Pierobon Il Mattino di Padova, 18 febbraio 2015 Due le ludoteche in carcere gestite da Telefono Azzurro Diminuiti della metà i bimbi che vanno a trovare i padri. "La maggior parte delle famiglie, al momento dell'arresto del genitore, in questo caso il padre, salta. E sono pochi, veramente pochi, i detenuti del Due Palazzi che hanno contatti con i figli, che li incontrano in carcere. Ancora meno da qualche anno, per via della crisi: mamme che devono prendere permessi dal lavoro per venire ai colloqui, se arrivano da fuori con i bambini vuol dire anche biglietto del treno, costi per mangiare. Sono soldi", spiega Concetta Fragasso, 54 anni, ex insegnante, da 10 anni volontaria a Telefono Azzurro di Padova, da sette referente per il progetto "Bambino e carcere" che impegna 60 volontari formati, dagli studenti universitari ai neo pensionati, in prevalenza donne. Sono 17 in tutt'Italia i progetti di Telefono Azzurro in carcere, quello di Padova (nato nel 1998), supportato dal direttore Salvatore Pirruccio, è il più importante. Perché ha allestito e gestisce due ludoteche, una per carcere, aperte tutti i sabato e al penale anche altri sei giorni al mese: in marzo verrà inaugurata quella del circondariale, completamente risistemata con mobili e giochi regalati (e montati) dall'Ikea. Perché affianca, dove ce ne sia necessità e ce n'è davvero tanta, padri e figli (fino ai 14 anni) nei colloqui, cercando di creare un ponte quando dopo cinque minuti cala il silenzio; quando il piccolo, teso e stanco dalle lunghe attese che accompagnano ogni ingresso in carcere, si rifugia nel pianto; quando il padre ha gli occhi fissi e persi, bui di angoscia e di incapacità a comunicare. E perché organizza molti incontri a misura di genitori e bambini, come la festa del papà, domenica 22 marzo: una giornata per i padri detenuti e i loro figli, con i volontari di Telefono Azzurro, otto nasi rossi dell'associazione Dottor Clown e lo spettacolo del gruppo Teatro-carcere di Maria Cinzia Zanellato: fiabe raccontate, e cantate, dai detenuti. Giusto per fotografare la situazione: casa di reclusione, 900 detenuti definitivi su 436 posti originari; casa circondariale, 245 detenuti in attesa di sentenza o con condanne inferiori a tre anni, stipati in una struttura costruita per 90 posti letto. Se fino a qualche anno fa, in totale, nelle due ludoteche ogni mese arrivavano 100-120 bambini per incontrare i papà, ora la media è crollata a 50-60 al mese. Così come sono diminuiti i colloqui: mogli e figli, genitori, parenti fanno fatica a sobbarcarsi le spese per gli spostamenti. "Spesso sono gli educatori a chiedere il nostro appoggio per casi speciali e allora apriamo la ludoteca anche fuori orario per gli incontri", racconta ancora Concetta Fragasso che è un fiume in piena, al "suo" progetto dedica anima, testa e cuore, perché, butta lì sorridendo, "magari sarà una piccola cosa, ma qualcuno deve pur farla". "La nostra missione è tutelare gli interessi del bambino", continua "Mi ricordo una bambina che non conosceva il suo papà. Piangeva. Piano piano, ogni volta un po' di più, hanno stabilito un rapporto: con noi, figure ombra, che abbiamo fatto da ponte, con cose semplici: un disegno, il gioco dell'oca, o quello della moka: i piccoli fingono di fare il caffè, lo offrono ai padri, un piccolo gioco ma funziona. Anche questa è prevenzione: poter incontrare i figli, avere con loro una relazione abbassa il livello di aggressività nei detenuti, mantiene integro l'aspetto della dignità, che è fondamentale. Nelle sale per i colloqui c'è un rumore assordante, spesso il marito detenuto e la moglie si mettono a parlare tra loro e i figli restano in disparte. In ludoteca non ci sono agenti, noi interveniamo con discrezione, tutto è più spontaneo e gli ambienti sono belli, allegri: a volte i papà li mostrano con orgoglio come a dire al figlio: anche io posso portarti in un bel posto". Varese: evasione dal carcere dei Miogni, indagati altri sei agenti penitenziari di Simona Carnaghi La Provincia di Varese, 18 febbraio 2015 Si allarga l'inchiesta della procura: il sospetto è che sapessero del piano d'evasione. Controlli su computer, cellulari e pen drive. Il dubbio: altri hanno ricevuto denaro? Terremoto Miogni: l'inchiesta si allarga, ci sono altri sei indagati. Sono altri agenti appartenenti alla polizia penitenziaria di Varese: l'autorità giudiziaria sta conducendo indagini su loro. Il sospetto è che i nuovi indagati sapessero del piano per l'evasione dei tre detenuti, e del diretto coinvolgimento dei cinque colleghi poi arrestati, ma che abbiano taciuto. Condotta omissiva, insomma, non è ancora chiaro se mantenuta in cambio di qualcosa oppure per spirito di corpo. Accertamenti sono in corso su computer, cellulari e pen drive finiti sotto sequestro. In tutto ad oggi, per la magistratura, sarebbe 20 i coinvolti nella rocambolesca fuga andata in scena il 21 febbraio del 2013 dal carcere varesino. Il 9 