Nel mondo dell'informazione a qualcuno piace costruire "il nemico" Il Mattino di Padova, 16 febbraio 2015 Quando Papa Francesco di recente ha parlato di informazione, lo ha fatto denunciando con chiarezza la tendenza generalizzata a costruire dei nemici: "Non si cercano soltanto capri espiatori che paghino con la loro libertà e con la loro vita per tutti i mali sociali, come era tipico nelle società primitive, ma oltre a ciò talvolta c'è la tendenza a costruire deliberatamente dei nemici: figure stereotipate, che concentrano in se stesse tutte le caratteristiche che la società percepisce o interpreta come minacciose. I meccanismi di formazione di queste immagini sono i medesimi che, a suo tempo, permisero l'espansione delle idee razziste". Nella nostra redazione in carcere, proprio mentre discutevamo delle parole del Papa, è arrivata una lettera di un "cronista di nera pentito", insieme ad altri messaggi, tutti di giornalisti che hanno partecipato al Corso di formazione per giornalisti, che abbiamo di recente organizzato in galera. E tutti hanno scoperto, attraverso le testimonianze delle persone detenute, un altro mondo, o meglio si sono per la prima volta confrontati con una realtà, molto più complessa di quella che avevano sempre immaginato esistesse dietro le sbarre. Sono andato a rivedermi alcuni articoli di nera da me scritti in questi anni Cari Amici della Redazione, vi scrivo questa mia lettera perché mi sento in debito nei vostri confronti. Dopo l'incontro in carcere, al seminario di formazione per i giornalisti, incontro che mi ha aperto gli occhi su molti miei pregiudizi, sono andato a rivedermi alcuni articoli di nera da me scritti in questi anni e ho scoperto di aver spesso trattato l'argomento da un unico punto di vista, quello delle vittime. Disinteressarsi completamente dell'aggressore, del condannato, paragonandolo al diavolo, a un tumore di cui la società deve disfarsi seppellendolo in un carcere da dove non uscirà mai, è facile e accontenta il lettore. Ma non da quell'informazione giusta e al di sopra delle parti che sono tenuto a dare. Parlando con voi e ascoltandovi è nato in me un sentimento strano. Non riuscivo a vedervi come dei biechi assassini che hanno trucidato le loro vittime bevendone il sangue, vi vedevo e vi sentivo invece come persone a me uguali, coi vostri problemi, le vostre preoccupazioni, costretti, o meglio dire "ristretti" in un mondo che vi sta uccidendo lentamente e da oggi credo, ingiustamente. In questi giorni che sono seguiti al seminario organizzato dalla vostra redazione con l'Ordine dei Giornalisti, non sono riuscito a impormi di "dimenticare" Biagio, Carmelo e gli altri. Non sono riuscito a scrollarmi quel senso di colpa che mi pervadeva all'uscita dal penitenziario e che anche in questo momento mi rode. Cosa posso fare, mi domando, per riparare a quella pigrizia mentale che mi ha impedito di dare una giusta informazione? Ma soprattutto cosa posso fare per aiutarvi oggi che non vi considero più dei "mostri" ma che ho iniziato a vedervi come degli amici? Non lo so ed è per questo che vi invio questa mia mail. Suggeritemelo voi. Scrivetemi e ditemi cosa un povero giornalista di provincia può fare per aiutare un amico in carcere. Sono a vostra disposizione. Valerio Bassotto (Direttore Responsabile mensili Gruppo News) Speriamo che anche altri colleghi giornalisti si siano portati dentro qualcosa di positivo Caro Valerio, senza il timore di eccessivo orgoglio posso affermare che l'incontro con voi, giornalisti di cronaca nera e giudiziaria, nella nostra redazione in carcere è diventato per noi di Ristretti Orizzonti un'eccezionale occasione di riscatto professionale. Valutare la qualità del giornalismo oggi è difficile: non siamo esperti di economia o di diritto internazionale, un articolo sulle politiche monetarie o sui conflitti armati potrebbe sembrarci dire cose sensate, anche quando così forse non è. Mentre la nostra esperienza di vita, spesso disastrosa, ci ha costretti a diventare sufficientemente esperti di giustizia e di carcere, che quando leggiamo un articolo di giornale o vediamo una trasmissione televisiva, riusciamo a cogliere ogni imprecisione, ogni errore, magari spesso fatto in buona fede, ma certamente riusciamo anche a trovare la malafede che a volte si nasconde tra le righe. La cronaca nera e giudiziaria è fatta di persone: vittime e carnefici, familiari e parenti, forze dell'ordine, magistrati, avvocati e giornalisti. Sono le persone che chiamano altre persone in conferenza stampa e offrono racconti di persone che poi sono trasmesse ad altre persone. Sembrerebbe una "catena" di umanità perfetta. Solo che troppo spesso c'è un "anello" che viene spogliato della sua umanità, che smette di essere un uomo, trasformandosi in un racconto inumano. Un normale lettore può conoscere attraverso i giornali e la televisione la cattiveria e la bruttezza di chi fa del male con reati di sangue o di chi infrange la legge con reati legati alla droga o in materia di immigrazione o contro il patrimonio, e se l'articolo offre la descrizione di un mostro, non ci sono motivi per non credere nella sua mostruosità. Ma qualsiasi "normale" detenuto durante la sua carcerazione deve convivere con tutti quelli che finiscono in galera - spesso si soffre e si piange insieme, a volte si gioca e si scherza insieme, per sopravvivere - scoprendo sempre che si tratta di persone. Certo qualcuno è stato capace di fare cose mostruose, perché noi esseri umani, tutti senza esclusioni, potremmo fare atti terribili, ma tutti siamo anche "altro", e oltre alla brutalità di un'azione rimaniamo sempre delle persone, siamo figli, padri, mariti, siamo uomini che hanno sbagliato. Noi di Ristretti Orizzonti raccontiamo il carcere. Questo ci rende dei giornalisti particolari: usiamo la nostra esperienza diretta per fare un'informazione sul carcere che racconti tutto quello che i reati non raccontano. Non è facile, ma ci proviamo, mettendoci anche nei panni di chi legge per non dimenticare mai il punto di vista degli altri, di chi spesso è stato spaventato, di chi il reato l'ha subito, di chi ha paura. Questo metodo ci ha fatto crescere anche professionalmente, perché chi scrive mettendosi nei panni dell'altro, scrive sempre meglio di chi parla con la pancia e con l'odio. Caro Valerio, l'incontro con voi giornalisti ci ha imposto di fare un ulteriore sforzo per raccontare quanto ci sia "dell'altro" nelle persone detenute oltre il loro reato, e che quell'ALTRO in realtà è la stessa fragile umanità che c'è in tutti voi. Molti di noi sono stati demoliti dagli articoli di qualcuno di voi. Ciò nonostante, ci siamo alzati in piedi di fronte a voi e abbiamo parlato della nostra storia e del nostro modo di informare e comunicare. Consapevoli che nulla si costruisce in un giorno, e che il nostro lavoro deve essere paziente, preciso, attento, responsabile, leggere le emozioni che questo incontro ha prodotto in te ci incoraggia e ci nutre della speranza che così come te, anche altri tuoi colleghi si siano portati dentro qualcosa di positivo dalle nostre storie, e dal nostro modo di fare giornalismo. Elton Kalica (Volontario nella Casa di reclusione di Padova) Suicidio di un detenuto e rivendicazioni sindacali di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 16 febbraio 2015 "Oggi mi sono sentito tutto il giorno inerte e confuso. Il mio cuore non ha potuto fare nulla per tirarmi su il morale. Ed anch'io non ho potuto fare nulla per consolare lui. Credo che in carcere i detenuti e gli ergastolani vivono in due mondi paralleli perché i detenuti hanno una meta, un orizzonte e un calendario in cella. L'ergastolano invece ha solo una tomba e una croce". (Diario di un ergastolano www.carmelomusumeci.com). L'ho sempre pensato, detto e scritto, in Italia del detenuto non si butta mai via nulla, e sul quotidiano "Il giorno" del 15 febbraio 2015 leggo che un detenuto condannato all'ergastolo s'è tolto la vita nel carcere di Opera, ma quello che mi ha fatto star male è la dichiarazione di un noto rappresentante del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe): "Quel che mi preme mettere in luce è la professionalità, la competenza e l'umanità che ogni giorno contraddistingue l'operato delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria di Milano Opera con tutti i detenuti per garantire una carcerazione umana ed attenta pur in presenza ormai da anni di oggettive difficoltà operative come le gravi carenze di organico di poliziotti e le strutture inadeguate. Siamo attenti e sensibili, noi poliziotti penitenziari, alle difficoltà di tutti i detenuti, indipendentemente dalle condizioni sociali o dalla gravità del reato commesso". Non c'è un morto in carcere per cui questo rappresentante sindacale non colga l'occasione per esaltare le doti dei poliziotti penitenziari senza mai dire una parola di pietà per quei morti ammazzati (suicidi) di carcere. Lo so, non bisogna generalizzare, e penso anch'io che nella maggioranza dei casi gli uomini e le donne della Polizia penitenziaria facciano il loro dovere con professionalità e umanità, ma trovo sempre di cattivo gusto le dichiarazioni che esponenti sindacali fanno, ogni qualvolta un detenuto si toglie la vita, per rivendicare benefici sindacali e decantare le doti che hanno gli uomini e le donne che rappresentano. Sembra che qualcuno aspetti che muoia un prigioniero per trovare spazio e voce nei mass media. Trovo ancora più pesanti le precedenti dichiarazioni che ha fatto questo esponente sindacale nell'affermare che con la sorveglianza dinamica sono aumentati i suicidi in carcere, perché secondo me è come se dicessi che un cane legato e bastonato è più felice e contento di un cane un po' più libero. Lo so, l'Italia è un paese libero e democratico e si può dire tutto e il contrario di tutto, ma io credo che qualche volta ci si debba fermare di fronte a una tragedia come un suicidio. Detto questo voglio ricordare l'ergastolano che s'è suicidato trasmettendo tutta la mia solidarietà alla sua famiglia. E penso che con una pena ed un carcere più umano forse avrebbe preferito l'inferno delle carceri italiane che quello dell'aldilà. Buona morte. Giustizia: una soluzione fuori dai tribunali è meglio di Marino Longoni Italia Oggi, 16 febbraio 2015 Per i creditori è una buona notizia. Lo strumento, infatti può essere utilizzato in alternativa al decreto ingiuntivo. Ma rispetto a questo è più veloce e ha generalmente un costo più basso. Oltretutto la negoziazione, così come la mediazione, consente al creditore una valutazione più ampia del rapporto con il suo debitore rispetto a quello che può fare un giudice. Per esempio, l'impresa creditrice può avere interesse a concedere uno sconto sull'importo del credito per garantirsi in cambio ulteriori commesse. Con un decreto ingiuntivo, nella maggior parte dei casi avrebbe perso il cliente. Ulteriore