Orlando, gli Stati Generali della pena e del carcere falli con quelli di "Ristretti Orizzonti" di Damiano Aliprandi Il Garantista, 14 febbraio 2015 "No ai soli discorsi di esperti: meglio il confronto con chi è tra le sbarre". Nel mese di aprile faremo "una riflessione complessiva, a cui abbiamo dato il nome di "Stati Generali della pena", non solo con gli addetti ai lavori, ma anche con chi c'è dentro le carceri". È la promessa del ministro della Giustizia Andrea Orlando fatta durante il maxi convegno organizzato dalle Camere penali a Palermo nello scorso fine settimana. Da più parti, nelle ultime settimane, è stata avanzata una richiesta al ministro della Giustizia di organizzare gli "Stati generali sulle pene e sul carcere". In prima fila la redazione di Ristretti Orizzonti - la rivista realizzata da detenuti e volontari nel carcere padovano - che ha inviato una lettera aperta al guardasigilli per proporgli di organizzare l'evento assieme ai detenuti della casa di reclusione di Padova. "Ogni anno organizziamo un Convegno, a cui partecipano circa seicento persone dall'esterno, e centocinquanta persone detenute. Non pensa che portare gli addetti ai lavori a confrontarsi con le persone detenute sul senso che dovrebbero avere le pene avrebbe un valore davvero fortemente educativo per tutti, per chi deve essere protagonista di un percorso di rientro nella società, e per chi deve aiutare a costruire quel percorso?", chiede - attraverso la lettera aperta - la redazione di Ristretti Orizzonti al ministro. "Ci sono tante buone ragioni per cui riterremmo utile fare nella Casa di reclusione di Padova gli Stati generali sulle pene e sul carcere, prima fra tutte che in tal modo si eviterebbe di trasformarli in un lungo elenco di interventi di esperti senza nessun confronto con chi le pene e il carcere li vive direttamente come parte della sua vita", continuano quelli di Ristretti. Poi sempre nella lettera aperta specificano: "Abbiamo cercato di immaginare per un attimo una cosa inimmaginabile: di essere noi il ministro della Giustizia in questo difficilissimo periodo per le carceri, con l'Europa che ci sta addosso perché il nostro Paese sta gestendo il sistema della giustizia in modo ancora pesantemente illegale. La prima cosa che faremmo allora è di provare ad aprire un dialogo con i diretti interessati, quelli che hanno sì commesso reati, ma a loro volta ora subiscono ogni giorno l'illegalità del sistema". Arriva quindi la proposta: "Ecco, se gli Stati generali si organizzassero nella casa di reclusione di Padova, ci sarebbe l'occasione per confrontarsi non con il singolo detenuto che porta la sua testimonianza sulla sua condizione personale, né esclusivamente con operatori ed esperti, perché il confronto avverrebbe con una redazione di detenuti che da anni lavora per cambiare le condizioni di vita in carcere, ma anche per ridare un senso alle pene". Scrive ancora la redazione di Ristetti Orizzonti al ministro: "Forse è paradossale che a fare questo siano i detenuti stessi, ma in fondo non è neppure così assurdo perché proprio vivendo pene insensate tante volte le persone hanno accumulato altri anni di carcere e hanno ulteriormente rovinato la loro vita e non vogliono più farlo; gli addetti ai lavori potrebbero sentir raccontare nei particolari più crudi anche quello che patiscono le famiglie da un sistema che dimostra spesso scarsissima attenzione nei confronti dei famigliari dei detenuti. Ormai non c'è Paese al mondo dove non si discuta di rendere più umane le condizioni delle visite dei familiari. E noi, con tutta la nostra democrazia, continuiamo a permettere in tutto sei ore al mese di colloquio con controllo visivo, l'equivalente cioè di tre giorni all'anno, e una telefonata di dieci miserabili minuti a settimana". Sempre la redazione di Ristretti sottolinea: "Gli addetti ai lavori potrebbero sentir parlare di come è possibile comunicare in modo efficace con la società e informare sulla realtà delle pene e del carcere, senza suscitare la rabbia dei cittadini: glielo diciamo con assoluta certezza, perché noi incontriamo ogni anno in carcere più di seimila studenti, e le assicuriamo che attraverso le testimonianze delle persone detenute, che parlano dei loro reati per assumersene la responsabilità e per fare prevenzione rispetto ai comportamenti a rischio delle giovani generazioni, le persone cominciano a farsi una idea diversa delle pene e del carcere". Inoltre, aggiunge che "le persone detenute, chiamate a partecipare da interlocutori alla pari a un confronto sulla propria condizione, vedrebbero riconosciuta alla propria voce dignità, e questo è un passo importante per imparare ad aprirsi all'ascolto dell'altro e al dialogo". Poi la redazione di Ristretti ci tiene a raccontare la verità distorta da alcuni organi di informazione: "Da ultimo, sarebbe significativo fare gli Stati generali in un carcere come quello di Padova, descritto dai mass media ora come un carcere modello, ora come un luogo violento e fuori legge: in realtà, non è né l'uno né l'altro, è un carcere che sarebbe dignitoso, con esperienze anche innovative, se non contenesse ancora il doppio dei detenuti che dovrebbero esserci". Ristretti Orizzonti conclude: "A Padova convivono, per forza malamente, due realtà, quella di una detenzione che dà un senso alla pena attraverso lo studio, la cultura, il lavoro, l'apertura e il confronto con il mondo esterno, e quella di un carcere in cui le persone sono costrette ad "ammazzare il tempo" per mancanza di spazi e attività per tutti, e quindi accumulano solo rabbia e rancore". L'unico movimento politico, finora, ad appoggiare la proposta di Ristretti è il partito Radicale attraverso le parole di Rita Bernardini: "Già con il Satyagraha di Natale con Marco Pannella noi radicali abbiamo indicato tra i nostri obiettivi quello di prevedere la partecipazione dei detenuti. Sarebbe infatti un nonsenso fare la fotografia dell'attuale situazione ai fini di prefigurare un futuro di riforma, ascoltando solo "esperti" e "operatori", ma privandosi della voce di coloro che vivono ogni giorno sulla loro pelle la realtà carceraria italiana. E non c'è dubbio che la casa di reclusione di Padova, che ha già ospitato in passato il congresso di "Nessuno Tocchi Caino", sia il luogo ideale proprio per l'opera svolta da Ristretti Orizzonti per il reinserimento sociale e civile dei reclusi; opera che si è fatta forte sia del metodo del confronto e del dialogo con il mondo "fuori delle mura penitenziarie", sia dell'approfondimento e del monitoraggio di ciò che avviene negli oltre 200 istituti penitenziari del nostro Paese". Giustizia: perché non va temuto un dibattito per limitare il ricorso al carcere di Annalisa Chirico Il Foglio, 14 febbraio 2015 L'emergenza è passata. Anzi no. Il tema è il carcere, nostro sempiterno cruccio. E il monito sull'emergenza proviene dal primo presidente della Corte di Cassazione, Giorgio Santacroce: "L'Italia continua a essere sotto osservazione e tutti gli allarmi lanciati, a cominciare da quelli del presidente Giorgio Napolitano, rimangono drammaticamente attuali". Fonti autorevoli del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, dietro garanzia di anonimato, restituiscono una versione diversa: i dati non sono più allarmanti a dispetto di quello che l'Europa vorrebbe farci credere. Ma come stanno le cose? Lo abbiamo chiesto all'avvocato Paola Severino, prima donna a ricoprire l'incarico di ministro della Giustizia nel governo Monti e autrice insieme al professore Antonio Gullo di un documento dal titolo "Ripensare il sistema sanzionatorio penale". Il testo, voluto dal Comitato etico della Fondazione Umberto Veronesi e citato espressamente dal primo presidente Santacroce in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario, mette in discussione non il grado di civiltà delle carceri ma il carcere in quanto tale. Se un ragazzino imbratta i muri, è meglio sbatterlo in galera e farne per sempre un delinquente oppure obbligarlo a pulire? "Il superamento del carcere non è indulgenza. La sanzione penale va ripensata attraverso una discussione pubblica razionale, non emotiva. Non può essere l'instant gratification di un culturame giustizialista", commenta la bioeticista Cinzia Caporale, presidente del Comitato etico. Nel documento si legge che la reclusione in carcere deve rappresentare l'ultima ratio. Rispetto a "un uso muscolare del diritto penale" il legislatore deve archiviare l'idea "corporale" della sanzione e privilegiare nuove tipologie come pene principali: lavoro di pubblica utilità, affidamento in prova ai servizi sociali, pene interdittive. Intanto, tra Santacroce e il Dap, fa capolino la professoressa Severino secondo la quale il sovraffollamento non è questione risolta "sebbene l'Italia abbia compiuto indubbi progressi grazie all'operato di tre diversi ministri in sostanziale continuità". Tutto parte dalla sentenza Torreggiani con cui l'8 gennaio 2013 la Corte europea dei diritti dell'uomo condanna l'Italia per violazione dell'articolo 3 della Cedu la cui rubrica recita testualmente "divieto di tortura". "In seguito a quella pronuncia il governo ha adottato misure strutturali quali l'ampliamento del ricorso alla detenzione domiciliare e l'abolizione delle cosiddette porte girevoli. L'effetto deflattivo è confermato dai numeri". Se nel 2010 i duecento istituti penitenziari nazionali ospitavano 69 mila detenuti, a gennaio di quest'anno i reclusi non superano le 54 mila unità a fronte di una "capienza regolamentare", formula discussa e controversa, che si aggirerebbe attorno alle 39 mila persone. "Preso atto del calo della popolazione detenuta, dobbiamo tenere presente che in Italia il carcere rimane un problema perché il detenuto passa l'intera giornata a guardare il soffitto senza alcuna possibilità di recupero sociale. Per non parlare della manutenzione degli istituti penitenziari". Nuovo esame europeo a giugno Dopo la promozione con riserva della scorsa estate, un nuovo e più completo esame da parte del Consiglio d'Europa è atteso per il prossimo giugno, anche se il governo mira a una proroga. "Mi auguro che l'Europa tenga conto dei passi avanti compiuti. Il ministro Orlando sta lavorando bene", chiosa la Severino. Tornando al documento sul ripensamento del sistema sanzionatorio penale, l'ex Guardasigilli auspica un ampliamento del ricorso alle misure alternative "in grado di conciliare l'esigenza di limitare il più possibile la restrizione della libertà personale con la domanda di sicurezza sociale. In passato, per esempio, nel nostro paese la messa alla prova era tipica soltanto dei minori. Oggi si è compreso che può essere applicata senza limiti d'età perché la persona destinataria è tenuta sotto costante controllo e monitoraggio". Persino negli Stati Uniti, patria della "tolleranza zero", la probation è sempre più praticata. In Francia e nel Regno Unito il ricorso alle misure alternative è triplo che in Italia. "Sono importanti gli effetti sul tasso di recidiva che riduce la sicurezza sociale. La probabilità di tornare a delinquere per chi sconta la pena dietro le sbarre è tre volte superiore a quella di chi sconta la condanna all'esterno". Anche se non sei un criminale, l'inoperosità in cella ti rende tale. E un capitolo spinoso è quello di chi sta in cella da condannato preventivo. Al 31 gennaio 2015, i detenuti senza condanna definitiva rappresentano il 35 per cento della popolazione reclusa. "È una percentuale altissima. Con l'aggravante che la sofferenza del carcere si raddoppia quando la persona sa di non essere stata definitivamente giudicata", dice la Severino. Peccato che nel match della comunicazione suggestiva vinca chi invoca le manette, non chi le scongiura. "In Italia si parla troppo poco di carcere, e soltanto in situazioni estreme quando c'è di mezzo il serial killer o l'omicidio stradale. Le situazioni emergenziali non dovrebbero mai ispirare il legislatore". Giustizia: la corsa contro il tempo del ministro Orlando per chiudere gli Opg di Errico Novi Il Garantista, 14 febbraio 2015 Molte Regioni sono in ritardo nel trasferire gli internati dagli Ospedali Psichiatrici Giudiziari alle nuove residenze. Rischiano il commissariamento. Ma Orlando offre una soluzione transitoria senza sforare il termine di fine marzo. Alla fine della lunga relazione il ministro Orlando cita Giorgio Napolitano: "Si ribadisce come sia ferma intenzione del Governo, delle Regioni e di tutte le istituzioni coinvolte dare attuazione concreta al superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari, definiti dal presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano come "estremo orrore, inconcepibile in qualsiasi Paese appena civile". Stavolta il guardasigilli fa un po' come Marco Pannella: evoca il tono grave, e impenetrabile nel suo sdegno, dell'ex inquilino del Colle. Il vecchio leader radicale lo fa ogni volta in cui parla di carceri. Non manca mai di richiamarsi alla "prepotente urgenza" indicata due anni fa da Napolitano a proposito della necessità di superare l'emergenza penitenziaria. Nelle note di accompagnamento alla relazione sugli Opg, già depositata a novembre con il ministro della Salute Lorenzin, il responsabile della Giustizia adotta una forma retorica simile perché vi scorge la forma più appropriata per una cortese minaccia ai presidenti di Regione. È come se dicesse: "Guardate che se non chiudete gli ospedali psichiatrici giudiziari entro il 31 marzo 2015, io vi commissario. E lo farò, perché l'orrore è insopportabile. E tanto per ricordarvi che è insopportabile ve lo dico con le parole di Napolitano". Ecco, in realtà una frase del genere, nel documento di 12 pagine (più tabelle) inviato giovedì ai presidenti di Camera e Senato, Andrea Orlando non la