Giustizia: reato di negazionismo? un'idea falsa non va punita con il carcere di Massimo L. Salvadori La Repubblica, 15 febbraio 2015 Invocandolo come adempimento tardivo di un atto vincolante dell'Unione Europea, il Senato della Repubblica ha approvato con 234 sì, 3 no e 8 astenuti il disegno di legge - che ora passa alla Camera dei deputati - il quale punisce il negazionismo della Shoah e di altri genocidi comminando ai colpevoli fino a tre anni di carcere. La questione non è nuova. Ha già tutta una storia ormai ricca di capitoli in vari Paesi europei, il cui inizio risale al momento in cui un numero via via più largo di Stati hanno affidato ai tribunali il compito di punire i negazionisti, che sarebbe stato e sarebbe più saggio e più coerente con gli osannati principi di libertà lasciare alla miseria delle loro idee. Anche le idee più nefaste, se pericolose, lo diventano maggiormente quando si offrono loro le aule dei tribunali. Bisogna ammettere che questo gli americani lo hanno capito molto meglio degli europei. Numerosi storici e studiosi hanno cercato senza esito di spiegarlo ai legislatori, i quali si sono sentiti investiti della missione di servire una nobile causa di cui hanno mostrato di non cogliere le implicazioni. Nel presentare al Senato il disegno di legge la senatrice Amati del Pd, prima firmataria, ha espresso la sua soddisfazione per il fatto che venga finalmente impedito a chiunque di falsificare la storia; e il ministro della Giustizia Orlando ha sentenziato che "è molto importante che nessuno possa più rimuovere la verità storica". Bene, così si delega allo Stato il compito di stabilire quale sia e quale no la verità storica e di distribuire manette ai contravventori. Vien da domandarsi come ciò possa conciliarsi con l'articolo 21 della Costituzione - dettato da uomini da poco usciti da un regime che aveva assunto come proprio dovere di imporre con la forza della legge la verità - il quale recita: "Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione". Tra i costituenti vi erano persone di spirito autenticamente liberale, che, forti delle esperienze loro trasmesse dai regimi autoritari, avevano capito la lezione intellettuale, morale e politica di un testo che dovrebbe essere regalato a spese del Senato a quanti oggi seggono negli scranni di quella augusta sede da cui sentenziano intorno a materie che richiederebbero le opportune cautele. Si tratta del Saggio sulla libertà di John Stuart Mill, che risale al 1858. Qui Mill spiega ai suoi lettori che le posizioni stupide e le idee menzognere non possono e non devono essere combattute con la repressione per tre motivi principali: perché la libertà di pensiero non finisce là dove incomincia l'errore; perché solo il libero confronto tra le opinioni consente di far emergere che cosa sia vero e cosa falso; perché la repressione non indebolisce ma rafforza l'errore. Scrive Mill: "Non possiamo mai essere certi che l'opinione che stiamo cercando di soffocare sia falsa; e anche se lo fossimo, soffocarla sarebbe un male. Se si vietasse di dubitare della filosofia di Newton, gli uomini non potrebbero sentirsi così certi della sua verità come lo sono. Per vera che essa sia, se non la si discute a fondo, spesso e senza timore", un'opinione "finirà per essere creduta un freddo dogma, non una verità effettiva". Ancora una pregnante citazione dal saggio di Mill, attinente alle "sole sanzioni" che giustamente occorre dare ai diffusori di false teorie: esse "sono quelle strettamente inscindibili dal giudizio sfavorevole altrui". È chiaro il significato delle parole del grande pensatore liberale inglese; ed è triste che persone investite di una suprema responsabilità quale è quella di legiferare dimostrino di non comprenderne il significato e il messaggio. Dove possa condurre l'approccio esaltato dal nostro ministro della Giustizia abbiamo avuto modo di constatarlo nel caso clamoroso occorso a Bernard Lewis, uno dei maggiori islamisti del mondo. Il quale è stato condannato in passato da un tribunale francese, seppure alla pena meramente simbolica di un franco, per avere sostenuto che, secondo la sua opinione, gli armeni durante la prima guerra mondiale erano stati vittime da parte dei turchi di "massacri" anziché di un disegno organico di "genocidio". Faccenda umiliante per i giudici che hanno emesso la sentenza. Non occorre continuare. Ma vi è però qualcosa da aggiungere, e cioè un grazie alla senatrice Elena Cattaneo, la quale al Senato ha negato la sua approvazione al disegno di legge, con le parole di una degna seguace di Mill: "Credo che vietare il negazionismo per legge sia sbagliato. Non è ammissibile imporre limiti alla ricerca e allo studio di una teoria. Trovo ignobili le tesi dei negazionisti ma non credo che minino una disciplina. Nessuno storico prende sul serio queste teorie". Giustizia: il costituzionalista Zagrebelsky "riforme, siamo quasi a punto zero democrazia" Corriere della Sera, 15 febbraio 2015 Quanto accaduto nelle ultime ore in Parlamento "è un degrado, quasi il punto zero della democrazia, ma bisogna interrogarsi sulle cause e su chi ha determinato le condizioni in cui ciò si è verificato". A dirlo è il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, intervenuto oggi a Torino a un dibattito promosso dalle associazioni Libertà e Giustizia e I Popolari sul tema "Meno democrazia?". "Sono 40 anni che si parla di riforme costituzionali, chiediamoci in che direzione vanno quelle che sono in cantiere - ha affermato Zagrebelsky: in quella di aprire spazi alla politica e alla democrazia o piuttosto di valorizzare il momento esecutivo, che non è compatibile con l'ampliamento della democrazia?". Secondo Zagrebelsky, che nel suo intervento ha ammonito la politica a lavorare in un "clima costituente", bisognerebbe porsi la domanda se siano più importanti "le regole costituzionali o la qualità di chi le fa funzionare perché una cattiva Costituzione nella mani di una buona politica produce comunque risultati accettabili, mentre la migliore Costituzione nelle mani della cattiva politica produce risultati cattivi". Riferendosi, infine, all'eventualità del referendum confermativo, il giurista ha invitato a fare attenzione perché, ha detto, "qui ci si gioca moltissimo. Se è richiesto dal Governo sarà un plebiscito e sarà un voto di schiacciamento da una parte o dall'altra. Si sta giocando una partita - ha concluso - che può essere terribile" Giustizia: Pannella (Radicali); le carceri sono più lontane dalla legalità di quanto si pensi di Luca V. Calcagno www.articolotre.com, 15 febbraio 2015 In Italia almeno 70 istituti penitenziari con un sovraffollamento che va dal 130% al 210%. Questi i dati riportati nella sua dichiarazione da Rita Bernardini, segretaria di Radicali Italiani. Numeri che fanno commentare Marco Pannella, leader dei Radicali: "siamo più lontani dalla legalità di quanto si pensava". Cifre che contrastano con quelle del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria. Nei 202 istituti non c'è più un detenuto che vive in spazi inferiori ai 3 metri quadrati e i posti regolamentari sono in totale 50.538. Questi, invece, i numeri rivendicati dal Dap. Le stime dei Radicali, valutate sui dati del Dipartimento, dicono tutt'altro. Nel carcere di Udine per 82 posti regolamentari disponibili ci sono 167 detenuti. Un sovraffollamento del 203,7%. A "San Vittore" 182,9%. A Ravenna 165,3%. A Lucca 216,1%. A Latina 211,8%. A Pozzuoli 178,4%. A Locri 164,6%. All'Ucciardone 158%. Un "giro d'Italia" che riporta un 34% di carceri oltre il massimo rapporto posti/detenuti del 100%. Per questo i Radicali portano avanti la richiesta dell'Amnistia nell'ottica di una generale Riforma della Giustizia. L'obiettivo è quello di levare all'Italia il primato di Stato europeo con il maggior numero di condanne per violazione della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, derivate soprattutto per la durata dei processi e per le condizioni delle carceri. Molti i critici sull'Amnistia. "Questa è la vecchia storia di sempre contro le amnistie - dichiara Marco Pannella a chi teme che il provvedimento possa aumentare la microcriminalità che più danneggia i cittadini - Stando alle dinamiche sociali comprovate da decenni, per esempio dall'indulto di 10 anni fa, non abbiamo avuto nei due anni successivi nessun incremento dei reati, che erano fra l'altro piccoli reati, non grandi. Questo timore è già stato smentito da tutti i criminologi. Ormai questa storia non regge". Giustizia: per Marco Pannella ancora uno sciopero della fame, molti diranno "che palle!" di Valter Vecellio Notizie Radicali, 15 febbraio 2015 Marco Pannella ha intrapreso un nuovo, ennesimo, sciopero della fame (per ora: non è escluso che passi alla sete). Che palle!, diranno molti, sai la novità. Adesso che abbiamo esaurito il