Giustizia: il ministro Orlando "Stati generali sulle pene e sul carcere aperti ai detenuti" di Errico Novi Il Garantista, 10 febbraio 2015 Il ministro della Giustizia: i reclusi protagonisti dell'evento di aprile. A parlarne erano stati proprio i penalisti. Pochi giorni dopo l'annuncio degli "Stati generali del carcere" fatto dal ministro Orlando, l'Unione Camere penali aveva chiesto allo stesso Guardasigilli, con un intervento sul Garantista, di aprire l'evento ai detenuti. Contemporaneamente era partita una campagna di Ristretti Orizzonti, la rivista realizzata dai reclusi del carcere di Padova. Fino a pochi giorni fa dalla newsletter di Ristretti Orizzonti si è continuato sollecitare il ministro della Giustizia con una raccolta di mail affinché "gli Stati generali sulle pene e sul carcere" previsti ad aprile si celebrino "con le persone detenute". Orlando ha scelto proprio il maxi convegno organizzato dalle Camere penali a Palermo nello scorso fine settimana per dare una risposta: "Nel mese di aprile faremo una riflessione complessiva, a cui abbiamo dato il nome di Stati generali della pena, non solo con gli addetti ai lavori, ma anche con chi c'è dentro le carceri". È una buona notizia, considerato che secondo lo stesso responsabile di Via Arenula la vera questione a questo punto è "cosa succede nei nostri penitenziari". Rientrata entro limiti meno catastrofici la situazione del sovraffollamento, ora è necessario occuparsi delle persone in carne ossa più che dei numeri. D'altra parte sono le stesse cifre a raccontare che lo standard di vivibilità del nostro sistema penitenziario è ancora lontano dalla maggioranza dei Paesi civili: nel 2014 si sono contati 43 suicidi dietro le sbarre, dall'inizio di quest'anno siamo già a 5. E sono innumerevoli i casi in cui le guardie carcerarie salvano la vita di un detenuto togliendogli letteralmente il cappio dal collo. Ad auspicare la partecipazione dei reclusi agli Stati generali è stata anche la segretaria di Radicali Italiani, Rita Bernardini. Oltre a sottoscrivere l'appello di Ristretti Orizzonti, Bernardini si è unita alla richiesta di "celebrare l'incontro proprio presso la Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova. Sarebbe il giusto riconoscimento", dice, "all'impegno di un gruppo di persone che vivono sulla propria pelle l'esperienza carceraria e nello stesso tempo si battono nell'interesse di tutti gli altri detenuti". Riguardo al via libera sulla presenza dei reclusi agli Stati generali, la segretaria di Radicali italiani ricorda come "questa doverosa circostanza sia stata oggetto del Satyagraha di Natale, intrapreso insieme con Marco Panella in nome di questa e di altre battaglie". Alla "Inaugurazione dell'anno giudiziario dei penalisti" di Palermo il ministro Orlando ha dedicato al sistema della pena una parte consistente del proprio discorso. "Di interventi in materia di carcere ne sono stati fatti, ma in più di un'occasione si sono dovute scontare campagne ostili ai provvedimenti", ha osservato, "l'ultimo caso in ordine di tempo è quello dell'archiviazione per particolare tenuità del fatto. Si è detto che avremmo fatto scappare i delinquenti. Abbiamo contrastato queste posizioni e siamo andati dritti per la strada che avevamo scelto. Ma tenere due fronti non è semplice". Ha anche ammesso di "non considerare risolta l'emergenza carceraria: sul sovraffollamento sì, ci siamo: su 43.000 posti disponibili abbiamo una popolazione di 45.500 , vuol dire che è ormai fatta, il prossimo anno riusciremo ad avere un punto accettabile. Ma ora", ha appunto dichiarato, "c'è il tema di quanto succede in carcere. Bisogna rispondere innanzitutto con le pene alternative. D'altronde c'è sempre l'esigenza di metabolizzare queste riforme, e mi riferisco in particolare al lavoro che riguarda la magistratura di sorveglianza". Secondo il guardasigilli uno dei problemi del sistema carcerario italiano è "l'approccio troppo passivizzante". Anche se il messaggio di fondo che ancora non viene recepito con chiarezza è un altro: "Ci sono diritti fondamentali che non vengono meno qualsiasi cosa tu faccia, e questo non è affatto assodato". A Palermo i "padroni di casa", gli avvocati dell'Unione Camere penali, hanno affidato le loro richieste sul tema al responsabile dell'Osservatorio sul sistema penitenziario, Riccardo Polidoro: "Vogliamo un carcere di persone e non di numeri", ha detto, "d'altronde le cifre non sono ancora rassicuranti: sulla legge che istituisce rimedi risarcitori ci sono dati spaventosi. C'è una percentuale altissima di inammissibilità, intorno all'85 per cento, e al netto delle pratiche ancora inevase è stato accolto solo l'1,5 per