dicembre scorso, all'alba, scattarono le manette per cinque agenti della polizia penitenziaria di Varese: in manette, finirono un graduato del carcere di Varese, Rosario Russo, 45 anni, assistente capo, e quattro agenti: Francesco Trovato di 55 anni, Domenico Di Pietro di 57 anni, Carmine Petricone di 28 anni e Angelo Cassano di 40 anni. A far scattare le manette fu un'operazione congiunta tra polizia penitenziaria di Varese, carabinieri di Luino, squadra mobile guardia di finanza. Per l'accusa i cinque arrestati ricevettero sesso e denaro per far evadere Victor Miclea, 31 anni, Daniel Parpalia, 30 anni e Marius Bunoro, 25 anni, tutti romeni. Miclea, in particolare, era in carcere per sfruttamento della prostituzione. Considerato la mente del piano avrebbe fornito ragazze gratis ai cinque coinvolti. Contestualmente ai cinque arresti, furono iscritti nel registro degli indagati altri nove agenti della penitenziaria. Da settimane la procura è impegnata in una lunga serie di interrogatori. Indagando altri sei appartenenti alla Penitenziaria e portando a 20 il numero di agenti sospettati di essere coinvolti in un gran giro di corruzione tutta interna ai Miogni. Già dall'ordinanza firmata dal gip Anna Giorgetti che ha portato a far scattare le manette lo scorso dicembre era chiaro che anche altri fossero quantomeno informati del piano di fuga. Tra chi per tre ore sentì il rumore causato dalla lima usata dai tre fuggiaschi per segare le sbarre della finestra della cella attraverso la quale i detenuti scapparono, a chi sapeva che ai tre erano stati forniti telefoni cellulari attraverso i quali la fuga fu organizzata, sino a chi pur avendo colto anomalie e irregolarità commesse dai colleghi evitò di segnalare l'accaduto al direttore del carcere. Fu un "gioco di squadra" tra chi era direttamente coinvolto e chi fece finta di non sapere? Qualcun altro ricevette denaro o sesso per voltarsi dall'altra parte? Furono effettivamente chiesti favori ai detenuti? L'inchiesta della procura punta in questa direzione. Lamezia Terme: lettera aperta Sappe sulla riapertura Casa circondariale www.lametino.it, 18 febbraio 2015 Pubblichiamo la lettera che il Sappe ha inviato al ministro della giustizia sulla riapertura della casa circondariale. "Questa O.S. intende evidenziare come l'Istituto penitenziario in oggetto risulti dismesso dal 28 marzo 2014, pur non essendovi ancora un provvedimento formale in tal senso. Al riguardo, corre l'obbligo di evidenziare che non vi sono state specifiche concertazioni sindacali né con gli Enti locali; inoltre, la struttura, oggetto di recenti significativi interventi di restauro, non è stata riattivata né si è provveduto a farne sede logistica della Polizia Penitenziaria e men che meno vi è stato trasferito il Provveditorato Regionale nei locali di proprietà dell'Amministrazione Penitenziaria. Per di più, non è stato considerato quanto segue: la città di Lamezia Terme che è sede di aeroporto, unitamente a quello di Reggio Calabria, costituisce un riferimento geografico e logistico essenziale e di particolare rilevanza per la regione; tutte le camere di detenzione sono state ristrutturate e dotate di servizi igienici individuali, con doccia inclusa, ai sensi di quanto previsto dal Regolamento di esecuzione del 2000, n. 230; i soggetti arrestati o fermati per cui è disposta l'associazione in carcere devono essere condotti dagli agenti operanti presso la Casa Circondariale di Catanzaro, con dispendio di risorse umane ed economiche notevoli, in palese contrasto con la spending review e con gli intendimenti sottesi alla nuova geografia penitenziaria; parimenti, dicasi per le procedure di notifica di carattere giudiziario che gravano sulle forze di polizia limitrofe; la città in questione ospita gli Uffici della Procura e del Tribunale in cui si celebrano processi rilevanti anche di criminalità organizzata, sicché anche in tali circostanze si verificano disagi e disfunzioni sia per quanto riguarda l'organizzazione e, quindi, la sicurezza sia per le traduzioni dei detenuti causandi; trattasi, pertanto, anche sotto tale profilo, di soluzione antieconomica. In ordine a quanto sopra, il Sappe ritiene che debba essere riconsiderata la disposta chiusura della Casa Circondariale di Lamezia Terme, alla luce del fatto che ancora non è intervenuto il decreto formale di dismissione". Verona: storie di drogati in galera e di progetti… in libertà… costati 4,5 milioni di euro www.lafraternita.it, 18 febbraio 2015 Mentre già si allentavano i tappi di spumante in vista del passaggio di consegne tra l'anno 2005 e l'anno 2006, il 30 dicembre 2005 veniva pubblicato con immediato vigore il Decreto legge dedicato alle "Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali", che aggiungeva però alcune norme di modifica al testo unico sugli stupefacenti. Entrava così in scena, con una strana piroetta sul ghiaccio assolutamente non olimpico, la cosiddetta legge