luogo comune, proviamo a chiederci perché questo giovanotto di 85 anni suonati, caparbio e ostinato, continua a "romperci le palle". Conviene ascoltarlo: è "un'iniziativa nonviolenta, spiega, a sostegno e per riconoscenza, in particolare, dell'opera del Presidente Emerito Giorgio Napolitano e del suo successore, il Presidente Sergio Mattarella: perché lo stato Italiano rispetti gli Obblighi enunciati dal Presidente Napolitano nel suo messaggio costituzionale, solennemente nell'esercizio formale delle funzione di Presidente della Repubblica, in quanto tale; e perché anche il Presidente Mattarella possa operare nello stesso animo sturziano, che è il suo, assicurando così alla storia italiana, quella vivente, continuità ed efficacia, e che egli ama e rappresenta, certo non solo da oggi". Così Pannella. Quando si parla dell'opera del presidente Napolitano ci si riferisce evidentemente alle sue numerose prese di posizioni sulla questione della giustizia negata e le condizioni delle carceri. Conviene ricordare che i radicali al termine del loro ultimo Comitato di qualche settimana fa hanno approvato una mozione che recepisce tutto quello che Napolitano ha comunicato nel già citato "messaggio" al Parlamento; in quel "messaggio" (l'unico del novennato di Napolitano) sono letteralmente "dettate" una serie di proposte di riforma della Giustizia; un messaggio, presidente Grasso, presidente Boldrini che il Parlamento non si è neppure degnato di discutere; e questo dà la cifra di come si siano ridotte le istituzioni. I radicali hanno trasformato quel "messaggio" in uno strumento politico, è il loro programma per le settimane e mesi a venire, chiedono alle altre forze politiche di impegnarsi in questo senso. Cosa può fare, se vuole farlo, un cittadino che voglia sostenere questa iniziativa? "Piccole" significative cose. Sollecitare e conquistare adesioni a questo documento: di avvocati, giuristi, amministratori locali, sindaci, organizzazioni del volontariato, cappellani carcerari, garanti dei detenuti, sindacati della polizia penitenziaria...e con paziente ostinazione inviare lettere, mail, ai giornali per chiedere di informare perché è un nostro diritto essere informati. Sono "piccole" iniziative dal basso, e sul territorio che chiunque può mettere in essere, senza troppa fatica e senza doversi troppo scervellare. Arriviamo alle evocate "che palle!". A chi vi dirà: ancora la giustizia, le carceri, perché non vi occupate di cose più urgenti e pressanti?, si può raccontare la storia di Giuseppe Gulotta, in carcere da innocente per 22 anni. È ancora in attesa che gli venga riconosciuto il risarcimento economico per quei 22 anni. I legali di Gullotta hanno calcolato che di spettano, come "riparazione" 56 milioni e 88mila euro. L'avvocatura dello Stato, sta conducendo una caparbia opposizione alla richiesta di risarcimento. Gulotta è stato assolto con formula piena il 13 febbraio 2012, sentenza che ha annullato la condanna all'ergastolo inflittagli nel 1990 per la strage di Alcamo Marina del 1976 in cui furono uccisi due carabinieri. L'avvocatura dello Stato è arrivata a sostenere che Gulotta non ha diritto al risarcimento perché di fatto l'errore giudiziario lo ha provocato lui stesso auto incolpandosi del duplice delitto. Confessione estorta con torture e sevizie, come stabilisce una sentenza passata in giudicato. Lo Stato, dopo 36 anni, finalmente riconosce l'innocenza di Gullotta, ma per ora gli nega il diritto di essere risarcito. Sembra un teatro dell'assurdo come sapevano concepirlo Samuel Beckett o Eugene Ionesco; è invece accaduto. Anzi: accade. Caso limite? Forse. Comunque dal 1991 sono stati 23mila i casi di ingiusta detenzione e 600 milioni di euro il totale delle somme liquidate dallo Stato come risarcimento. Fonte ufficiale. Lo ha detto il vice ministro della Giustizia Enrico Costa durante l'inaugurazione dell'anno giudiziario dell'Unione delle camere penali, al palazzo di Giustizia di Palermo. Infine... in Inghilterra si dice che la solidarietà ha valore se è accompagnata almeno da uno scellino. Ecco, è giunto il momento, per chi è solidale con queste iniziative e questi obiettivi, di versare il proverbiale scellino, sotto forma di iscrizione al Partito Radicale, o almeno a uno dei suoi soggetti costituenti. Sono matti abbastanza, i radicali, da accettare chiunque e di non chiedere che si rinunci alle proprie opinioni e precedenti iscrizioni. Non ti chiedono da dove vieni, a loro basta che si sia disposti a fare un tratto di strada insieme, "con". Pensate, loro, gli anticlericali per eccellenza, dicono le stesse parole di papa Giovanni XXIII… Ma qui si apre un discorso, quello sui credenti, diversamente credenti, anticlericali radicali, che converrà fare più compiutamente in altra occasione, magari trovando il modo di ricordare la quantità di credenti come don Marco Bisceglie o Bruno de Finetti, che trent'anni fa ci ha lasciato e che l'Accademia dei Lincei di cui era prestigioso componente, si appresta a celebrare. Giustizia: il 31 marzo chiudono Opg; no a proroghe e se necessario Regioni commissariate www.campanianotizie.com, 15 febbraio 2015 Opg con i giorni contati. Questa potrebbe essere la volta buona per cancellare definitivamente gli ospedali psichiatrici giudiziari, tra cui anche quelli di Aversa e Napoli, dall'ordinamento italiano. Il governo ha comunicato al parlamento che intende rispettare "la scadenza dell'1 aprile 2015". Se necessario, attivando "la procedura di commissariamento da parte del Governo per quelle Regioni che a tale data non sapranno garantire il completamento delle iniziative necessarie per la presa in carico dei soggetti dichiarati dimissibili e di quelli non dimissibili". Sono le conclusioni contenute nella seconda Relazione trimestrale sullo stato di attuazione dei programmi regionali relativi al superamento degli Opg, inviata ieri al Parlamento dai ministri della Salute e della Giustizia. Il piano prevede per i soggetti dichiarati dimissibili l'affidamento ai dipartimenti di salute mentale (Dsm) delle Regioni di residenza. I non dimissibili saranno invece accolti e assistiti presso strutture residenziali appropriate (Rems), conformi ai requisiti previsti dal decreto ministeriale 1 ottobre 2012. Gli Ospedali psichiatrici giudiziari ancora operativi sul territorio nazionale sono 6: al 30 novembre scorso vi risultavano detenute 761 persone. La relazione prende atto del fatto che, per quanto riguarda il trasferimento degli internati, "sarebbe impossibile adempiere al dettato normativo della chiusura degli Opg alla data del 31 marzo 2015, se si attendesse il completamento delle Rems", ossia strutture residenziali ad hoc, a suo tempo prefigurato dalle Regioni. Si è quindi "convenuto sulla assoluta necessità di individuare con urgenza soluzioni residenziali transitorie, in strutture da identificare ed allestire in tempi contenuti" assicurando comunque gli interventi terapeutici necessari. A questo scopo, la relazione segnala due canali. Da una parte, l'utilizzo in via transitoria di strutture del privato accreditato al servizio sanitario regionale, rispetto a cui non ci sono "motivi ostativi", "purché vengano garantiti i requisiti previsti": in questo caso le risorse per l'allestimento delle strutture gravano sui bilanci regionali o su quelli degli entri proprietari. Dall'altra parte, c'è la possibilità delle Regioni di avviare i lavori di adeguamento delle strutture pubbliche, anticipando le risorse necessarie e accedendo poi ai rimborsi: il ministero dell'Economia ha dato la propria disponibilità a "collaborare al raggiungimento del risultato, senza porre ostacoli per questioni meramente formali o procedurali". Lettere: una casa per far vedere le nuvole ai bambini di Agnese Moro La Stampa, 15 febbraio 2015 A Roma un raggruppamento di realtà associative impegnate nella promozione della genitorialità in carcere e dei diritti dei bambini figli dei detenuti, ha condiviso e sostenuto un progetto elaborato dal Presidente della Consulta Penitenziaria di Roma Capitale, Lillo Di Mauro, per la realizzazione di una casa famiglia protetta, "La casa di Leda", in ricordo dell'onorevole Leda Colombini, fondatrice e animatrice per venti anni dell'associazione "A Roma insieme", www.aromainsieme.it. Pochi giorni fa il progetto è stato presentato in una conferenza stampa a cui era presente l'assessore alle Politiche sociali di Roma Capitale, Francesca Danese. L'immagine utilizzata per spiegare a noi, che non la conosciamo direttamente, la situazione dei bambini che crescono in carcere con le loro madri, è quella dello stupore che questi piccolissimi provano nel vedere - uscendo dal carcere per una passeggiata - cose per noi banali come il cielo o le nuvole. È uno stupore che ci dice molto su quello che questi bambini vivono; e che ci indica anche