cento delle istanze". E ancora: "Noi siamo obbligati a occuparci di persone, ma se vogliamo parlare di numeri ci sono ancora 18.800 persone in attesa di giudizio". Polidoro ha ricordato come una delle battaglie più urgenti riguardi proprio l'abuso della custodia cautelare: "Rappresenta una forma di pena anticipata, e i giudici lo sanno bene. Questa pena impropria si aggiunge a quella posticipata, che arriva tantissimo tempo dopo il fatto. La politica dovrebbe intervenire. Anche se quest'anno il primo presidente della Cassazione Santacroce ha ricordato come l'applicazione della custodia cautelare non sia conforme alle leggi già in vigore. Siamo di fronte a un'urgenza che non reclama nuove norme, ma la mera applicazione di quelle esistenti". Anche il responsabile dell'Osservatorio Carcere delle Camere penali ha puntato sul problema di una cultura dei diritti del detenuto che nella società italiana fatica a farsi strada: "Abbiamo messo a punto un progetto dal titolo "Vale la pena, la pena vale", che istituisce un concorso di idee aperto a giovani al di sotto dei 35 anni per la realizzazione di una pubblicità progresso su un principio semplice: una pena scontata in modo equilibrato, rispettoso dei diritti e delle garanzie, è nell'interesse della giustizia, dei cittadini e dell'effettiva applicazione del principio della pena come rieducazione del condannato". Giustizia: ora chiedo a Renzi… ma la riforma la fa Orlando o la fa Gratteri? di Beniamino Migliucci (Presidente Unione Camere Penali) Il Garantista, 10 febbraio 2015 Dopo le consuete anticipazioni su Micromega, abbiamo avuto notizia che il dottor Nicola Gratteri, Procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica di Reggio Calabria e ministro ombra del governo Renzi, ha depositato una relazione di 266 pagine con la sua proposta di riforma antimafia. Non ne conosciamo ancora il contenuto, ma già quanto riportato dagli organi di stampa conferma le preoccupazioni espresse a suo tempo dall'Ucpi, sia riguardo al metodo, sia riguardo al merito. Risulta, invero, difficile comprendere il "doppio binario" adottato dal presidente del Consiglio. Da una parte il governo, attraverso il ministro competente, propone alle Camere e al dibattito politico-giudiziario modifiche al codice penale e al codice di procedura penale; dall'altra Matteo Renzi ha affidato l'incarico al Procuratore antimafia di redigere una propria versione della riforma della giustizia. Una riforma da adottare, secondo il dottor Gratteri, con decreto, benché il ministro Orlando abbia giustamente ricordato, in conformità anche al dettato costituzionale, che le norme in materia penale debbono essere promulgate secondo il procedimento ordinario di approvazione della legge. Questo evidente dualismo reca grave danno alla credibilità della politica e all'autorevolezza del ministro della Giustizia, che correttamente ha avviato un confronto sulle modifiche proposte dal suo dicastero, e che si vede smentito anche per quanto alle modalità di produzione legislativa, benché anche il Presidente della Repubblica, nel suo messaggio al Parlamento, avesse rammentato che è necessario superare la logica della decretazione. Nel merito, il Procuratore Gratteri consegna alla politica una proposta che prevede aumenti di pena iperbolici, intercettazioni prolungate e all'estero, ausilio dei servizi segreti, forze dell'ordine legittimate a portare armi con matricola abrasa, estensione delle videoconferenze a tutti i processi con detenuti, eccezioni preliminari da effettuarsi in anticipo rispetto alla prima udienza. Insomma una deriva autoritaria senza precedenti, che dovrebbe scavalcare anche il passaggio naturale per le Camere. In breve: per gli aumenti di pena, la proposta si pone in contrasto anche con gli ammonimenti del Primo presidente delia Corte di Cassazione, Giorgio Santacroce, che in occasione dell'apertura dell'anno giudiziario ha ricordato come l'aumento delle pene non costituisca un deterrente; per le intercettazioni si avverte sempre più l'esigenza di modificarne l'istituto in termini di maggiori garanzie; sull'ausilio dei servizi segreti e l'utilizzo di armi con matricola abrasa, inutile segnalarne la pericolosità, tanto è evidente; per le videoconferenze si tratterebbe di una violazione eclatante alla possibilità di seguire il processo nelle forme ordinarie, che non ha alcuna giustificazione e che non porterebbe alcun risparmio; per le eccezioni da formulare prima di quando attualmente prevede il codice, si tratta di una violazione palese del diritto di difesa, in contrasto persino con ogni seria logica. La evidente disparità di prospettive tra la pur criticabile proposta del