Giovanardi, dal nome dell'allora ministro che l'aveva appassionatamente voluta. Parti molto discutibili di quella legge sono state successivamente cancellate dalla Corte costituzionale, ma alcune disposizioni, che abbiamo sempre apprezzato, sono rimaste. In particolare, riferendoci agli attuali articoli dall'89 al 94 del testo unico 309/90, viene data quasi sempre ai tossicodipendenti detenuti la possibilità di non stare in carcere ma di seguire, all'esterno, un programma di cura, seguito da strutture pubbliche o private. L'alternativa è offerta sia a chi è in attesa di giudizio, sia a chi è condannato con un residuo di pena da scontare non superiore ai 6 anni, più altre ipotesi di sospensione che non stiamo a dettagliare. In pratica, dovrebbero restare in carcere pochissime persone tossicodipendenti, quelle che hanno commesso reati gravissimi o quelle che proprio non vogliono saperne di cambiare la loro condizione. E invece al 31 dicembre 2012 i detenuti classificati "tossicodipendenti" (approssimati quindi per difetto) risultavano 15.663, quasi un quarto dell'intera popolazione detenuta. A Montorio erano 193, il 22%. Alla stessa data in tutta Italia erano 3.150 le persone inserite in un programma terapeutico esterno con la misura alternativa dell'affidamento definito dall'art. 94 "in casi particolari". Oggi di poco questi ultimi sono aumentati: al 31 dicembre 2014 erano ancora solo 3.259. In mancanza di una stima attuale, possiamo assumere come indicatore il numero di detenuti per violazione delle norme sugli stupefacenti, che ovviamente non coincide con quello dei tossicodipendenti. Se al 31-12-12 erano 26.160, al 31-12-14 sono considerevolmente diminuiti a 18.946. Proporzionalmente, i tossicodipendenti possiamo stimarli sugli 11.000, poco più del 20% del totale dei detenuti, cioè sempre un numero esagerato che contraddice sia la legge sia il buon senso di chi ritiene che i drogati vadano curati e non rinchiusi, per il bene loro e per interesse sociale. Cosa succede dunque? Perché la legge Giovanardi è così poco applicata nelle sue parti apprezzabili? Possiamo portare solo il punto di vista della nostra esperienza quotidiana. Ci saranno forse altri fattori e altre precisazioni che non conosciamo. Capita spesso che un detenuto lamenti di non essere sufficientemente conosciuto e seguito dal personale del Servizio dipendenze (Serd), che dovrebbe sia valutare l'effettivo desiderio di ricevere un trattamento terapeutico esterno, sia identificare una struttura idonea. O ancora ci capita che, trovata in qualche modo (dai familiari, dall'avvocato, dai volontari) una struttura convenzionata disposta ad accogliere la persona detenuta, l'inserimento non sia possibile perché il Serd non ha i fondi sufficienti per pagare la retta. Per insufficienza di personale e di finanziamenti alcune migliaia di tossicodipendenti non vengono curati adeguatamente e gravano sui numeri e sui costi dell'affollamento carcerario. Stiamo leggendo della vertenza che contrappone l'Ulss 20 ad alcuni medici del Serd di via Germania a Verona, recentemente licenziati. Tra questi il dott. Serpelloni, rientrato a capo del Serd veronese dopo aver diretto per anni il Dipartimento nazionale delle politiche antidroga, in grande sintonia col ministro Giovanardi. Pare che complessivamente il Dipartimento nazionale abbia finanziato progetti per circa 50 milioni di euro. La Guardia di Finanza si è interessata all'impiego delle considerevoli cifre stanziate per progetti coordinati dall'Ulss 20, per un totale di 4 milioni e mezzo. È interessante citarne alcuni: "Edu" - Rete di portali informativi e interattivi per studenti - 437 mila euro "Alert 11" - Ampliamento e potenziamento degli aspetti operativi biotossicologici - 395 mila euro "Non è mai troppo presto" - Drug test precoce per minori - 390 mila euro "N.e.w.s. 2010" - Sistema nazionale di allerta precoce - 250 mila euro "Alert web monitoring" - Monitoraggio on line della vendita di droghe e dell'organizzazione di eventi musicali illegali - 250 mila euro. Per un totale di 14 progetti, più altri 4 sostenuti dalla Giunta Regionale. Senza altri commenti o giudizi, se non impliciti, possiamo confrontare queste iniziative e questi numeri con le vicende dei detenuti che conosciamo, che per asserita mancanza di fondi sono costretti a stare chiusi in carcere, da dove mandano richieste inascoltate di aiuto ad essere curati non a dosi di metadone e psicofarmaci ma con i metodi e gli strumenti delle comunità terapeutiche e delle altre strutture territoriali. Milano: emozione e interesse tra gli studenti nell'incontro con i detenuti a Opera www.informazione.it, 18 febbraio 2015 Prosegue l'attività di Cisproject-Leggere Libera-Mente che, dopo l'incontro di febbraio, porterà a marzo altri ragazzi delle scuole medie all'interno della casa di reclusione di Opera per assistere al film documentario "Levarsi la cispa dagli occhi". Emozione, riflessione, commozione, comprensione, felicità