vantaggio è che con la negoziazione assistita non ci sono spese di giudizio. L'unico costo è quello relativo alla parcella dell'avvocato. Non ci sono nemmeno le spese relative all'organismo di conciliazione, che sono invece dovute nella mediazione. Tuttavia l'accordo eventualmente raggiunto ha validità di titolo esecutivo. Quindi consente, per esempio, un pignoramento sui beni del debitore inadempiente. Al di là dei casi nei quali il tentativo di negoziazione (o di conciliazione) è previsto obbligatoriamente dalla legge come condizione di procedibilità, questi strumenti di soluzione extragiudiziale delle controversie saranno sempre più spinti dalla volontà dei giudici che già ora in molti casi invitano gli avvocati delle parti a mettersi d'accordo fuori dai tribunali, minacciando magari la condanna alle spese per la parte che risulterà soccombente. Infine, ma non da ultimo, queste procedure consentono di evitare l'imprevedibilità delle decisioni giudiziali che magari, per un cavillo procedurale, ribaltano il risultato atteso dalle parti. Certo, perché queste procedure extragiudiziali possano dare i frutti sperati, occorre che gli avvocati sappiano fare la loro parte. Abbandonando l'approccio contenzioso, tipico della professione, puntando alla soluzione dei problemi concreti più che allo sfruttamento ossessivo dei margini di ambiguità normativa. Se già oggi, secondo le statistiche del ministero della giustizia, la metà delle cause di valore inferiore a 5 mila euro, riesce a trovare uno sbocco positivo con la mediazione, grazie soprattutto al risparmio dei costi processuali che questa consente, la scommessa per il futuro è di estendere i vantaggi della conciliazione anche a controversie di importo decisamente superiore. Giustizia: dal decreto ingiuntivo alla conciliazione, un ventaglio di possibilità di Antonio Ciccia Italia Oggi, 16 febbraio 2015 Si allarga il ventaglio di possibilità a disposizione per la gestione del contenzioso: alle strade giudiziali si affiancano procedure conciliative. L'ultima opzione è la negoziazione assistita dagli avvocati (dl 132/2014), che dal 9 febbraio 2014 è diventata obbligatoria per il recupero somme fino a 50 mila euro (ma non per i decreti ingiuntivi). Le procedure sono tante e hanno vantaggi e svantaggi, anche se non c'è dubbio che la legge spinge ormai le controversie (soprattutto quelle di valore piccolo e medio) al di fuori dei tribunali. A priori non è facile stimare in maniera assoluta quale sia la scelta più conveniente, perché l'esito del contenzioso dipende da fattori spesso aleatori. In via di approssimazione le imprese fanno bene a raccogliere il messaggio che arriva dal legislatore che, allo scopo di far sopravvivere una giustizia civile lenta e ingolfata, semina disincentivi sulla strada che porta a palazzo di giustizia. Questo porta a scegliere la strada negoziale (media-conciliazione o negoziazione assistita) che, d'altra parte, risulta più in linea con una condotta rigorosamente imprenditoriale. Trattare e trovare un accordo è attività tipica dell'impresa e la legge italiana consente di ufficializzare l'intesa con documenti, che hanno lo stesso valore della sentenza. Naturalmente trovare un accordo è più difficile che litigare e il risultato positivo dipende dalla propensione degli interessati a trovare un accomodamento e dalla professionalità dei mediatori e degli avvocati, che devono facilitare l'accordo stesso. È importante, però, che le parti sappiano a cosa vanno incontro a seconda del percorso che decidono di seguire. Prendiamo un'impresa che voglia recuperare un credito di 20 mila euro e vediamo, dunque, che strade può percorrere. L'ipotesi tradizionale è quella del decreto ingiuntivo. Si va dall'avvocato, che preparerà un ricorso da depositare in tribunale. Il decreto ingiuntivo si può chiedere senza avere attivato procedure di conciliazione obbligatoria. Il costo della pratica, al netto dell'imposta di registro, calcolato con i parametri indicati dal tribunale di Milano, è di euro 145,50 per spese vive ed euro 1.035 per compensi professionali (oltre Iva e contributo previdenziale). Quanto ai tempi si deve considerare che una volta ottenuto il decreto ingiuntivo (tempi di lavorazione da parte del tribunale), salvo che il giudice conceda la provvisoria esecutività, devono trascorrere 40 giorni perché diventi esecutivo, cui bisogna aggiungere il tempo tecnico necessario per la notificazione. Se, poi, il debitore non paga, bisogna avviare il processo esecutivo con i relativi tempi e costi. Il debitore può presentare opposizione e, allora, si apre un processo per l'accertamento del credito. Una seconda strada giudiziaria è quella della causa ordinaria (quando non si ha la prova scritta del credito): in questo caso lievitano sia i costi sia i tempi. I costi, in primo grado, sono rappresentati dal contributo unificato (237 euro), anticipazione forfettaria (27 euro), compenso del legale, imposte (registrazione della sentenza), poste che aumentano nei gradi successivi; i tempi sono quelli, troppo lunghi, dei diversi gradi di giudizio. Senza contare che al processo per l'accertamento del credito segue il processo esecutivo (dal precetto alla ripartizione del ricavato del pignoramento). In causa il giudice può tentare la conciliazione delle parti, ma il tentativo non è un passaggio obbligatorio. Sul punto va sottolineato che la legislazione cerca di disincentivare il ricorso alla giustizia, soprattutto per chi vuole abusare del processo, sia caricando di spese di soccombenza e di condanna al risarcimento del danno sia stabilendo un tasso di mora elevato nel corso del giudizio. Altra possibilità è la negoziazione assistita. Non ci sono i costi del sistema giustizia (spese di notificazione, marche, contributo unificato), mentre rimangono i costi dell'assistenza professionale dell'avvocato. La legge prevede che la procedura duri tre mesi e si concluda con un accordo che equivale a una sentenza o a un decreto ingiuntivo. La legge cerca di incentivare il ricorso alla negoziazione assistita, stabilendo che non aderire alla procedura conciliativa può mettere in cattiva luce davanti al giudice. Quarta possibilità è la media-conciliazione. In materie diverse da quelle elencate all'articolo 5 del dlgs 28/2010 (condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione ecc.), la procedura è volontaria. Si applicano le tariffe previste dall'organismo di conciliazione oltre alle spese dell'avvocato di fiducia. Le tariffe previste dal dm 180/2010 prevedono una forbice tra 400 e 500 euro. Peraltro è riconosciuto un credito d'imposta fino a 500 euro e il verbale di accordo è esente da imposta di registro fino all'ammontare di 50 mila euro. Non si pagano le spese di giustizia e la procedura ha tre mesi di termine massimo di conclusione. La legge cerca di spingere alla media-conciliazione sia con gli incentivi fiscali sia con l'applicazione di conseguenze negative (spese di soccombenza e risarcimento del danno) nel caso di rifiuto della proposta del mediatore. La scelta della media-conciliazione e della negoziazione assistita portano benefici al sistema generale e cioè in termini di deflazione del processo. Giustizia: avvocati e governo, sempre divisi verso la meta della riforma di Isidoro Trovato Corriere Economia, 16 febbraio 2015 Apprezzano l'impegno, ma obiettano sui contenuti. È questo l'approccio del mondo dell'avvocatura verso la riforma della Giustizia. Il testo è ormai alla stretta finale, ma alcuni passaggi saranno oggetto di modifiche e "battaglie" parlamentari. "Il ministro Orlando continua il suo percorso di riforma confermando l'impianto e l'indirizzo annunciato nei mesi scorsi - afferma Mirella Casiello, presidente dell'Oua, l'Organizzazione unitaria degli avvocati. Chiederemo immediatamente un incontro al ministro e di essere ascoltati in audizione dalle Commissioni giustizia del Parlamento per avanzare le necessarie richieste di modifica". I nuovi tribunali. In ballo c'è soprattutto il potenziamento del cosiddetto Tribunale per le imprese e l'istituzione del Tribunale per la famiglia. "La volontà del governo di aumentare le competenze del Tribunale per le imprese - aggiunge Casiello - e il venir meno del principio di prossimità, unitamente al fatto che il contributo unificato è previsto in misura doppia rispetto a quello ordinario, renderà ancor più arduo l'accesso alla giustizia delle piccole imprese e dei soggetti più deboli". Anche in merito al Tribunale della famiglia non mancano le obiezioni "non si comprende - continua il presidente Oua - se le sezioni specializzate faranno parte del Tribunale ordinario a livello circondariale e a livello distrettuale (in questo caso acquisendo anche competenze oggi proprie del Tribunale per i minorenni). Non si precisa se, come auspicato dalla maggioranza delle associazioni forensi, sia finalmente prevista la definitiva eliminazione dell'insoddisfacente esperienza dei Tribunali per i minorenni". Luci e ombre. "Il pacchetto di misure contenute nella delega sulla riforma del processo civile - afferma Ester Perifano, segretario generale dell'Associazione nazionale forense - al netto di alcuni aspetti positivi, suscita qualche perplessità. Se si ritiene che tre gradi di giudizio siano un lusso che il Paese non si può permettere, si abbia il coraggio di dirlo chiaramente e di assumersene la responsabilità politica. Diversamente, non si cerchi di mascherare l'obbiettivo "depotenziamento" del processo: i cittadini non capirebbero". Qualche obiezione anche sulle modifiche per la riduzione dei tempi processuali. "Quello che non convince - continua Perifano - è il sistema disegnato per il primo grado di giudizio, perché sebbene siano largamente condivisibili le misure che anticipano il deposito delle memorie ad epoca antecedente la prima udienza effettiva, con il giusto obbiettivo di diminuire i tempi, è assolutamente indispensabile che si tratti di tempi certi, non connotati da eccessiva discrezionalità. Diversamente si rischia di rallentare il processo, invece di accelerarlo". Un ultimo motivo di dibattito è rappresentato dall'entrata in vigore, la scorsa settimana, della negoziazione assistita obbligatoria, altro strumento varato per velocizzare la macchina della giustizia. "La negoziazione obbligatoria, prevista per alcune limitate tipologie di controversie - fanno sapere dal Cnf, si affianca al più ampio e di meritevole attenzione meccanismo di risoluzione alternativa affidata agli avvocati, che è la negoziazione facoltativa. Però l'obiettivo resta quello di contribuire all'affermazione di strumenti alternativi di risoluzione delle controversie basati in massima parte sulla volontarietà delle parti, sulla professionalità specifica degli avvocati, su regole di procedura semplici ma garantite per le parti, il cui obiettivo è trovare una soluzione ai loro problemi concreti". Giustizia: un blitz al Senato