ministero della Giustizia e quella del Procuratore Gratteri pone un imbarazzante interrogativo, o meglio, ne pone due. Qual è l'idea di giustizia che ha il Governo? Su quale progetto il confronto deve proseguire? Noi confidiamo di avere scelto il giusto interlocutore secondo quanto stabilito dalla Costituzione, e continueremo a sorvegliare affinché nel nostro Paese non si affermino derive che calpestano i diritti di libertà dei cittadini. Giustizia: Ucpi; dannoso dualismo Gratteri-Orlando, così si lede credibilità della politica Ansa, 10 febbraio 2015 C'è un "evidente dualismo" tra Nicola Gratteri, "ministro ombra del governo Renzi", e il Guardasigilli Andrea Orlando, che "reca grave danno alla credibilità della Politica e all'autorevolezza del Ministro della giustizia". A sostenerlo è l'Unione delle camere penali, che ritiene "difficile" "comprendere il doppio binario adottato dal presidente del Consiglio: "da una parte il Governo, attraverso il Ministro competente, propone alle Camere e al dibattito politico-giudiziario modifiche al codice penale e al codice di procedura penale; dall'altra Matteo Renzi ha affidato l'incarico al Procuratore Antimafia di redigere una propria versione della riforma della giustizia. Una riforma da adottare, secondo il Dott. Gratteri, con decreto, benché il Ministro Orlando abbia giustamente ricordato, in conformità anche al dettato costituzionale, che le norme in materia penale debbono essere promulgate secondo il procedimento ordinario di approvazione della legge" Ma non è solo questione di metodo: "nel merito, il Procuratore Gratteri consegna alla politica una proposta che prevede aumenti di pena iperbolici, intercettazioni prolungate e all'estero, ausilio dei servizi segreti, forze dell'ordine legittimate a portare armi con matricola abrasa, estensione delle video conferenze a tutti i processi con detenuti, eccezioni preliminari da effettuarsi in anticipo rispetto alla prima udienza. Insomma una deriva autoritaria senza precedenti, che dovrebbe scavalcare anche il passaggio naturale per le Camere". I penalisti spiegano nel dettaglio le ragioni del loro dissenso: "per gli aumenti di pena, la proposta si pone in contrasto anche con gli ammonimenti del Primo Presidente della Corte di Cassazione, Dott. Giorgio Santacroce, che in occasione dell'apertura dell'anno giudiziario ha ricordato come l'aumento delle pene non costituisca un deterrente; per le intercettazioni si avverte sempre più l'esigenza di modificarne l'istituto in termini di maggiori garanzie; sull'ausilio dei servizi segreti e l'utilizzo di armi con matricola abrasa, inutile segnalarne la pericolosità, tanto è evidente; per le video conferenze si tratterebbe di una violazione eclatante alla possibilità di seguire il processo nelle forme ordinarie, che non ha alcuna giustificazione e che non porterebbe alcun risparmio; per le eccezioni da formulare prima di quando attualmente prevede il codice, si tratta di una violazione palese del diritto di difesa, in contrasto persino con ogni seria logica". Giustizia: coop in carcere, come ripartire dopo il caso-mense e i tagli alla legge Smuraglia Il Velino, 10 febbraio 2015 Da un mese nelle mense sono tornati a lavorare i detenuti gestiti direttamente dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. È passato poco meno di un mese, ma quel mercoledì 15 gennaio 2015, il D-Day della cooperazione sociale in carcere, ha lasciato il segno: la brusca interruzione dei servizi di mensa inframuraria nei dieci istituti di pena in cui dal 2004 altrettante coop danno lavoro a detenuti ha rappresentato un colpo dall'impatto clamoroso per le realtà coinvolte. "La Cassa delle ammende non può più rinnovare il finanziamento annuale delle varie realtà, perché è destinato a start up e non a servizi consolidati", è la giustificazione governativa, con la quale il Dap, Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, si è fatto restituire le chiavi delle cucine coinvolte, che d'ora in poi funzioneranno come per gli altri 195 istituti, ovvero tramite le mercedi, i lavori dei detenuti gestiti direttamente dalla stessa amministrazione. Questo fatto, unito ai tagli del 34% dei fondi richiesti dalle cooperative per la Legge Smuraglia (6,1 milioni di crediti d'imposta garantiti sui 9 richiesti), sta destabilizzando non poco le virtuose esperienze di lavoro in carcere gestite dalle cooperative, che fino al 2014 occupavano 2.364 detenuti su un totale di 14.099 (gli altri 11.735 alle dipendenze del Dap). Dopo il terremoto mense alcune realtà come la Syntax error di Roma hanno chiuso, altre stano lottando per rimanere in vita, e tutte hanno dovuto licenziare dipendenti. Comprese