e tristezza allo stesso tempo. Sono queste alcune delle reazioni dei circa 150 studenti milanesi, che mercoledì 4 febbraio hanno incontrato altri studenti e i corsisti del carcere di Opera del progetto "Leggere Libera-Mente". In questa occasione è stato proiettato il film documentario "Levarsi la cispa dagli occhi", che narra la nascita e lo sviluppo di un progetto formativo e di recupero, basato sulla lettura e la scrittura, attivato all'interno del carcere di Milano-Opera. Il dibattito è iniziato con la lettura della poesia di un corsista, scritta in occasione della visita. È seguito un dibattito di grande intensità emotiva e rispetto. Dopo questa esperienza toccante, molti studenti hanno dichiarato di essersi messi nei panni delle persone detenute e di aver ascoltato con partecipazione i loro racconti di come, grazie ai laboratori di lettura, siano riusciti ad affrontare la detenzione in maniera diversa. I giovani hanno inoltre espresso soddisfazione per aver interagito con le persone detenute e per essere riusciti a capire come si svolge la loro vita e cosa provano dopo tanti anni di sofferenza. L'ispettrice Maria Visentini - che ha portato i saluti della direzione del carcere - ha sottolineato l'importanza di queste iniziative. "Siamo molto soddisfatti di come si è svolto l'incontro e delle reazioni positive degli studenti - spiega Barbara Rossi di Cisproject-Leggere-Libera-Mente, associazione che si occupa di biblioterapia con le persone detenute attraverso la lettura, la scrittura creativa, poetica, autobiografica e giornalistica - Siamo convinti che il confronto tra i giovani e le persone detenute sia un'occasione importante di crescita per entrambi. E in considerazione dei risultati ottenuti ripeteremo ora l'esperienza a marzo con altri studenti". Il prossimo incontro di Cisproject- Leggere-Libera-Mente, che rientra nell'ambito degli eventi di BookCity per le scuole organizzati dal Comune di Milano, si svolgerà mercoledì 18 marzo, sempre all'interno del carcere di Milano-Opera. Per prenotare scrivere a: segreteria.organizzativallm@gmail.com allegando un documento, entro il 20 febbraio. Ulteriori informazioni sono disponibili all'indirizzo www.leggereliberamente.it. Torino: in Consiglio comunale mozione Pd-Sel per dare lavoro e dignità ai detenuti Ansa, 18 febbraio 2015 Restituire dignità ai detenuti, a partire dal lavoro, impiegandoli in lavori di pubblica utilità anche nel carcere Lorusso e Cutugno: è quanto chiede una mozione presentata da Pd e Sel, che oggi con i capigruppo della Sala Rossa hanno visitato l'istituto penitenziario torinese. "Con questa mozione si concretizza un disegno socialmente utile - spiegano le presidenti delle commissioni Servizi sociali e Pari Opportunità, Lucia Centillo e Domenica Genisio - dare la possibilità ai detenuti di sentirsi a pieno titolo appartenenti alla vita della città. Dobbiamo riconoscere e tutelare la dignità della persona in carcere e possiamo farlo a partire dal lavoro e dalla riqualificazione della struttura dove risiedono". Durante la visita, infatti, si è considerato di convertire un'area inutilizzata in uno spazio dedicato all'incontro tra i detenuti e i loro famigliari. Napoli: il Garante nazionale per l'infanzia e l'adolescenza in visita all'Ipm di Nisida Ansa, 18 febbraio 2015 Dopo una tappa nel segno della ricostruzione e del gioco di squadra, a L'Aquila, il 15 febbraio, il "Diritti al futuro tour" voluto del Garante per l'infanzia e l'adolescenza, Vincenzo Spadafora, approderà giovedì 19 a Nisida per incontrare i ragazzi ospiti dell'Istituto penale per i minorenni. "Un altro momento - si legge in una nota - per ascoltare i giovani e chi lavora con loro, in una realtà che a buon diritto è annoverata fra "le buone pratiche", cioè quelle formule pensate per supportare i più giovani, per aiutarli a uscire da situazioni di disagio e per ripartire credendo nel futuro, nelle regole, nel senso del collettivo. Nisida è un esempio virtuoso: un istituto pieno di risorse, costruite nel tempo con uno scambio proficuo e costante con la città di Napoli. Oltre la scuola, i ragazzi possono seguire sport, corsi di formazione professionale, laboratori artistici di ceramica, recitazione e scrittura. Particolarmente originale è il "Laboratorio della politica", dove le ragazze e i ragazzi detenuti hanno la possibilità di confrontarsi con persone esterne, che spesso sono personalità di rilievo come l'ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano". Il sottotitolo del tour - Una piccola grande Italia da raccontare - "spiega il senso profondo dell'iniziativa che vuole mettere in rete quanti si impegnano". Oltre che su garanteinfanzia.org, il tour potrà essere seguito su Facebook e altri social. Civitavecchia: Fns-Cisl; al carcere di Borgata Aurelia detenuto aggredisce un agente www.trcgiornale.it, 18 febbraio 2015 Ancora un'aggressione al personale della Polizia Penitenziaria