riporta mai. Ma la sostanza è quella. I governatori che non riusciranno a chiudere gli "Opg" entro il 31 marzo e a trasferire nelle nuove strutture (Rems) gli internati da tenere ancora ristretti, saranno gentilmente messi da parte. Faranno posto a commissari governativi. E per alcuni di loro la faccenda rischia di essere sgradevole assai. In particolare per chi si accinge a rendere conto agli elettori alle Regionali previste per maggio: i presidenti di Liguria, Veneto, Toscana, Umbria, Marche, Campania e Puglia. L'umiliazione del commissariamento a campagna elettorale già iniziata non sarà certo un viatico per la vittoria. Seppur si tratti di una questione non sempre al centro dell'attenzione pubblica come l'orrore degli ex manicomi. Visto che le minacce vanno sempre accompagnate da una possibilità di sventarle, Orlando e Lorenzin hanno predisposto un piano di emergenza, già descritto nella relazione di novembre. In pratica si è chiesto alle Regioni di rivedere i piani. Quelli da tempo predisposti per trasferire gli internati dagli Ospedali psichiatrici in via di dismissione alle Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza, in acronimo Rems appunto. Si è visto che le novità introdotte dalla legge 81 del maggio 2014 consentono una lenta ma progressiva diminuzione della popolazione degli Opg. Non perché tendano ad esserci meno "ingressi" continuano ad essercene una settantina al mese - ma grazie al "potenziamento dell'attività dei Servizi territoriali per la Salute mentale, che ha favorito e accelerato ii numero delle dimissioni e l'avvio di programmi di trattamento". Al 30 novembre 2014 negli Ospedali psichiatrici giudiziari c'erano 761 persone. Ma sempre secondo la citata legge del 2014 "il prosieguo del ricovero in Ospedale psichiatrico giudiziario deve essere una misura eccezionale, per i pazienti per i quali viene accertata la permanenza della pericolosità sociale". Basta applicare la norma e per il giorno 1° aprile 2015 le persone ancora da tenere internate non dovrebbero superare, recita ancora la relazione, la cifra di 450. Nelle riunioni dell'Organismo di coordinamento del processo di superamento degli Opg", tenutesi il 29 ottobre e il 9 dicembre, i responsabili dei sistemi sanitari regionali sono stati precisamente istruiti a riguardo: non tenete reclusi i malati per i quali è possibile un altro tipo di assistenza, è stato loro detto. Se i malati diminuiscono però è chiaro che i vecchi piani di costruzione delle Rems non vanno più bene: sono sovradimensionati e non è il caso di sperperare denaro. Così in pratica tutti le amministrazioni regionali hanno scelto di "rimodulare i programmi". Vuoi dire allungamento dei tempi. A questo punto Lorenzin, Orlando e tutte le Regioni "hanno convenuto sulla assoluta necessita di individuare con urgenza soluzioni residenziali "transitorie", in strutture da identificare ed allestire in tempi contenuti, per garantire il rispetto della scadenza fissata dalla legge". La manovra d'emergenza funziona così: le Regioni possono "avvalersi, in via transitoria, di strutture residenziali di proprietà di soggetti privati", oppure di "strutture pubbliche gestite da privati accreditati dal Servizio sanitario nazionale". Tale possibilità "renderebbe possibile ad alcune Regioni l'individuazione di soluzioni altrimenti inesistenti sul proprio territorio". In quest'ultimo caso sono i governatori a dover tirare fuori i soldi, e dovranno scegliere. O risparmiano i loro fondi, e però rischiano di vedersi commissariati e di fare una figuraccia, magari in piena campagna elettorale. Oppure mettono mano alle casse dell'Amministrazione e dimostrano di considerare la chiusura degli Opg una priorità che vai bene qualche sacrificio. C'è poi chi ritiene di potercela fare ad allestire strutture transitorie pubbliche entro il 31 marzo, senza ricorrere ai privati "accreditati". A loro il ministero dell'Economia rimborserà i soldi "a stato di avanzamento dei lavori". Più sei avanti con il programma, dunque, e più risparmi. È giusto così. E chi è che è messo meglio, tra le Regioni, in vista della data fatidica di fine marzo? Chi sarà imn grado, per il giorno 31, di spostare davvero gli internati nelle residenze transitorie per poi ultimare la costruzione delle Rems definitive, secondo il fabbisogno nel frattempo diminuito di cui si diceva? Qui c'è qualche sorpresa. Ad essere ben organizzata è, certo, una regione tradizionalmente avanti dal punto di vista delle strutture penitenziarie come la Lombardia. Tanto è vero che altri governatori approfitteranno del collega Maroni per trasferire lì, per il 31 marzo, i propri internati. Si tratta in partico lare dei presidenti di Piemonte e Liguria. Ma c'è anche qualche regione settentrionale che al momento non ha fornito certezze assolute: è il caso del Veneto governato dal leghista Zaia. Da quelle parti la Rems definitiva costerà 11 milioni di euro ma, prima che venga aperta, la soluzione provvisoria è indicata con vaghezza nel ricorso al privato sociale. Chi invece ha dato certezze nel rispetto delle scadenze è un governatore che si prepara a chiedere la riconferma a maggio come il campano Stefano Caldoro. Con lui dichiara di essere a buon punto e di potercela fare senz'altro anche la Calabria - dove peraltro a maggio non si vota. Rispetteranno il termine anche la Provincia autonoma di Bolzano (seppur con l'aiuto di una comunità piemontese) e l'Emilia-Romagna, che ha dirigenti sanitari in ambito psichiatrico di primissimo livello. Sospese alle erogazioni del ministro dell'Economia restano invece Toscana, Basilicata e Sardegna. Messi male, oltre a Zaia, anche il presidente della Provincia autonoma di Trento, la Regione Marche, malissimo il Lazio, così così ma quasi certamente destinato al commissariamento l'Abruzzo, e la Sicilia. E la Puglia. Dove pure si vota. Ma dove Vendola evidentemente non ha più niente da chiedere agli elettori. Giustizia: superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari… o chiusura "di facciata"? di Massimo Lensi (Comitato Nazionale Radicali Italiani) L'Opinione, 14 febbraio 2015 Come si sa, il non esistere non ha nulla di personale. A cinquant'anni, stanco del disprezzo per il mondo, ha atteso che le guardie si allontanassero dalla sua cella, dove era recluso da solo. Si è sfilato la maglietta, l'ha strappata per riuscire a creare una sorta di cappio, si è appeso alle sbarre. Il fatto è accaduto di recente nell'Opg di Reggio Emilia. Potrebbe sembrare, a prima superficiale vista, una delle tante morti in carcere, con la differenza sostanziale che il fatto è avvenuto all'interno di un luogo dove si dovrebbe essere curati. Una differenza non percepita dall'opinione pubblica. Sono un migliaio gli internati in sei ospedali psichiatrici giudiziari, più noti come Opg (Barcellona Pozzo di Gotto, Aversa, Napoli, Montelupo Fiorentino, Castiglione delle Stiviere e Reggio Emilia). L'evoluzione della legislazione ha definito il loro superamento, previsto per il 31 marzo, dopo anni di proroghe e rinvii. Tuttavia la loro chiusura è ancora molto lontana. La stessa articolazione del nostro codice penale lega la chiusura delle strutture di contenimento per i "matti cattivi" al superamento di concetti di psichiatria forense che risalgono ai codici del 1930. La posizione del malato di mente autore di reato considerato incapace di intendere e volere continua a essere sottoposta al giudizio di pericolosità sociale psichiatrica con le conseguenti misure di sicurezza, su cui si regge l'esistenza dell'Ospedale Psichiatrico Giudiziario. L'art. 203 c.p. stabilisce, infatti, che agli effetti della legge penale è socialmente pericolosa la persona, anche non imputabile o non punibile, la quale ha commesso un fatto previsto dalla legge come reato, quando è probabile che lo commetta di nuovo. Perfino la innovativa legge 9 del 2012 (la cosiddetta Legge Marino) non ha osato mettere mano al nodo concettuale della pericolosità del malato di mente, retaggio, non va dimenticato, della scuola positiva del diritto penale. Il punto centrale è proprio questo. La nostra legislazione si è sempre concentrata sui luoghi anziché sui problemi, come quello della relazione tra pericolosità sociale e crimine, tra prevenzione e cura. Si preferisce, quindi, ipotizzare il superamento degli Opg attraverso la creazione di nuove strutture definite, non a caso: Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza (Rems). Proprio sulla base di queste considerazioni, il nostro codice penale ha accolto il cosiddetto sistema del doppio binario in base al quale la colpevolezza è il presupposto dell'applicazione della pena, mentre la pericolosità sociale è il presupposto per l'operatività della misura di sicurezza. Finché sarà mantenuto il doppio binario non potremo mai dire di aver intrapreso il percorso corretto per la chiusura definitiva di questo ignobile capitolo di giustizia medievale. Il 31 marzo è molto vicino e il rischio che, dopo tanti anni di attesa, la riforma degli Opg si trasformi in un nulla di fatto è molto alto. Le strutture non sono pronte al passaggio di consegne: è in corso, infatti, una sorta di palleggio istituzionale tra le Regioni, competenti per la parte sanitaria, e il Governo al fine solo di capire come ottimizzare i fondi a disposizione senza che nessuno degli Enti coinvolti sia costretto a rimetterci. Ma ciò che principalmente preoccupa è la completa assenza di un dibattito politico su un tema come quello della pericolosità (e delle cure) del malato di mente autore di reato. Ai tempi della legge 180 il dibattito ci fu e bene o male la società di allora seppe rispondere. Oggi all'opposto ci si allena, come schegge proiettate dall'esplosione di un secolo, a far fronte alle emergenze, che, come si sa, producono solo cattiva politica. Giustizia: Margelletti (Cesi); nessun rischio terrorismo dall'immigrazione via mare Adnkronos, 14 febbraio 2015 Nessun rischio terrorismo dall'immigrazione irregolare che arriva via mare dal Nord Africa. L'avanzata dello Stato islamico nei paesi di partenza dei barconi che attraversano il Mediterraneo per raggiungere l'Italia, non rappresenta un problema riconducibile all'immigrazione: "I terroristi sono un valore troppo pregiato perché le organizzazioni li mettano su dei barconi che rischiano di affondare. Piuttosto, li si manda in Europa con un biglietto aereo e un visto regolare". Andrea Margelletti, presidente del Centro studi internazionali, interpellato dall'Adnkronos, si dice sicuro che, al momento, una scelta del genere "sarebbe una mossa davvero stupida per organizzazioni terroristiche che hanno dimostrato di non esserlo affatto". "Dopo aver addestrato e investito su qualcuno", spiega Margelletti, questi gruppi organizzati, "non ci pensano neanche a correre un rischio del genere". Semmai, aggiunge il presidente del Cesi, istituto che si occupa di analisi di geopolitica con attenzione particolare proprio alla sicurezza e al terrorismo, "c'è l'eventualità che queste persone che arrivano nel nostro Paese, non trovando quello che cercavano, possano radicalizzarsi successivamente: ma questa è una partita tutta italiana". "C'è poi anche il fatto - continua Margelletti - che queste persone non rimangono per anni in Libia - paese dal quale parte la stragrande maggioranza di navi - ma, il più delle volte, solo alcuni mesi", in attesa di trovare un passaggio verso l'Europa. I rischi principali, quindi, "sono quelli del dopo", avverte l'esperto. Basti pensare, ad esempio, alle carceri, dove "c'è un humus che può consentire la radicalizzazione: non è un caso che polizia e servizi segreti seguano attentamente questo fenomeno". Giustizia: hai rubato 4 euro di formaggio? sei incensurato? allora ti fai sei mesi dentro di Damiano Aliprandi Il Garantista, 14 febbraio 2015 Sei mesi di carcere per aver rubato 4 euro. La certezza della pena continua ad essere spietata. A far discutere è la sentenza che i giudici del tribunale di Genova hanno emesso contro un senzatetto ucraino di 30 anni, che nel novembre 2011 rubò qualcosa da mangiare in un supermercato della città della Lanterna: sei mesi per aver rubato un po' di formaggio e una confezione di wurstel, per un totale di 4 euro e 7 centesimi. Dopo 4 anni di trafila giudiziaria arriva il verdetto: in galera! E tutto ciò nonostante l'accusa aveva chiesto di derubricare il reato in tentativo di furto spinto dalla necessità, per far condannare l'uomo a una multa di 100 euro. Ma i giudici della Corte di Appello hanno confermato la pena, già inflitta in primo grado: sei mesi di reclusione con la condizionale e una multa di 160 euro. Non è la prima volta che il tribunale di Genova affronta un caso simile. Ne avevamo già parlato sul Garantista: sempre a Genova c'è stato un vero e proprio accanimento giudiziario per una scatola di cioccolatini. Un genovese di 28 anni, incensurato, accusato di aver rubato una scatola di cioccolatini in un mini market e andato sotto processo nonostante il pubblico ministero avesse chiesto l'archiviazione del caso. Ha deciderlo è stato il gip del tribunale di Genova, Silvia Carpanini, che ha disposto l'imputazione coatta. Il procuratore aggiunto Nicola Piacente aveva "graziato" il ragazzo valutando la lieve entità del danno, il fatto che fosse un incensurato e soprattutto perché questo procedimento non avrebbe fatto altro che intasare le cancellerie già oberate per l'elevato numero di processi. Ma il giudice ha accolto la richiesta di opposizione di archiviazione presentata dagli avvocati del supermercato e il ladro di cioccolatini dovrà finire sotto processo. Queste storie tremende meritano, quindi, una riflessione partendo da episodi veri. Anni fa una cinquantenne disperata e affamata, madre di un ragazzo disabile, è stata sorpresa mentre rubava