le realtà più affermate che ora devono rimboccarsi le maniche per ripartire: "Noi siamo passati da 30 a 6 dipendenti, dato che non diamo più pasti per 1500 persone al giorno", sottolinea Luciano Pantarotto, presidente della coop Men at work che lavora a Rebibbia. "Puntiamo a valorizzare le attività collaterali alla mensa: abbiamo chiesto alle cooperative di presentarci progetti ad hoc di attività in svolgimento o nuove che poi verranno vagliati da Cassa ammende", aveva spiegato a Vita.it Luigi Pagano, vicedirettore del Dap e nominato dal suo capo Santi Consolo referente per i rapporti con la cooperazione sociale. Requisiti dei progetti? "Che diventino auto-sostenibili nel medio termine. Noi nel frattempo concilieremo meglio i tempi carcerari con quelli del mercato". Le coop si sono già rimboccate le maniche: "vorremmo avviare la panificazione, in collaborazione con un'azienda di ristorazione, inoltre puntiamo a aumentare la qualità del centro cottura, costruito da noi senza fondi ministeriali, e a un corso di formazione sull'agricoltura biologica, legato alla gestione dell'orto del penitenziario", elenca Pantarotto. "Potenzieremo la pasticceria, proporremo un corso di formazione professionale di cucina e avvieremo una sperimentazione legata al call center che già gestiamo", spiega Guido Boscoletto, presidente della cooperativa sociale Giotto, che opera a Padova. "Peccato per la fine dell'esperienza delle mense gestite dalla cooperazione sociale, la speranza è sempre che si possa riprendere, anche perché garantivamo un servizio di alta professionalità". A Ragusa, invece, "sono rimasti tre detenuti dipendenti nella pasticceria, servizio che cammina già con le proprie gambe da tempo ma che con la chiusura della gestione della mensa ha perso altri quattro dipendenti e due tirocinanti. Ora tra le varie iniziative cercheremo di avviare un percorso imprenditoriale di falegnameria", illustra Aurelio Guccione, la cui coop, Liberiamo Sapori, opera nel carcere del capoluogo siciliano, che rimane virtuosamente attiva nonostante le difficoltà, che per esempio non hanno permesso di continuare le esperienze di produzione di cibo dentro le carceri a Torino, Trani e Rieti. Infine, il caso di Abc La sapienza in tavola a Bollate (Milano), che ha "perso" 7 detenuti lavoratori su 11: "è stato un cambio di passo molto pesante, il nostro catering, seppur affermato, ha carattere di occasionalità", spiega la presidente Silvia Polleri. "Stiamo studiando strategie per rilanciarlo, più altre azioni. L'aspetto fondamentale, per quanto ci riguarda, è la grande disponibilità alla collaborazione da parte della direzione penitenziaria. Siamo cooperative, non aziende con un capitale sociale, ogni passo deve andare di pari passo con la sostenibilità". Giustizia: detenuti stranieri, il pericolo è di confondere "immigrato" con "terrorista" di Gaia Bozza www.fanpage.it, 10 febbraio 2015 Il 17 marzo l'Osservatorio dell'associazione Antigone presenterà i dati sugli stranieri in carcere nel 2014. Ma quella dei detenuti stranieri non è l'unica emergenza, perché dietro le sbarre si continua a morire ed è presente una forte negazione dei diritti. Con il pericolo sovraffollamento per niente sventato, soprattutto "se si confondono immigrazione e terrorismo". Dopo che la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ha condannato l'Italia per come abbiamo trattato i detenuti e dopo i provvedimenti del governo per ridurre il sovraffollamento, ora trattiamo i ristretti con più umanità e rispettiamo la Costituzione? "Difficile dirlo, perché le carceri sono i luoghi nei quali la dignità umana è più a rischio di essere violata". A parlare è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, che da molti anni si occupa di un aspetto della nostra democrazia molto trascurato: mettere al centro la dignità umana anche e soprattutto in carcere. Nel 2014 c'è stato un tentativo da parte delle forze al governo, si sono succeduti al governo Letta e poi Renzi, hanno cercato di porre rimedio alla situazione anche sollecitati dal messaggio alle Camere del presidente Napolitano. Questo significa che la dignità umana è garantita in tutti gli istituti di pena? "No. Questo significa che c'è più spazio". Pietra dello scandalo, nel 2013 e nel 2014, è stato il carcere di Poggioreale: più volte Antigone Campania, presieduta da Mario Barone, ha denunciato una situazione degradante. Un'inchiesta, ancora aperta, su presunti maltrattamenti e la visita della Commissione Libertà Civili dell'Ue hanno dato la spinta finale a un processo di miglioramento delle condizioni nel carcere napoletano. Ma tanto c'è ancora da fare in questo e nelle altre carceri