sugli eco-reati, niente processo per chi si pente di Liana Milella La Repubblica, 16 febbraio 2015 Inserita la non punibilità se si ripara il danno. Il governo: la cancelleremo. È l'uovo di Colombo per chi vede come il fumo negli occhi la legge sugli eco-reati. Il frutto di un blitz in commissione, dietro cui c'è più di un potere schierato, che allarma gli ambientalisti e toglie il sonno al Pd. Ha un nome quasi poetico - il "ravvedimento operoso" - ma cela un colpo di spugna che, se dovesse passare martedì al Senato, trasformerebbe una legge necessaria e attesa da tempo in un boomerang. Ma c'è di peggio, disastri come quello dell'Ilva, dei Petrolchimico di Brindisi e Porto Marghera, l'amianto della Fincantieri, ma anche la discarica industriale di Bussi in Abruzzo, il polo di Siracusa o quello di Gela, potrebbero essere archiviati senza un processo. Disegno di legge 1.345, articolo 452 octies, dedicato al "ravvedimento operoso": chi ha commesso un delitto colposo contro l'ambiente, che questo stesso ddl inserisce nel codice assieme all'inquinamento e al disastro ambientale, può vedere "la punibilità esclusa" se "prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado provvede alla messa in sicurezza, alla bonifica e, se possibile, al ripristino dello stato dei luoghi". Un colpo di spugna bello e buono, inserito alle 2 di notte del 26 gennaio in commissione Giustizia al Senato, per giunta col voto favorevole di tutti. Ma quasi tutti, adesso, cercano di pigliare le distanze e correre ai ripari. Pesa il giudizio di Legambiente. Dice il vice presidente Stefano Ciafani: "Gli sconti pena per chi garantisce la bonifica vanno bene, ma quello della non punibilità è un grave errore, soprattutto perché viene introdotta con una formula che consente di ripetere il reato. Se inquini e bonifichi anche cento volte non sei mai punibile, e questo è davvero inaccettabile". Enrico Fontana, oggi direttore di Libera, ma per anni al vertice di Legambiente, promuove la legge ("L'impostazione di base è buona, l'introduzione dei nuovi reati importante"), ma punta il dito contro i "nemici": "Non è un mistero che Confindustria abbia fatto fuoco e fiamme e gli effetti si vedono". Il Pd Felice Casson, anni di impegno a Venezia contro gli inquinatori, è deciso: "La legge va cambiata subito. Il "ravvedimento operoso" per le contravvenzioni ambientali può avere un senso, ma è necessario escluderlo recisamente per il disastro ambientale. Sarebbe una contraddizione inaccettabile". Un fatto è certo, la norma è lì, con tutto il suo potenziale vanificatorio rispetto alla legge sugli eco-reati che il Guardasigilli Andrea Orlando, quando era titolare dell'Ambiente, ha seguito e sponsorizzato. Ora il problema è non solo eliminare il 452-octies, ma capire anche com'è finito nel testo e quale "potere forte" c'è dietro. I relatori del ddl sono due, l'ex sindaco di Milano Gabriele Albertini, in quota Ncd, descritto come assai sensibile alle segnalazioni di Confindustria, e il Pd napoletano Pasquale Sollo. Che di quella notte del voto in commissione fornisce una versione singolare: "L'emendamento l'abbiamo votato tutti, col parere favorevole del governo e degli stessi relatori, ma con l'impegno di rivederlo in aula. Erano le due di notte, dovevamo chiudere, per questo è andata così". Chi era presente quella sera racconta che su un emendamento di M5S (Martelli, Moronese, Nugnes e altri), Sollo ha chiesto una riformulazione, proprio quella che adesso dà il colpo di spugna ai reati ambientali colposi, e soprattutto cambia il testo giunto dalla Camera che non aveva il capoverso incriminato. Ricostruisce Sollo: "Quella sera, per la non punibilità, erano Forza Italia, Ncd, la Lega. Pd, M5S e Sel invece erano per la punibilità". E che è successo? Sollo: "Alcuni gruppi hanno cambiato idea". Tant'è che adesso due emendamenti identici, di Giacomo Caliendo di Fi e di M5S, chiedono di cancellare il capoverso assolutorio. Ma chi c'è dietro quella proposta? Sollo: "Non è un mistero per nessuno che Confindustria, l'Assopetroli e altri sono contrari". E già, è noto che le lobby in Parlamento pesano. Ma la non punibilità per chi ha devastato l'ambiente non è compatibile con una legge firmata dal Pd. Tant'è che il governo è corso ai ripari. Il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri, che ha seguito il ddl, ha pronti nella sua carpetta emendamenti che cancellano l'obbrobrio. Nelle dichiarazioni Ferri parla espressamente di "soppressione del ravvedimento operoso come causa di non punibilità nei delitti colposi". Ma il governo potrebbe dare parere positivo sugli emendamenti M5S e Caliendo. Come dice Sollo "salvo imprevisti... il testo dovrebbe cambiare...". Già, salvo imprevisti. Giustizia: Ospedali Psichiatrici Giudiziari, manovra in extremis per chiudere l'orrore di Errico Novi Il Garantista, 16 febbraio 2015 Alla fine della lunga relazione il ministro Orlando cita Giorgio Napolitano: "Si ribadisce come sia ferma intenzione del Governo, delle Regioni e di tutte le istituzioni coinvolte dare attuazione concreta al superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari, definiti dal presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano come "estremo orrore, inconcepibile in qualsiasi Paese appena civile"". Stavolta il guardasigilli fa un po' come Marco Pannella: evoca il tono grave, e impenetrabile nel suo sdegno, dell'ex inquilino del Colle. Il vecchio leader radicale lo fa ogni volta in cui parla di carceri. Non manca mai di richiamarsi alla "prepotente urgenza" indicata due anni fa da Napolitano a proposito della necessità di superare l'emergenza penitenziaria. Nelle note di accompagnamento alla relazione sugli Opg, già depositata a novembre con il ministro della Salute Lorenzin, il responsabile della Giustizia adotta una forma retorica simile perché vi scorge la forma più appropriata per una cortese minaccia ai presidenti di Regione. È come se dicesse: "Guardate che se non chiudete gli ospedali psichiatrici giudiziari entro il 31 marzo 2015, io vi commissario. E lo farò, perché l'orrore è insopportabile. E tanto per ricordarvi che è insopportabile ve lo dico con le parole di Napolitano". La minaccia ai governatori. Ecco, in realtà una frase del genere, nel documento di 12 pagine (più tabelle) inviato giovedì ai presidenti di Camera e Senato, Andrea Orlando non la riporta mai. Ma la sostanza è quella. I governatori che non riusciranno a chiudere gli "Opg" entro il 31 marzo e a trasferire nelle nuove strutture (Rems) gli internati da tenere ancora ristretti, saranno gentilmente messi da parte. Faranno posto a commissari governativi. E per alcuni di loro la faccenda rischia di essere sgradevole assai. In particolare per chi si accinge a rendere conto agli elettori alle Regionali previste per maggio: i presidenti di Liguria, Veneto, Toscana, Umbria, Marche, Campania e Puglia. L'umiliazione del commissariamento a campagna elettorale già iniziata non sarà certo un viatico per la vittoria. Seppur si tratti di una questione non sempre al centro dell'attenzione pubblica come l'orrore degli ex manicomi. La manovra in extremis. Visto che le minacce vanno sempre accompagnate da una possibilità di sventarle, Orlando e Lorenzin hanno predisposto un piano di emergenza, già descritto nella relazione di novembre. In pratica si è chiesto alle Regioni di rivedere i piani. Quelli da tempo predisposti per trasferire gli internati dagli Ospedali psichiatrici in via di dismissione alle Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza, in acronimo Rems appunto. Si è visto che le novità introdotte dalla legge 81 del maggio 2014 consentono una lenta ma progressiva diminuzione della popolazione degli Opg. Non perché tendano ad esserci meno "ingressi" - continuano ad essercene una settantina al mese - ma grazie al "potenziamento dell'attività dei Servizi territoriali per la Salute mentale, che ha favorito e accelerato ii numero delle dimissioni e l'avvio di programmi di trattamento". Al 30 novembre 2014 negli Ospedali psichiatrici giudiziari c'erano 761 persone. Ma sempre secondo la citata legge del 2014 "il prosieguo del ricovero in Ospedale psichiatrico giudiziario deve essere una misura eccezionale, per i pazienti per i quali viene accertata la permanenza della pericolosità sociale". Basta applicare la norma e per il giorno 1° aprile 2015 le persone ancora da tenere internate non dovrebbero superare, recita ancora la relazione, la cifra di 450. Nelle riunioni dell'Organismo di coordinamento del processo di superamento degli Opg, tenutesi il 29 ottobre e il 9 dicembre, i responsabili dei sistemi sanitari regionali sono stati precisamente istruiti a riguardo: non tenete reclusi i malati per i quali è possibile un altro tipo di assistenza, è stato loro detto. Se i malati diminuiscono però è chiaro che i vecchi piani di costruzione delle Rems non vanno più bene: sono sovradimensionati e non è il caso di sperperare denaro. Così in pratica tutti le amministrazioni regionali hanno scelto di "rimodulare i programmi". Vuol dire allungamento dei tempi. A questo punto Lorenzin, Orlando e tutte le Regioni "hanno convenuto sulla assoluta necessita di individuare con urgenza soluzioni residenziali "transitorie", in strutture da identificare ed allestire in tempi contenuti, per garantire il rispetto della scadenza fissata dalla legge". La manovra d'emergenza funziona così: le Regioni possono "avvalersi, in via transitoria, di strutture residenziali di proprietà di soggetti privati", oppure di "strutture pubbliche gestite da privati accreditati dal Servizio sanitario nazionale". Tale possibilità "renderebbe possibile ad alcune Regioni l'individuazione di soluzioni altrimenti inesistenti sul proprio territorio". In quest'ultimo caso sono i governatori a dover tirare fuori i soldi. E dovranno scegliere. O risparmiano i loro fondi, e però rischiano di vedersi commissariati e di fare una figuraccia, magari in piena campagna elettorale. Oppure mettono mano alle casse dell'Amministrazione e dimostrano di considerare la chiusura degli Opg una priorità che val bene qualche sacrificio. C'è poi chi ritiene di potercela fare ad allestire strutture transitorie pubbliche entro il 31 marzo, senza ricorrere ai privati "accreditati". A loro il ministero dell'Economia rimborserà i soldi "a stato di avanzamento dei lavori". Più sei avanti con il programma, dunque, e più risparmi. È giusto così. La Calabria tra le virtuose. E chi è che è messo meglio, tra le Regioni, in vista della data fatidica di fine marzo? Chi sarà in grado, per il giorno 31, di spostare davvero gli internati nelle residenze transitorie per poi ultimare la costruzione delle Rems definitive, secondo il fabbisogno nel frattempo diminuito di cui si diceva? Qui c'è qualche sorpresa. Ad essere ben organizzata è, certo, una regione tradizionalmente avanti dal punto di vista delle strutture penitenziarie