all'interno del carcere di Borgata Aurelia. A denunciarla è stato il segretario responsabile della Fns-Cisl Lazio Francesco Ciocci che racconta come a farne le spese questa volta sia stato l'assistente capo B.E., aggredito da un detenuto italiano nella giornata di domenica. Alla base dell'aggressione il fatto che il detenuto pretendesse una dose superiore di farmaci rispetto a quanto prescritto dal medico. Per l'agente della Polizia Penitenziaria dieci giorni di prognosi a causa delle numerose percosse subite dal detenuto. "Purtroppo detto evento critico è dovuto ad assenza di misure di sicurezze del personale - il commento di Ciocci - soprattutto da quanto è stata istituita la vigilanza dinamica anche all'interno del carcere. Carcere che occorre ricordare ha un sovraffollamento di circa 90 detenuti". Monza: Sappe; porta pasticche di droga al compagno sudamericano detenuto, arrestata Ansa, 18 febbraio 2015 Cerca di portare droga al compagno in carcere a Monza, ma viene fermata ed arrestata. L'episodio si è verificato ieri pomeriggio all'interno della casa circondariale di San Quirico, durante un colloquio tra un detenuto di origine peruviana condannato per omicidio e la sua convivente. La polizia penitenziaria ha sequestrato un pacco portato dalla donna, contenente cinquanta pasticche di stupefacente (che verranno ora analizzate) e l'ha arrestata per detenzione di droga ai fini dello spaccio. A riferire l'accaduto è il Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria. "Questi episodi confermano le elevate doti professionali del Personale di Polizia Penitenziaria in servizio nel carcere di Monza e impongono oggi più che mai una seria riflessione sul bilanciamento tra necessità di sicurezza e bisogno di trattamento dei detenuti. Tutti possono immaginare quali e quante conseguenze avrebbe potuto causare l'introduzione di droga in un carcere - dichiara il segretario generale del Sappe Donato Capece - nel 2014 a Monza sono stati sventati 13 tentati suicidi, 125 episodi di autolesionismo, 1 suicidio, 71 ferimenti, 22 colluttazioni. Questo deve fare comprendere quali e quanti disagi quotidiani caratterizza il lavoro quotidiano dei Baschi Azzurri di Monza". Cagliari: droga in carcere a Uta, detenuto denunciato dagli agenti penitenziari Adnkronos, 18 febbraio 2015 Gli agenti della Polizia penitenziaria in servizio nel carcere di Uta (Ca), e precisamente gli addetti ai colloqui dei detenuti con i familiari hanno trovato 16 grammi di hashish addosso ad un detenuto, F.A. di 41 anni, che è stato denunciato all'Autorità Giudiziaria. Ne da notizia il Segretario Generale Aggiunto della Fns Cisl Sardegna, Giovanni Villa. "Ottimo lavoro dei poliziotti penitenziari addetti al servizio colloqui familiari del nuovo complesso penitenziario di Uta", dice Villa. A far insospettire i colleghi il comportamento anomalo del detenuto che assumeva movenze strane. Come da prassi è quindi scattata la perquisizione personale con il ritrovamento della droga. "Il lavoro meticoloso e professionale degli agenti merita la giusta attenzione da parte dell'amministrazione - dice Villa - che ci auguriamo abbia il giusto riconoscimento". Trento: la mostra "Via Antonio Pilati 6" di Nicola Eccher, 50 scatti sulle ex carceri www.lavocedeltrentino.it, 18 febbraio 2015 Si inaugura mercoledì 18 febbraio alle 17.30 a Le Gallerie di Piedicastello (Trento) la mostra "Via Antonio Pilati 6", cinquanta scatti del fotografo Nicola Eccher sull'ex carcere di Trento. Assieme ad Eccher saranno presenti all'inaugurazione Tiziano Mellarini, assessore alla cultura della Provincia autonoma di Trento, Andrea Robol, assessore alla cultura del Comune di Trento e Giuseppe Ferrandi, direttore della Fondazione Museo storico del Trentino. La mostra sarà visitabile fino al 2 giugno 2015. Via Pilati numero 6 è l'indirizzo dell'ormai ex-carcere di Trento. Si tratta di un luogo importante per la città e per le tante storie che lo hanno abitato. La Fondazione Museo storico del Trentino ha accolto l'idea di trasformare in una mostra fotografica il lavoro di Nicola Eccher. Si tratta di un reportage fotografico che ha fissato nelle immagini in bianco e nero una serie di microstorie. Un racconto ricco di particolari, dove vi è un'esplosione di soggettività, di vissuti, di memorie. Per il Museo si tratta di un primo tassello di un progetto più ambizioso, che riguarda la storia delle istituzioni carcerarie in Trentino. Si parte da Via Pilati, che sicuramente non è il più antico luogo di prigionia, ma possiede una grande forza evocativa in virtù della sua recentissima storia. L'appuntamento con l'inaugurazione della mostra Via Antonio Pilati 6 è per mercoledì 18 febbraio ad ore 17.30 a Le Gallerie di Piedicastello. Assieme a Nicola Eccher interverranno Tiziano Mellarini, assessore alla cultura, cooperazione, sport e protezione civile della Provincia autonoma di Trento, Andrea Robol, assessore alla cultura, turismo e