l'urgenza di un percorso diverso. Percorso che la legge (62 del 2011) prevede con la attivazione - appunto - di Case protette per ospitare madri (o padri) e bambini, ma delle quali, al momento, non c'è neanche un esempio. L'assessore Danese ha dato un'ampia disponibilità a mandare avanti il progetto, individuando luoghi idonei (la legge è precisa sulle caratteristiche strutturali e non che devono avere le Case protette) e le risorse finanziarie necessarie (il costo di gestione annuo è stimato dai promotori in 300.000 euro). Nel Lazio (ed è il numero maggiore d'Italia) sono reclusi 18 bambini e 18 madri in gran parte straniere o Rom. Il progetto prevede di accogliere fino a un massimo di sei madri o padri con relativi figli e che nella casa famiglia vi siano attività e servizi affinché le/gli ospiti italiane/i, straniere/i e rom e i loro bambini abbiano garantite assistenza, educazione ed istruzione, e opportunità di socializzazione e inserimento lavorativo. La struttura non si configura come spazio di contenimento e domicilio stabile, ma come luogo di passaggio dove ciascuno, sia le madri o i padri, sia i bambini e le bambine, abbiano l'occasione di sviluppare le proprie potenzialità in maniera armonica. Con la speranza che non si debbano più stupire dell'esistenza delle nuvole. Sarebbe davvero bello. Lettere: 5 anni di processo e 18 giudici impegnati… per la morte di un piccione di Lorenzo Mondo La Stampa, 15 febbraio 2015 Un bel giorno di giugno del 2010 un avvocato milanese si affaccia alla finestra della sua villetta e cambia rapidamente di umore alla vista di un piccione. Dirà poi che detesta quei pennuti perché anni prima avevano causato al figlio una grave infezione. Fatto sta che afferra un fucile ad aria compressa e centra il piccione che stramazza nel cortile del vicino condominio. Questa fatale caduta è l'innesco di quella che può apparire una commedia surreale. C'è evidentemente della ruggine tra lo sparatore e i vicini se questi chiamano i carabinieri. Contro di lui, sorpreso in stato di ebbrezza, viene formulata l'accusa di uccisione di animali con crudeltà e "getto pericoloso di cose" in luogo privato. Va a sapere dove sta la crudeltà, se non nell'animo del protagonista, e dove l'effettivo pericolo rappresentato da un pallino o da un piumato cadaverino. Il gip emette comunque un decreto di condanna a 8.000 euro di multa. Ma l'imputato si oppone e chiede di andare a processo. Comincia allora una bella gara tra l'avvocato, esperto di cavilli, e la magistratura. Un confronto che passa tra sanzioni e ricorsi, tra processi d'appello e Cassazione fino a concludersi, nel gennaio del 2015, con una condanna a un mese e venti giorni. Il bello è che questo tramenio è durato per quasi cinque anni, e magari non è finita, perché incombe a giugno la prescrizione del reato. Non sono mancati nella vicenda tratti esilaranti. Fin dall'avvio, quando dovette intervenire il Comune per rimuovere il deceduto, e alle ultime disquisizioni sul "getto" nel cortile: da ricondursi al ferale pallino o allo svolazzo dell'uccello agonizzante? Mai era accaduto che un piccione assumesse tale importanza nell'aula di un tribunale. Dove i magistrati hanno dato l'apparenza di esercitare, contro l'imputato, la stessa ostinazione che lo induce a sparare sui volatili. Formalmente, a termini di legge, nulla da eccepire. Se non avessimo le rilevazioni dei solerti cronisti che hanno rispolverato la vicenda. Ci dicono infatti che essa, nell'arco di un lustro, ha impegnato 18magistrati, con annessi e connessi. E allora lo stupore, e il riso, si tramutano in sconforto e sdegno. Il Paese è assediato dalla piccola e grande criminalità, con e senza colletti bianchi. Non c'è inaugurazione di anno giudiziario, non c'è convegno di esperti e proposta di riforma che non lamenti l'esiguità del corpo giudiziario e il rigurgito dei fascicoli inevasi. Mentre si trova il tempo per occuparsi di simili quisquilie. Davvero, si vorrebbe a volte non sapere e non vedere per darsi pace. Sardegna: l'isola diventa la Cayenna del 41bis, boss mafiosi nelle carceri di Sassari e Uta di Damiano Aliprandi Il Garantista, 15 febbraio 2015 La Sardegna tra pochi giorni diventerà ufficialmente la Caienna - il famigerato bagno penale francese - in salsa italiana. Nei nuovi complessi penitenziari di Sassari e Uta verranno concentrati tutti i detenuti del 41 Bis, attualmente dislocati su tutto il territorio italiano. A confermalo è stato il dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. In una nota si spiega che "i provvedimenti di trasferimento di detenuti ex art. 41 bis nelle sezioni delle carceri di Sassari e Uta saranno adottati ai sensi delle "disposizioni in materia di sicurezza pubblica", varate con la legge 15 luglio 2009, n. 94 che dispone: "I detenuti sottoposti al regime speciale di detenzione devono essere ristretti all'interno di istituti a loro esclusivamente dedicati, collocati preferibilmente in aree insulari, ovvero comunque all'interno di sezioni speciali e logisticamente separate dal resto dell'istituto e custoditi da reparti specializzati della polizia penitenziaria". Le due moderne strutture di Uta e di Sassari sono state realizzate in conformità alla legge 15 luglio 2009, n. 94 e assicurano i più elevati standard di sicurezza e di gestione". Prosegue sempre il Dap: "Il trasferimento avverrà non appena saranno ultimati i lavori della sezione 41 bis del carcere di Uta e l'attivazione del sistema di multivideo-conferenza nel carcere di Sassari. Le due sezioni hanno una ricettività di 92 posti ciascuna". Il Dipartimento precisa inoltre che "la titolarità esclusiva dei procedimenti relativi alla realizzazione dei due nuovi complessi penitenziari di Cagliari e di Sassari appartiene al ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti-Provveditorato Interregionale alle Opere pubbliche per il Lazio, l'Abruzzo e la Sardegna". I costi complessivi, al netto del ribasso, sono stati comunque alti: 18 milioni 600.000 euro per il carcere di Uta e 16 milioni e 350.000 per quello Sassari. La vicenda fa discutere. A parte le idee soggettive, e fortemente discutibili sulla natura del 41 Bis , la proposta di concentrare i detenuti a regime speciale nelle due carceri va comunque a scontrarsi con le parole del dottor Roberto Piscitello - direttore generale dei detenuti e del trattamento presso il Dap - ascoltato nel giugno scorso dalla commissione straordinaria sui Diritti umani, presieduta dal senatore Luigi Manconi. Così disse Piscitello durante l'audizione: "Nell'assegnazione della misura si evita l'assembramento in pochi istituti di soggetti che facciano parte della medesima associazione o di organizzazioni fra loro contrapposte. E si evita che soggetti di grande spessore criminale siano ristretti nello stesso istituto. I soggetti in 41 bis sono detenuti rigorosamente in celle singole. Come tutti i detenuti hanno diritto a colloqui e momenti socialità con alni detenuti, in gruppi non superiori a quattro". Alla notizia dell'imminente trasferimento dei detenuti sottoposti al regime duro, alza la voce il deputato sardo di Unidos, Mauro Pili: "Bloccate il progetto folle dei 41 bis in Sardegna e convocare il governatore Pigliaru nella commissione antimafia per il parere della Regione". L'ex governatore Pili, dopo avere denunciato per primo l'arrivo nelle carceri dell'isola di capimafia e altri detenuti ristretti nel regime di massima sicurezza, ha inviato una lettera al presidente della commissione antimafia, Rosy Bindi, per convocare la bicamerale e acquisire il parere della Regione. "La commissione antimafia", afferma Pili, "deve occuparsi immediatamente dello scellerato progetto del Dap di trasferire in Sardegna oltre 200 capimafia". Il parlamentare chiede che l'organismo bicamerale convochi al più presto il presidente della Sardegna, Francesco Pigliaru, "per acquisire il parere della Regione su questo demenziale progetto che rischia di attivare un processo di infiltrazione mafiosa senza precedenti in Sardegna". Pili definisce senza mezzi termini "intollerabile" e "scandaloso" il silenzio della Giunta regionale. Per l'ex governatore il trasferimento dei 41 bis è una scelta in contrasto con le linee guida legate alla regionalizzazione della pena detentiva ma anche contro tutte le impostazioni sinora seguite di non concentrare capimafia. "Un vero e proprio regalo alle cosche. Anche per questo motivo", conclude, "il ministro dovrebbe revocare i massicci trasferimenti di detenuti in Sardegna, E se non lo farà la reazione sarà durissima". Molise: carceri sovraffollate ed istituti vuoti, la situazione molisana di Claudio de Luca www.termolionline.it, 15 febbraio 2015 Di recente, nella Sala Livatino di Via Arenula, il Ministro della Giustizia Orlando ha firmato un protocollo d'intesa al fine di potenziare l'accesso