come la Lombardia. Tanto è vero che altri governatori approfitteranno del collega Maroni per trasferire lì, per il 31 marzo, i propri internati. Si tratta in particolare dei presidenti di Piemonte e Liguria. Ma c'è anche qualche regione settentrionale che al momento non ha fornito certezze assolute: è il caso del Veneto governato dal leghista Zaia. Da quelle parti la Rems definitiva costerà 11 milioni di euro ma, prima che venga aperta, la soluzione provvisoria è indicata con vaghezza nel ricorso al privato sociale. Chi invece ha dato certezze nel rispetto delle scadenze è un governatore che si prepara a chiedere la riconferma a maggio come il campano Stefano Caldoro. Con lui dichiara di essere a buon punto e di potercela fare senz'altro anche la Calabria - dove peraltro a maggio non si vota. Rispetteranno il termine anche la Provincia autonoma di Bolzano (seppur con l'aiuto di una comunità piemontese) e l'Emilia-Romagna, che ha dirigenti sanitari in ambito psichiatrico di primissimo livello. Sospese alle erogazioni del ministro dell'Economia restano invece Toscana, Basilicata e Sardegna. Messi male, oltre a Zaia, anche il presidente della Provincia autonoma di Trento, la Regione Marche, malissimo il Lazio, così così ma quasi certamente destinato al commissariamento l'Abruzzo, e la Sicilia. E la Puglia. Dove pure si vota. Ma dove Vendola evidentemente non ha più niente da chiedere agli elettori. Alessandria: violenza in carcere inevitabile? Intervista al Comandante di Pol. Penitenziaria di Marco Madonia www.alessandrianews.it, 16 febbraio 2015 Dopo aver mostrato l'interno della Casa di Reclusione di San Michele incontriamo, con una serie di approfondimenti, i diversi protagonisti che animano la vita di questo luogo pubblico, spesso dimenticato ma centrale per ogni società civile. Oggi è la volta del comandante della polizia penitenziaria, Felice De Chiara, per parlare dell'esperienza in carcere a 360 gradi: dalla violenza alla rieducazione, dai problemi strutturali agli obiettivi futuri. Prosegue il nostro viaggio all'interno del carcere di San Michele, luogo pubblico, crocevia di storie di vita straordinarie e punto nodale di qualsiasi società che aspiri a essere evoluta e pienamente civile. Dopo averne mostrato l'interno con foto esclusive, è la volta di scoprirne la vita attraverso una serie di interviste con i protagonisti. Cominciamo con Felice De Chiara, comandante della polizia penitenziaria della struttura, da 8 anni a San Michele. Comandante De Chiara, lavorare in carcere è un'occupazione come tutte le altre? Nell'immaginario collettivo è un'esperienza particolare… "Dopo tanti anni trascorsi fra le sue mura posso affermare, forse a sorpresa, che lavorare in carcere è in realtà un grande privilegio. Si tratta di un lavoro complesso, che sul piano emotivo all'inizio crea sicuramente delle difficoltà per essere accettato. Per prima cosa quando si inizia questa professione bisogna essere capaci di superare i propri pregiudizi e le aspettative: da molti viene visto come un luogo logorante, di ripiego e di secondaria importanza rispetto ad altri lavori. Il carcere può essere visto come uno spazio al margine, dove è quasi impossibile vivere esperienze appaganti e nel quale si finisce professionalmente senza averlo scelto. Per me non è stato così, sebbene giunto qui avessi il mio bagaglio di pregiudizi". Cosa c'è di diverso fra ciò che uno si aspetta di trovare in un carcere e l'esperienza quotidiana di chi lo vive? "Io mi aspettavo una specie di girone infernale, e non potevo sbagliarmi di più. Si tratta in realtà di un lavoro normale, spesso vissuto con un'organizzazione più precisa che altrove, e con il rispetto di tantissime regole. Questo richiede sicuramente tantissimo impegno e molta motivazione, perché ci si interfaccia con un'utenza speciale, costituita da persone che sono private della loro libertà personale. Il carcere è in luogo di disagio per eccellenza, e anche gli operatori subiscono le conseguenze negative che questo comporta. C'è sempre il rischio che un operatore non abbastanza motivato o preparato si logori. Qui nessuno può permettersi di lavorare solamente per ricevere uno stipendio: altrimenti la vita diventa veramente orribile, e si può incorrere rapidamente in situazioni di forte stress e depressione, con il rischio di coinvolgere in questa spirale anche i familiari. Preso nel giusto verso però, come dicevo, può essere un lavoro estremamente interessante e appagante: si viene in contatto con i più svariati comportamenti umani ed è un'esperienza che non può non arricchire chi la vive ogni giorno". In cosa si distingue un agente di polizia penitenziaria rispetto a un poliziotto che lavora all'esterno? "In effetti il nostro lavoro è differente e richiede competenze specifiche: chi è abilitato a operare in carcere può svolgere benissimo il normale servizio d'ordine all'esterno della struttura, ma non vale il contrario. Le nostre specificità hanno un significato profondo, che affonda le proprie radici nella nostra Costituzione, all'articolo 27. Il carcere è un luogo pubblico, nato per garantire la sicurezza alla collettività, e, quando possibile, la riabilitazione delle persone detenute. Il nostro dovere è quello di impedire che vengano commessi delitti dentro e fuori dal carcere, e che chi ci è finito almeno non ne esca peggiore di quando è entrato. Per ottenere questo risultato ci basiamo su metodi rigorosi e scientifici, che partono dall'analisi del reato, del contesto nel quale è stato compiuto, per arrivare a partecipare attivamente alla fase di rieducazione di chi lo ha commesso. Noi non siamo qui per assecondare le richieste dei detenuti ma per far loro capire che hanno sbagliato, offrendo al contempo una seconda possibilità. Questo lo si fa dando loro l'opportunità di lavorare all'interno della struttura, e in qualche caso anche all'esterno, e costruendo percorsi di riabilitazione". Il rischio di "burn out" in una realtà lavorativa come quella del carcere è molto alto: da quante unità è composta la polizia penitenziaria di Alessandria? È in numero sufficiente? "Complessivamente siamo circa 200 agenti effettivi. La carenza di personale è notevole e porta a fare migliaia di ore di straordinario ogni anno. Ormai lavoriamo sistematicamente su turni di 8 ore invece che di 6, come dovrebbe essere in teoria. Diciamo che con altre 25-30 unità potremmo offrire un servizio migliore. La carenza che più si sente è quella legata ai sovrintendenti e agli ispettori: per i primi la pianta organica prevedrebbe 24 unità, ma quelle realmente disponibili sono solamente 2. Per gli ispettori invece ne abbiamo 13 su 24. Il loro ruolo è molto importante perché coordinano i diversi servizi all'interno della struttura e svolgono un tramite fondamentale fra la direzione e il personale esecutivo". Avete dei percorsi di monitoraggio e di sostegno psicologico per il lavoro che svolgete? "Non esistono, che io sappia, percorsi di sostegno psicologico sistematico, ma personalmente, come comandante, anche se non è previsto espressamente dalla normativa cerco di essere molto attento ai miei uomini: sanno che possono contare su di me per parlare di tutto, per esprimere eventuali malesseri e per ricercare un confronto. In fondo passiamo più tempo con i colleghi e i detenuti che a casa con le nostre famiglie. Il personale che lavora qui va valorizzato, ed è vero che spesso non riceve alcuna gratificazione a livello pubblico. Ma si tratta di grandi professionisti e questo non va dimenticato". L'agente di polizia penitenziaria nell'immaginario collettivo, utilizzando un linguaggio gergale che suppongo non le piaccia, viene spesso identificato come la guardia, il "secondino". In un ambiente così stressante la violenza diventa parte dell'esperienza quotidiana, perché il carcere è un luogo di violenza e reclusione forzata. Come si spiega lei, da osservatore privilegiato e da protagonista di questo ecosistema complesso, l'uso della violenza in carcere? "L'aggressività e la violenza non possono stupire in un luogo come questo. Chi ha ucciso, stuprato, commesso reati gravi adotta di solito questo meccanismo come mezzo imprescindibile di rapporto verso gli altri detenuti, e di via per ottenere ciò che desidera. Il nostro lavoro ha anche una parte di intelligence mirata a intercettare i soggetti maggiormente capaci di creare gerarchie e rapporti di violenza verso i compagni di detenzione e impedire che ciò accada, almeno in maniera sistematica. Molto dipende anche da come vengono accostate le persone, partendo dai reati che hanno commesso e dal tipo di personalità che dimostrano di avere. Bisogna distinguere la lite dalla prevaricazione vera e propria. È normale che in luogo del genere si litighi. Ci si scontra a casa con i propri familiari, figuriamoci se questo non avvenga anche in un ambiente ristretto, dove sconosciuti sono costretti a condividere spazi per tutta la giornata, per di più partendo dal loro modo abituale di relazionarsi, che fa della violenza un mezzo specifico. Le risse qui comunque sono molto rare e il nostro compito, in quel caso, è quello di mettere subito in sicurezza i soggetti e di accertare come sono andate le cose, anche per assicurare che vengano presi provvedimenti adeguati verso chi ha sbagliato. Saremmo degli illusi se pensassimo di eliminare gli atteggiamenti minacciosi e intimidatori: ci sono nelle riunioni di condominio, figuriamoci nel carcere". Poi però esistono anche le forme di autolesionismo, o di protesta non violenta, come per esempio gli scioperi della fame… "Gli episodi di autolesionismo purtroppo ci sono e il massimo che si può fare è mettercela tutta per evitarli. Bisogna anche capire quali sono le ragioni alla base di certi gesti. Quasi sempre gli scioperi della fame sono di tipo strumentale, per esempio se viene negato un permesso o qualcosa al quale il detenuto pensa di avere diritto, anche se la legge prevede altro. In questo caso concedere ai detenuti qualcosa che non spetta loro non è rendere un buon servizio, e non concorre a rieducarli. Educare non vuol dire assecondare acriticamente. Se lo sciopero della fame prosegue in maniera immotivata noi non possiamo che applicare la legge: faremo visitare il detenuto ogni giorno del medico e agiremo a seconda del suo stato di salute". Per gli episodi di violenza che coinvolgono agenti e detenuti invece? Anche questo è un fenomeno presente nelle nostri carceri, e innegabile. Le cronache parlano di casi in cui la violenza arriva anche da chi dovrebbe essere il custode e il rappresentante dello Stato... "Anche io leggo i giornali. Sono notizie che attengono al mondo del carcere, come avviene all'esterno. Lo scontro fa sempre notizia. La stessa legge prevede in maniera chiara quali siano i criteri, molto rigidi, entro i quali è permesso l'uso della forza, che va utilizzata come sempre come contenimento di un'azione