qualche pezzo di formaggio in un supermercato di Cassino. Rubava per mangiare. È stata scoperta dalla sorveglianza che ha informato il dirigente del centro commerciale il quale, venuto a conoscenza della situazione di grave bisogno della persona colta in flagranza, non solo ha deciso di non sporgere querela ma l'ha assunta nel supermercato eliminando così la sola causa che l'aveva spinta a commettere il reato. In questo caso il "furto in stato di bisogno" è stato risolto a monte, senza scomodare la giustizia penale. In altri casi si è ricorsi alla scriminante dello stato di necessità. E questo grazie alla sentenza dell'adora giudice Gennaro Francione - attualmente fa teatro civile dopo essersi dimesso da magistrato - che ha applicato la scriminante dell'art. 54 cp (un articolo del codice penale che prevede l'assoluzione per "stato di necessità") al furto per fame e alla vendita in strada di ed contraffatti per avere agito in stato di necessità rappresentato dal bisogno di nutrirsi. Alla fine del 1800 divennero famose in Francia le sentenze de le bon President Magnod che assolveva le persone spinte dalla fame a commettere reati contro il patrimonio applicando la scriminante dello stato di necessità. Sentenze scandalose per i conservatori ed esemplari per i rappresentanti delle tendenze del socialismo giuridico. Una questione che si dovrebbe riproporre dopo oltre un secolo e dove la crisi economica che colpisce in modo pesante le classi sociali meno protette riporta all'ordine del giorno. Ma è difficile visto che la sensibilità politica è tutta concentrata sulla parola d'ordine che fa presa sul popolo devastato dalla propaganda legalitaria: "La certezza della pena". Giustizia: Gulotta, a giugno la sentenza sul risarcimento per 22 anni di carcere ingiusto di Damiano Aliprandi Il Garantista, 14 febbraio 2015 La corte di Reggio Calabria ha accolto l'istanza di risarcimento per ingiusta detenzione e a rimandato a giugno la decisione finale. Sono queste le buone notizie per Giuseppe Gulotta, colui che ha passato 22 anni di galera innocentemente. La Corte d'Appello di Reggio Calabria ha deciso di accogliere le richieste avanzate dei legali di Giuseppe Gulotta e ha spiazzato l'avvocatura dello Stato che si era opposta al risarcimento per "induzione in errore giudiziario per falsa dichiarazione" - poco importa se sotto violenze e torture accertate nel procedimento di revisione del processo - ed ha portato in aula tre periti e li ha fatti giurare sulla Costituzione: essi avranno il compito di sezionare, ancora una volta, la vita di Giuseppe e capire, analizzare, quantificare i danni che ha subito in trentasei anni di calvario giudiziario, da innocente. Gli avvocati Pardo Cellini e Lauria Baldassarre parlano di un "moderato ottimismo" e invitano alla prudenza, rimandando ogni considerazione al prossimo appuntamento in tribunale che ci sarà l'11 giugno. Nel frattempo l'avvocatura dello Stato sta portando avanti una dura opposizione alla richiesta di risarcimento. Sono 56 i milioni chiesti a riparazione del maltolto. "Il tribunale - spiega l'avvocato Cellini - vuole capire come i 22 anni passati in carcere da innocente possano avere cambiato in peggio la vita di Gulotta". Intanto, attraverso il web, Gulotta si rivolge al premier Renzi e al presidente della Repubblica Mattarella, affinché lo Stato possa riconoscere le proprie colpe. Ricordiamo che Giuseppe Gulotta oggi ha 57 anni. Quando ne aveva appena 18, nel 1976, è stato accusato di aver ucciso due giovani carabinieri che dormivano nella caserma di Alcamo Marina, in provincia di Trapani. Arrestato, è stato costretto sotto tortura a confessare un reato mai commesso. Al processo di primo grado è stato assolto per insufficienza di prove, ma dopo vari gradi di giudizio è stato definitivamente condannato all'ergastolo nel 1990. Con lui furono accusati degli omicidi altri quattro ragazzi. Due fuggirono in Brasile per scampare al verdetto, uno venne ritrovato impiccato in cella, un altro ancora morì di tumore in carcere, privato delle cure in ospedale perché ritenuto un pericoloso ergastolano. Dopo 36 anni, di cui 25 trascorsi dietro le sbarre, Gulotta ha ottenuto la revisione del processo grazie alla confessione di un carabiniere. È stato assolto definitivamente nel 2012. Ad oggi attende ancora che lo Stato gli versi il risarcimento per l'ingiusta detenzione e forse a giungo potrà finalmente vincere la battaglia finale, anche se nulla potrà mai ridargli indietro tutti gli anni di libertà che la malagiustizia gli ha portato via. Giustizia: Henrique Pizzolato… non mandatemi in Brasile, in quelle celle mi uccidono! di Angela Nocioni Il Garantista, 14 febbraio 2015 Gatta da pelare per il governo Renzi: rispedire in Brasile o tenersi in Italia l'alter ego di Cesare Battisti? Henrique Pizzolato, direttore marketing del Banco do Brazil è stato condannato in Brasile a 12 anni e 7 per tangenti agli alleati del governo dell'ex presidente Lula. È un cittadino brasiliano con passaporto italiano, scappato in Italia per fuggire alla galera certa laggiù. Il Brasile lo rivuole indietro, lui si è opposto all'estradizione dicendo che la sua vita in una cella brasiliana non è al sicuro, la Corte d'appello di Bologna gli aveva dato ragione, la Corte di Cassazione ha ribaltato quella sentenza. Spetterà al governo italiano decidere, come al governo Lula spettò decidere cinque anni fa se rimandare in Italia o proteggere Cesare Battisti. Ora che è l'Italia ad avere in casa un cittadino brasiliano che si dice perseguitato dai tribunali in patria e cerca di evitare la galera, cosa deciderà il governo? Battisti - quello vero - torna alla ribalta, suo malgrado. Proprio ora che era quasi riuscito a farsi dimenticare. Questo emulo brasiliano, dopo l'evitata estradizione per i quattro omicidi per i quali Battisti è condannato in Italia, proprio non gli ci voleva. Pizzolato è stato condannato in via definitiva dal Tribunale supremo di Brasilia per uno strano balletto di 33 milioni di dollari che servirono tra il 2003 e il 2005 a garantire al Partito dei lavoratori (Pt), il partito di Lula, i voti degli alleati in Parlamento. Reati imputatigli: corruzione, peculato e riciclaggio. Tutto fatto su richiesta del partito. Per non finire in galera, Pizzolato è scappato nottetempo dal suo attico sulla spiaggia di Copacabana in compagnia di un avvocato, tre valigie e una chiavetta Usb zeppa di documenti. E con in tasca un passaporto italiano falso ritirato a nome del fratello morto nel 2008 in un incidente d'auto, ma con incollata la sua foto. Ha forse attraversato in macchina il confine col Paraguay, poi è passato in Argentina, a Buenos Aires si è imbarcato su un aereo per Madrid e alla fine è arrivato in Italia. Leonardo Souza, giornalista della "Folha de Sao Paulo", ha così ricostruito la fuga: "Per scappare in Italia Pizzolato s'è procurato una serie di documenti. Carta d'identità, codice fiscale, passaporto e certificato elettorale falsi". In Brasile è possibile ritirare il documento per conto di un'altra persona. Una informatizzazione non perfetta avrebbe consentito a Henrique Pizzolato di ritirare la carta d'identità del fratello morto. E con quella, chissà aiutato da chi, il passaporto italiano. Da morto, Celso Pizzolato aveva anche un conto in banca e pagava regolarmente le tasse. Il doppio passaporto, anche se falso, per Henrique Pizzolato era stato finora una salvezza. Anni fa a un altro brasiliano dalla doppia cittadinanza (quello dei passaporti italiani in Brasile è un business, esistono agenzie private che ne sfornano quantità sospette) il giochetto era quasi riuscito. Salvatore Cacciola, brasiliano con cittadinanza italiana, condannato nel 2005 da un tribunale brasiliano a 13 anni per il crac della banca Marka, riuscì a scappare e a vivere a Roma per qualche anno grazie al doppio passaporto. Venne arrestato nel 2008 e poi estradato in Brasile, solo perché non seppe resistere all'idea di una vacanza a Montecarlo e li trovò l'Interpol ad aspettarlo. Pizzolato invece è stato arrestato il 5 febbraio dell'anno scorso a Maranello e rinchiuso nel carcere di Sant'Anna a Modena fino a quando la Corte d'appello di Bologna ha negato la sua estradizione. È l'unico, degli undici alti dirigenti del governo Lula condannati nel processo del mensalão, a non essersi consegnato alla polizia. "Ho deciso di far valere il mio legittimo diritto di libertà per essere sottoposto ad un nuovo giudizio in Italia, in un tribunale che non è sottoposto alle imposizioni dei media controllati dall'imprenditoria, come è previsto nel trattato di estradizione tra Brasile e Italia", aveva scritto in una lettera prima di lasciare Rio. Secondo i giudici bolognesi le galere brasiliane non garantiscono il rispetto dei diritti umani e quindi non è giusto rispedirlo indietro. Lo stato brasiliano ha presentato ricorso in Cassazione e la Cassazione gli ha dato ragione. Nel carcere di Papuda, a Brasilia, dove il manager in fuga avrebbe scontato la pena e dove ha soggiornato a lungo anche Battisti, prima di ottenere lo status migratorio di cittadino straniero con permesso di residenza permanente in Brasile, i detenuti corrono il rischio di essere uccisi. È stato questo l'argomento principale della difesa di Pizzolato (che ieri ha fornito ai giornali italiani foto raccapriccianti sulle carceri brasiliane), messa a punto sulla scia della difesa di Battisti all'epoca del suo processo: se mi mandate in galera in Italia mi uccideranno. Ora che la Cassazione ha reso inservibile quell'argomento per Pizzolato, la decisione finale sulla richiesta di estradizione sarà politica. Gli amici di Battisti si preoccupano, temono che si crei un clima politico da scambio di ostaggi. "Ciascun processo di estradizione è una storia a sé, lasciate in pace Cesare" dicono. Amnesty International locale, che di Battisti è una supporter fedele, ripete da tempo: "Non siamo in guerra, non si tratta di uno scambio". Lettere: reato di negazionismo? la verità non si difende col codice penale di Enrico Buemi Il Garantista, 14 febbraio 2015 Caro direttore, in merito al suo più che condivisibile articolo, ("Negazionisti in prigione? È pura follia"), volevo segnalarle che io e il mio collega socialista Fausto Guilherme Longo ci siamo astenuti, consapevoli che per il regolamento del Senato questo equivaleva come voto contrario, dal voto dell'altro giorno nell'aula del Senato che ha approvato un provvedimento che limita di fatto la libertà di espressione. Come ho già detto, durante il mio intervento in Parlamento, io credo che sia un compito arduo affermare, da un lato, l'assoluta convinzione della certezza degli avvenimenti certificati dalle sentenze giudiziarie dei tribunali internazionali, in relazione alle vicende riguardanti il genocidio ebraico e, dall'altro lato, non limitare l'attività di una dialettica, seppure strumentale, finalizzata ad altri obiettivi che altri vorrebbero mettere in campo, usando uno strumento di sanzionamento penale e senza limitare la libertà di opinione. Il confine tra il lecito e l'illecito, inoltre, in questa materia, che fino a quando non si sostanzia in azioni materiali è relativo all'opinione, seppure sbagliata, è un confine che diventa difficile determinare per legge. Ovviamente, la necessità di una verifica storica può avere valori diversi su fatti conclamati, vicini e vissuti e altri fatti che non sono sufficientemente noti o lontani da noi dal punto di vista temporale e dal punto di vista geografico. Dobbiamo, quindi, avere, pur nella convinzione assoluta, per quanto mi riguarda, che le vicende di cui stiamo parlando sono accadute e sono accadute nei termini in cui ne è stato scritto, il coraggio di accettare il confronto con altri che, lo ribadisco, facendo una strumentalizzazione per finalità diverse, ne negano l'esistenza storica. Mi domando, però, se siamo sicuri che nel nostro codice penale non esista una norma che consenta, in presenza di una volontà effettiva, di contrastare dal punto di vista giudiziario questo comportamento. Io penso che esista già questa possibilità, ma mi pongo anche il problema se sia effettivamente utile ed efficace, su questioni di questo genere, utilizzare il codice penale. Mi chiedo, inoltre, se per un'azione di negazione di fatti così evidenti, così gravi, così tragici, a tal punto ammessi ed accettati da tutta la comunità internazionale, si possa utilizzare uno strumento giudiziario per contrastare attività di alterazione culturale, prima che fattuale, di vicende che hanno quella dimensione. Credo che, con l'approvazione di un provvedimento e con il richiamo di provvedimenti di carattere giudiziario, non facciamo che un buco nell'acqua, anzi mettiamo su un piedistallo coloro che vogliono strumentalizzare in maniera a loro favorevole queste vicende inconfutabili. Un altro interrogativo che mi pongo è, dal momento che la sanzione non impedisce l'omicidio della persona, se sia possibile che la sanzione impedisca l'omicidio della verità, della notizia tragica, la più tragica dell'umanità. Noi abbiamo bisogno di affermare la verità tutti i giorni, non ci possiamo salvare la coscienza inserendo nel nostro codice penale un richiamo specifico a questa vicenda tragica ed indimenticabile fino alla fine dell'umanità. Noi vogliamo, con questo atto, consentirci di avere un sistema educativo che riproponga giorno per giorno l'affermazione di questa verità, che crei queste sensibilità che sono necessarie per un contrasto vero a quelle forme di violenza umanitaria inaudite ed indimenticabili? Qui non si tratta di essere contro un provvedimento perché si vuole attenuare un'azione di contrasto. La si vuole rafforzare, invece, ma dal punto di vista della sua concretezza ed efficacia quotidiana e non inserendola all'interno