alle misure alternative alla detenzione per i detenuti che hanno problemi legati alla tossicodipendenza e di rendere più accessibili i percorsi di inclusione sociale e di reinserimento lavorativo per gli altri ospiti in genere. I protocolli già stipulati sono stati undici (Toscana, Emilia-Romagna, Umbria, Lazio, Liguria, Campania, Friuli-Venezia Giulia, Puglia, Sicilia, Lombardia ed Abruzzo; poi c'è stato quello col Molise). Per un certo periodo si era ritenuto di risolvere l'handicap di edilità con prefabbricati da collocare all'interno di strutture detentive moderne, del tipo di quella attiva a Larino. Il Commissariato all'edilizia penitenziaria voleva cercare di attivare, entro tempi stretti almeno diciassettemila posti-letto; ed era stato soprattutto il Dap che, per cogliere l'obiettivo, avrebbe voluto puntare su questi padiglioni. La soluzione sarebbe stata vantaggiosa ed economica, dal momento che una serie, da duecento posti l'uno, costava intorno ai dieci milioni di euro; poi non se ne fece alcunché pure perché - per la verità - l'unico istituto che avrebbe necessità di essere "allargato" è quello di via Cavour a Campobasso. Nel 2011 le cifre del sovraffollamento delle carceri italiane facevano registrare oltre 67mila detenuti: 22mila in più di quelli previsti, il 148% della capienza regolamentare. Però i dati, diffusi da "Antigone", esternarono uno scandalo a cui occorreva porre fine. Oggi la situazione non è cambiata di molto; e, periodicamente, affolla le cronache nazionali e locali. Eppure la Penisola dispone di decine di istituti, nuovi o restaurati, che non vengono utilizzati; e, in rapporto alla popolazione, l'Italia ha meno detenuti della media europea (106,6 carcerati contro 143,8 ogni 100mila abitanti). Perciò diventa utile confrontarci con la California che, di recente, è stata condannata dalla Corte suprema perché riempie le sue carceri quasi al 200%. In cifre si tratta di 154mila detenuti in un sistema studiato per 80mila; e la situazione dura da un quindicennio. Perciò quei Giudici hanno imposto di ridurre il sovraffollamento al 137,5% della capienza: di raggiungere, cioè, una percentuale di soli dieci punti inferiori a quella (giustamente deprecata) esistente oggi in Italia. Negli Usa non dicono come raggiungere questi livelli; ma, come in Italia, si punta all'amnistia, depenalizzando il possesso di piccole quantità di droga ed i reati minori contro la proprietà. Nella Penisola le obiezioni all'amnistia sono tante. Tra queste i Giudici ricordano che, negli Anni ‘90, i Tribunali imposero un tetto al numero di carcerati a Philadelphia, la quale reagì cercando di liberare solo quelli meno a rischio di recidiva violenta. Nel giro di 18 mesi però la Polizia ne dovette riarrestare migliaia, registrando accusati di 79 omicidi, 90 stupri, 1.113 aggressioni, 959 rapine, 701 furti con scasso e 2.748 furti, senza contare le migliaia di violazioni delle leggi sulla droga. In Italia, fra amnistie e indulti, sono stati 16 gli atti di clemenza susseguitisi dal 1962 ad oggi. Le statistiche dicono che l'indulto del 2006 fece scarcerare il 44,2 % dei detenuti. L'effetto fu di ridurne il numero per 100mila ab. da 102 a 66. Ma raddoppiarono le rapine, gli omicidi (+5%) e l'incidenza della popolazione carceraria risalì subito a 108. L'indulto aveva fatto scendere i detenuti da quasi 61mila a quasi 34mila unità; ma, tre anni dopo, erano di nuovo 65mila (il 6,72%). Però, a differenza della California, l'Italia avrebbe 40 istituti già costruiti, spesso arredati e perfino vigilati, che permetterebbero di custodire i carcerati in condizioni più umane, di curare meglio i disabili psichici, di prevenire meglio i suicidi, di difendere meglio i detenuti più deboli, e di offrire condizioni migliori anche alle guardie. In Molise solo la Casa di Larino potrebbe patire modifiche; quella di Isernia non ne ha necessità mentre a Campobasso vigono vincoli precisi per i restauri. Milano: detenuto 39enne suicida nel carcere di Opera, era stato condannato all'ergastolo Il Giorno, 15 febbraio 2015 "La Corte di Assise d'Appello di Venezia lo aveva condannato, nel giugno 2013, all'ergastolo per avere ucciso un vicino. E lui, nella tarda serata di ieri, si è tolto la vita impiccandosi nella sua cella del carcere di Milano Opera. Protagonista un detenuto rumeno di 39 anni, Ioan Gabriel Barbuta. Nonostante l'intervento degli uomini della Polizia Penitenziaria, non c'è stato nulla da fare. Purtroppo, nonostante il prezioso e costante lavoro svolto dalla Polizia Penitenziaria, pur con le criticità che l'affliggono, non si è riusciti ad evitare tempestivamente ciò che il detenuto ha posto in essere nella propria cella". La notizia arriva dal Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, per voce del segretario generale Donato Capece. Aggiunge il leader del primo Sindacato della Polizia Penitenziaria: "Quel che mi preme mettere in luce è la professionalità, la competenza e l'umanità che ogni giorno contraddistingue l'operato delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria di Milano Opera con tutti i detenuti per garantire una carcerazione umana ed attenta pur in presenza ormai da anni di oggettive difficoltà operative come le gravi carenze di organico di poliziotti e le strutture spesso inadeguate. Siamo attenti e sensibili, noi poliziotti penitenziari, alle difficoltà di tutti i detenuti, indipendentemente dalle condizioni sociali o dalla gravità del reato commesso". E Capece sottolinea come "nei dodici mesi del 2014 nel carcere di Milano Opera si sono contati purtroppo il suicidio di un detenuto e la morte, per cause naturali, di un altro ristretto, 4 tentati suicidi sventati in tempo dai poliziotti penitenziari, 35 episodi di autolesionismo, 24 colluttazioni e 7 ferimenti. Numeri su numeri che raccontano un'emergenza purtroppo ancora sottovalutata, anche dall'Amministrazione penitenziaria che pensa alla vigilanza dinamica come unica soluzione all'invivibilità della vita nelle celle senza però far lavorare i detenuti o impiegarli in attività socialmente utili". Uccise e bruciò un agricoltore: romeno suicida, di Luca Ingegneri (Il Gazzettino) Si è impiccato nella sua cella del carcere di Opera. Ioan Barbuta, 41enne romeno, domiciliato a Rovigo, non ha retto all'idea di dover trascorrere in carcere il resto dei suoi anni. Era stato recentemente condannato dalla Cassazione, che aveva confermato l'ergastolo inflitto dalla Corte d'Assise d'Appello di Venezia. Il ricorso del suo legale, l'avvocato Antonio Chiarion, era stato respinto. L'intervento degli agenti penitenziari non è riuscito a scongiurare il suicidio: quando gli hanno prestato i primi soccorsi era ormai troppo tardi. Quella di Barbuta è una vicenda giudiziaria controversa, scandita da ben cinque processi. Il 41enne era accusato dell'omicidio di Guerrino Bissacco, l'agricoltore sessantenne di Due Carrare, trovato senza vita, semicarbonizzato, nella sua abitazione il 6 giugno del 2007. In occasione dei primi due gradi di giudizio Barbuta era sempre stato assolto, prima dall'Assise di Padova, quindi dall'Assise d'Appello di Venezia. I giudici avevano sempre condiviso l'impostazione della difesa. Secondo l'avvocato Chiarion non vi sarebbe stata alcuna prova decisiva a carico di Barbuta. I due verdetti erano stati però impugnati in Cassazione dalla Procura generale e dall'ex moglie della vittima. La Suprema Corte aveva annullato la sentenza assolutoria rinviando il processo ad un'altra sezione della Corte d'Assise d'Appello. Il 26 giugno 2013 i giudici veneziani gli avevano inflitto l'ergastolo, con isolamento diurno per sei mesi. Barbuta era stato arrestato un paio di mesi dopo dalla polizia romena nella città di Miroslava, nel distretto di Ieþiu, ed estradato in Italia. Inizialmente la morte di Guerrino Bissacco era stata attribuita ad un incendio accidentale o addirittura ad un suicidio. Le lesioni rilevate sul corpo dell'agricoltore durante l'autopsia avevano rapidamente portato i carabinieri della compagnia di Abano ad orientarsi verso l'omicidio. Secondo l'accusa, Barbuta, che abitava a pochi chilometri dall'abitazione della vittima in via Bassan, si sarebbe introdotto in casa di Bissacco per rubare la targa della sua auto, da montare successivamente sulla propria vettura. Avrebbe avuto infatti bisogno di una targa "pulita" per rapire la fidanzata e riportarla in Romania. Scoperto dall'agricoltore, lo avrebbe ucciso provocando poi un incendio per far sparire ogni traccia del delitto. Trieste: detenuto arriva livido all'udienza di convalida dell'arresto, carabinieri a processo di Corrado Barbacini Il Piccolo, 15 febbraio 2015 Durante l'udienza di convalida, il giudice Dainotti si era accorto che il detenuto era tutto pesto. Picchiato in caserma? Un banale arresto per droga. Lo hanno accompagnato in caserma. E