violenta che si riceve e mai per primi come attacco deliberato. La reazione deve essere sempre professionale e contenuta, finalizzata a mettere tutti i soggetti coinvolti in sicurezza, il prima possibile. Ci sono situazioni nelle quali difendersi è necessario e non utilizzare la forza sarebbe invece un grave errore. Negli 8 anni che ho passato ad Alessandria non ho però mai dovuto gestire casi di aggressione da parte degli agenti: primo perché tutto il personale sa che non lo tollererei, e secondo perché chi viene qui non ha nessun interesse a litigare con i detenuti e il monitoraggio che svolgo sul livello di stress degli agenti sempre anche a prevenire ogni tipo di eccesso. Io sono orgoglioso dei miei uomini. Bisogna considerare che se non mantenessero un atteggiamento più che professionale le risse sarebbero all'ordine del giorno: in media ogni agente durante il proprio turno riceve almeno 3 o 4 minacce e insulti da parte dei detenuti, ogni singolo giorno. Sanno che è così e gestiscono con consapevolezza e grande autocontrollo la situazione. La nostra situazione non è dissimile ma di chi fa ordine pubblico negli stadi o alle manifestazioni ogni giorno, senza dimenticare però che noi abbiamo a che fare con persone che hanno commesso crimini anche molto gravi e violenti e quindi tutto è ancor più delicato e difficile da gestire". E sugli aspetti educativi del vostro lavoro invece? Il carcere dovrebbe essere un luogo di riabilitazione. Ci riesce? "Potremmo parlare all'infinito di quali obiettivi la nostra Costituzione attribuisca al carcere e di quale sia l'obiettivo della pena. Spesso e volentieri il concetto di opposizione fra le parti é una questione di cultura: il delinquente ritiene di essere in opposizione a chi gli sta davanti in divisa. Tu sei il buono, io sono il cattivo. In base al grado di riottosità alle regole ci si fa un'idea di quanto sia complicato tendere all'obiettivo della riabilitazione. Nei casi in cui lo scontro è più marcato ci si concentra sul quotidiano e l'obiettivo primo è che la situazione non degeneri. Nella maggior parte dei casi però anche i detenuti che hanno dato prova di essere ben integrati nel contesto criminale, con alle spalle reati gravi, dimostrano con il tempo di essere disponibili ad accogliere e accettare le offerte di aiuto e le seconde occasioni che vengono offerte, affrontando un percorso rieducativo serio. Abbiamo avuto anche grandi soddisfazioni in questi anni". Come cambieranno le cose qui ad Alessandria con l'introduzione della sorveglianza dinamica? Si tratta in effetti di una nuova frontiera sul piano rieducativo e del futuro reinserimento in società di chi oggi è detenuto? "Ci sono direttive precise che arrivano dall'Europa e dalla Corte internazionale per i diritti dell'uomo che indicano alcune modifiche da apportare al nostro assetto carcerario: l'obiettivo è quello di migliorarlo tendendo ai modelli presenti nel Nord Europa. Abbiamo svolto una fase di formazione che ha coinvolto tutto il personale e siamo pronti a partire. Sarà un grande sforzo e richiederà da parte di tutti, detenuti compresi, un importante cambio di mentalità. Il punto però è quello di ricordarsi che bisogna fare i conti con il nostro contesto logistico, strutturale, con i fondi che abbiamo a disposizione e anche con la tipologia di detenuti. Bisogna contestualizzare le riforme calandole nella nostra realtà, perché non abbiamo spazi, fondi e persone come quelle che è possibile trovare nei paesi del nord, dove in effetti i detenuti restano in cella solamente per dormire e svolgono attività in spazi comuni per tutto il resto della giornata, con ampio spazio per le esperienze produttive, ricreative ed espressive. In realtà il nostro mondo è in costante mutazione e dobbiamo comprendere che non potrà che essere un processo graduale, con effetti sicuramente virtuosi. Paradossalmente il metodo proposto dalla sorveglianza dinamica sarà più impegnativo per i detenuti che non per gli operatori: oggi chi si trova in carcere passa il tempo a lamentarsi e dipende in tutto e per tutto dagli altri, con una regressione che lo deresponsabilizza quasi totalmente. Con il nuovo approccio invece verranno costruiti percorsi insieme ai detenuti, ma sarà fondamentale che loro facciano la propria parte, prendendosi degli impegni e mantenendoli. Si tratterà di un patto reciproco che potrebbe portare notevoli miglioramenti, specialmente negli spazi di autonomia dei detenuti, con benefici concreti sulle loro possibilità di reinserimento in società. Per attuarlo però servono strutture fisiche adeguate e investimenti economici importanti, senza i quali il tutto verrà necessariamente ridimensionato, compresi gli obiettivi ambiziosi che il progetto oggi ha". Mantova: metamorfosi a Castiglione, l'Ospedale psichiatrico Giudiziario si fa in sei di Sabrina Pinardi Corriere della Sera, 16 febbraio 2015 Piccole comunità terapeutiche al posto dell'Opg mantovano. È mattina, tra poco si comincia. Sartoria, ginnastica, cucina, persino la redazione di un giornalino. I vialetti si riempiono: stranieri a gruppetti, coppiette che si tengono per mano, qualche ragazzo in disparte a fumare. Se non fosse per la recinzione alta più di tre metri e le sbarre alle finestre, quello dell'Ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere potrebbe sembrare un parco qualsiasi. Con la palestra, la piscina per l'estate e un grande bar con i clienti in fila. "Perché non volete fotografarmi? Sono finito in prima pagina tante volte. Una più, una meno, cosa cambia?", dice Giovanni con la sua parlantina sciolta. Sta facendo colazione con altri pazienti, pronti a farsi immortalare come l'amico. Stanno seduti a un tavolino che la riforma della sanità penitenziaria lascerà lì dov'è. Perché la rivoluzione che promette di chiudere gli Opg, fissata per legge (la 81 del 2014, che ha modificato la numero 9 del 2012) il 31 marzo, non abbatterà i cancelli della struttura sulle colline mantovane, che ospita circa 150 uomini e oltre 60 donne. L'unico ospedale psichiatrico in Italia a non avere guardie carcerarie, cederà il posto a sei comunità terapeutiche da venti persone ognuna "Rems", residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza), alle quali i pazienti saranno destinati tenendo conto delle loro caratteristiche cliniche. "Per ognuno - spiega il direttore dell'Opg Andrea Pinotti - stiamo sviluppando percorsi individualizzati. Ma in più, qui a Castiglione, potremo garantire un'offerta di attività riabilitative impensabile per piccole realtà isolate". Rimarranno, infatti, le aree comuni per ciò che già adesso riempie le giornate dei malati: dalla palestra alla redazione di "Surge et ambula", il giornale interno, dai laboratori artistici alla sartoria, fino alle corvée in cucina e alle piccole manutenzioni interne per le quali i pazienti ricevono un compenso. Entro pochi mesi partirà una fase di transizione, che dirotterà qui tutti i pazienti lombardi (la Regione, nella delibera del 23 dicembre 2014, stima che i malati al 31 marzo saranno circa 150), ospitati in otto comunità provvisorie, mentre per le Rems definitive bisognerà aspettare il 2016, se tutto andrà per il verso giusto. Se, cioè, saranno pronte le due comunità ricavate dal recupero dei padiglioni Forlanini e Ronzoni nell'ex psichiatrico di Limbiate (Mi): nella delibera della Regione, che per la riforma ha investito 40 milioni, non ce n'è più traccia, ma Palazzo Lombardia conferma l'intenzione. Nel frattempo, ogni Regione dovrà farsi carico del rientro dei propri pazienti: "Lo stanno già facendo - dice Pinotti. All'inizio del 2014 avevamo più di 300 ricoverati, all'inizio di quest'anno erano 210. Nonostante i continui ingressi". All'Opg di Castiglione, entrano dalle 6 alle 8 persone al mese; due le categorie di malati che prevalgono: ragazzi molto giovani con disturbi della personalità o problemi di tossicodipendenza oppure uomini anziani con gravi psicosi. "Situazioni - aggiunge il direttore - che i dipartimenti di salute mentale sui territori spesso non sono in grado di gestire". Eppure, secondo "Stop Opg Lombardia", questi presidi dovrebbero invece diventare il fulcro dei cambiamenti. Il comitato, che ha chiesto un confronto con la giunta di Regione Lombardia, è preoccupato per la piega presa dalla riforma. "L'Opg mantovano cambierà il nome, ma rimarrà un manicomio" dice lo psichiatra Luigi Benevelli. Stop Opg chiede la sospensione del programma di Rems da ricavare a Castiglione, "in attesa dell'accertamento del fabbisogno reale" e la costituzione di unità operative per la tutela della salute mentale nelle carceri. Meglio il carcere dell'Opg? "In carcere una persona ha diritti che può esercitare. E poi smettiamola di pensare soltanto agli opg. Il problema della salute mentale di chi commette reati è molto più vasto". Caserta: l'Ospedale psichiatrico Giudiziario di Aversa verso la chiusura Lidia de Angelis Gazzetta di Caserta, 16 febbraio 2015 Il Ministro della Giustizia Orlando ha presentato in queste ore una relazione circa la ferma decisione di vedere chiusi gli Opg entro e non oltre il 1 aprile 2015, altrimenti le strutture penitenziarie saranno commissariate. È ferma intenzione del Governo, Regioni e istituzioni coinvolte di dare attuazione concreta e definitiva al superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari entro l'annunciato termine del primo aprile 2015. E via alla procedura di commissariamento da parte del Governo per quelle Regioni che a tale data non sapranno garantire il completamento delle iniziative necessarie per la presa in carico dei soggetti dichiarati dimissibili e di quelli non dimissibili. Sono le conclusioni contenute nella seconda Relazione trimestrale sullo stato di attuazione dei programmi regionali relativi al superamento degli Opg, inviata al Parlamento dai ministri della Salute e della Giustizia ai sensi della legge 30 maggio 2014 n. 81. Il piano prevede per i soggetti dichiarati dimissibili l'affidamento ai dipartimenti di salute mentale (Dsm) delle Regioni di residenza, I non dimissibili saranno invece accolti e assistiti presso strutture residenziali appropriate (Rems), conformi ai requisiti previsti dal decreto ministeriale di ottobre 2012. "Dare attuazione concreta e definitiva al superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari entro l'annunciato termine dell'1 aprile 2015 e via alla procedura di commissariamento da parte del governo per quelle Regioni che a tale data non sapranno garantire il completamento delle iniziative necessarie per la presa in carico dei soggetti dichiarati dimissibili e di quelli non dimissibili". Sono le conclusioni contenute nella seconda Relazione trimestrale sullo slitto di attuazione dei programmi regionali relativi al superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, inviata al Parlamento dai ministri della Salute e della Giustizia. "Il piano - riferisce