italiane. È vero che le persone in carcere oggi sono meno di 54mila mentre a fine anno scorso erano 10mila in più. Però, fa notare il presidente Gonnella, non è scongiurato il pericolo del sovraffollamento e di una ulteriore compressione dei diritti dei più deboli: "Dopo i terribili fatti di Parigi - ricorda - riecheggia un ragionamento intorno a una legislazione speciale, stereotipi intorno a immigrazione uguale terrorismo". Un parallelismo che non esiste. Ma il passo tra questo ragionamento e una nuova emergenza nelle carceri è breve, non legato al pericolo terrorismo quanto al fatto che ci possano essere tentazioni "a rimettere mano alla legislazione sull'immigrazione". Già adesso le condizioni dei detenuti stranieri sono pessime, fa notare il presidente di Antigone: molti di essi sono in attesa di giudizio ed ottenere misure alternative è un miraggio. E, come emerso pochi giorni fa per il carcere di Regina Coeli, non ci sono nemmeno mediatori culturali e bisogna affidarsi a Google. A breve sarà presentato il bilancio del 2014 redatto dall'Osservatorio sugli stranieri in carcere, con tutti gli allarmanti dettagli di questa situazione. Una riflessione generale sul sistema è invece il volume pubblicato dallo stesso Gonnella dal titolo "Carceri. I confini della dignità" (Jack editore). Che ha scritto questo libro perché oggi, oltre due secoli dopo Cesare Beccaria, bisogna ancora ribadire che il limite del potere di punire è il rispetto dell'umanità. E ripetere a memoria l'articolo 27 della Costituzione, adoperandosi perché venga finalmente rispettato. Al di là del sovraffollamento, oggi la vera battaglia è soprattutto sul fronte dei diritti: quello alla salute, su tutti, perché c'è spesso grave trascuratezza in carcere. In cella si muore: di suicidio, di abbandono, di malattia, di maltrattamenti. Un esempio: l'associazione si è trovata ad affrontare una situazione limite, nella quale la madre di una persona ricoverata dopo abuso di psicofarmaci e dopo aver perso 30 chili in un anno di detenzione è stata avvertita dopo 8 giorni delle gravi condizioni del figlio. Incontrarlo? Un calvario, spiega Gonnella. Un altro esempio molto semplice: curare un'infezione di un detenuto straniero che aveva avuto problemi ad una gamba dopo l'impianto di una protesi. "Abbiamo dovuto sollecitare un'interrogazione parlamentare per curarlo in ambito ospedaliero", chiosa il presidente di Antigone. E in questa frase c'è tutto: l'idea, cioè, che il carcere in Italia sia posto fuori dalla democrazia. Tutto diventa eccezione. E poi, dietro le sbarre sono sempre più frequenti risse e carenza di alternative allo stare in cella. Tenere un uomo in gabbia, si sa, alimenta la violenza. La dignità, fa notare il presidente dell'associazione, non è certo solo una questione di spazi: "Abbiamo una situazione politica fragile - conclude Gonnella. Ora navigando a vista abbiamo scavallato il rischio di una condanna ulteriore e verremmo giudicati di nuovo nella prossima primavera. Ma non siamo fuori dalla melma, è facile ritornare a una situazione preesistente, ma non mi pare ci sia una visione politica generale chiara, dentro lo stesso governo ci sono pulsioni opposte". Giusto una considerazione: un esempio lampante è il tira e molla all'interno del governo sull'inasprimento delle misure contro il terrorismo, che prevedrebbero anche poteri speciali agli 007 che potrebbero spiare, controllare e infiltrarsi tra i detenuti. E tanti saluti allo Stato di diritto. Giustizia: carceri e Islam, c'è chi fa soltanto propaganda di Arrigo Cavallina (Volontario dell'Associazione "La Fraternità") L'Arena, 10 febbraio 2015 L'articolo "Servono più strumenti per monitorare il carcere", sull'Arena del 24 gennaio, apre prendendo ingenuamente per buona la versione degli incidenti nella casa di reclusione di Padova data dal Sappe, sindacato della polizia penitenziaria. Scelta comprensibile: perché dubitare di quella fonte? Riprendo dal quotidiano di Padova "Il Mattino" le affermazioni virgolettate del segretario del Sappe: "Quel che è accaduto giovedì sera è gravissimo, anche in relazione all'atteggiamento assunto da molti detenuti di nazionalità araba. Nella sezione si respirava alta tensione, con atteggiamenti palesemente provocatori da parte di buona parte dei detenuti verso i poliziotti. All'atto dell'ingresso nel Reparto detentivo di due poliziotti penitenziari questi sono stati aggrediti e feriti senza alcuna giustificazione e le cose sono drammaticamente degenerate con urla e grida. Molti dei detenuti, di origine araba, inneggiavano ad Allah e all'Isis. Era comunque qualcosa di organizzato visto che sono stati rinvenuti bastoni e coltelli