lì lo hanno preso a schiaffoni. Ma anche lo hanno riempito di pugni e - dopo la perquisizione - gli hanno sbattuto la testa contro il muro. La vittima si chiama Lorenzo Damiani, 39 anni, un personaggio conosciuto dalle forze dell'ordine. Sotto accusa sono finiti i due carabinieri in forza al comando di via Dell'Istria che, come scrive il pm Lucia Baldovin che a loro carico ha emesso un decreto di citazione diretta, "in qualità di pubblici ufficiali nell'esercizio delle loro funzioni", hanno provocato all'arrestato policontusioni e traumi guaribili in 7 giorni. Si tratta degli appuntati scelti Marco Tagliavini e Francesco Fulvi. La data dell'udienza è stata fissata per il prossimo 6 maggio. A disporre l'imputazione coatta dei due carabinieri per concorso in lesioni personali è stato il gip Luigi Dainotti che nello scorso mese di novembre aveva rigettato l'istanza di archiviazione del pm ordinando il processo. A scoprire gli ematomi sul volto e il corpo dell'uomo arrestato era stato lo stesso giudice. Aveva interrogato per la convalida l'uomo. E a sorpresa Damiani prima di tutto aveva dichiarato: "Sono stato picchiato da due carabinieri". E poi a conferma delle gravi accuse aveva indicato al giudice alcuni ematomi al volto e al torace. Il pm Lucia Baldovin, dopo la denuncia di Damiani - avvenuta il 7 marzo scorso - aveva disposto una serie di accertamenti proprio su indicazione del giudice Luigi Dainotti a carico dei due carabinieri indagati del reato di concorso in lesioni personali. Ma gli accertamenti avevano dato esito negativo e così il pm aveva chiesto l'archiviazione. Ma il giudice Dainotti, nell'udienza preliminare alla presenza dei difensore di Damiani, l'avvocato Sergio Mameli, e di quello dei carabinieri, Elena Sgandurra di Roma, l'ha respinta. La data dell'arresto di Lorenzo Damiani è il 5 marzo dello scorso anno. Secondo la prima ricostruzione, quel giorno aveva cercato di nascondere la droga che deteneva all'interno dell'auto dei carabinieri che lo stavano portando in caserma. Ma c'è anche un'altra ipotesi. Quella secondo la quale Damiani si sarebbe rifiutato di rivelare agli investigatori il nome di colui che gli aveva fornito la droga. E qui c'è il primo punto strano della vicenda. Il medico legale Fulvio Costantinides incaricato dal pm Lucia Baldovin aveva datato il pestaggio nella notte tra il 5 e il 6 marzo, quando l'uomo era già in carcere. Ma il provvedimento che ha costretto il pm Baldovin a imputare i due carabinieri contempla anche un altro aspetto valutativo delle dichiarazioni accusatorie di Damiani che hanno portato due carabinieri sul banco degli imputati. Un testimone, interrogato durante gli accertamenti successivi alle dichiarazioni dell'uomo picchiato, lo ha aveva smentito. L'altro elemento strano è che quelle lesioni viste dal giudice durante l'interrogatorio non sono state notate né dagli agenti della polizia penitenziaria, né dal medico del carcere nei due giorni di detenzione. Al contrario quei traumi erano stati diagnosticati dai medici di Cattinara e oltre che dal giudice Dainotti anche dagli avvocati e dagli assistenti presenti all'interrogatorio di Lorenzo Damiani. Ferrara: ruspe nell'ex carcere, per fare spazio al Museo dell'Ebraismo e della Shoah La Nuova Ferrara, 15 febbraio 2015 Ieri i mezzi di demolizione in azione per abbattere la struttura di via Piangipane Occorreranno tre mesi per distruggere i vecchi muri e avviare la ricostruzione. Ruspe in azione per demolire l'ex carcere di via Piangipane. Dopo i primi interventi che avevano fatto riaprire la struttura nel dicembre del 2011 per ospitare il Meis, il museo dell'ebraismo e della Shoah, sono partiti ora i lavori per il secondo lotto che porterà nel giro di tre mesi alla demolizione di quel fabbricato obsoleto costruito all'inizio del Novecento. I lavori di demolizione, affidati a una ditta di Parma, hanno lo scopo di fare tabala rasa di alcuni muri e locali del vecchio carcere cittadino. La struttura venne terminata nel 1912, costruita a spese dello Stato, su progetto redatto dagli ingegneri Bertotti e Facchini dell'Ufficio del Genio Civile, in base alle indicazioni del Ministero dell'Interno. Le opere furono dirette dagli ingegneri Ponti e Fabbri dello stesso ufficio ed eseguite dall'impresa Luigi Brandani. Da allora e per ottant'anni, ha rappresentato le prigioni della città. Il 9 marzo 1992 ci fu il trasferimento dei 130 detenuti nella più moderna casa circondariale di via Arginone. In quasi vent'anni di oblio la struttura e il terreno circostante hanno avuto bisogno di numerose bonifiche e la scelta di trasformare il vecchio carcere nel Meis è stata utile non solo dal punto di vista culturale, ma anche igienico perché la situazione di abbandono era diventata insostenibile. Dopo la prima parte di costruzione del Meis, ora si aspetta, con lo stanziamento di fondi statali, l'ampliamento del museo che sorgerà dalle macerie del vecchio carcere, che verrà demolito in questi mesi per costruire una nuova struttura anche in regola con le normative antisismiche. Isernia: droga ai detenuti spedita per posta, nascosta nelle cartoline di Papa Francesco www.ilgiornaledelmolise.it, 15 febbraio 2015 Se ne inventano di tutti i colori pur di far entrare la droga in carcere. A Isernia ci hanno provato spedendo una cartolina con su stampata l'immagine di Papa Francesco, che tra l'altro proprio l'estate scorsa ha varcato le porte dell'istituto di pena di ponte San Leonardo, durante la sua storica visita in Molise. Le cartoline in realtà erano due, una incollata sull'altra. Nel mezzo era stata sistemata una bustina contenente cocaina. Il mittente sotto sotto sperava che il pacco droga abbellito con la foto del Santo Padre passasse inosservato. È però andata male: l'agente di polizia penitenziaria addetto al controllo ha notato un leggero rigonfiamento e ha scoperto il trucco. Ma non il mittente, perché l'indirizzo era ovviamente falso. Non ha invece avuto scampo una donna che ha tentato di far arrivare la droga al marito nascondendola nei ricambi di biancheria intima che stava per consegnare al coniuge: è stata scoperta e denunciata a piede libero alla Procura di Isernia. Intanto - restando a Ponte San Leonardo - si avviano alla conclusione le indagini sulla morte di Fabio De Luca. Il procuratore capo Paolo Albano e il sostituto Gaeta hanno infatti acquisito anche la documentazione con i risultati degli esami irripetibili, effettuati dalla Scientifica di Napoli e dalla Mobile di Campobasso nelle due celle sequestrate. Ora manca solo la relazione di Vincenzo Vecchione, il medico legale che ha effettuato l'autopsia. Bisognerà aspettare ancora qualche giorno. Per la morte del 45enne originario di Roma - colpito alla testa con un oggetto avvolto in un panno - sono indagati i due detenuti napoletani presenti nella cella in cui si è verificata l'aggressione, più una terza persona, il cui ruolo è ancora da chiarire. Il reato ipotizzato è quello di morte derivante da altro delitto. Augusta (Sr): alla Casa di Reclusione in scena "Effatà", romanzo di Simona Lo Iacono www.siracusanews.it, 15 febbraio 2015 È stato accolto con grande entusiasmo dai detenuti della Casa di Reclusione di Augusta il progetto che prevede, al termine di un laboratorio di letteratura e teatro, la messa in scena di Effatá, il romanzo di Simona lo Iacono. "I bambini le chiedevano questo" e con la mano indica il grande tavolo attorno al quale in 12 assieme a lui sono stati fino a quel momento seduti ad ascoltare, "proprio questo che sta succedendo qui oggi". A parlare è F. B., 53 anni, detenuto nella Casa di Reclusione di Augusta con una condanna pesante che, dopo le spiegazioni della scrittrice e magistrato Simona Lo Iacono, ha dato la sua personale interpretazione del sogno che ha spinto l'autrice a realizzare il romanzo "Effatà". Il testo è infatti al centro del programma di lettura "Read and Fly" una delle attività organizzata all'interno del carcere grazie alla sensibilità del direttore Antonio Gelardi e che prevede al termine di una serie di incontri preparatori, la messa in scena del romanzo da parte degli stessi detenuti. Nel corso del primo appuntamento l'autrice ha dunque spiegato come la storia, che intreccia due piani narrativi accomunati dal tema della sordità e dal dramma dell'Olocausto, sia stata ispirata da un sogno in cui le apparvero due bambini sordomuti. "Capivo che mi stavano domandando qualcosa, e mi svegliai molto turbata - ha raccontato ai carcerati - Il giorno dopo, lavorando a una questione di diritto internazionale, scoprii l'esistenza di un bambino, morto in seguito ai programmi di eugenetica voluti dal führer un mese dopo la scomparsa di Hitler. La prima cosa che ho pensato è "si sarebbe potuto salvare" e da qui è nata la voglia di restituirgli la dignità del ricordo attraverso le