una nota del ministero della Giustizia - prevede per i soggetti dichiarati dimissibili l'affidamento ai dipartimenti di salute mentale (Dsm) delle Regioni di residenza. I non dimissibili saranno invece accolti e assistiti presso strutture residenziali appropriate (Rems), conformi ai requisiti previsti dal decreto ministeriale del 2012. Gli ospedali psichiatrici giudiziari ancora operativi sul territorio nazionale sono 6 al 30 novembre scorso vi risultavano detenute 761 persone". Vedremo se Aversa rispetterà la scadenza. Sassari: caso Erittu, fu suicidio o delitto? i pm impugnano la sentenza di assoluzione di Nadia Cossu La Nuova Sardegna, 16 febbraio 2015 La Procura generale ricorre in Appello contro l'assoluzione dei 5 imputati: "Il detenuto non si suicidò, fu ammazzato". "Il detenuto Marco Erittu non si è suicidato, è stato ucciso". Forti di questa convinzione i pubblici ministeri Sergio De Nicola e Gian Carlo Moi - rispettivamente sostituti procuratori della Procura generale nella sezione distaccata di Sassari e alla corte d'appello di Cagliari - hanno presentato appello contro la sentenza della corte d'assise di Sassari emessa il 23 giugno 2014 con la quale erano stati assolti dall'omicidio in concorso (per non aver commesso il fatto) gli imputati Giuseppe Vandi, Nicolino Pinna e Mario Sanna e dall'accusa di favoreggiamento (sempre in relazione all'omicidio Erittu) gli altri due imputati Giuseppe Sotgiu e Gianfranco Faedda. Il pm Giovanni Porcheddu aveva chiesto l'ergastolo per i primi tre e una condanna a quattro anni per gli altri. L'appello. I due sostituti procuratori ricostruiscono e ripercorrono nella richiesta d'appello ogni tappa del processo di primo grado: perizie, testimonianze, comparazioni scientifiche. Ne evidenziano falle, contraddizioni, incongruenze. E al termine delle 244 pagine chiedono alla corte d'assise d'appello di Sassari di accogliere la loro impugnazione e di "disporre la parziale rinnovazione del dibattimento mediante l'espletamento di un'altra perizia medico legale sulla causa della morte e un accertamento tecnico sulla striscia di coperta in sequestro per la ricerca di tracce biologiche e l'estrazione del Dna per l'attribuzione alla vittima". Chiedono quindi ai giudici di "riformare la sentenza e per l'effetto dichiarare penalmente responsabili gli imputati". La storia. Si sta parlando del caso Erittu, il detenuto trovato morto nella sua cella dell'ex carcere di San Sebastiano il 18 novembre del 2007. Caso inizialmente archiviato come suicidio e poi riaperto in seguito alle dichiarazioni del pentito Giuseppe Bigella che si era autoaccusato del delitto (è stato giudicato e condannato separatamente) chiamando in correità gli altri imputati. La corte d'assise aveva assolto tutti e nelle motivazioni della sentenza era stato chiaramente evidenziato: "L'istruttoria dibattimentale non ha consentito di acquisire, oltre alle dichiarazioni auto ed etero accusatorie di Bigella, elementi idonei dotati di un minimo di certezza tali da far ragionevolmente ritenere che la morte di Erittu sia da ricondurre a un omicidio piuttosto che a un suicidio, così come concluso nelle prime indagini del 2007". Sempre nelle motivazioni i giudici si soffermavano sulla causa della morte e in particolare sulle "diverse e contrastanti opinioni dei consulenti" di accusa e difesa "che hanno un limite in comune: hanno effettuato le loro valutazioni sulla base del corredo fotografico effettuato in sede di autopsia e quindi non sulla scorta di una osservazione diretta del corpo della vittima". I dubbi della Procura generale. Ma la Procura generale della Corte d'appello di Cagliari ha più di un dubbio in merito agli stessi elementi. Scrivono, De Nicola e Moi: "Si parla di un detenuto rinchiuso in una cella liscia (singola e priva di suppellettili) che poche ore dopo è stato rinvenuto privo di vita per una causa mortis pacificamente non naturale (asfissia meccanica primitiva violenta) e che presentava al collo una striscia di coperta non agganciata ad alcun appiglio fisso (ma semplicemente poggiata all'asta della spalliera del letto) e che il dibattimento ha accertato non provenire dalle coperte presenti in cella". Circostanze, queste, che "escludono in radice la possibilità che sia stato il detenuto a "costruirla" e a usarla contro di sé (e quindi il fatto stesso del suicidio) e rendono palese la natura omicidiaria dell'evento, in piena conformità con le dichiarazioni di Giuseppe Bigella che ha confessato di aver personalmente ucciso Erittu su mandato di Giuseppe Vandi oltre che con la collaborazione di Nicolino Pinna al quale spettava il compito di simulare un suicidio) e del poliziotto penitenziario Mario Sanna (che ha reso possibile l'ingresso in cella). Circostanze che rendono del tutto inaccettabili le conclusioni della sentenza circa la natura suicidaria del decesso". Critiche al perito Avato. Contestano, tra le altre cose, le conclusioni cui era arrivato il perito Avato e in particolare le sue valutazioni sulla striscia di coperta: "La logica di Avato segue regole proprie - scrivono i due pubblici ministeri - ed è certamente distante dalla regola che vige in ogni processo: quella che ritiene imprescindibile per discernere tra responsabilità e innocenza, tra omicidio o suicidio o omicidio camuffato da suicidio, basarsi essenzialmente sui (veri) dati circostanziali che caratterizzano il caso concreto e la scena del crimine". Catanzaro: Uil-Pa in visita al carcere "Lo scatto dentro, perché la verità venga fuori" www.cn24tv.it, 16 febbraio 2015 Sabato 21 febbraio, dalle ore 9 alle ore 11.30 , una delegazione della Uil guidata dal Segretario generale Carmelo Barbagallo, effettuerà una visita alla casa circondariale di Catanzaro per verificare lo stato dei luoghi di lavoro della polizia penitenziaria. Ad affiancare il segretario generale della Uil durante la visita - è scritto in una nota - ci saranno, tra gli altri, il Segretario Generale della UIL Pubblica Amministrazione Attili, il Segretario Generale della Uil-Pa Penitenziari Sarno ed il Segretario Regionale della Calabria Uilpa Penitenziari Paradiso. Durante la visita sarà effettuato un servizio fotografico che documenterà la situazione lavorativa. Si tratta dell'ennesima tappa di una iniziativa denominata "Lo scatto dentro, perché la verità venga fuori". Un tour che ha già toccato, in poco più di due anni, circa 50 istituti Penitenziari d'Italia documentando, in numerosissimi casi, le infamanti e difficili condizioni di lavoro cui sono costretti gli agenti penitenziari e le incivili condizioni della detenzione. "Intendiamo contribuire alla diffusione di una verità troppo spesso celata dalle mura di cinta. I nostri servizi fotografici - spiega Eugenio Sarno, segretario generale della Uil-Pa Penitenziari - sono un momento alto di informazione. Riteniamo che le immagini, molto più delle parole, possano contribuire ad una presa di coscienza collettiva di come sia ancora distante la soluzione al dramma sociale delle condizioni di lavoro e di detenzione nelle nostre carceri. La presenza a Catanzaro , quindi, di Barbagallo ed Attili non solo conferma una storia ultraventennale di attenzione e sensibilità verso il mondo carcerario e di chi ci lavora di tutta la Uil, quant'anche una sollecitazione forte alla politica a risolvere, presto e bene, una questione sociale che, da più parti, è stata definita una vergogna per l'Italia". Già nel novembre del 2013 una delegazione della Uil-Pa Penitenziari documentò, attraverso un servizio fotografico, lo stato dei luoghi di lavoro dell'istituto di Siano "ma da aprile dello scorso anno è stato attivato un nuovo padiglione - ricorda Sarno - che sarà il soggetto principale delle nostre rilevazioni fotografiche. Sul punto è bene sottolineare come la burocrazia impedisca di assegnare in via definitiva il personale necessario al funzionamento della nuova struttura e, in attesa di una auspicata revisione delle piante organiche, si è ripiegato sull'escamotage del distacco provvisorio per le 35 unità provenienti da altri istituti penitenziari d'Italia. Così come è intollerabile che a distanza di un anno dalla chiusura del carcere di Lamezia Terme non vi sia ancora un formale decreto ministeriale di dismissione e che a sorvegliare una struttura inattiva vi sia un contingente di 6 unità di polizia penitenziaria che potrebbe essere destinato a compiti operativi più confacenti alle necessità, senza dimenticare - chiosa il Segretario della Uil-Pa penitenziari - l'esigenza del personale che ha perso la sede ad avere un quadro chiaro e certo del proprio futuro lavorativo" Copie del servizio fotografico effettuato durante la visita saranno distribuite nel corso di una Conferenza Stampa (a cui parteciperanno Barbagallo, Attili e Sarno) che si terrà nella sala conferenze del carcere di Catanzaro alle ore 12.00 di sabato 21 Febbraio 2015. Olbia: l'archivio della Colonia penale di Tramariglio salvato grazie al lavoro dei detenuti www.sassarinotizie.com, 16 febbraio 2015 L'audio documentario proposto da Tre Soldi - realizzato da Daria Corrias in collaborazione con Stefano A. Tedde - narra dell'esperienza fatta da sei detenuti della Casa Circondariale di Sassari impegnati in un progetto di riordino archivistico e riscoperta della memoria di una dismessa colonia penale che sorgeva a Tramariglio, località non lontana da Alghero, in un remoto angolo della Sardegna nord occidentale. In questo penitenziario, attivo dal 1940 al 1962, sono stati ospitati circa 4800 detenuti in 22 anni di attività, sono stati bonificati e messi a coltura centinaia di ettari, oggi completamente ricadenti nell'area del Parco Naturale Regionale di Porto Conte. A prima vista la denominazione "colonia penale agricola" sembra richiamare alla mente un luogo ameno, di virgiliana memoria, ove i detenuti potessero ritrovare nei lavori agricoli la perduta armonia interiore a seguito dei reati commessi. La realtà è ben diversa. La permanenza in tali strutture aveva le sue ferree leggi, a cui erano soggetti carcerati e guardie, che portavano alla perdita dell'individualità. Il numero di matricola che identificava il condannato appena entrato in colonia al posto del nome e cognome ne è un esempio lampante. Il progetto, sviluppatosi dal marzo 2012 al settembre 2014 è frutto di un protocollo d'intesa tra Parco di Porto Conte, Archivio di Stato, Casa Circondariale di Sassari, ha visto i sei detenuti impegnati nell'insolita attività di archivisti, assunti attraverso cooperative sociali del territorio. A breve, grazie ad un finanziamento della Regione Sardegna al Parco di Porto Conte, sarà possibile concludere il lavoro di archiviazione e digitalizzazione, sempre con il coinvolgimento dei detenuti in articolo 21. Ad un primo ciclo di lezioni teoriche si sono succedute le ricerche nei tetri sotterranei del carcere delle carte pertinenti alla colonia di Tramariglio, documenti