artigianali. Le manifestazioni di solidarietà e sostegno al gruppo islamista dell'Isis da parte dei detenuti arabi sono inquietanti e preoccupanti." Tanto è bastato per scatenare immediatamente le reazioni degli esponenti leghisti. Il sindaco di Padova Bitonci: "Esprimo la mia solidarietà agli agenti aggrediti. Trovo molto preoccupante per la loro incolumità e per quella di tutti i padovani che alcuni detenuti arabi abbiano inneggiato all'Isis durante la rivolta di ieri". Il capogruppo alla Camera Fedriga: "A Padova carcerati immigrati scatenano l'inferno inneggiando ad Allah e all'Isis, i servizi segreti israeliani dicono che il 70% delle moschee è a rischio terrorismo, ma Alfano sminuisce il problema con affermazioni irresponsabili." Il deputato Caon: "Preoccupante che, nel corso della rivolta, ci sia chi ha inneggiato all'Isis: è chiaro che il rischio è elevatissimo", occasione quindi per rilanciare gli slogan consueti: "La nostra ricetta è pronta da sempre: stop immigrazione, stop Triton, moratoria su nuove moschee e controlli ferrei su quelle esistenti, pene severissime e confisca del passaporto per chi fa apologia di terrorismo". L'ispezione compiuta congiuntamente dal magistrato inquirente e dal capo della squadra mobile ha accertato che i fatti si sono svolti in modo completamente diverso e che l'assist del Sappe ai leghisti si basava su notizie false. Ci informa "Il Mattino", nello stesso articolo, che nel reparto dove è scoppiata una rissa tra detenuti sono alloggiate solo persone provenienti dall'est europeo, non ci sono arabi, detenuti in un altro reparto separato. Non c'era né provocazione né preordinazione; gli agenti intervenuti per sedare la rissa sono stati a loro volta aggrediti. E nessuno si è sognato di inneggiare all'Isis, che almeno in questa occasione non c'entra proprio. Resta la ragionevole preoccupazione che dove le condizioni di vita, e tanto più se di vita incarcerata, costringono ai margini, all'esclusione, alla compressione dei diritti, alla scarsa comunicazione con la società circostante, lì potrebbero aprirsi un varco la lettura distorta e rabbiosa della religione e l'esempio terroristico. Ci chiediamo come far emergere questo rischio eventuale, come prevenirlo o sanarlo. Probabilmente proprio chi ha la possibilità di pregare in libertà nelle moschee riconosciute, chi conosce e pratica la cultura islamica, chi è capace di guidare pubblicamente le letture religiose, chi già partecipa al pacifico confronto tra le fedi, ha la competenza e l'intuito, più di noi, di cogliere i segnali oscuri e di operare sul piano efficace delle spiegazioni, e non solo su quello dell'ulteriore compressione. Si tratterebbe quindi, per esempio, di intensificare la collaborazione con gli esponenti della comunità islamica, le cui posizioni sono state ampiamente esposte anche in precedenti articoli dell'Arena. Gridare al lupo dove non c'è, per farne strumentalizzazione politica, e propagandare provvedimenti che andrebbero verso l'esasperazione, è il modo più certo per aggravare i fattori di rischio senza vedere e capire dove un'eventuale minaccia potrebbe invece annidarsi e in che cosa potrebbe consistere. In questo senso sono molto apprezzabili gli interventi, citati nell'articolo dell'Arena, di due persone perfettamente informate sulla realtà del carcere di Montorio, la Direttrice Maria Grazia Bregoli, che parla di "ottimo esempio di convivenza e di capacità di integrazione, dove la solidarietà scatta subito nel momento del bisogno", e la Garante dei diritti dei detenuti Margherita Forestan, che aggiunge: "In questi anni hanno convissuto serenamente a Montorio persone di religione diversa, senza che vi siano mai state tensioni o scontri". Anche l'associazione La Fraternità ritiene di aver dato un qualche contribuito alla costruzione di questo clima organizzando, negli anni scorsi, gruppi di dialogo interculturale, dei quali si possono scaricare e leggere ampie relazioni, per gli anni dal 2008 al 2013 alla pagina www.lafraternita.it/2011/03/progetto-intercultura. In proposito è doveroso fare memoria riconoscente di Silvana Pozzerle, che ci ha lasciati proprio un anno fa e che per prima aveva pensato e partecipato a quell'esperienza. Giustizia: testimoni di giustizia assunti dalle Pa, ma dopo un test di "meritevolezza" di Gianni Macheda Italia Oggi, 10 febbraio 2015 Testimoni di giustizia assunti dalle pubbliche amministrazioni, ma dopo aver superato un test di "meritevolezza" del beneficio, una prova di idoneità e sapendo comunque di dover rinunciare a tutto o parte dell'assegno statale di mantenimento dei familiari. Chi non si trova bene nel nuovo posto di lavoro potrà fare domanda