di una pagina del codice penale, che prevede già la norma che sanziona l'istigazione all'odio razziale, introducendo un'aggravante specifica che, francamente, io trovo già nel codice penale. Colgo l'occasione per manifestarle l'apprezzamento per l'impegno del suo giornale nella difesa di principi fondamentali della nostra Costituzione e delle nostra convivenza civile e democratica. Lettere: il carcere è storia di anime, di riabilitazione, non di vendetta di Salvatore Cuffaro Quotidiano di Sicilia, 14 febbraio 2015 Lo Stato con la Legge e il Giudice, mette le persone che hanno sbagliato, e non solo queste, in carcere, facendole evadere dal mondo. Il carcere, però, non è storia di corpi ma di anime. Il detenuto non può essere considerato e, peggio ancora trattato, come un animale da governare, un oggetto da sistemare, conservare e nascondere, uno sconfitto da castigare, a cui farla pagare. È un uomo che va rispettato anche se non ha avuto rispetto, e forse ancora non ne ha. È un uomo da capire soprattutto se nulla fa per essere capito, da aiutare anche se non vuole, o è riluttante a chiedere aiuto, è un uomo da indurre alla speranza se è disperato, da amare anche se sa solo odiare. Il detenuto è uno sconfitto della vita, e come ogni sconfitto subisce il declino del suo destino, trascurato dallo stesso potere pubblico che lo ha condannato e condotto a espiare la pena in una immorale carcerazione, che lo porta a una degradazione psicologica e materiale, camuffata da false e illusorie prospettive di rieducazione sociale, o risocializzazione che dir si voglia. La privazione della libertà, vissuta in condizioni e luoghi deprecabili, snaturati, miserevoli e inumani, senza possibilità di idonee e congrue soluzioni, se non di qualche inutile banale rappezzatura, mi spinge a ripensare alla validità della scelta del carcere come forma di espiazione della pena. Se lo Stato pensa di aver vinto la sua guerra mettendo in carcere degli uomini che hanno sbagliato e che hanno perso, non ha vinto, ha perso anche lui insieme ai perdenti. Vincerebbe se riuscisse a impedire la sfida, a rimuoverne le cause, e a essere clemente se non riuscisse a impedirla. Non è vincere né sentirsi a posto con la coscienza, questo deserto che lo Stato crea per difendere "pace sociale e sicurezza", è vendetta. Ed è ancora più grave e penoso perché lo Stato fa tutto questo "in nome del popolo", per dare a qualcun altro la responsabilità della sua incapacità. Si potrebbe dare, alle persone che si sono macchiate di alcuni reati, (senza portarle in carcere, né prima, né durante, né dopo il processo), la possibilità di lavorare con l'obbligo di lasciare allo Stato parte del salario, facendo così pagare il prezzo dei loro errori. Questo sarebbe ottemperare realmente all'art. 27 della Costituzione, perché sarebbe opera di rieducazione e di restituzione del reo alla società; sarebbe soprattutto una scelta dello Stato di comportarsi da padre per i suoi figli più difficili e bisognosi, ma non un padre cattivo che esercita la sua vendetta. Il tempo del carcere, che pur possiede una sua feroce forza, lascia la (non indeterminata) possibilità di riflettere per capire di quale vita potranno godere gli occhi e l'anima, cosa si dovrà fare per poter scegliere cosa fare di essa, per poter uscire da uomini liberi, quando il rischio più grande è tornare ad essere succubi degli errori del passato. Il carcere non è storia di corpi ma storia di anime e di spiriti. Quando lo Stato e la società lo capiranno, solo allora le condizioni dei detenuti in carcere potranno migliorare. Sardegna: la Legge Regionale del 2011 a tutela dei diritti dei detenuti? è finita nell'oblio www.sardegnalive.net, 14 febbraio 2015 Dire che ci troviamo in un Paese in cui ci sono troppe leggi rimaste lettera morta, non fa ormai più notizia. Così come, di conseguenza, passano nel dimenticatoio, con sempre maggiore frequenza, realtà disciplinate solo in teoria da nuove norme e che riguardano situazioni spesso difficili e anche drammatiche di soggetti che da sempre rivendicano diritti mai tutelati. È il caso stavolta di una legge regionale della Sardegna, quella del 7 febbraio 2011, n. 7, che prevede testualmente un "sistema integrato di interventi a favore dei soggetti sottoposti a provvedimenti dell'autorità giudiziaria e istituzione del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale". Ancora più chiaramente, nella stessa legge si evidenzia che "la Regione autonoma della Sardegna, nell'ambito delle proprie competenze, concorre a tutelare e assicurare il rispetto dei diritti e della dignità delle persone adulte e dei minori presenti negli istituti penitenziari o ammessi a misure alternative e sostitutive della detenzione". La norma suddetta, al Capo II, prevede anche la figura del Garante, istituito presso il Consiglio regionale, punto riferimento fondamentale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Fissati gli obiettivi e contemplata la figura del Garante, nella legge sono previsti anche gli strumenti finanziari per raggiungere lo scopo, ovvero euro 1.800.000 annui per le finalità di cui al capo I e in euro 200.000 per le finalità di cui al capo II (v. Garante). Ebbene, dall'ormai lontano 2011 questa legge non ha mai trovato applicazione, è rimasta lettera morta. Tra gli scopi voluti dal legislatore, non ce n'è uno che possa essere sottovalutato o, ancora peggio, dimenticato. Basti solo ricordarne qualcuno in tema di assistenza sanitaria, formazione e istruzione. Non dimentichiamo neanche che la legge non poteva essere più precisa anche sui tempi della sua applicazione. L'art. 20 dispone, infatti: "Le spese previste per l'attuazione della presente legge gravano sulla UPB S05.03.009 del bilancio della Regione per gli anni 2011-2013 e su quelle corrispondenti dei bilanci per gli anni successivi". La norma è stata altrettanto puntuale riguardo alla nomina del Garante. Recita, infatti, l'art. 13, punto 2): "Il bando per la presentazione delle domande è pubblicato a cura del Presidente del Consiglio regionale sul Bollettino ufficiale della Regione autonoma della Sardegna (Buras), in sede di prima applicazione, entro sessanta giorni dall'entrata in vigore della presente legge e successivamente entro trenta giorni dalla scadenza del mandato". La legge in questione, dunque, precisa e puntuale nelle buone intenzioni, dopo la sua approvazione non ha avuto più seguito: è caduta nel vuoto, o meglio, nell'oblio. Eppure, si è trattato della disciplina di una materia che tira dritta verso il cuore e le sofferenze della gente, in questo caso di persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale che chiedono un'assistenza sanitaria adeguata e il rispetto dei diritti essenziali della persona. Insomma, tra una legge in vigore, ma non applicata, e una che non esiste, nel nostro Paese non fa differenza. Alle promesse volute solo come tali non c'è mai limite, quand'anche sancite da una norma. Certo, in questi casi, l'inganno è ancora più grave. Sardegna: Sdr; opposizione a trasferimento 41bis, ma vigilare su problemi di tutti detenuti Ristretti Orizzonti, 14 febbraio 2015 "È opportuna la ferma opposizione al progetto ministeriale di trasferire in Sardegna 184 detenuti in regime di massima sicurezza, ma occorre non dimenticare i numerosi gravi problemi che vivono nell'isola i cittadini privati della libertà anche nelle nuove mega strutture, a partire da quelli sanitari, della formazione e del recupero sociale". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell'associazione "Socialismo Diritti Riforme", ricordando che in Sardegna "sono attualmente recluse oltre 1800 persone, 160 in attesa di primo giudizio e 119 con pene non definitive, e permane il sovraffollamento in 4 Istituti". "Le condizioni di vita dei ristretti - evidenzia Caligaris - sono oggettivamente migliorate dal punto di vista logistico. Nel complesso le celle sono più confortevoli di quelle di San Sebastiano a Sassari, di Piazza Manno a Oristano, della "Rotonda" di Tempio e di Buoncammino a Cagliari, ma non dimentichiamo che erano situazioni vergognose. Niente però è cambiato relativamente al recupero sociale. I detenuti continuano a trascorrere in cella le loro giornate. La mancanza di attività finalizzate alla formazione e alla rieducazione non può essere trascurata. Gli sforzi della Polizia Penitenziaria o dell'area Trattamentale non sono sufficienti. È necessario un programma articolato soprattutto per i detenuti per reati sessuali. Per non parlare della Sanità Penitenziaria che deve essere ancora calibrata alle reali necessità con una riorganizzazione dei servizi attualmente deficitaria". "Le nuove strutture penitenziarie - rileva ancora la presidente di Sdr - sono state ubicate fuori dal tessuto urbano. Distanze spesso difficili da colmare specialmente per chi raggiunge l'isola da altre regioni. Le difficoltà sono aumentate dalle scarse o quasi inesistenti indicazioni stradali e dai mezzi pubblici non adeguati ai bisogni. I tempi necessari per raggiungere gli Istituti e quelli per poter effettuare i colloqui stanno mettendo a dura prova anche i volontari costretti a moltiplicare i sacrifici per svolgere le attività". "Il Ministero e il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, così prodighi nell'assegnare alla Sardegna sempre nuovi oneri non sono altrettanto solerti nell'affrontare e risolvere il problema degli organici. Oltre agli Agenti, c'è la questione dei Direttori. Nella nostra isola i responsabili delle principali carceri devono reggere più Istituti e quando qualche collega usufruisce delle ferie a ciascuno in servizio ne spettano non meno di tre. Ciò provoca condizioni assurde. C'è poi ancora irrisolta l'assegnazione del Provveditorato regionale. L'attuale responsabile - conclude Caligaris - è ormai solo reggente, in quanto svolge un incarico a Roma. Il suo Vice è anch'egli impegnato in un'altra sede. Insomma in Sardegna il Dap naviga a vista sperando che non affiori qualche scoglio pericoloso". Calabria: Bruno Bossio (Pd); nelle carceri ho visto casi emblematici "al limite del diritto" Ansa, 14 febbraio 2015 "Mercoledì scorso sono intervenuta in Commissione Antimafia in occasione dell'audizione del nuovo capo del Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria, Santi Consolo. Nel mio intervento, oltre a formulargli gli auguri di buon lavoro per il non facile ruolo assunto, ho inteso porre alcune questioni relative alla situazione delle carceri in Calabria, presso le quali, nei mesi scorsi, ho effettuato diverse visite ispettive". Lo afferma, in una nota, la deputata del Pd Enza Bruno Bossio. "Queste ispezioni - aggiunge - mi hanno fornito uno spaccato di una situazione generale, che riguarda tutti gli istituti di pena del nostro Paese, dove appare difficile, se non impossibile, coniugare la necessità di punire i colpevoli con quella della garanzia dei diritti di cui un detenuto è comunque portatore. In particolare, ho posto all'attenzione del dott. Consolo la situazione del reparto di isolamento del carcere di Rossano dove, durante una mia visita a sorpresa, ho trovato condizioni di vita da terzo mondo. Nonostante le positive ed immediate iniziative del Dap per fronteggiare le emergenze da me segnalate, anche dopo la mia visita hanno continuato a verificarsi una serie di anomalie nei confronti di alcuni detenuti, prontamente segnalate agli uffici competenti. In particolare ho ricordato il caso di un detenuto che è stato trasferito dalla sera alla mattina da Catanzaro a Rossano e da Rossano a Spoleto. Questo detenuto ha fatto più volte lo sciopero della fame per denunciare alcune scorrettezze che avrebbe subito e la negazione di alcuni suoi diritti garantiti dal regolamento carcerario, scorrettezze che sembrano paradossalmente aumentate da quando io mi sto occupando del suo caso. Circostanza ancor più grave è che, nonostante si tratti di un detenuto condannato all'ergastolo ostativo, gli vengano negati quei diritti minimi che comunque la sentenza ed il regolamento carcerario garantirebbero. Inoltre, appena pochi giorni fa, nel carcere di Reggio Calabria è morto un detenuto che, dalle notizie in mio possesso, aveva chiesto in più di un'occasione di essere sottoposto a visita medica". "Ho citato questi esempi - conclude Enza Bruno Bossio - perché li considero emblematici della situazione generale delle nostre carceri nelle quali, al di là delle leggi e delle dichiarazioni di principi, si opera spesso al limite del diritto". Piacenza: chiude "Sosta Forzata", il giornale del carcere, dopo 11 anni di vita di Ambra Notari Redattore Sociale, 14 febbraio 2015 Sospese le attività di redazione dopo 11 anni di vita. Carla Chiappini, direttore responsabile: "Tanto rammarico. Ora speriamo che non si interrompa il bellissimo dialogo che avevamo instaurato tra le persone recluse e quelle libere". Chiude "Sosta Forzata", il giornale del carcere di Piacenza Sospese le attività di redazione dopo 11 anni di vita. Carla Chiappini, direttore responsabile: "Tanto rammarico. Ora speriamo che non si interrompa il bellissimo dialogo che avevamo instaurato tra le persone recluse e quelle libere". Dopo 11 anni di vita, la direzione del carcere di Piacenza Le Novate ha sospeso l'attività di redazione di "Sosta Forzata", il giornale della casa circondariale. "Sono molto rammaricata", commenta Carla Chiappini, direttore responsabile della pubblicazione. Al momento, non sono ancora state fornite motivazioni ufficiali: sta di fatto che l'ultimo numero uscito è quello dello scorso dicembre. "Sosta Forzata" è nato come allegato del giornale diocesano "Il nuovo giornale". Una tiratura di 4.500 copie, sul quale scrivevano una media di 20 detenuti all'anno. "Il nostro obiettivo è sempre stato il dialogo tra i cittadini reclusi e i cittadini liberi. Un dialogo che nascesse dall'idea di confronto, che ponesse occhi e orecchie delle persone libere di fronte ad altre storie". Persone che facevano fatica a scrivere nella loro lingua che si sono forzate - e sforzate - a scrivere in italiano. A raccontare prima a se stessi e poi agli altri la propria storia, con i propri limiti ed errori. A raccontare la loro vita in una città in cui vivono ma che non conoscono. Niente lamentele, recriminazioni e rabbia: "Su questi temi abbiamo sempre discusso molto". Il dialogo con le scuole, l'università, l'istituzione di un premio letterario (Parole oltre il muro - Stefania Manfroni, riservato ai detenuti e alle detenute della casa circondariale di Piacenza): "Abbiamo messo in moto un meccanismo molto articolato, senza mai creare conflitto". "Sosta Forzata" usciva 3/4 volte all'anno: "Raccoglievamo persone di culture anche molto diverse, avevamo un grandissimo turnover. Rispettare le scadenze non era facile. Il primo passo che ogni volta facevamo era instaurare un clima di dialogo e fiducia, senza il quale nessuno sarebbe stato disposto a condividere con altri i propri pensieri". 