giovani del Comune di Trento e Giuseppe Ferrandi, direttore della Fondazione Museo storico del Trentino. Nicola Eccher si occupa da oltre un ventennio in modo professionale di fotografia. Un destino tracciato, in quanto, fin da piccolo, in casa sua si è sempre respirata "aria di fotografia", una passione paterna geneticamente tramandatasi al figlio. Ha iniziato il suo percorso seguendo il padre nelle sue avventure professionali, imparando le tecniche della fotografia tradizionale e i trucchi del mestiere. Ha collaborato con vari musei (tra cui il Mart di Rovereto), gallerie d'arte e artisti di spicco nel panorama culturale moderno. Dopo varie sperimentazioni, attualmente si avventura in realizzazioni più artistiche e creative toccando con estrema sensibilità temi sociali importanti, documentando realtà dimenticate all'occhio umano. Nelle sue fotografie vengono raffigurati con una particolare sensibilità artistica temi complessi che lasciano ad ogni scatto molteplici "chiavi di lettura": la fotografia si lega quindi indissolubilmente con la ricerca delle emozioni che vengono trasmesse allo spettatore. Televisione: stasera a "Chi l'ha visto?" le rivelazioni del supertestimone al processo Alpi Adnkronos, 18 febbraio 2015 A "Chi l'ha visto?", in onda questa sera 21.05 su Rai3, parla il supertestimone del processo per l'omicidio della giornalista del Tg3 Ilaria Alpi e dell'operatore della Rai Miran Hrovatin. L'uomo, Ahmed Ali Rage, soprannominato Jelle, irreperibile per l'Italia, ha raccontato all'inviata di "Chi l'ha visto?" che gli italiani avevano fretta di chiudere il caso e gli hanno promesso denaro in cambio di una sua testimonianza: doveva accusare un somalo del duplice omicidio. Jelle indicò il giovane Omar Hashi Hassan al pm Ionta durante un interrogatorio, ma poi non si presentò a deporre al processo e fuggì all'estero. Per la sua testimonianza il giovane Hashi fu arrestato e condannato all'ergastolo. Le rivelazioni di Jelle confermerebbero quello che da anni la famiglia Alpi e molti giornalisti sostengono e cioè che in carcere ci sarebbe non il colpevole ma un capro espiatorio. Gravissimi despistaggi avrebbero inquinato le inchieste. In studio con Federica Sciarelli la mamma della giornalista del TG3, che ha sempre sostenuto che l'uomo in carcere è innocente. "Chi l'ha visto?" si occuperà anche del Sanremo più triste della storia del festival, quello della morte di Luigi Tenco: un colpo di pistola nella stanza d'albergo, si disse suicidio, ma la pistola nella stanza non c'era, spuntò fuori successivamente. Un mistero non ancora chiarito. Luigi Tenco è stato "suicidato"? Immigrazione: il racconto di Ermies e Abdelrezak, mercanti di uomini a Tripoli Ansa, 18 febbraio 2015 Ermies lo descrivono "basso e robusto": in tanti lo hanno visto impartire ordini nella "mezrea", la fattoria nelle campagne di Tripoli dove i migranti attendono di salire sui barconi diretti in Italia. John è invece considerato "affidabile", a differenza di Teferi e Shumay, che costringono le persone a partire contro la loro volontà. Poi c'è Abdelrezak, che negli ultimi tempi si è fatto vedere poco sulle spiagge libiche: due viaggi organizzati a maggio e giugno scorsi sono andati a finire male e 300 migranti sono morti annegati. "Si è un po' defilato ma è sempre attivo". I mercanti di uomini che operano in Libia non arrivano alla dozzina e quasi nessuno è libico: sono etiopi, sudanesi, egiziani, che investigatori e 007 italiani conoscono al punto da sapere che, durante Mare Nostrum, applicavano ai prezzi dei viaggi uno sconto del 50%, visto che le navi italiane si avvicinavano fino a poche miglia dalla Libia. Ma prenderli e disarticolare le loro organizzazioni, che si avvalgono di decine di persone, è tutt'altra storia. "Non si sa più con chi parlare, non c'è nessuno che comanda, un accordo preso può diventare carta straccia il giorno dopo", ti dicono. E così Ermies e gli altri continuano a fare i loro interessi indisturbati. "Il nostro lavoro è il contrabbando di migranti, quindi possono sorgere degli imprevisti" dice al telefono, intercettato, Ermies. E sono proprio le intercettazioni a rivelare i nomi e le storie di chi gestisce i traffici. John Maray, ad esempio, è un sudanese. Il suo quartier generale è a Khartoum ma spesso si sposta in Libia. È "uno dei principali organizzatori dei trasferimenti dei migranti dal centro Africa alle coste della Libia" dicono le inchieste aperte dalle procure siciliane. Ha uomini nelle carceri locali e tutti lo conoscono come un personaggio affidabile. "Per organizzare i viaggi - dice John al telefono ad un altro trafficante - vanno rispettati determinati fattori" e cioè che "le partenze non devono avvenire con il mare in tempesta e non bisogna dare adito alle lamentele dei migranti". John è in contatto con Ermies (o Ermias) Ghermay, un 40enne etiope da anni in Libia. Di lui gli investigatori sanno quasi tutto: abita nel quartiere di Abu