di comando o distacco presso altri enti. Lo prevede il regolamento del ministero dell'interno 18 dicembre 2014, n. 204, che dà attuazione al dl 101/2013 e che è stato pubblicato ieri sulla Gazzetta Ufficiale n. 30. In vigore dal prossimo 21 febbraio, il decreto siglato di concerto con il ministro della funzione pubblica, si applica ai testimoni di giustizia sottoposti alle misure speciali di protezione previste dalla legge in quali, per accedere a un programma di assunzione per chiamata diretta nominativa, dovranno presentare domanda alla Commissione centrale per la definizione e applicazione delle speciali misure di protezione, indicando una o più sedi territoriali dove gradirebbero essere collocati. Compito della Commissione, anche valutando quanti e quali benefici economici i testimoni abbiano già percepito o se abbiano già fruito di interventi finalizzati al reinserimento sociale, è quello di deliberare il riconoscimento del diritto all'assunzione. Di tali soggetti verrà poi fatto un elenco, partendo da chi ha percepito al momento più benefici (che quindi avrà meno possibilità di essere assunto) a chi ne ha ottenuti di meno (che dunque avrà più chance). Entro il 1° gennaio e il 1° settembre di ogni anno viene fatta la ricognizione dei posti disponibili, acquisendoli presso le amministrazioni locali e le camere di commercio e gli uffici statali. Una lista che viene poi incrociata con quella delle domande, tenendo conto del titolo di studio e della professionalità dei testimoni, delle esigenze di sicurezza personale e delle preferenze espresse. Scattano dunque le pratiche dell'assunzione che prevedono anche lo svolgimento delle prove di idoneità, il quale non comporta valutazione comparativa ma è volto solo ad accertare l'idoneità del lavoratore a svolgere le mansioni del profilo nel quale avviene l'assunzione. Fatta l'assegnazione il testimone ha 15 giorni di tempo per accettare o no; se rifiuta, decade dal beneficio. Una volta assunto, se subentrano motivi di sicurezza che impediscano di lavorare nel posto scelto, si aprono le porte all'assegnazione in comando o distacco presso altre amministrazioni, ed è comunque garantito il collocamento dei testimoni di giustizia in aspettativa retribuita. Nell'ipotesi di assunzione la Commissione centrale può poi rideterminare la misura dell'assegno di mantenimento per le persone a carico e prive di capacità lavorativa, ma anche misure atte a favorirne il reinserimento sociale. Giustizia: Calderoli (Lega); Renzi cambi norma su eccesso di legittima difesa Il Velino, 10 febbraio 2015 "I delinquenti in uno Stato normale vanno in galera, in Italia no: girano liberi continuando a rapinare, aggredire se non di peggio. E se un cittadino onesto si difende finisce nei guai. Come direbbe il grande Gino Bartali, "è tutto sbagliato, è tutto da rifare". Lo afferma Roberto Calderoli, Vice Presidente del Senato, che spiega: "In uno Stato normale chi compie furti, sparatorie e aggressioni va in galera, non è libero di andare in giro armato a rapinare gioiellerie, costringendo la gente onesta a difendersi rispondendo al fuoco e - continua - in uno Stato normale uno spacciatore con 4 espulsioni alle spalle che accoltella due carabinieri se ne sta in prigione, non viene scarcerato dopo una notte diventando uccel di bosco". "In uno Stato normale esiste la certezza della pena, ma, purtroppo, in Italia vengono protetti i delinquenti mentre chi si difende rischia carcere e risarcimento", denuncia l'esponente della Lega Nord. "Invece di perdere tempo, Renzi e Orlando mettano mano a quell'assurdità che è l'eccesso di legittima difesa", è la proposta di Calderoli che aggiunge: "E Alfano utilizzi le forze dell'ordine per il presidio del territorio e il ripristino della legalità anziché - conclude - per traghettare ed accogliere gli immigrati clandestini". Giustizia: "Spiegate perché è morto", il caso Jerinò in Parlamento di Damiano Aliprandi Il Garantista, 10 febbraio 2015 La deputata Pd Enza Bruno Bossio chiede risposte: perché il detenuto perse la vita a dicembre nel carcere di Arghillà? La morte poco chiara del detenuto Roberto Jerinò, denunciata su queste stesse pagine de "Il Garantista", approda al parlamento. Su sollecitazione di Emilio Quintieri, esponente del Partito Radicale, l'onorevole Enza Bruno Bossio, deputata del Partito democratico e membro della commissione bicamerale Antimafia, ha presentato un interrogazione parlamentare a risposta in commissione ai ministri della Giustizia, Andrea Orlando e della Salute, Beatrice Lorenzin. La parlamentare calabrese - che da tempo si occupa anche della tutela dei diritti umani fondamentali all'interno degli stabilimenti