2 ore alla settimana di attività di redazione, senza computer ma prendendo pagine e pagine di appunti. Un enorme lavoro sulle parole, sul loro significato nelle varie lingue, perché fosse compreso da tutti: "Per un bel po' abbiamo anche collaborato con il magazine Terre di Mezzo. Per loro abbiamo creato una specie di vocabolario delle parole del carcere". E adesso che succede? "La speranza è che non si interrompa il bellissimo dialogo che avevamo instaurato tra le persone recluse e quelle libere. E che si possa trovare un modo per riaprire questo lavoro, che a Piacenza aveva generato tanti frutti". I numeri. La Casa circondariale di Piacenza è diretta da Caterina Zurlo. Al 31 luglio 2014 ospitava 327 detenuti (403 i posti massimi regolamentari). Secondo i dati più recenti forniti dal Sappe, il Sindacato autonomi di Polizia penitenziaria, nelle carceri dell'Emilia-Romagna nel 2013 ci sono stati 811 gesti di autolesionismo e 126 casi di tentato suicidio. Maglia nera proprio a Piacenza, con 235 gesti di autolesionismo e 36 di tentato suicidio. Rimini: visita al carcere dei Casetti… mi chiedo se come cittadino sono complice di questo di Ivan Innocenti Notizie Radicali, 14 febbraio 2015 Domenica 18 gennaio 2015 con gli amici Radicali, Simone, Anna e Luca, siamo andati in visita al carcere riminese per l'iniziativa Nonviolenta del Partito Radicale di Natale. Solo ora trovo la forza e la voglia di mettere nero su bianco quanto visto e le emozioni che con i giorni sono venute fuori. La visita ha mostrato con quale disprezzo e sciatteria le istituzioni trattano la vita umana e i doveri di legalità che le sono propri. All'interno del carcere ad un certo punto siamo arrivati in un ampio corridoio al primo piano. A destra detenuti rinchiusi dietro una inferriata. Si entra nella sezione, la I. Visitiamo alcune celle. Traspare la volontà dei detenuti di renderle presentabili come per dare bella impressione di se. Si guardano i muri ammuffiti e incrostati, gli spazi ridotti, ma oggi vivibili se confrontati con quanto visto fino a pochissimi anni fa. I bagni piccoli e logori, presente solo una tazza, la vernice ai muri incrostata. Qualche domanda, "Come va?", "Tutto bene". Si intravede una piccola cella socchiusa, minuscola e con due letti a castello, una di quelle che non pretendeva di essere vista. Una cella fatiscente, con un bagno incrosto e sudicio riempito di rottami di ferro, viene indicata come spazio ricreativo per la sezione. Priva di ogni arredo mostra al centro un bigliardino che non è dato capire se funzionante. Sono 32 le persone in questa sezione, la più vecchia del carcere e tutt'altro che ospitale. In corridoio una bacheca con l'orario dell'aria, due ore al giorno, il regolamento per il telefono. La situazione è di evidente degrado anche se migliore di quella di un paio di anni fa quando i detenuti nel carcere erano il doppio. Si torna in corridoio, il cancello di fronte è lucido e verniciato da poco. È la seconda sezione. La visitiamo. Disabitata. Tutta nuova. Celle da 2, 3 e 4 posti. Impianti nuovi, muri puliti, bagni con doccia interna e piastrelle al muro, luce personale sopra ogni posto letto come negli ospedali. 24 posti liberi e disponibili. La sezione è pronta da oltre 10 mesi ma ci dicono che dal ministero nessuno si è interessato a venire a fare il collaudo. Una autentica beffa; decine di persone che vivono in condizioni igieniche precarie godono della vista di tanto spazio disponibili e attrezzato alla distanza del loro braccio. A portata di mano ma irraggiungibile una detenzione dignitosa e civile. Il personale carcerario che ci accompagna osserva che anche per loro sarebbe sicuramente più salubre se si utilizzasse la sezione pronta. Si esce dalla sezione, una porta tra la vecchia sezione e la nuova è chiusa. "Cosa c'è li?". "C'è una sala ricreativa per i detenuti, ma è chiusa perché piena delle suppellettili della sezione da collaudare". Un ulteriore sacrifico. Si visitano le cucine nuove. Si chiede di vedere le vecchie. Sappiamo che potrebbero essere disponibili per poter fare dei corsi ai detenuti e che c'è interesse a riguardo. Però anche questi spazi sono occupati da cartoni, tavoli, sgabelli. Ci dicono che anche questi sono spazi che hanno dovuto utilizzare per immagazzinare gli arredi della sezione che deve essere collaudata. Altri progetti che devono aspettare. All'uscita ancora materassi, tavoli e sgabelli ammassati fanno bella vista al sole dietro una vetrata accanto all'ingresso. Ancora arredi della sezione da collaudare. Il carcere sembra trasformato in un magazzino dove ogni spazio è ipotecato dalle lungaggini ministeriali. Ci spiegano che in origine gli arredi delle sezioni erano ammassati tutti nella palestra del personale carcerario ma che per garantire lo standard di benessere hanno dovuta liberare la palestra e trasferire il tutto in altri spazi. Durante la visita si è visto anche altro: i vecchi locali dell'infermeria, gli spazi all'aperto, la sesta sezione in ristrutturazione. Il carcere è sempre sovraffollato. 113 detenuti per 93 posti utili un sovraffollamento del 125%. Si ricordano oltre 250 detenuti di alcuni anni fa e i 200 del 2012 per 100 posti utili. Si è da tempo abituati al peggio, un detenuto in più ogni 5 sembra nulla, ma per chi vive questa realtà e ancora molto. La situazione italiana è di una condizione riconosciuta di cronica emergenza e illegalità delle istituzione in materia carceraria e di violazione dei diritti umani nei confronti dei detenuti. Come è possibile che ci si permetta di negare il già disponibile per alleviare questa condizione, mostrando un disinteresse ad una urgente soluzione da più istituzioni nazionali e internazionali richiesta. Mi chiedo se come cittadino sono complice di questo regime, e tale mi sento. Come Radicale sicuramente no! Reggio Emilia: il vecchio Ospedale psichiatrico giudiziario di Via dei Servi di apre le porte di Cristina Fabbri Gazzetta di Reggio, 14 febbraio 2015 Oltre un secolo di follia e dolore, dal 1896 al 1991: l'Opg di via dei Servi ha mantenuto pressoché intatte le tracce del suo drammatico passato. I portoni robusti delimitano ogni cella. Dagli spioncini pare di scorgere ancora gli internati. Alle finestre ci sono spesse inferriate di ferro: fuori la luce è quasi accecante, doveva esserlo anche a quel tempo, quando il "fuori" pareva un sogno. Nel lungo corridoio di ogni padiglione, sembra di sentire le urla, le stesse che i "vicini di casa" di allora dicevano di udire. Poi la bacheca con le chiavi degli uffici, delle cucine, dei cassetti, delle celle è ancora lì: ci sarà qualche guardia a custodirle? E i registri sul tavolo? Una cassaforte è chiusa a chiave: impossibile aprirla. Poi caldaie, lavandini enormi e tavoli riempiono il refettorio. Anche la cappellina è riconoscibile: vi è una croce sulla parete, croce che avrà sentito non si sa quante preghiere. Ogni padiglione ha il suo luogo per l'ora d'aria: un'area cortiliva trasformata in campetto da calcio. Ci sono le porte disegnate e le panchine. Era il momento sicuramente più piacevole della giornata. Non mancano le torrette, da dove si monitorava dall'alto, e la casa del direttore. Doveva essere piuttosto inquietante stare lì, tra quelle mura, mentre fuori, a pochi passi, Reggio era viva. La via Emilia era piena di gente, i fedeli andavano a messa. Il complesso dell'Opg - compreso tra il controviale della circonvallazione di viale Timavo, via dei Servi e via del Portone - per certi versi pare essersi fermato nel tempo. Per altri, il segno dei giorni, dei mesi e degli anni che l'hanno visto chiuso, si fanno sentire. Eccome. Piccioni morti, escrementi, materassi di qualche senzatetto, lavandini rotti, cappellina usata come deposito, pareti scrostate e porzioni di pavimento collassate. Infiltrazioni d'acqua, fili scoperti. Ci sono anche resti di usi successivi: pannelli appesi al soffitto ricordano che in uno dei quattro padiglioni si è svolta una mostra; un bancone da bar ricorda serate e vita post Opg, un maxi schermo mostra che l'ex cappella per un periodo è diventata un cinema. Questo luogo trasuda dolore. Dolore per quello che è stato. Dolore perché ora è vuoto e chissà se troverà mai una seconda vita, auspicabilmente migliore. Valerio Bussei, dirigente del Servizio infrastrutture della Provincia, e l'architetto Fiorenzo Basenghi, responsabile dell'Unità operativa del Patrimonio Storico ci spiegano un po' la sua storia. "L'imponente edificio - dice Basenghi - è nato come convento ad opera dei Padri della Missione e figura già esistente nel 1675". Le cose poi cambiarono nel 1796: "il convento venne incamerato dal Demanio e convertito in carcere correzionale poi, nel 1896, venne trasformato in Opg. Nel primi decenni del 900 vennero costruiti quattro padiglioni quadrangolari e l'alloggio del direttore". Nel ‘91 sorse il nuovo Opg e fu la fine del vecchio. "L'ex Opg nel 2001 - ricorda Bussei - venne acquistato dalla Provincia per realizzarci degli uffici ma poi le cose cambiarono e la situazione attuale...beh la conosciamo tutti". Negli anni sono stati fatti diversi interventi: "in particolare alla parte esterna, per evitare cadute di calcinacci o quant'altro". "Ad oggi - prosegue Basenghi - è stato dichiarato inagibile ed è stato inserito tra gli immobili da alienare, pur con diversi vincoli da rispettare". Ecco dunque che l'ex Opg aspetta un acquirente mentre resta lì, vuoto, freddo, trasudante di storia. Che ne sarà dell'ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario di vicolo dei Servi? "Vendesi" è la risposta. "Comprasi" non si sa. Il complesso, che è un pezzo di storia della nostra città, da tempo se ne sta chiuso lì, con ancora ben visibili i segni di quello che è stato, testimone silenzioso di un'epoca neanche troppo lontana. Prima convento, poi carcere correzionale e in seguito Opg fino agli anni 90, quando venne trasferito in via Settembrini, fuori dalle mura del centro. Dal 2001 la proprietaria del complesso di vicolo dei Servi è la Provincia: lo acquistò per realizzarci degli uffici. Questo intervento sarebbe costato circa 20 milioni di euro. Poi tutto saltò. Seguì qualche apertura sporadica, tra visite guidate, serate di musica e mostre, ad esempio nel 2007 per Fotografia Europea. Fino al disuso totale. E ora le cose come stanno? "Il periodo non semplice ci vede costretti a fare certe scelte - risponde il presidente Giammaria Manghi -, pensiamo dunque a una dismissione immobiliare, consapevoli che siamo di fronte a un pezzo di storia della nostra città". Insomma, le sorti dell'edificio situato dietro alla Basilica della Ghiara e vicino al palasport, vanno viste dentro la situazione attuale delle Province, "che hanno un'identità ridefinita e sono prive di ogni risorsa per realizzare interventi". Ecco allora che - in un momento in cui gli Opg in Italia sono solo sei (uno di questi è a Reggio) e in vista della loro chiusura definitiva - l'ex Opg non conosce il suo destino a parte il fatto che "non sono previste azioni di recupero" per lui. Questo perché la Provincia "ha bisogno di effettuare una dismissione patrimoniale per fare cassa". La superficie abitabile complessiva è di 6.945 mq e quella non abitabile di 5.020, per un totale di 11.965 mq. "Non sarà semplice vendere - incalza Manghi - è una struttura vasta, in una zona particolare essendo in pieno centro storico e recuperarla non è cosa facile. Chiamati a un piano di riorganizzazione obbligatorio, come Provincia opereremo per mettere la struttura a capitale al fine di recuperare risorse utili per fare investimenti sulle scuole, sulle strade e per la difesa del territorio, ad esempio per risolvere problemi di dissesto idrogeologico". Insomma, per questioni prioritarie. Il valore della struttura è consistente, "diversi milioni di euro", e al momento "nessuno si è fatto avanti concretamente". O meglio "ci sono solo valutazioni informali in atto", conclude Manghi. Niente di scritto o deciso nero su bianco, in sostanza. Che qualcuno si sia fatto avanti con l'idea di recupero lanciata dal patron della Pallacanestro Reggiana Stefano Landi per il nuovo palasport? Non ci resta che stare a vedere. Al momento, su questo, bocche cucite. Dal piano di fattibilità fatto con la Sovrintendenza, però sono più altre le ipotesi. Come evidenzia l'architetto Fiorenzo Basenghi responsabile dell'Unità operativa del Patrimonio Storico della Provincia: "Per l'ex Opg va rispettato il vincolo storico-architettonico cui è sottoposto, ovvero non può essere abbattuto ma restaurato e ristrutturato". Quindi cosa potrebbero sorgervi? "Ad esempio delle residenze, potrebbe