Sa a Tripoli, si sposta spesso nei porti di Zuwara, Zawia, Garabulli e gestisce una fattoria dove nasconde fino a 600 migranti alla volta, ai quali chiede tra i 1.200 e i 1.600 dollari a testa per partire. Al telefono parla di contatti con la "polizia libica" e di un "capo" che viaggia spesso in Arabia Saudita. "Quanto i viaggi li organizzo io, i viaggiatori partono tutti. Se non riesco ad imbarcarli in un viaggio ce ne sarà un altro pronto a partire l'indomani o tra qualche ora". Si troverebbe invece in Turchia, dopo la stretta delle autorità egiziane, Ahmed Mohamed Hanafi Farrag, considerato uno dei capi delle organizzazioni che operano in Egitto. Aveva auto e camion per il trasporto di migranti, case, imbarcazioni di vario genere, tra cui due navi madre che gli sono state sequestrate in Italia. E lui al telefono chiedeva al capitano di fargli sapere dove doveva mandare l'avvocato. Dalle informazioni sul terreno sembrerebbe che siano ancora loro ad avere in mano la gestione della tratta di esseri umani, ma l'arrivo dei miliziani in nero potrebbe cambiare le cose. Già il fatto che i migranti vengono buttati in mare con qualsiasi condizione meteo e con barche fatiscenti è il segnale che si vuole alzare la pressione. E chi ha davvero interesse a farlo? Secondo il presidente del Copasir Giacomo Stucchi è poi "concreto" il rischio che dei terroristi possano nascondersi tra i migranti. E c'è un altro elemento che preoccupa gli esperti ed è quello evidenziato dalla Rivista italiana difesa: gli uomini dell'Isis potrebbero ripetere nel canale di Sicilia quel che da 10 anni accade nel tratto di mare tra la Somalia e Aden, attaccando pescherecci, piccoli mercantili e anche i mezzi di soccorso, con l'obiettivo di prendere ostaggi. Ma c'è un altro scenario ipotizzato, ancora più inquietante: i terroristi potrebbero trasformare i barconi in trappole esplosive da far saltare in aria contro le navi e le motovedette italiane o di Frontex impegnate nei soccorsi ai migranti. Droghe: canapa medica in Toscana, nuove evidenze di Francesco Muser Il Manifesto, 18 febbraio 2015 Un diritto per essere tale deve essere esigibile, tanto più se si tratta di un diritto legato alla salute. Ebbene, in Italia la canapa ad uso terapeutico è per molti malati ancora un miraggio. Occorre affrontare un percorso a ostacoli per ottenere una prestazione resa legittima da due decreti ministeriali. Il primo del 18 aprile 2007 che inseriva nella Tabella II, sezione B, della legge sugli stupefacenti fra le sostanze ad uso terapeutico il Delta-9-tetraidrocannabinolo e il Dronabinolo, consentendo la vendita di prodotti sintetici come il Sativex; l'altro del ministro Balduzzi, del febbraio 2013, che aggiungeva i medicinali a base di cannabis di origine vegetale. Molte regioni hanno approvato leggi per tradurre queste novità legislative in linee operative, ma le resistenze degli apparati burocratici che devono predisporre i regolamenti attuativi, i ritardi delle Asl motivati con la preoccupazione dei costi da sopportare (e non ultimo i boicottaggi per ragioni ideologiche) hanno fino ad oggi frenato l'accesso a questi farmaci, ben al di sotto del target di pazienti potenzialmente interessati. La Regione Toscana si è mossa per sbloccare l'impasse. L'11 febbraio scorso, il consiglio regionale ha votato alcune modifiche importanti alla legge di tre anni fa, proposte dalla consigliera Monica Sgherri. La cannabis potrà essere prescritta prescrizione anche dai medici di base, con oneri a carico del Servizio sanitario regionale, sulla base di un piano terapeutico redatto da uno specialista. I farmaci potranno essere somministrati a domicilio e saranno forniti dalla farmacia ospedaliera. Per ridurre il costo dei farmaci importati dall'estero, si è dato incarico alla giunta regionale di avviare azioni sperimentali o specifici progetti pilota per la produzione dei farmaci stessi. Quest'ultima disposizione dovrebbe accelerare l'avvio della produzione di medicinali cannabinoidi da parte dell'Istituto chimico militare di Firenze, già individuato allo scopo dalle ministre Pinotti e Lorenzin. Sono di particolare interesse i risultati di uno studio condotto dall'Azienda Ospedaliera di Pisa sui pazienti trattati con cannabis terapeutica nella terapia del dolore nell'ospedale di S. Anna, nei tre anni successivi all'approvazione della legge toscana. I dati sono stati presentati dal dottor Paolo Poli, direttore dell'unità operativa competente, in sede di audizione di esperti presso la Commissione sanità del Consiglio regionale della Toscana. Innanzitutto, lo studio ha evidenziato l'esistenza di critiche e resistenze di parte del mondo sanitario all'utilizzo di cannabinoidi nella cura del dolore cronico, oncologico e non. Emerge anche che il materiale vegetale presenta notevoli vantaggi rispetto al Thc sintetico. Non solo le infiorescenze prodotte in Olanda (utilizzate nello studio) derivano da piante con profilo