caoticamente custoditi in scaffali che contenevano anche documentazione di altri istituti di pena. Dopo la chiusura della colonia penale le carte vennero trasportare prima ad Alghero e in seguito a Sassari, nel carcere detto san Sebastiano, di recente chiusura. Dimenticate negli umidi scantinati hanno ripreso vita grazie a questo progetto raccontato da Tre Soldi. Leggere i vecchi fascicoli, schedare e riordinare 1.400 registri ed oltre 5.000 fascicoli della vecchia colonia ha rappresentato per i detenuti un'esperienza singolare: apprendere notizie relative alla vita e al regime carcerario d'altri tempi li ha coinvolti intimamente, poiché quelle storie apparentemente lontane emergevano, si delineavano e confluivano nella quotidianità prossima a chi il carcere lo vive in continuazione, ne percepisce a sue spese tempi, difficoltà, problemi e dinamiche. Il sincretismo tra passato e presente determina la molla che fa scattare la curiosità, la voglia di conoscere, di sapere, il desiderio di poter illustrare ad altri quanto a poco a poco si stava apprendendo. In seguito, con l'attivazione dell'articolo 21 (la possibilità di svolgere lavoro all'esterno per chi è recluso) i ragazzi sono potuti uscire per la prima volta dalla casa circondariale, per dirigersi nei locali del Parco, a quasi 50 km di distanza dal carcere sassarese. La maggior parte di loro non vedeva il mare da oltre 5 anni, non respirava più l'aria fresca, non sentiva più il maestrale graffiare il viso, e c'era persino chi si era dimenticato il colore delle colline. Un "tornado" di emozioni ha dato inizio alla fase forse più accattivante, pur con la certezza di dover rientrare ogni giorno tra le mura del penitenziario. Al parco i detenuti hanno cominciato la digitalizzazione delle carte e la trascrizione sintetica di alcuni documenti, scelti fra tanti, che potessero illustrare vicende e aneddoti del carcere. Nel frattempo tre di loro hanno "chiuso il conto" con la giustizia, ottenendo chi la liberazione chi l'affidamento, ma hanno chiesto ed ottenuto di poter continuare a svolgere il lavoro archivistico e di digitalizzazione. Si sono impostati i pilastri per un museo della memoria carceraria, che si sviluppa oggi nei locali che un tempo ospitavano le celle di punizione. L'esposizione si articola su più livelli: sia a carattere testuale, con pannelli luminosi che sintetizzano i vari argomenti trattati, sia con le teche che racchiudono alcuni documenti originali e testimonianze della cultura materiale (manufatti dei detenuti, attrezzi da lavoro, strumenti per la pesca, utensili, manette, schiavettoni o ferri da campagna), sia con le testimonianze orali di chi lavorò nella colonia, proiettate nelle celle attraverso i video. Ci sono anche i canti dei detenuti, carichi di dolore e rassegnazione, che rappresentano un'espressione della cultura immateriale comune ai reclusi in diverse parti d'Italia. Attraverso i pad touch screen si possono leggere i giornali d'epoca, che narrano delle vicende legate alle evasioni, ai ritrovamenti, ai fatti di sangue capitati nella casa di lavoro all'aperto. L'esposizione è inoltre corredata di un importante strumento di consultazione: un catalogo di oltre 400 pagine, dal titolo La colonia penale di Tramariglio. Memorie di vita carceraria di Stefano A. Tedde, Angelo Ammirati e Vittorio Gazale insieme ai 6 detenuti in articolo 21 Davide Aristarco, Simone Silanos, Lorenzo Spano, Daniele Uras, Giuliano Usala e Roberto Varone (Carlo Delfino Editore, 2014), realizzato dai curatori della mostra con i contributi dei detenuti che hanno regestato la documentazione. Il volume raccoglie i documenti esposti e illustra la vita quotidiana dei condannati con foto, lettere, filmati. Attualmente sia il museo che e l'archivio (questo ancora in fase di riordino) sono fruibili presso la sede del Parco Naturale di porto Conte, un tempo diramazione centrale della colonia penale di Tramariglio. Vicenza: due detenuti danno fuoco alla cella, due agenti in ospedale per il fumo respirato Giornale di Vicenza, 16 febbraio 2015 Due detenuti del carcere San Pio X hanno prima sfasciato tutti i mobili e poi hanno dato fuoco ai materassi della loro cella. Due agenti sono stati portati in ospedale per il fumo respirato. Il sindacato: "Una situazione che sta diventando insostenibile". Prima hanno sfasciato tavoli e sedie, poi hanno divelto i termosifoni dal muro. Alla fine hanno dato fuoco ai materassi ed è scoppiato il caos. Perché i nove metri quadrati di cella, in un istante, si sono saturati di fumo nero e tossico. È accaduto venerdì, al San Pio X. E non è certo la prima volta. Capita che per protesta, esasperazione o per problemi personali qualcuno decida di appiccare il fuoco ai materassi delle brande. I motivi che hanno scatenato l'ultimo episodio non sono chiari. Tutto è stato risolto in meno di mezz'ora, le guardie carcerarie sono riuscite a spegnere il rogo con gli estintori e la manichetta di emergenza. Ma il risultato di quel gesto di protesta ha lasciato il segno: due agenti finiti all'ospedale per una intossicazione da fumo e la cella devastata, da rifare completamente. A far scatenare il piccolo inferno due detenuti italiani. Hanno dato in escandescenze, hanno rotto tutti i mobili e poi hanno appiccato il fuoco, usando una miscela alcolica fatta con frutta fermentata. Ivrea (To): detenuto ottiene permesso per lavoro ma non rientra in carcere Ansa, 16 febbraio 2015 Un italiano di 41 anni detenuto per rapina nel carcere di Ivrea, nel Torinese, non è rientrato da un permesso per lavorare in una cooperativa di Torino. Doveva scontare ancora nove anni. A darne notizia è Leo Beneduci, segretario generale dell'Osapp, che chiede che "dopo questi fatti la direzione del penitenziario esamini con più attenzione i criteri e le condizioni che vengono applicati per l'immissione al lavoro dei detenuti". "Chiediamo inoltre al Dap - aggiunge il sindacalista - di voler verificare anche attraverso un'apposita ispezione alcuni fatti accaduti nei giorni scorsi a Ivrea, che a quanto sembra non sono stati ritenuti di interesse disciplinare, consentendo a detenuti responsabili di percosse tra loro di continuare a fruire del regime di lavoro esterno". Mondo: non solo marò… il numero degli italiani detenuti all'estero è salito a 3.422 di Francesco Giappichini www.lettera43.it, 16 febbraio 2015 Il numero degli italiani detenuti all'estero è in crescita. Ci descrive il fenomeno Katia Anedda, che presiede l'associazione "Prigionieri del silenzio". L'Annuario statistico 2014 del Ministero degli Affari esteri fornisce dati drammatici sugli italiani detenuti all'estero: il loro numero è salito a 3.422, di cui 2.696 in attesa di giudizio. Buona parte di questi drammi individuali è la conseguenza di processi - farsa: spesso per i magistrati del luogo è preferibile far carriera con casi montati ad arte, che colpiscono cittadini stranieri. È il caso dell'Operação Corona, inscenata nel 2005 contro sei pugliesi in quel di Natal, nello Stato brasiliano del Rio grande do norte. Ci auguriamo ansiosi di ricevere querele e denunce al riguardo, sì da poter descrivere anche in sede giudiziaria quella sceneggiatura, riassumibile qui come la cronaca di una banale violazione dei diritti umani. Come non bastasse, buona parte di queste tragiche vicende - almeno nei Paesi extraeuropei - vede l'inflizione di trattamenti penitenziari disumani. Restando in America latina, i Paesi col maggior numero di reclusi italiani sono - nell'ordine - Brasile, Venezuela, Argentina e Perù. Per chiarirci meglio i contorni del fenomeno, abbiamo sottoposto a una delle nostre interviste cult, Katia Anedda, presidente di "Prigionieri del silenzio. Quest'associazione, fondata nel 2008, lotta per la tutela dei diritti umani degli italiani detenuti all'estero. Ci può descrivere - in estrema sintesi - gli obiettivi della vostra associazione? "Gli scopi dell'associazione sono stabiliti dall'articolo 4 del nostro Statuto. In buona sostanza cerchiamo di difendere i diritti civili dei cittadini italiani detenuti nelle carceri di Paesi stranieri, sostenendo al contempo le loro famiglie, residenti in Italia. E poi puntiamo a creare un movimento di opinione pubblica, in qualche modo favorevole ai nostri connazionali, reclusi all'Estero. Scendendo più sul concreto, promuoviamo e attuiamo iniziative - di tipo sia economico sia sociale - sia per sostenere le famiglie nell'affrontare le spese legali e giudiziali, sia per il perseguimento di tutti gli altri obiettivi. Attraverso interventi economici e non solo, ci occupiamo anche del reinserimento nella vita sociale di queste persone, dopo che abbiano già scontato la pena. Chiaramente cerchiamo di operare nei limiti delle nostre possibilità; del resto a volte non possiamo contare né sulla sensibilità del nostro Governo, né sull'appoggio delle associazioni costituite dai nostri connazionali all'estero". Il numero d'italiani detenuti all'estero è in crescita. Crede che il Ministero degli Affari esteri stia affrontando questo problema sociale con la determinazione necessaria? "Penso di no, le nostre Istituzioni hanno troppo cui pensare. Mi appaiono scollegate rispetto all'esigenza di salvaguardare i diritti civili dei nostri connazionali all'estero; e ciò è ancor più evidente per quelli che sono incappati nella matassa della giustizia penale. Le azioni necessarie sarebbero molto costose, mentre al mondo politico ne deriverebbero ben pochi benefici. Naturalmente, sullo sfondo di questo panorama, vi è la grave ignoranza che vige sulla problematica". Il vostro sito ha pubblicato una drammatica missiva di quattro connazionali reclusi in Venezuela. In generale, cosa può dirci della situazione degli ottanta italiani detenuti in quel Paese? "Sono in condizioni pessime, spesso ricattati dalle Istituzioni locali, e ignorati dal nostro Governo. Se non c'è un famigliare - o un amico - determinato a puntare i riflettori su di loro, sono abbandonati a se stessi. Come capita a molti, purtroppo, di cui non sappiamo nulla. E mai ne sapremo...". Un reportage de L'Espresso, pubblicato in estate, descrive le condizioni inumane che vivono i quarantanove connazionali reclusi in Perù. Molti dei quali, costretti dalla crisi a trafficar droga. La vostra associazione ha altre notizie provenienti dal Paese andino? "In Perù, nel dicembre del 2013, si contavano trentatré connazionali in attesa di giudizio e sedici condannati. Sono casi un po' critici, infatti, gran parte di loro è comunque colpevole di un qualche delitto. Seppur la pena e il trattamento siano sproporzionati rispetto al fatto contestato. Inutile dire che sia presso l'Ambasciata, sia presso la società civile, si tende a rimuovere casi come questi. L'opinione pubblica tende a credere che se uno è in prigione, qualcosa avrà pure fatto. Il tutto condito dalla convinzione che tanto a noi queste cose non possono capitare. Sino