diventare un centro sanitario, potrebbe essere usato per degli uffici o diventare un museo". L'Ospedale Psichiatrico Giudiziario reggiano venne aperto nel 1896 per sottrarre al carcere chi aveva commesso reati ed era riconosciuto come folle. La legge del 1904 diede poi ai manicomi la responsabilità della cura di buona parte di quei pazienti, ricoverati in appositi reparti: è il caso del padiglione Lombroso al San Lazzaro. Le cose cambiarono col Codice Rocco (1930): tutte le persone prosciolte, impazzite in carcere, seminferme o in attesa di giudizio vennero ricoverate negli Opg. Al tempo del nazifascismo nel Carcere Dei Servi vennero imprigionati e torturati oltre 500 prigionieri . Da qui passarono anche i fratelli Cervi prima della loro morte. Si ricorda che Casa Cervi venne messa a ferro e fuoco dai fascisti la notte fra il 24 e il 25 novembre 1943. I sette fratelli, il padre, Quarto Camurri, catturati, verranno portati al carcere dei Servi. Tutti gli stranieri, che in quella notte ospitavano in casa, verranno invece trasferiti alle carceri di Parma. I sette fratelli Cervi verranno poi fucilati senza processo all'alba del 28 dicembre 1943, al Poligono di tiro di Reggio, insieme a Quarto Camurri. La storia dei fratelli Cervi e quella di Quarto Camurri sono solo due esempi di quanto avvenne tra queste mura. Mura piene di storie che hanno segnato la storia della nostra città. Quando il vecchio Ospedale Psichiatrico Giudiziario di vicolo dei Servi venne chiuso, nel 1991 i pazienti vennero trasferiti in via Settembrini. Ad oggi quello di Reggio è uno dei sei attivi in Italia. Ma nel 2010 una commissione del Senato, dopo una visita ai sei Opg, ne denunciò le condizioni inaccettabili. Ciò favorì la promulgazione nel 2012 di una legge che prevede il superamento degli Opg entro il 31 marzo 2013 e che ogni Regione provveda all'uso di Residenze per l'Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems). Il termine per il superamento degli Opg è stato fissato, dopo una promulgazione, al 31 marzo 2015. Reggio si sta attrezzando in merito. Alcuni riferimenti si hanno verso la metà del Settecento quando nel 1751 l'architetto Giambattista Cattani detto Cavallari ricostruisce il complesso conventuale e i padri chiudono a proprio vantaggio la parte terminale di via Franchi ove si apre anche l'odierno accesso. L'impianto assume una caratteristica forma ad "U" aperta verso sud e via del Portone. Una cortina edilizia costituita da fabbricati privati fronteggia il complesso in prospetto di via Chierici - ad est - che unisce appunto via dei Servi a via del Portone. Ancora nel 1760 si chiede licenza di costruire un atrio d'ingresso alla loro casa occupando altre dieci braccia circa di strada. Nel 1796 il convento è incamerato dal Demanio convertito dapprima in carcere Correzionale ed in seguito adibito ad Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Alcune planimetrie redatte dall'Ing. Pietro Marchelli nel 1852 ci documentano lo stato dei luoghi al tempo e un progetto di riduzione di parte dello stesso. Il catasto unitario di primo impianto del 1880 certifica l'area limitata verso ponente dalle vecchie mura urbane. L'espansione con i quattro corpi di fabbrica quadrangolari avviene nei primi decenni del Novecento. I quattro padiglioni più recenti, organizzati in un piano rialzato, interrato e sottotetto, risultano definiti da murature perimetrali in elementi laterizi pieni e malta di calce, con strutture interne costituite da pilastri laterizi e sovrastanti volte con archi di rinforzo nell'interrato, setti laterizi con distribuzione scatolare con volte a botte centrale ed a crociera ribassata laterali al piano rialzato e da setti trasversali e pilastri nel sottotetto, con copertura ad orditure lignee con falde con distribuzione a padiglione. È da rilevare che le murature di fondazione risultano eseguite con ottima tecnica costruttiva, tendente a conservare integralmente le caratteristiche meccaniche originarie. La palazzina residenziale denominata "ex alloggio del direttore" posta in fregio al complesso di antico impianto è caratterizzata da uno sviluppo planimetrico ad "L" tozza, con i lati principali rispettivamente pari a 17.50 e 12.10 metri ca.. In elevazione presenta un piano terra, due orizzontamenti praticabili, un terzo orizzontamento di sottotetto e l'impalcato di copertura, a due falde; risulta presente anche un livello interrato, che si sviluppa per solo una quota parte della pianta. Lamezia (Cz): il Sindaco scrive al ministro Orlando "trovare una soluzione per il carcere" Ansa, 14 febbraio 2015 Il sindaco di Lamezia Terme, Gianni Speranza, "dopo essersi rivolto nei giorni scorsi - è detto in un comunicato - al Capo Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, e al Direttore generale del Dipartimento, Luigi Pagano, lamentando la mancanza di dialogo tra l'Amministrazione penitenziaria e la Città di Lamezia e la situazione veramente kafkiana verificatasi in cui il carcere non funziona dal 28 marzo dell'anno scorso allorquando i detenuti sono stati trasferiti altrove, ha scritto nuovamente al Ministro della Giustizia ed a tutti i parlamentari calabresi per sollecitare una soluzione positiva per la casa circondariale di Lamezia Terme". "Le segnalo nuovamente - scrive Speranza al ministro Orlando - la situazione della casa circondariale della mia città. Da quando sono stati trasferiti tutti i detenuti presenti nella struttura, senza nessun intesa con le istituzioni locali e senza nessun preavviso, è quasi passato un anno e dopo le prime rassicurazioni nulla si è risolto: non è stato trasferito il Provveditorato regionale nei locali di proprietà dell'Amministrazione penitenziaria e, tra l'altro, da poco oggetto di significativi lavori di restauro, non è stata riavviata l'attività della casa circondariale, né si è provveduto a farne sede logistica della polizia penitenziaria". "Già nella mia prima lettera - afferma ancora il sindaco di Lamezia - le chiedevo un intervento, cosa sollecitata anche nell'incontro avuto con il Sottosegretario Cosimo Maria Ferri e con il Provveditore regionale dell'Amministrazione penitenziaria, Salvatore Acerra, e addirittura ancora prima segnalata all'allora Capo Dipartimento, Giovanni Tamburino. La nostra città, che è sede di Procura e Tribunale, e nel quale sono in corso processi rilevanti anche di criminalità organizzata, non ha quindi più né la sua casa circondariale, né un presidio adeguato dell'Amministrazione penitenziaria. I disagi per gli operatori e per i familiari dei detenuti sono evidenti e le ripercussioni negative sulla città altrettanto. So bene che soprattutto negli ultimi mesi le vicende politiche e istituzionali hanno conosciuto ben altre priorità. Ritengo però sia ormai arrivato il momento di prendere una decisione positiva rispetto ad una situazione che si trascina da troppo tempo". Ai parlamentari calabresi il Sindaco di Lamezia chiede "di sostenere le richieste dell'Amministrazione comunale e quelle dei sindacati affinché la città non perda un importante ed indispensabile presidio di sicurezza in un territorio così difficile". Avellino: Uil-Pa; bombolette di gas esplodono in una cella, forse per tentativo di evasione www.irpinianews.it, 14 febbraio 2015 Undici bombolette di gas del tipo usato per i fornellini da campeggio sono esplose questa mattina intorno alla 5.00 nella cella n. 8 del Piano Terra destro della Casa Circondariale di Avellino. Nella cella erano ubicati due detenuti e nelle operazioni di soccorso è rimasto lievemente ferito un agente penitenziario che espletava il turno notturno. Sul posto si è recato il Direttore del carcere, Paolo Pastena, ed è intervenuta anche una squadra dei Vigili del Fuoco. Eugenio Sarno, Segretario Generale della Uil-Pa Penitenziari aggiunge: "Le cause dell'esplosione sono ancora tutte da accertare anche se pare farsi strada una pista dolosa, appalesata anche dai Vigili del Fuoco. Le bombolette, infatti, erano state accatastate in un luogo prospicente del muro della cella. Questo, ma è ancora tutto da verificare, potrebbe dar corpo anche all'ipotesi di un clamoroso tentativo di evasione. Attendiamo gli esiti delle indagini per comprendere l'esatta dinamica dei fatti In ogni caso il personale in servizio è prontamente intervenuto per portare in salvo i detenuti e spegnere il principio di incendio. Proprio in questa fase - spiega Sarno - una bomboletta è esplosa procurando lievi ustioni e ferite ad un agente penitenziari che, dopo le prima cure presso l'infermeria del carcere, è stato trasportato in ospedale per ulteriori accertamenti. A lui vanno i nostri sentimenti di vicinanza e gli auguri di immediata guarigione". "L'uso delle bombolette di gas è ordinario nelle strutture penitenziarie italiane. Esse sono in dotazione ai detenuti per consentire loro la preparazione dei pasti. Spero che questo episodio non dia la stura a strumentalizzazioni di sorta, come spesso è accaduto quando le bombolette sono state usate per compiere suicidi in cella o usate per inalare gas. Piuttosto occorre chiedersi se non sia il caso di impedire un eccessivo accumulo in cella, ancor più in considerazione che ad Avellino i locali destinati alla preparazione dei pasti sono angusti e ricavati nei locali dei bagni. Purtroppo in quasi la totalità delle strutture penitenziarie italiane - sottolinea amaramente il Segretario Generale della Uil-Pa Penitenziari - i detenuti sono costretti a cucinare laddove vanno ad urinare o defecare. Questo per dire quanto in Italia siamo ancora lontani dal risolvere, in tema di dignità della detenzione, la grave questione penitenziaria". Forlì: rinnovati i Protocolli di intessa per i Laboratori produttivi in carcere www.forlitoday.it, 14 febbraio 2015 "Il rinnovo di questi Protocolli è una importante vittoria per tutto il nostro territorio - sottolinea Benvenuti - che si dimostra capace di lavorare in rete su un tema complesso come quello del carcere, ottenendo risultati concreti in termini di inserimenti occupazionali e obiettivi rieducativi". Dentro e fuori dal carcere danno vita ai tre Laboratori, metalmeccanico, di cartiera e di recupero dei rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche. Sono stati rinnovati i protocolli che permettono ai detenuti del carcere di Forlì di ritrovare il senso del dovere e della legalità. A sottoscriverli Davide Drei, presidente della Provincia di Forlì-Cesena; Raul Mosconi, assessore alle Politiche sociali del Comune di Forlì; Antonio Nannini, segretario generale della Camera di Commercio, Palma Mercurio, direttore della casa circondariale di Forlì; Lia Benvenuti, direttore generale Techne, Gianluca Vincenzi, presidente Unione Rubicone e Mare, e Fausto Pecci, responsabile Servizi Ambientali area Romagna di Hera Spa. "I tre laboratori - spiega Mercurio - hanno occupato fin dal 2006 oltre 50 detenuti, dimostrandosi uno strumento importante di riscatto sociale per le persone in carcere, che si vedono offrire una seconda possibilità, imparano un mestiere e ritrovano il senso della giustizia". Il carcere di Forlì ospita ad oggi 110 persone, il 50 per cento delle quali è ancora in attesa di giudizio; possono entrare a far parte di iniziative rieducative e professionalizzanti quali i laboratori solo coloro che risultano con una pena definitiva. "Laboratori come questi - chiarisce Drei - non solo rappresentano un momento importante per il rinserimento dei detenuti nella vita sociale ma dimostrano anche che unendo profit e no profit si possono raggiungere risultati importanti per la comunità". Metalmeccanica - Il laboratorio di metalmeccanica, Altremani, nato nel 2006, si occupa di assemblaggio per conto di Mareco Luce e Vossloh Schwabe che, dimostrando una forte responsabilità sociale, forniscono importanti commesse indispensabili alla sostenibilità del laboratorio stesso. Inoltre, Il Laboratorio che occupa attualmente 5 detenuti facenti capo alla Cooperativa "Lavoro Con" raggiunge quotidianamente indici produttivi soddisfacenti e una buona qualità nelle lavorazioni. Tra i firmatari anche la Cooperativa Sociale Lavoro Con; la Mareco Luce; Vossloh Schwabe; Direzione Territoriale del Lavoro; Unindustria Forlì-Cesena; Confcooperative Forlì-Cesena; e Techne Scarl. Recupero rifiuti - Il Laboratorio di recupero Raee, nato nel 2009, si occupa del recupero di apparecchiature elettriche ed elettroniche che provengono dalle isole ecologiche del territorio. Il Laboratorio, gestito dalla Cooperativa sociale Gulliver, occupa un detenuto e svolge le sue attività all'esterno del carcere nella sede di Vecchiazzano della cooperativa. Tra i firmatari anche lìUfficio Esecuzione Penale Esterna di Bologna, la direzione territoriale del Lavoro di Forlì-Cesena, l'ufficio scolastico provinciale di Forlì-Cesena, l'Ausl della Romagna, la consigliera di Parità di Forlì Cesena, la Cooperativa Sociale Gulliver, Consorzio Ecolight, Cclg Spa, Cna Forlì-Cesena, Legacoop Romagna, Confcooperative Forlì Cesena, Techne Scarl. Concorrono poi alcuni partner trasversali che sono: Regione Emilia Romagna, Provveditorato regionale Amministrazione Penitenziaria di Bologna, Gruppo Hera Spa. Mano Libera - Il laboratorio Manolibera, nato nel gennaio 2011, produce carta artigianale realizzata secondo una tecnica di lavorazione arabo-cinese del tutto naturale che si basa sullo spappolamento e l'omogenizzazione della carta di recupero. Ad oggi il laboratorio ospita 4 detenuti. Tra i firmatari del Laboratorio Manolibera l'amministrazione Penitenziaria del carcere di Forlì; la direzione territoriale del Lavoro di Forlì Cesena; il Comieco (Consorzio Nazionale Recupero e Riciclo degli Imballaggi a base Cellulosica); la Cooperativa Cils; la Legatoria Berti Srl; e Techne scarl. "Il rinnovo di questi Protocolli è una importante