genetico stabile, per cui forniscono un prodotto con un contenuto di principio attivo costante; rispetto ai farmaci a base di Thc sintetico, "l'infiorescenza secca permette di sfruttare le proprietà terapeutiche di un intero fito-complesso, di cui il Thc è solo uno dei costituenti", si è detto nell'audizione. Ben 327 pazienti sono stati trattati e monitorati: dopo tre mesi di trattamento, si constata un buon risultato sul dolore, un miglioramento della qualità del sonno rispetto agli effetti delle benzodiazepine e si riscontrano minimi effetti collaterali. L'unico aspetto negativo è il costo della terapia, che nella prima versione della legge regionale era ancora a carico del paziente. È uno studio importante, che avvalora le proprietà benefiche della cannabis e mina i miti del terrorismo anti cannabis. Con buona pace dei buchi nel cervello! Stati Uniti: pena di morte; ministro giustizia Holder chiede moratoria delle esecuzioni Adnkronos, 18 febbraio 2015 Eric Holder, il ministro della Giustizia americano uscente, ha chiesto agli stati che applicano la pena di morte di varare una moratoria delle esecuzioni in attesa che la Corte Suprema si esprima sui farmaci sotto accusa usati in Oklahoma e in altri stati per il cocktail letali. L'esponente democratico afroamericano, che ha detto di parlare a titolo personale e non come membro dell'amministrazione, ha ribadito di essere contrario alla pena di morte perché è "inevitabile" la possibilità dell'esecuzione di un innocente. "Il nostro sistema di Giustizia è il migliore del mondo, composto da uomini e donne che fanno il loro meglio per fare la cosa giusta - ha detto parlando al National Press Club di Washington - ma c'è sempre la possibilità che vengano commessi errori, per questa ragione io mi oppongo alla pena capitale". "Credo che vi siano alcune questioni fondamentali riguardo alla pena di morte che devono essere affrontate - ha poi aggiunto - e tra queste, la decisione della Corte Suprema riguardo alla costituzionalità dell'iniezione letale. Dal mio punto di vista, credo che una moratoria delle esecuzioni in attesa di questa decisione sarebbe appropriata". La Corte Suprema ha accettato il ricorso presentato dai legali di alcuni condannati a morte dell'Oklahoma dopo lo shock provocato in America e in tutto il mondo dalla morte di Clayton Lockett, spirato dopo 43 minuti di terribile agonia provocata dal cocktail di farmaci sotto accusa. Iran: sei prigionieri impiccati a Kerman e Shiraz www.ncr-iran.org, 18 febbraio 2015 Sei detenuti sono stati impiccati domenica in due prigioni delle città meridionali di Shiraz e Kerman. Un gruppo di quattro detenuti è stato impiccato nella prigione di Adelabad nella città di Shiraz, secondo notizie giunte dall'Iran. Altri due uomini sono stati giustiziati nella prigione di Shahab nella città di Kerman. Asghar Shabani e Mehrdad Abshirin facevano parte di un gruppo di tre detenuti trasferiti in isolamento sabato in attesa della loro esecuzione. Il terzo detenuto era la moglie di Shabani il cui destino è tuttora ignoto. Queste esecuzioni sono state compiute in segreto e nessuna informazione è stata pubblicata dagli organi di stampa del paese. Queste esecuzioni seguono a ruota l'impiccagione di due detenuti baluci avvenuta nella prigione centrale di una città sud-orientale sabato. I due uomini baluci, identificati come Hamed Kahrazhi, 28 anni e Mobasher Mir-Balochzehi, avevano passato quattro anni in prigione ed erano stati condannati a morte per "moharebeh", cioè "inimicizia verso Dio". Regno Unito: Chiesa dona libretti di preghiera ai detenuti Radio Vaticana, 18 febbraio 2015 "Preghiere del mattino e della sera per le persone in prigione": si intitola così il libretto che la Conferenza episcopale di Inghilterra e Galles (Cbcew) ha donato ai detenuti cattolici del Paese. L'iniziativa ha preso il via domenica scorsa, con una Messa celebrata da mons. Richard Month, responsabile della Pastorale carceraria, nel Centro di detenzione minorile di Feltham. "È un libro di preghiere facile, da usare ogni giorno - spiega in una nota il card. Vincent Nichols, presidente della Cbcew - perché pregare porta i detenuti oltre le mura nelle quali sono confinati. Le loro singole preghiere, così, diventano parte di un un'unica invocazione che sale a Dio da ogni angolo del mondo". "Le vostre voci non saranno più silenziose - continua il porporato, rivolgendosi direttamente ai carcerati - ma verranno liberate, unendosi ad un grande insieme di preghiere che include quelle di monaci, suore di clausura, sacerdoti, diaconi, insegnanti, genitori e molti altri". "Pregate! - esorta il card. Nichols - Imparate ad ascoltare Dio nella preghiera e troverete la pace nel vostro cuore". Dal canto loro, molti detenuti hanno espresso soddisfazione per il dono ricevuto, raccontando come la preghiera abbia fortificato il loro spirito, confortandoli nei momenti di difficoltà e tristezza che si vivono in prigione.