a che non ci succede qualcosa in prima persona, non ci si rende conto che queste situazioni possono invece giungere - magari inaspettatamente - a stravolgere la nostra vita: ognuno di noi, potenzialmente, è un detenuto all'estero. Ci auguriamo che con le reti sociali - le quali spesso pubblicano quello che i media nazionali non ci dicono - la cultura inizi a cambiare, e la gente a capire. Noi seguiamo cinque casi in Perù. Sono persone non giovanissime, hanno fatto qualcosa di sbagliato e sono state catapultate in una situazione più grande di loro. Ora però la stanno pagando più che cara... ma sono esseri umani. Sono convinta comunque che questo errore non lo ripeteranno. Spesso dai giornali sentiamo d'imprenditori che si tolgono la vita, così ci irritiamo contro il Governo, e ne nascono battaglie politiche. Ebbene, questo è un altro aspetto del suicidio: l'esito finale è stato diverso, ma i motivi che sono stati alla base del loro agire sono gli stessi. Molti di loro non hanno mai avuto problemi con la legge, e si sono trovati in una fase della loro vita, in cui hanno voluto rischiare. Spesso l'unico scopo era dar da vivere alla famiglia. Al posto del suicidio hanno deciso per un rischio estremo, che in un certo senso equivale a un suicidio". La Camera ha approvato il disegno di legge di ratifica ed esecuzione del trattato sul trasferimento delle persone condannate, firmato da Italia e Brasile. Lo ritiene un passo avanti importante, considerando che nel Paese verde-oro sono reclusi ben ottantasette italiani? "Circa la Convenzione di Strasburgo - e tutti gli Accordi bilaterali che vi s'ispirano - il mio parere è netto: sono norme che fanno letteralmente acqua da tutte le parti, perché sono troppo generiche e lasciano eccessivo spazio alle fumose legislazioni nazionali. E soprattutto ai loro ritardi. Spesso assistiamo a casi in cui il connazionale fa prima a scontare la pena in loco, che attendere il processo burocratico del trasferimento in Italia. Ricordiamoci poi che la decisione finale sul trasferimento è sempre a discrezione del Paese di condanna. E quindi nei delicati casi di connazionali volutamente incastrati, il sistema giudiziario straniero non avrà alcun interesse al trasferimento. Va poi aggiunto che spesso queste normative internazionali sono disapplicate nello Stato di nazionalità del recluso, che tende al rilascio anche quando non ve ne sarebbero le condizioni. Un fenomeno che provoca a sua volta l'irrigidimento dei Paesi di condanna, e in definitiva la quasi totale disapplicazione di questi accordi". Unione Europea: torture della Cia; le persone responsabili dovrebbero essere perseguite www.marketpress.info, 16 febbraio 2015 Come emerso di recente dal rapporto pubblicato dal Senato degli Stati Uniti "Programma di detenzione e interrogatori della Cia", l'agenzia di spionaggio americana utilizzata la tortura per ottenere delle informazioni dai detenuti. In una votazione in seduta plenaria l'11 febbraio, i deputati hanno condannato l'azione e hanno chiesto un'indagine per verificare se gli Stati membri fossero coinvolti. Abbiamo incontrato Elmar Brok (Ppe, Germania) e Birgit Sippel (S&D, Germania), responsabili delle risoluzioni per i gruppi politici. Per prima cosa, il Parlamento europeo ha esaminato la presunta cooperazione degli Stati membri con la Cia nel 2006. Tuttavia, le recenti rivelazioni del rapporto del Senato americano sul "Programma di detenzione e interrogatori della Cia", ha portato i deputati a discutere di nuovo il 17 dicembre 2014 e votare l'11 febbraio. La risoluzione approvata domanda alle commissioni per gli Affari esteri e per i Diritti umani di riavviare le indagini. Clicca per maggiori informazioni da parte del Parlamento europeo. Per la deputata Birgit Sippel "la fiducia tra gli Stati Uniti e l'Unione europea è stata gravemente tradita perché la tortura non è solo un crimine per gli standard internazionali dei diritti dell'uomo, ma chiama in causa anche i nostri valori, il rispetto dei diritti umani e la dignità. É vergognoso che alcuni Stati membri abbiano collaborato a questi atti criminali, sia fornendo luoghi di detenzione segreta o chiudendo un occhio sui voli segreti di prigionieri sul loro territorio. Ora questi stati devono avviare un procedimento penale contro i responsabili". Dopo la votazione, il deputato Elmar Brok ha dichiarato: "É scandaloso che i socialdemocratici e i liberali abbiano fatto un accordo con i populisti di destra, gli anti-europei e i comunisti che isola Washington. L'america ha fatto un gesto significativo verso l'Europa e ha affrontato criticamente il programma di interrogatori e di detenzione della Cia. Il rapporto mostra un chiaro messaggio a sostegno di un sistema politico democratico". "Adesso starebbe a noi di inviare un segnale positivo all'America, perché è importante che collaboriamo nella lotta contro il terrorismo globale". India: caso marò; un mese fa la risoluzione Ue, ma dopo tre anni nulla è cambiato Giornale di Puglia, 16 febbraio 2015 "Dopo tre anni esatti, a parte la risoluzione approvata appena un mese fa dal Parlamento europeo riunito in assemblea plenaria a Strasburgo, nulla è cambiato per i nostri marò. Massimiliano Latorre è in Italia solo perché colpito da un ictus, ma dovrà far ritorno a breve in India dove è rimasto il suo compagno Salvatore Girone. Avevamo sperato che finalmente qualcosa si muovesse davvero per i nostri due fucilieri di Marina, trattenuti nel Kerala senza che neanche sia stato mai formulato un capo di imputazione e in evidente violazione di leggi internazionali e dei diritti dell'uomo. Invece, l'Europa resta ancora a guardare, mentre il governo italiano si dimostra ancora incapace di agire con maggiore autorevolezza e sostanziali iniziative rispetto al passato. E neanche Federica Mogherini, prima in veste di ministro degli Esteri italiano, adesso addirittura nel ruolo di Alto rappresentante dell'Ue per gli affari esteri e la politica di sicurezza, sembra incidere diversamente. Anzi, continua, come il premier Renzi, ad arrampicarsi sugli specchi con le parole, le promesse, le autogiustificazioni e improbabili giochi di squadra. Mentre, in realtà. L'Italia è estromessa da ogni decisione che conta. Se non ci fosse da piangere, ci sarebbe veramente da ridere. Da tempo sosteniamo che i diritti umani dei nostri due marò siano stati violati, insieme al fatto che la competenza giurisdizionale debba essere attribuita all'Italia o, al massimo, ad un arbitraggio internazionale. Siamo rimasti inascoltati e il risultato è che a tre anni dall'accaduto, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone sono ancora detenuti e la restrizione della loro libertà stava per trasformarsi anche in tragedia per le note condizioni di salute di Latorre. Incredibile altresì che, dopo l'evidente indisponibilità delle autorità indiane a trovare una soluzione adeguata e ragionevole al caso, non si sia fatto ricorso al Tribunale internazionale del diritto del mare per sbloccare la situazione. L'Europarlamento aveva sottolineato nella risoluzione che "i diritti e la sicurezza dei cittadini dell' Ue nei paesi terzi dovrebbero essere salvaguardati dalla rappresentanza diplomatica dell'Unione, che dovrebbe operare attivamente per la difesa dei diritti umani fondamentali dei cittadini dell'Ue detenuti in qualsiasi Paese terzo. Parole. Solo parole. Tanta pena per i nostri fucilieri e le loro famiglie. E tanta vergogna per l'Italia". Lo dichiara in una nota il sen. d'Ambrosio Lettieri, capogruppo Fi 12esima Commissione Senato. Vito (Fi): il 19 riunirò Commissione Difesa spero con il Governo "Finalmente, dopo mesi di silenzio, oggi si torna parlare di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, in occasione dei tre anni dall'inizio della vicenda, tre anni trascorsi senza peraltro che siano stati provati il loro coinvolgimento o la loro colpevolezza. La commissione Difesa della Camera, che ho l'onore di presiedere, si riunirà per discutere del caso, mi auguro alla presenza autorevole dei rappresentanti del governo, Giovedì 19 febbraio, quando saranno trascorsi esattamente 3 anni dall'arresto in India dei due Fucilieri di Marina". Lo sottolinea in una nota Elio Vito, deputato di Fi e presidente della commissione Difesa della Camera. "Tre anni di ingiusta detenzione e privazione della libertà - spiega - per nostri Militari impegnati a svolgere in acque internazionali funzioni loro assegnate e normativamente disciplinate, sono evidentemente un tempo inaccettabilmente lungo". Stati Uniti: pena di morte; se mancano i farmaci, in Utah si torna al plotone d'esecuzione Secolo XIX, 16 febbraio 2015 Mentre negli Usa ci sono oltre 3mila condannati a morte, resta il problema dell'iniezione letale. Ma l'Utah ha la sua: il plotone d'esecuzione. Le aziende farmaceutiche europee apertamente boicottano la pratica rendendo indisponibili i cocktail letali per le esecuzioni. E allora alcuni Stati degli Usa (che hanno assoluta discrezionalità sul tema) stano studiando le soluzioni. Nello Utah, si propone una decisione drastica. Se manca il farmaco necessario alla data dell'esecuzione capitale, ebbene si ricorrerà al plotone di esecuzione. La proposta, numero 0011, riporta in modo chiaro che "se le sostanze non sono in grado di portare avanti la pena di morte, essa sia portata con il plotone di esecuzione". La legge dello Stato (dove il locale parlamento è controllato dai Repubblicani) è passato con 39 voti a favori e 34 contro alla Camera. Si attende ora il voto del Senato statale. Sul tema, però i leader politici non hanno rilasciato dichiarazioni. A parlare Paul Ray, che è stato il principale promotore della legge, dichiarando che "vista l'opposizione delle aziende europee a fornirci il farmaco letale, mi sembra che il plotone di esecuzione sia il mezzo più umano per eseguire pene di morte". Potrà sembrare strano ma l'esecuzione della condanna a morte in Utah via fucilazione è stata vietata solo nel 2004, e visto che non era retroattiva, nel 2010 un condannato ha chiesto, e ottenuto, di essere ucciso in questo modo. La regola della "fusillade" è che il detenuto venga messo al centro di un campo di tiro e colpito dai fucili di cinque agenti di polizia. Giordania: numero due Fratelli musulmani condannato al carcere per critiche a Emirati Nova, 16 febbraio 2015 Il numero due dei Fratelli musulmani in Giordania, Zaki Bani Arshid, è stato condannato a un anno e mezzo di carcere dalla Corte di Appello di Amman per delle critiche rivolte agli Emirati Arabi Uniti. Il politico islamico era stato condannato in primo grado a tre anni di carcere e ai lavori forzati per aver criticato la decisione del governo di Abu Dhabi di inserire i Fratelli musulmani nella lista dei gruppi terroristi. Il tribunale ha deciso che le dichiarazioni dell'esponente islamico, "hanno messo in pericolo le relazioni tra la Giordania e un paese amico".