vittoria per tutto il nostro territorio - sottolinea Benvenuti - che si dimostra capace di lavorare in rete su un tema complesso come quello del carcere, ottenendo risultati concreti in termini di inserimenti occupazionali e obiettivi rieducativi". Monza: delegazione Lega Nord in visita al carcere "bisogna tutelare di più gli agenti" di Jessica Signorile www.monzatoday.it, 14 febbraio 2015 Agevolazioni e indennizzi per gli agenti della polizia penitenziaria e denuncia delle problematiche quotidiane: "C'è chi si interessa di far avere gli 8 euro al giorno ai carcerati e chi invece punta agli agenti". È questa la richiesta che arriva unanime dalla voce dei rappresentanti della Lega Nord del territorio che venerdì pomeriggio si sono recati nella casa circondariale di via Sanquirico a Monza, dove hanno incontrato i dirigenti della struttura e appurato con i loro occhi lo stato delle carceri nelle quali le guardie sono costrette ogni giorno a operare. "Il senso della nostra visita qui oggi", ha esordito il segretario cittadino del Carroccio Federico Arena, "è quello di capire in che condizioni lavorano gli agenti della polizia penitenziaria, non denunciare lo stato in cui si trovano i detenuti". "C'è chi si interessa di far avere gli 8 euro al giorno ai carcerati e chi invece punta agli agenti" ha spiegato Arena. La volontà di verificare personalmente le problematiche sollevate attraverso diverse segnalazioni e farsi tramiti di una denuncia di categoria per portare le istanze e le richieste provenienti dal territorio al governo o in regione e nei consigli comunali ha riunito a Monza l'onorevole Paolo Grimoldi, il capogruppo della Lega Nord in consiglio regionale Massimiliano Romeo e i consiglieri comunali del Carroccio Simone Villa e Alberto Mariani insieme al segretario monzese Federico Arena. Tra i disagi denunciati ci sono i problemi strutturali legati alle caserme e alla mensa oltre alla questione degli alloggi di servizio in uso agli agenti che già in passato aveva suscitato polemica per la contrarietà degli agenti alla richiesta di un canone per l'utilizzo. Nello specifico caso della mensa invece si lamenta un servizio al ribasso che non tiene conto della qualità dei pasti consumati e la presenza di infiltrazioni in diverse aree del locale. L'impegno che la Lega Nord ha deciso di assumersi a livello comunale è la richiesta in sede di consiglio di agevolazioni per gli agenti della polizia penitenziaria per garantire loro i medesimi benefici di cui godono le altre forze di polizia. Mentre per gli agenti penitenziari si chiedono maggiori tutele, affrontando il discorso detenuti i toni e le rimostranze cambiano registro. "La metà dei detenuti presenti all'interno del carcere, da quanto abbiamo visto oggi, sono immigrati" ha dichiarato Grimoldi, sottolineando come i provvedimenti "svuota carceri" abbiano portato a una diminuzione di detenuti che si è tradotta in conseguenze negative in termini di "parametri di sicurezza e legalità sul territorio". Secondo il consigliere comunale Mariani la facilità con cui malviventi arrestati e condannati vengono rimessi in libertà è direttamente collegata, dati sulla criminalità a Monza alla mano, all'aumento del numero di furti in città e in provincia. A non andare giù alla Lega Nord però c'è anche la questione relativa all'esenzione dal ticket prevista per i detenuti, che non pagano esami e visite indipendentemente dal reddito proprio o della famiglia. "Perché un cittadino onesto invece lo deve pagare?" - domanda il segretario cittadino Arena -"Questa esenzione non ha motivo di esistere per correttezza nei confronti della gente per bene". Treviso: la Bottega Grafica dell'Ipm nel progetto vincitore Premio "Cittadino d'Europa" Ristretti Orizzonti, 14 febbraio 2015 Il prossimo 26 febbraio la Bottega Grafica dell'Istituto Penale Minorile sarà al Parlamento Europeo per ricevere il premio "Cittadino d'Europa". Il premio viene assegnato ogni anno a cittadini, gruppi o organizzazioni che si sono distinti in attività di cooperazione culturale transnazionale che traducono in pratica i valori sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea contribuendo così a rafforzare lo spirito europeo. La Bottega Grafica viene premiata con il progetto Sos Scuola del quale ha realizzato il logo, la grafica promozionale e contribuito con idee e proposte di attività in tema di cittadinanza, cooperazione ed educazione civica. Il logo riprende la vicenda dei due adolescenti africani Yaguine e Fodè che volevano portare una lettera ai "Signori d'Europa" nella quale a nome di tutti i bambini del sud del mondo chiedevano "noi vogliamo studiare, vi chiediamo di aiutarci a studiare per essere come voi". Il 2 agosto 1999 si sono nascosti nel vano carrello di un aereo, immaginando il momento in cui avrebbero consegnato la loro missiva al Parlamento Europeo; sono stati ritrovati morti assiderati all'aeroporto di Bruxelles dove l'aereo era atterrato. Nel logo, che ha la forma di un francobollo, è rappresentato un piccolo aereo destinato a portare in tutto il mondo la lettera ed il sogno di Yaguine e Fodè. Il progetto "Sos", acronimo di "Scambiamoci Orizzonti per Sognare", si pone come obiettivo quello di cooperare dal basso per rigenerare le scuole, senza sostituirsi a quanti sono chiamati a mettere in sicurezza gli edifici scolastici e a tutelare l'istruzione tutta. Sos Scuola promuove forme di economia relazionale che contribuiscono a rigenerare le scuole ed a trasformarle in laboratori permanenti di creatività, diritti, integrazione e multiculturalismo. La Bottega Grafica ha partecipato ai due progetti realizzati da Sos Scuola nel 2014 in altrettante scuole italiane. Nell'Istituto Comprensivo Statale di Arsoli (Rm) è stata avviata la riqualificazione degli spazi interni dell'Istituto con laboratori di disegno e partecipazione che hanno messo in relazione la scuola con il territorio, creando una struttura permanente di volontari che ideano e programmano progetti culturali e sociali. Nel Liceo Linguistico N. Cassarà di Palermo è stato realizzato un cantiere creativo a cui hanno partecipato studenti italiani, francesi, spagnoli e cinesi (dal 21 al 31 luglio 2014) che ha trasformato il Liceo in un piccolo museo grazie in particolare al gemellaggio con il Liceo Artistico Guggenheim di Venezia ed alla partecipazione di artisti di fama nazionale. Il premio "cittadino d'Europa" sarà un altro importante tassello dell'attività della Bottega Grafica che lo scorso mese ha realizzato anche il disegno del primo annullo filatelico dell'anno emesso dalle Poste in occasione della Festa del radicchio rosso svoltasi a Dosson. La Bottega Grafica da più di 10 anni realizza gratuitamente loghi, brochure e altro materiale promozionale per enti pubblici ed organizzazioni del volontariato e del terzo settore. Massa: visita il cugino in carcere, a processo perché non ha specificato grado di parentela Il Tirreno, 14 febbraio 2015 Era andata in carcere, a Massa, a trovare un parente (all'epoca dei fatti, nel novembre del 2012, detenuto). E nel foglio di autocertificazione, per accedere al parlatorio, si era qualificata come "cugina". In realtà era cugina sì, ma di secondo grado, del detenuto. E questo è bastato a fare finire a processo, per falsa dichiarazione nell'autocertificazione, Eliana Brizzi (difesa dall'avvocato Carlo Boggi). In tribunale, davanti al giudice Cristina Ponzanelli, sono stati sentiti proprio gli addetti al carcere. Quelli davanti ai quali la signora finita sotto accusa aveva compilato e firmato il modulo per l'autocertificazione. Non specificando al meglio il grado di parentela che la legava al detenuto. O meglio identificandosi come semplice cugina, e non specificando il secondo grado. "La signora ha compilato il modulo di autocertificazione davanti a noi, lo ha firmato e ce lo ha consegnato": questo hanno riferito gli agenti della polizia penitenziaria. Bollate (Mi): "Amazing Grace" dietro le sbarre, concerto del gruppo irlandese ShamRock di Elisabetta Longo Tempi, 14 febbraio 2015 Si può essere un gruppo affiatato, con tanti live alle spalle, scalette rodate e strumenti musicali consumati, ma ci sono concerti che sono più speciali di altri. La ShamRock band (but no really folk) è un gruppo di musica irlandese, composto da sette musicisti, amici da tempo, con un gran trascorso di concerti in molte parti d'Italia. Qualche settimana fa il gruppo è stato contattato da Alessandro Venuto, dell'associazione "Progetto per la liberazione nella prigione". Alessandro ha chiamato gli Shamrock perché facessero un concerto nel carcere di Bollate, per una platea di un centinaio di uomini e donne che stanno lì scontando la propria pena. "Alessandro aveva organizzato una serie di incontri su san Francesco e pensava che noi avremmo potuto tenere l'ultimo, quello di chiusura", racconta Giorgio Natale, voce e chitarra degli ShamRock. "Cosa c'entra san Francesco con la musica irlandese? In effetti nulla, ma il santo d'Assisi amava talmente la musica da avere scritto il Cantico delle Creature. Sapeva che la musica è in grado di raccontare molto di più di tante parole. Allo stesso modo la musica irlandese, per Alessandro, poteva essere uno strumento efficace per tenere compagnia al cuore dei detenuti". Già nell'estate del 2012 gli ShamRock si erano esibiti in un carcere, ma era quello di San Vittore. Era un pomeriggio parecchio caldo, nello spiazzo aperto della struttura e i detenuti erano pochi. A Bollate invece la band si è potuta esibire su un palco vero e gli spettatori sono un centinaio, seduti nelle loro poltroncine. "Non è come suonare in un pub, dove la gente beve e ci ascolta già predisposta a divertirsi e a ballare. Lì era evidente che la fiducia del pubblico ce la dovevamo conquistare. Sono serviti parecchi pezzi prima di farli sciogliere", racconta Stefano Rizza, al banjo. "Il modo in cui ci hanno stretto le mani alla fine della nostra esibizione ci ha mostrato che li avevamo convinti. Qualcuno probabilmente sarà tornato in cella canticchiando, raccontando il concerto ai compagni che non avevano potuto presenziare". La scaletta è quella di sempre, composta da brani famosi del repertorio folk, ma è il contesto a renderli diversi, spiega Stefano: "Amazing Grace è stato un momento molto coinvolgente. Abbiamo fatto una piccola introduzione, raccontando chi era John Newton, l'autore, uno spietato capitano di navi negriere. Che si era convertito, e aveva scritto Amazing Grace durante una tempesta terribile. Nella platea molti hanno annuito, facendoci capire di avere già sentito quella storia e quelle parole. Molti dei detenuti di fronte a noi era infatti di origine sudamericana, dove il canto è molto popolare". Giorgio ricorda bene che cantavano anche alcune donne, di origine africana: "Cantavano a occhi chiusi, come si fa in un gospel. Sembravano per un attimo trovarsi da un'altra parte, con un'altra vita". Ai concerti di musica irlandese, principalmente, si balla. Sembrava difficilissimo non riuscire a farlo anche nel carcere di Bollate, e così Giorgio ha chiesto il permesso alle guardie di far salire sul palco qualcuno del pubblico, sia uomini che donne. "In carcere non si possono incontrare detenuti uomini e donne, per cui all'inizio le guardie hanno dato l'ok, ma solo per quanto riguardava il pubblico maschile. E i detenuti, che erano entusiasti di poter finalmente alzarsi dalla sedie, lì per lì hanno detto di no, che si vergognavano a ballare solo tra uomini, erano intimoriti. Poi hanno fatto salire anche un paio di ragazze, e tutto è diventato più spontaneo. È la forza della musica, che unisce in qualsiasi latitudine o situazione ci si trovi". Castrovillari (Cs): in mostra al Castello Aragonese documenti relativi alla vita carceraria www.strill.it, 14 febbraio 2015 Alcuni documenti relativi alla "vita carceraria" a cui era adibito il Castello Aragonese di Castrovillari, concernenti il periodo che va dal 1861 al 1879, rinvenuti casualmente nel maniero qualche mese fa, prossimamente potrebbero essere osservati in una mostra che verrebbe curata dall'Archivio di Stato e dall'Associazione culturale Sifeum. Proprio alcuni soci di questa, che da qualche anno cura la fruizione dell'antico maniero in sinergia con il Servizio di Promozione Culturale del Comune di Castrovillari, furono gli artefici, a novembre scorso, della fortunata scoperta (comunicata immediatamente pure all'ente) durante un servizio di pulizia degli ambienti in preparazione di un evento. Uno di quelli che ormai da tempo prendono vita nel Castello dopo il suo recupero. Il materiale cartaceo, fogli sparsi, già fruibile presso l'Archivio dopo essere stato opportunamente riordinato in fascicoli e inventariato da Concetta Micciullo, Rosetta De Biase, Francesca Mortati e Rosina Romeo della Sezione di Castrovillari, venne trasmesso all'Archivio di Cosenza ed al Ministero competente per gli opportuni adempimenti. Negli atti sono trascritti i rapporti giornalieri dei guardiani, i certificati di carcerazione e scarcerazione, gli elenchi degli addetti ai servizi domestici, richieste particolari (come i permessi ai notai di entrare in carcere), il rilascio dei certificati sanitari, il registro dei conti, i movimenti mensili dei detenuti, la consegna sempre di questi alle guardie ed ai carabinieri reali, riferimenti dei movimenti dei detenuti e gli elenchi dei carcerati rilasciati in libertà. Il fondo aiuterà a configurare meglio , secondo i ritrovatori e gli addetti, il quadro del complesso archivistico che ricostruisce la vita dello stesso il quale risulta ancor più importante per la storia della città e per l'antico carcere giudiziario, a cui fungeva il maniero, tenuto conto che si riferisce ad anni dopo l'Unità d'Italia e interessa la vita quotidiana dei