pagine del mio libro". "Con queste cose Dio ti paga, perché l'uomo invece non ce la fa" ha detto in italiano stentato un altro detenuto, uno straniero, al termine del racconto del sogno. Un gruppo dunque abbastanza affiatato (anche se la composizione potrebbe mutare, spiegano dalla Casa di Reclusione "qualcuno potrebbe uscire e altri potrebbero arrivare") e sicuramente molto reattivo ha accolto la partenza del progetto teatrale. "Teniamo molto all'attività espressiva all'interno del carcere - ha affermato il direttore Gelardi nella sua introduzione all'incontro - e cerchiamo di espanderla a quante più persone possibile proprio perché crediamo al suo potere liberatorio". Il corso è partito nel novembre 2013, come spiegato dall'ideatrice e curatrice di "Read and Fly" Michela Italia, e al suo interno sono stati affrontato testi importanti come Shakespeare e Wilde. Adesso c'è una nuova sfida per questi uomini che, qualunque sia il tipo di reato per il quale sono stati condannati, stanno pagando la propria colpa alla società: calcheranno le scene vestendo i panni di personaggi del tutto diversi da loro, un impegno che li aiuterà anche ad affrontare la lunga permanenza all'interno dell'istituto di detenzione. "Ho scelto di lavorare su questo libro invece che su altri - ha spiegato la Lo Iacono ai detenuti - perché è un libro che parla di colpa e di redenzione, e perché rappresentando uno dei sotto processi di Norimberga, quello ai dottori, vi darà la possibilità di vivere un vero e proprio ribaltamento dei ruoli. Ed è proprio questo scambio di visioni della vita che è sempre fonte di una grande crescita spirituale". A questo punto la scrittrice ha cominciato a suddividere le parti da interpretare e, ispirata dalla particolare verve oratoria di uno dei partecipanti, gli ha affidato quella di Telford Taylor, il pubblico ministero americano nel processo contro i gerarchi nazisti. L'uomo (condannato per narcotraffico internazionale), ha allegramente commentato: "Certo che la vita è strana, mai avrei potuto immaginare di fare il Pm". L'appuntamento è adesso per il prossimo mese quando i detenuti, dopo aver letto il libro ed essersi documentati sul materiale audio video relativo, affronteranno la sceneggiatura. Napoli: nel carcere di Pozzuoli detenute in passerella, l'alta moda arriva dietro le sbarre di Elisabetta Froncillo Il Mattino, 15 febbraio 2015 Pozzuoli. Ritorna la moda nel carcere femminile di Pozzuoli. Iniziano oggi i corsi di portamento per venti detenute che sfileranno all'interno della casa circondariale il 26 marzo, indossando abiti sartoriali napoletani. Donne scelte dalla P&P Academy di Anna Paparone, associazione che da alcuni anni collabora con il Comune puteolano e con il carcere diretto dalla dottoressa Stella Scialpi, per promuovere progetti di reintegro sociale. Insieme all'assessore alle Politiche sociali, Teresa Stellato, comincia la nuova avventura che porterà in passerella in più appuntamenti le nuove modelle. Impareranno a camminare su tacchi alti, a trasmettere eleganza e sensualità nei loro passi e sguardi, mettendo da parte una vita non sempre generosa. Dopo il primo appuntamento di primavera le detenute si cimenteranno in una nuova prova di moda il 4 giugno, quando sfileranno indossando abiti di haute couture campana. Ultimo appuntamento sarà il 28 di giugno, ma non più all'interno del carcere: l'evento battezzato "É moda" si svolgerà sul golfo di Pozzuoli, dove in abiti pregiati saranno donne alla ricerca di una nuova vita. Ed è proprio questo lo scopo della moda nel carcere: creare percorsi di risalita nella società quando la pena sarà conclusa. "L'esperienza dello scorso anno ci insegna che è possibile scommettere su queste ragazze - spiega la Paparone - dopo le sfilate fatte all'interno della Casa circondariale lo scorso anno, due protagoniste del progetto si sono inserite perfettamente in questo settore e con dei permessi speciali lavorano all'esterno quando ci sono degli eventi. Stanno scontando le loro ultime settimane di pena e non vedono l'ora di essere fuori per poter pienamente vivere il loro nuovo ruolo. Ci hanno creduto e hanno trovato un'alternativa alla vita di prima che le ha portate a delinquere". "Si può cambiare, di questo ne eravamo convinti ieri ed oggi ancora di più - dichiara Teresa Stellato - pensiamo ad includere chi ha sbagliato lungo il proprio percorso. Per questo insieme a tanti altri progetti presenti all'interno del carcere abbiamo pensato a questo nuovo spiraglio, innovativo, come la moda che può creare tanti sbocchi, dal diventare indossatrice all'impegnarsi in lavori più artigianali come la sartoria". Si parte oggi. E per i prossimi mesi al carcere di Pozzuoli - esempio raro di casa detentiva dove l'aria pesante, priva di libertà, è stemperata da svariate attività sociali come cucina, corsi di scrittura creativa, teatro e ora anche di moda - si aspetterà con ansia il momento di aprire le porte ed accogliere il pubblico che potrà applaudire l'impegno di chi ancora una volta vuole farcela. Bari: "Anime dentro", a LèP di Terlizzi una rassegna di tre film sul degrado nelle carceri www.terlizzilive.it, 15 febbraio 2015 Lunedì 16 febbraio il primo appuntamento con "Carandiru", storia vera dell'eccidio di 111 detenuti brasiliani nel 1992. Il circolo Libertà è Partecipazione di Terlizzi organizza una serie di proiezioni in vista dell'incontro di fine marzo con Ilaria Cucchi. Il circolo terlizzese di LèP Libertà è Partecipazione organizza una rassegna cinematografica in tre puntate sulla questione del trattamento dei detenuti nelle carceri, intitolata "Anime dentro. Carcerati e carcerieri nel cinema e nella realtà". Si tratta di un "breve percorso di riflessione attraverso le immagini" pensato per introdurre - attraverso la proiezione di tre film - l'incontro annunciato per fine marzo con Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, il giovane tossicodipendente deceduto nel 2009 per i traumi subiti durante la detenzione cautelare nel carcere di Regina Coeli. "Tre film ancorati alla realtà, per interrogarsi su ciò che accade nelle carceri e soprattutto nelle menti di coloro che ci vivono, siano essi detenuti, poliziotti o altri rappresentanti dello Stato", recita la nota con cui LèP ha lanciato l'iniziativa. Il primo appuntamento è lunedì 16 febbraio alle 20 e 30, con "Carandiru", del regista brasiliano Hector Babenco, film tratto da una storia autentica di degrado e violenza avvenuta nel 1992 nella prigione di Carandiru, Brasile profondo, dove 350 guardie penitenziarie trucidarono 111 detenuti insorti a causa delle condizioni disperate in cui erano costretti a vivere. Immigrazione: Alex Zanotelli "l'Europa uccide, pensa ai bond e se ne frega della gente" di Antonello Micali Il Garantista, 15 febbraio 2015 Già Amnesty International, alcuni mesi fa, aveva chiesto che Mare Nostrum non chiudesse perché convinta che con Triton la situazione sarebbe peggiorata. Era abbastanza intuitivo, come la tragedia di ieri ha peraltro puntualmente dimostrato, che la nuova operazione avrebbe avuto un campo d'azione molto più ristretto, soffermandosi "al mero controllo militare delle frontiere". Ma non c'è solo Amnesty, naturalmente, tra chi nella questione, non solo riesce, ma vuole vedere il re nudo della vergogna che sta sullo sfondo dell'ennesimo disastro umanitario al largo delle nostre coste, dove i morti sarebbero già trecento. Tra queste "cassandre inascoltate" c'è sicuramente padre Alex Zanotelli, un campione della fede e della solidarietà, ma anche della franchezza; in questo caso dell'indignazione: "Sì, sono indignato, arrabbiato e ho una grande voglia di urlare, così come dovrebbero fare tutte le chiese: ma non solo, sono i governi, almeno quelli che ancora intendono rispettare, oltreché le leggi della solidarietà e dell'amore, quelle contenute dagli stessi trattati internazionali che obbligano a dare soccorso ai profughi che dovrebbero farlo. Ed invece o nicchiano o addirittura perpetrano questo scempio, fregandosene degli esseri umani. In proposito occorre subito sgombrare il campo su una questione che in molti, soprattutto tra i politici (faglielo capire per esempio a Salvini… che insiste pedantemente sul fatto di aiutarli a casa loro, ndr) sembrano non considerare: e cioè che ormai non si parla più di migranti tout court, ma di profughi che scappano da guerre e carestie, purtroppo tutte certificate. Le ultime stime dei più importanti organismi internazionali, tra cui l'Onu, ci dicono che il numero dei profughi nel mondo è arrivato a 51 milioni di unità, spaventoso: per questo ci vogliono operazioni come Mare Nostrum, che infatti ha salvato nei mesi scorsi centinaia di vite, non come Triton, nato solo per erigere un muro tra i disperati e la sempre meno solidale Europa. È incredibile che un paese come la Tanzania