detenuti e l'attività amministrativa e carceraria dell'epoca. Unione Europea: con l'Operazione "Mos Maiorum" in carcere 19mila migranti innocenti di Damiano Aliprandi Il Garantista, 14 febbraio 2015 Ora abbiamo i numeri. L'operazione Mos Maiorum è stata una terribile, e senza precedenti, maxi retata nei confronti degli immigrati. La vasta operazione poliziesca europea capitanata dall'Italia, avvenuta nelle due settimane dell'ottobre scorso, ha provocato ben 19.000 arresti. La maggior parte degli arrestati sono immigrati clandestini che non hanno commesso nessun reato. A denunciarlo è stata l'associazione umanitaria londinese Statewatch. Secondo l'associazione, che ha messo a confronto i report finali delle ultime operazioni, il numero dei fermati è raddoppiato rispetto alla precedente operazione Perkunas (10.459 fermi in due settimane), e addirittura quadruplicato in confronto all'operazione del 2012, Aphrodite (5.298 fermi in due settimane). Proprio nel report finale dell'operazione Mos Maiorum, redatto dal Consiglio d'Europa, si evidenzia che "i cittadini siriani sono stati quelli maggiormente identificati (5.088 persone), seguiti da afghani (1.466 persone), serbi (in particolare kosovari, 1.196) ed eritrei". Poco più di 11mila le richieste di protezione internazionale presentate dopo l'intercettazione dagli stranieri controllati. Il report non esplicita invece, esattamente come i documenti relativi alle precedenti operazioni, il numero degli agenti coinvolti. Piuttosto, sottolinea che "per motivi sconosciuti Mos Maiorum ha catturato l'attenzione dei mass media, che hanno etichettato l'operazione come un'azione finalizzata all'arresto dei migranti, nonostante gli obiettivi fossero l'individuazione di reti criminali coinvolte nel favoreggiamento dell'immigrazione irregolare e il monitoraggio dei percorsi usati dai trafficanti. Un obiettivo raggiunto, visto che sono stati fermati 257 trafficanti", si legge sempre nel report. Il dato parla da solo: sui 19.000 arrestati, chi ha commesso reati sono solo 257. Del resto, lo stesso Statewatch sottolinea che nel documento di avvio dell'operazione di polizia uno degli obiettivi dichiarati era proprio "arrestare i migranti irregolari". Inoltre, un'altra critica mossa dai media all'avvio di Mos Maiorum riguardava il rischio di incorrere in quello che in inglese viene definito racial profiling, di fatto una schedatura su base etnica. Un rischio che almeno sulla carta si era cercato di evitare: con l'avvio dell'operazione si raccomandava agli Stati partecipanti - tutti i membri dell'Unione Europea, ad eccezione di Croazia, Grecia e Irlanda - di "portare avanti le attività nel pieno rispetto della dignità umana, mantenendo i più alti standard di professionalità e rispetto dei diritti umani, evitando ogni trattamento discriminatorio e avendo cura dei bisogni speciali dei gruppi vulnerabili". Raccomandazioni che, stando a quanto riportato da Statewatch, non sembrano essere particolarmente servite: riprendendo alcune delle segnalazioni raccolte tramite la campagna Map Mos Maiorum, l'associazione evidenzia che nelle operazioni di controllo e fermo ci sarebbe stata una forte presenza, da parte delle forze dell'ordine, di comportamenti discriminatori e stigmatizzanti. Un gruppo di europarlamentari, tra cui l'italiana Barbara Spinelli, ha scritto una lettera aperta criticando "lo scaricamento di responsabilità messo in atto dal Consiglio d'Europa": alle richieste di chiarimento su Mos Maiorum, il Consiglio avrebbe risposto che l'operazione è stata condotta sotto la responsabilità del governo italiano. In realtà, come ricordato dagli europarlamentari, l'operazione di polizia europea fu lanciata a ottobre dalla presidenza italiana, allora a capo del semestre di presidenza del Consiglio d'Europa, e l'operazione Mos Maiorum fu concordata durante la definizione del programma di lavoro del Consiglio. Infine, come sottolineato anche da Asgi - che definì l'operazione "un'azione miope e disumana" - secondo quanto contenuto nella proposta trapelata lo scorso 10 luglio gli Stati membri dovevano confermare la propria partecipazione anche al Segretariato generale del Consiglio: un aspetto che conferma il coinvolgimento dell'istituzione europea in questa operazione. Ricordiamo che sempre la Spinelli della Sinistra unitaria europea, aveva denunciato in particolare che Mos Maiorum si trattava di un'operazione in cui vengono "profilati" gli immigrati irregolari procedendo alla loro identificazione "con l'autorizzazione anche a usare la violenza se necessario", secondo documenti della polizia di cui l'europarlamentare ha detto di essere in possesso. "È difficile non chiamarla per quello che è, una retata". E la denuncia dell'associazione Statewatch lo ha confermato: si è trattato di una vera e propria retata. Ricordiamo che dopo questa operazione, a novembre si è dato il via ad una nuova missione europea, sempre sotto la guida italiana, con effetti disastrosi. Si chiama "Triton", altro nome classicheggiante per dare vita al controllo delle frontiere e la lotta all'immigrazione irregolare. L'operazione Triton, attualmente operativa, è ben spiegata da un documento visionabile dove delinea "Triton" come un rinforzo di Hermes, dispositivo lanciato il 1 marzo 2014 finalizzato a controllare e combattere l'immigrazione irregolare proveniente da Algeria, Egitto, Grecia, Libia e Tunisia. Nel concreto, il "rinforzo" è costituito da due aerei, un elicottero, due motonavi, due imbarcazioni leggere, sette team di esperti dell'agenzia europea, per un totale di 2.300.000 euro al mese. A La preoccupazione espressa da vari organismi umanitari, compresa Amnesty International, è quella della sostituzione di Mare Nostrum con l'operazione Triton. L'Europa non sembra dunque intenzionata a portare avanti "l'immenso lavoro fatto dall'Italia con l'operazione Mare Nostrum salvando migliaia di persone", come dichiarava la commissaria Ue Cecilia Malmstrom. Anzi: il documento dell'operazione Triton sottolinea come le navi dell'operazione Mare Nostrum abbiano potuto incoraggiare l'arrivo di migranti. La soluzione? Secondo le linee guida del documento, consisterebbe nel limitare l'aria di intervento dell'Unione: i mezzi navali di Triton si fermeranno a 30 miglia dalle coste italiane, cioè oltre 100-140 miglia più a nord dell'attuale pattugliamento condotto da Mare Nostrum. Solo i mezzi aerei si spingeranno più a sud, potendo così fornire informazioni sulle barche eventualmente avvistate. A chi? Ai mezzi di Mare Nostrum che non ci sono più. Ed ecco spiegata la tragedia del mare che ha provocato oltre 300 morti. Non a caso numerose associazioni umanitarie evocano il ripristino dell'unica operazione europea positiva: quella del Mare Nostrum. Stati Uniti: in South Carolina centinaia di detenuti puniti per aver usato Facebook di Simone Ziggiotto www.pianetacellulare.it, 14 febbraio 2015 Il Department of Corrections del South Carolina ha punito quasi 400 detenuti per aver utilizzato i social media nel corso degli ultimi tre anni, e in alcuni dei casi la punizione è stato un lungo isolamento. L'uso dei social media è una grave violazione per i detenuti in South Carolina. La politica di limitare la comunicazione con il mondo esterno serve a non permettere ai detenuti di condurre attività criminali dall'interno. Il Department of Corrections del South Carolina ha punito quasi 400 detenuti per aver utilizzato i social media nel corso degli ultimi tre anni, e in alcuni dei casi la punizione è stato un lungo isolamento. Le statistiche, raccolte dalla Electronic Frontier Foundation e rilasciate Giovedi, evidenziano la rigorosa politica applicata quando si trattano casi legati ai social media nel sistema carcerario dello Stato e il coinvolgimento di Facebook con la rimozione dei profili dei detenuti. Già nel 2012, il Dipartimento del Sud Carolina of Corrections (Scdc) ha fatto della "creazione e/o gestione di un sito di social networking" un reato di Livello 1, una categoria riservata alle violazioni più violente delle politiche di condotta del carcere. Livello 1 è una delle accuse di reato più comuni proposte contro i detenuti, molti dei quali, come la maggior parte degli utenti di social network, vogliono rimanere in contatto con gli amici e la famiglia nel mondo esterno e tenersi aggiornati sugli eventi che accadono. Alcuni detenuti chiedono alle loro famiglie di accedere ai propri profili on-line per loro, mentre molti hanno accesso Internet lo stessi attraverso un telefono cellulare a cui hanno accesso in contrabbando. Attraverso una richiesta ai sensi del Freedom South Carolina of Information Act, EFF, un gruppo sostenitore dei diritti civili su Internet, ha rilevato che, nel corso degli ultimi tre anni, i funzionari della prigione hanno registrato più di 400 cento casi disciplinari per "social networking" - quasi sempre per l'utilizzo di Facebook. Il reato ha avuto pesanti sanzioni, come anni di isolamento e la privazione di quasi tutti i privilegi, tra cui la visita e l'accesso ad un telefono. EFF, apprese le informazioni, tramite un portavoce ha dichiarato: "Facebook non dovrebbe agire come censore del governo", ha dichiarato Dave Maas, coordinatore delle relazioni con i media e ricercatore investigativo del gruppo EFF. "C'è un sacco di motivi legittimi per cui un prigioniero dovrebbe desiderare di contattare il mondo esterno, come portare all'attenzione le condizioni o informazioni sul suo stato in prigione, o comunicare con la propria famiglia". Facebook non ha risposto alle dichiarazioni di EFF. Il sistema carcerario del Sud Carolina ha chiesto a Facebook di rimuovere centinaia di account dei detenuti. Il più grande social network del mondo è stato obbligato, secondo l'EFF, in rispetto di un accordo che c'è tra le parti: i sistemi carcerari possono chiedere a Facebook di rimuovere i profili dei detenuti previa richiesta ufficiale "Inmate Account Takedown Request". EFF chiede, tuttavia, che ci sia una maggiore trasparenza quando si tratta di queste richieste. L'uso dei social media è una grave violazione per i detenuti in South Carolina. La politica di limitare al massimo la comunicazione con il mondo esterno è volta a non permettere ai detenuti di condurre attività criminali dall'interno. Il sistema carcerario pone l'uso dei social media allo stesso livello di crimini come l'omicidio, lo stupro, disordini, fuga e presa di ostaggi, secondo Maas. In 16 casi, i detenuti hanno affrontato più di un decennio in detenzione disciplinare, una punizione che comprende isolamento e la perdita del privilegio di ricevere visite. Un detenuto ha ricevuto più di 37 anni in isolamento, secondo il FEP. Israele: liberata dopo tre mesi di carcere la 14enne condannata per aver lanciato pietre Adnkronos, 14 febbraio 2015 Le autorità israeliane hanno rilasciato Malak al-Khatib, una baby-detenuta palestinese di 14 anni, dopo circa due mesi trascorsi nelle carceri dello Stato ebraico. Ne dà notizia il sito di notizie palestinese Sama News, che ricorda come Malak era stata "picchiata e arrestata" il 31 dicembre scorso presso un check point israeliano a sud di Tulkarem mentre rientrava da scuola. In questi due mesi, l'adolescente è stata portata quattro volte di fronte ai tribunali, che l'hanno condannata per lancio di pietre a due mesi di reclusione e al pagamento di una sanzione di 6.000 shekel, pari a circa 1.350 euro. Sono 213 i minorenni palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Arabia Saudita: blogger condannato a 1.000 frustate, "rata" rinviata per quinta volta Askanews, 14 febbraio 2015 Rinviata, ancora una volta, la pena della fustigazione inflitta al blogger saudita Raef Badawi, condannato dalle autorità del suo Paese a 1.000 frustate da scontare in 20 settimane per avere "insultato l'Islam", come ha reso noto oggi Amnesty International. Oggi venerdì è il giorno della settimana stabilito per scontare la pena e si tratta quindi del quinto rinvio dopo le prime 50 frustate subite lo scorso 9 gennaio: le fustigazioni successive infatti non hanno avuto luogo, "per motivi di salute". "Raef non è si è presentato alla sessione odierna per la fustigazione. Non sappiamo perché, ma lui rimane in prigione", come recita un tweet postato dall'Organizzazione in difesa dei diritti umani sul proprio account ufficiale. Il caso del blogger ha provocato indignazione in tutto il mondo con una denuncia delle Nazioni Unite, che hanno parlato di una punizione "crudele e disumana". Il 31enne Badawi, vincitore nel 2014 del premio Reporter senza frontiere per la libertà di stampa, è detenuto dal 2012. Condannato per "offesa" all'Islam, il blogger, dallo scorso novembre sta scontando una condanna a 10 anni di reclusione. Come pena aggiuntiva è stato condannato anche a mille frustate da subire 50 alla volta per la durata di 20 settimane. La "colpa" di Badawi è per aver scritto questa frase sul suo blog: "Il laicismo rispetta ogni persona e non offende nessuno. È la soluzione concreta per far salire i Paesi (incluso il nostro) dal terzo mondo verso il primo". Yemen: 7 detenuti al-Qaeda fatti evadere da uomini armati nel sud, ucciso un poliziotto Aki, 14 febbraio 2015 Sette detenuti di al-Qaeda sono stati fatti evadere da un carcere dello Yemen da uomini armati, che durante l'azione hanno ucciso u poliziotto. Lo rende noto una fonte governativa a condizione di anonimato all'agenzia di stampa Xinhua precisando che l'evasione ha avuto luogo nella provincia meridionale di Shabwa. "Il carcere centrale della provincia di Shabwa è stato attaccato da un gruppo di uomini armati, che hanno ucciso un soldato e ne hanno feriti due in modo grave", ha detto la fonte. I sette evasi fanno parte di al-Qaeda nella Penisola Arabia. Due di loro erano stati condannati a morte.