ospiti un milione di profughi e l'Europa invece fa spending rewiev sulla vita degli essere umani". Il missionario comboniano, alla luce dell'ennesimo bagno di sangue, è un fiume in piena. Ne ha per tutti, Governo italiano compreso; dall'Europa e le sue politiche capaci di fare fronte comune solo sulla difesa delle frontiere del trattato di Schengen, all'Onu: "L'Onu purtroppo come è noto può far poco, però non lo butto via, ma ora mi aspetto che anche Ban Ki-moon urli tutta la sua indignazione. Quello che invece non mi sarei aspettato è che un governo del Pd avallasse questa svolta nefasta, senza nemmeno provare a fare nulla per contrastarla: è assurdo che un premier del Pd non riesca a non essere subordinato a certe scelte o al suo stesso ministro dell'interno, uno come Angelino Alfano, poi…. A meno che Renzi non sia in sintonia con chi ha deciso di volgere lo sguardo dall'altra parte. A questo punto si faccia chiarezza". Padre Alex Zanotelli fa poi un'analisi complessiva sulla drammatica tendenza che la storia recente ci aveva illuso fosse terminata nel 1989 e cui l'Europa ora non rifugge, di costruire muri tra genti e paesi, invece dei ponti auspicati dai valori che portarono all'idea di un continente finalmente unito e solidale dopo la tragedia della seconda guerra mondiale. "Questa è la prova del nove per l'Europa. In un mondo dove, dopo la caduta di quello di Berlino, si è ricominciato pericolosamente a costruire muri, come tra Messico e Usa, Grecia e Turchia, Israele e Palestina, l'operazione Triton costituisce di fatto anch'essa un muro. In questa fase, su questo approccio in Europa siamo sempre più in "buona" compagnia del resto. Ma se le cose continueranno così, un'Europa già nata male non può che morire, e peggio. Per me Gesù continua a nascere fuori dalle metropoli sfavillanti di luci di Natale, che è diventata la più grande festa mondiale del mercato. Gesù nasce fuori dai contesti che un certo status quo vorrebbe scevro dalle povertà che spesso produce. Gesù ora nasce fuori, nei luoghi degli ultimi e dei dimenticati, così quali sono gli oltre tremila profughi morti negli ultimi mesi dello scorso anno, tentando di attraversare il Mediterraneo che è ora il Cimiterium nostrum. Triton è una decisione irresponsabile e criminale perché l'Italia così si sottrae al dovere di trarre in salvo persone che si trovino in pericolo di vita. E se non basta dirlo, bisogna cominciare ad urlarlo!" Parafrasando il combattivo sacerdote, un'Europa così non è nemmeno morta, di fatto non è mai nata, se non per arroccarsi e divenire la fortezza di pochi privilegiati: un posto dove Gesù quindi non avrebbe davvero più voglia di nascere. Unione Europea: dalla Grecia a "Triton", senza solidarietà l'Europa muore di ingiustizia di Astolfo Di Amato Il Garantista, 15 febbraio 2015 Le madri greche che non sono in condizione di far curare i loro bambini, o i corpi straziati dei migranti nel canale di Sicilia, sono le facce di una stessa medaglia. Si tratta di vicende che non si può fare finta di ignorare. Una collettività, per essere tale, deve essere innervata da un sentimento di solidarietà. Ma Grecia e Triton dicono che la solidarietà è un concetto estraneo alla nozione di Europa. Che è invece una stanza di compensazione di interessi mercantili. In queste ore l'eurogruppo sta affrontando le questioni che ha posto la nuova dirigenza greca. Si tratta di verificare le alternative alle conseguenze spesso disumane che l'imposizione dell'austerità ha determinato. In queste stesse ore si contano le vittime dell'ennesima tragedia del Canale di Sicilia: circa 330, secondo le ricostruzioni ufficiali. L'operazione Triton, che fa capo all'Unione Europea e che ha sostituito Mare Nostrum, organizzata dagli italiani, non ha avuto i risultati sperati, dimostrandosi largamente inadeguata. La sua inadeguatezza è la causa di una ennesima tragedia di dimensioni immani. Che vede una delle cause anche in quella scellerata operazione in Libia, voluta da alcuni paesi europei per mere ragioni di potere. Sul primo tema, le dichiarazioni ufficiali sono che non vi sono vie percorribili diverse dal rientro del debito e da una rigorosa politica di austerità. Sul secondo argomento, sono riportate le dichiarazioni di dolore del Papa e di alcuni politici italiani. Le civilissime nazioni del nord Europa tacciono. Le madri greche che non sono in condizione nemmeno di far curare i loro bambini o i corpi straziati dei migranti nel canale di Sicilia sono, evidentemente, troppo lontani per solleticare i loro buoni sentimenti. Sennonché, si tratta di vicende che non si può fare finta di ignorare, mettendole nell'area di ciò che è negoziabile. Una collettività, per essere tale, deve essere innervata da un sentimento autentico di solidarietà. Che deve essere anche capace di superare i rimproveri, anche se giusti, che possono essere mossi, come nel caso della Grecia. Grecia e Triton dicono, in modo brutale, che la solidarietà è un concetto estraneo alla nozione di Europa. È una stanza di compensazione di interessi, caratteristica di qualsiasi organizzazione di mercanti, nella quale c'è il portafoglio al posto del cuore. Per carità! Non vi sono obblighi, in questa prospettiva, di solidarietà, di compassione, di generosità. Ma se è così, l'Europa va presa per quello che è, cominciando ad eliminare la stessa esistenza di una bandiera. La quale dovrebbe rappresentare cosa? Quale unità? Quella di chi di fronte alle difficoltà ed alle tragedie degli altri si gira dall'altra parte, salvo dare giudizi ed insegnamenti? Ed allora, prendiamo l'Europa per quello che è Inutile affannarsi a cercare di cambiarla, contro la chiara volontà degli altri. Se ci sono utili opportunità sfruttiamole. Ma, soprattutto, rivolgiamo le nostre energie verso i paesi con i quali, per mille motivi, è più facile creare il senso autentico di una collettività. Il bacino del Mediterraneo, se si guarda alla nostra storia, ha costituito la sede di elezione dei rapporti che hanno segnato lo sviluppo e la civiltà del nostro paese. È, perciò, in quella direzione che dobbiamo incrementare la nostra attenzione. Lasciando ai paesi del nord tutta l'arroganza di cui sono capaci. India: "perdoniamo i due marò italiani… ma per i nostri morti nessuno ha chiesto scusa" di Raimondo Bultrini La Repubblica, 15 febbraio 2015 In visita alla famiglia di uno dei pescatori uccisi tre anni fa. "Per Celestine neanche una corona di fiori o una preghiera". Nella casa linda e spoglia della famiglia di Celestine Galestine, ucciso esattamente tre anni fa dai militari di una petroliera italiana, una volta tanto si ride di gusto. Dora, la vedova di Celestine, ha una voce argentea in un corpo massiccio, e sorridono con gli occhi bassi anche i figli Derrick, 21 anni, al terzo anno di ingegneria, e Jwen, 13 anni. È il racconto di un sacerdote del Kerala di ritorno da un anno in Italia a riportare un po' di buon umore nel terzo anniversario di una vicenda dolorosa che coinvolge diverse famiglie: anche quella di Ajesh Binki, il giovane tamil ucciso il 15 febbraio 2012 insieme a Celestine su una barca da pesca scambiata per una goletta di pirati, così come le famiglie dei due marò italiani sospettati di aver sparato. Padre Tommy era stato parroco in Abruzzo e ricorda a Dora di quando lo scorso anno si recò a visitare i suoi ex parrocchiani. "Una signora mia amica era molto arrabbiata con l'India perché secondo lei teneva in ostaggio ingiustamente Massimiliano La Torre e Salvatore Girone. Allora propose a un gruppo di persone che era con lei di sequestrarmi per uno scambio...". Anche Dora è una kadel puram kaar, il popolo della spiaggia, uomini e donne che conoscono il mare e odiano le grandi navi che da tutto il mondo vengono a pescare con enormi reti nelle acque internazionali lasciando senza cibo i pescatori locali. Per questo - ci dice il loro leader - "gente come me e Celestine deve andare sempre più al largo con delle barchette e il rischio che comporta, come si è visto". Tutti nel villaggio di Muthakkara conoscono bene le ultime vicende: le dure prese di posizioni dell'Ue rivolte all'India, l'operazione al cuore di La Torre e l'autorizzazione dei giudici al rinvio del suo rientro per il processo, che non si è ancora celebrato né sembra destinato a iniziare presto. Ma per Dora è un capitolo chiuso. "Ho già detto di non serbare alcun rancore - ci spiega - e per me i due marò possono tornare per sempre dalle loro famiglie, perché so bene cosa significa l'assenza di chi è caro". Seduto col fratello e la madre sotto al ritratto del padre morto, il figlio maggiore Derrick ci tiene però a dire che - a parte aver ricevuto i soldi per gli studi di ingegneria - "nessuno ci ha mai chiesto scusa". Anche su questo l'ambasciata italiana di Delhi preferisce mantenere il silenzio, per timore che ogni azione o parola possa essere male interpretata. Lo stesso riserbo hanno quasi sempre seguito La Torre e Girone, mentre una speciale agenzia investigativa nazionale, la Nia, prepara i documenti dell'indagine per i magistrati di una Corte altrettanto speciale. Neanche sul fronte del governo indiano c'è disponibilità a parlare per confermare un'eventuale trattativa in corso. "È tutto in mano alla magistratura", è la posizione ufficiale. A due passi da casa Galestine incontriamo A. Andrews, il leader dell'associazione dei pescatori del distretto, secondo il quale "spetterebbe a noi il diritto di processare e condannare i responsabili". "Se le famiglie hanno perdonato - dice Andrews sotto a un colorato crocifisso di Cristo che pende su una parete - noi non lo faremo mai. È nella nostra tradizione punire chi uccide degli innocenti". In un paese dove migliaia di processi aspettano molto più di tre anni per rendere giustizia, la vicenda dei marò resta un caso a sé, per il clamore internazionale e i troppi dettagli ancora avvolti nel mistero. La fantomatica nave greca, le presunte segnalazioni dei militari alla barca "pirata" in rotta di collisione, le raffiche di mitra sparate da 20 metri di altezza e destinate in teoria a finire in acqua, la decisione del capitano di entrare in porto e consegnare i due marò. La rabbia delle comunità locali - come ci racconta un testimone di quei giorni a Kochi - montò a maggio quando ai due marò consegnati dal capitano alla polizia del Kerala fu concesso di stare in un albergo da 10mila rupie a notte, 180 dollari, con pasti di uno chef italiano, e ospitalità per 20.30 persone in occasione degli arrivi dei familiari. Al loro seguito c'erano sempre anche tre ufficiali di Marina, un colonnello dei carabinieri e una psicologa, con un cambio trimestrale del team, tanto che per tagliare le spese ormai stratosferiche si pensò di affittargli una casa. La fine delle costose missioni è arrivata con la decisione di ospitare Girone e La Torre nell'ambasciata di Delhi. Da allora nessun rappresentante dell'Italia è tornato in Kerala, né ha mai pensato di mandare un segno a lungo atteso da Dora e dai suoi figli che non credono più alla giustizia degli uomini: "Almeno una corona di fiori o una preghiera" - dicono - in occasione delle tre messe celebrate ogni vigilia del 15 febbraio nella chiesetta del Bambin Gesù, dov'è sepolto un onesto pescatore scambiato per pirata. Filippine: Cesare Bosio, l'ambasciatore dimenticato in galera dalla Farnesina Il Garantista, 15 febbraio 2015 Il diplomatico è stato arrestato nelle Filippine per pedofilia, si dichiara innocente e deve difendersi da solo. C'è un italiano rinchiuso nelle carceri delle Filippine da quasi un anno ed è ancora in attesa di un processo. Non è uno qualunque e l'accusa è delle più infamanti: pedofilia. Si tratta dell'ex diplomatico Daniele Bosio. Di strada nella diplomazia internazionale ne ha fatta tanta. Ha passato 20 anni nel corpo diplomatico: dal nord Africa al consolato italiano a New York fino al prestigioso incarico di ambasciatore in Turkmenistan. Poi la strada si è bruscamente interrotta. Era nelle Filippine in vacanza quando, il 5 aprile 2014, venne arrestato a Binan dalla polizia che aveva ricevuto una soffiata da un'attivista australiana della Ong "Bahay Tuluyan". Daniele Bosio così finisce in manette accusato di aver violato la legge filippina sulla protezione dei minori. Il mostro subito sbattuto in prima pagina: finisce su tutti i giornali filippini e italiani a poche ore dall'arresto. Lui si dichiara innocente. Daniele Bosio fu avvistato in un parco acquatico (un luogo pubblico) di Binan, a 30 km da Manila, in compagnia di tre bambini di strada che aveva conosciuto in una discarica alla periferia di Ca-loocan: nelle Filippine - dove c'è un serio problema del traffico di minori - basta questo per finire in carcere perché la legge repressiva filippina in materia di tutela dei minori prevede che, salvo vincoli di parentela, un maggiorenne non possa accompagnarsi con un minore se tra i due vi sono più di dieci anni di differenza: Bosio lo sapeva e per questo aveva chiesto e ottenuto l'autorizzazione dei genitori dei tre. La Farnesina però latita e in pratica l'ha lasciato solo a se stesso per affrontare la complessa trafila giudiziaria che non brilla certo di trasparenza nelle Filippine. Del caso se ne è occupato il senatore Luigi Manconi tramite un'interrogazione parlamentare per chiedere al ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, quali iniziative voglia adottare al fine di verificare se i fondamentali diritti alla difesa e a un equo processo di Daniele Bosio vengano rispettati e qual ulteriori passi abbia compiuto negli ultimi mesi la nostra rappresentanza diplomatica a Manila nel suo lavoro di assistenza al console Bosio. Nel frattempo il comitato Internazionale di sostegno a Daniele Bosio ha scritto una lettera aperta al titolare della Farnesina per chiedere un concreto e immediato interessamento su quel caso giudiziario. Qui di seguito il testo. "Daniele Bosio è stato arrestato nell'aprile 2014 sulla base di sospetti, per aver violato una legge filippina raramente applicata che vieta a qualsiasi adulto di trovarsi in compagnia di un minore senza un legame di parentela fino al quarto grado. Le testimonianze dei bambini delle baraccopoli con cui si trovava Daniele, che raccontano come dopo averli sfamati e rivestiti abbia offerto loro un pomeriggio in un parco acquatico, sono pubbliche e rivelano che Daniele ha mostrato nei loro confronti, massimo rispetto. "Daniele Bosio si trova dunque da quasi un anno "sequestrato" nelle Filippine dopo aver subito una carcerazione preventiva e passato 40 giorni in una cella di 30 mq con altri 80 detenuti in condizioni che gli hanno causato gravi problemi di salute. Egli si trova senza stipendio e neppure un documento d'identità (il passaporto gli è stato sequestrato dalle autorità filippine) ed è ancora in attesa dell'inizio del processo malgrado la libertà su cauzione gli sia già stata accordata sulla base dell'assenza di prove determinanti di colpevolezza. "Come la stessa stampa italiana ha riportato, il processo langue e l'accusa - complice la scarsa efficacia del sistema giudiziario locale - ha assunto una strategia dilatoria, Il caso tende dunque a complicarsi ogni giorno di più e urgono interventi decisi da parte del governo italiano. A chiedere un cambio di atteggiamento da parte dell'Italia, anche l'ambasciatore Sergio Romano, che non ha dubbi: "Siamo stati accanto ai due marò quando il governo indiano li ha accusati di omicidio e ci siamo attenuti al principio della presunzione di innocenza. Credo che dovremmo dare prova di coerenza e fare altrettanto nel caso di Daniele Bosio". Testimonianze da tutto il mondo sono giunte al Comitato pro Bosio di cui una selezione è disponibile sulla pagina Facebook "Page for Daniele Bosio". Il Comitato, che conta più di 1300 persone tra cui autorevoli membri di entità governative e non governative che sostengono l'innocenza del diplomatico, confida in un riscontro rapido ed effettivo da parte delle autorità competenti. Stati Uniti: proposta in Wyoming "giustiziare i condannati con il plotone di esecuzione" di Lucio Di Marzo Il Giornale, 15 febbraio 2015 In mancanza di medicinali per le iniezioni, si pensa a un ritorno al passato. E in Oklahoma c'è chi punta alla camera a gas. Per ora ha detto sì soltanto una delle due camere statali e il Senato non si è ancora espresso. Ma l'ipotesi di un ritorno al plotone esecutivo per le pene capitali, in Wyoming sembra vicina a diventare realtà. Una risposta, sulla cui validità il dibattito è aperto, a casi in cui dovessero venire a mancare i medicinali necessari per portare a termine le esecuzioni, come è successo diverse volte negli ultimi mesi, negli Stati Uniti, dopo l'obiezione di coscienza di diversi produttori di medicinali. L'ipotesi su cui stanno lavorando le istituzioni prevede, dopo un emendamento introdotto al Senato, che i detenuti condannati a morte siano prima storditi e poi messi di fronte al plotone d'esecuzione. Una bozza di legge che dovrà poi comunque passare dal tavolo del governatore per la ratifica finale. Se pure dovesse essere arrivare l'ok e la proposta diventasse legge, il quotidiano britannico Independent ricorda che potrebbe cambiare molto poco, in uno Stato che non esegue una condanna a morte dal 1992. Su ipotesi simili a quella tentata in Wyoming stanno lavorando però anche lo Utah e l'Oklahoma. Se nel primo caso la proposta è quella di tornare al plotone d'esecuzione come metodo alternativo all'iniezione letale, nel secondo c'è chi vorrebbe introdurre la camera a gas e l'uccisione con l'azoto. Secondo il repubblicano Anthony Sykes "è riconosciuto come uno dei metodi più umani per eseguire una sentenza".