penitenziari - ha chiesto al Governo di chiarire le circostanze della morte del detenuto Roberto Jerinò, deceduto lo scorso 23 dicembre 2014 presso l'Ospedale Riuniti di Reggio Calabria. Il 60enne, di Gioiosa Ionica, Comune della Provincia di Reggio Calabria, si trovava in custodia cautelare presso la Casa Circondariale "Arghillà" di Reggio Calabria, dopo essere stato ristretto per un qualche tempo presso la Casa Circondariale di Paola, in Provincia di Cosenza. L'On. Enza Bruno Bossio, nella sua interrogazione (la n. 5/04649 del 05.02.2014), riferisce quanto trapelato in merito agli ultimi momenti di vita del detenuto e narrato su 11 Garantista lo scorso 6 gennaio 2015 ritenendo che "a giudizio dell'interrogante, i fatti esposti nel presente atto di sindacato ispettivo richiedono doverosi accertamenti dal momento che il signor Roberto Jerinò era affidato alla custodia dello Stato". In merito, c'è da dire, che a seguito di una denuncia dei familiari dell'uomo, il sostituto procuratore della Repubblica di Reggio Calabria Dott. Giovanni Calamita, ha aperto un fascicolo attualmente contro ignoti per accertare se ci siano eventuali responsabilità da parte del personale dell'amministrazione penitenziaria che lo aveva in custodia o dei sanitari penitenziari ed ospedalieri che lo avevano in cura. Sul corpo di Jerinò, su disposizione del magistrato, è stata eseguito anche l'esame necroscopico. Nei prossimi giorni, secondo quanto riferisce il radicale Quintieri, i congiunti del defunto che sono rappresentati e difesi dall'avvocato Caterina Fuda del Foro di Reggio Calabria, saranno sentiti come persone informate sui fatti, presso la Procura della Repubblica di Reggio Calabria. L'onorevole Enza Bruno Bossio, nello specifico, ha chiesto ai ministri della Giustizia e della Salute, se e di quali informazioni disponga il Governo in ordine ai fatti descritti; se e quali problemi di salute presentasse il detenuto Roberto Jerinò all'atto della visita obbligatoria di primo ingresso presso la Casa Circondariale di Paola e poi presso quella di "Arghillà" di Reggio Calabria ricavabili dal suo diario clinico e quali motivi abbiano determinato il trasferimento dello stesso dallo stabilimento penitenziario di Paola a quello di "Arghillà" di Reggio Calabria; se e come sia stata prestata l'assistenza sanitaria al detenuto durante la sua restrizione carceraria chiarendo cosa gli era stato diagnosticato ed a quali trattamenti terapeutici fosse sottoposto visto che, in pochissimo tempo, le sue condizioni si sono irrimediabilmente compromesse; quando, da chi e per quali ragioni il detenuto sia stato trasferito presso l'Ospedale Riuniti di Reggio Calabria specificando se il ricovero, in considerazione della gravità del quadro patologico, avrebbe potuto effettuarsi prima che le condizioni del signor Jerinò peggiorassero in modo fatale come è avvenuto; se siano noti i motivi per i quali sia stato negato al detenuto, da parte dell'autorità giudiziaria competente, di ottenere la concessione degli arresti domiciliari presso la propria abitazione e di quali elementi disponga il governo circa la dinamica del decesso e le relative cause e se siano state ravvisate eventuali responsabilità del personale operante presso l'amministrazione penitenziaria. Inoltre, l'attenzione della deputata democratica, si è focalizzata anche sulla struttura carceraria. Sono state chieste delucidazioni anche su quali fossero le condizioni della casa circondariale "Arghillà" di Reggio Calabria all'epoca dei fatti (dicembre 2014), facendo riferimento alla capienza regolamentare, a quanti detenuti vi fossero ristretti, quanti tra questi fossero tossicodipendenti e quanti affetti da gravi disturbi mentali o altri gravi patologie e se si fosse in grado di riuscire a garantire, in maniera sufficiente ed adeguata, non soltanto la sorveglianza dei detenuti ma anche l'assistenza sanitaria ed il sostegno educativo e psicologico nei loro confronti; se attualmente si trovino ristretti in detto Istituto in custodia cautelare o in espiazione di pena detenuti con gravi problemi di salute e se risulti se siano state presentate dagli stessi alle autorità giudiziarie competenti istanze di concessione degli arresti domiciliari o di sospensione o differimento della esecuzione della pena e, in caso affermativo, quali siano gli esiti delle stesse; se il predetto istituto penitenziario sia stato ispezionato dalla competente azienda sanitaria provinciale ed, in caso affermativo, a quando risalgano le visite e cosa sia scritto nelle rispettive relazioni inoltrate ai ministri interrogati, agli uffici regionali ed al magistrato di sorveglianza in merito allo stato igienico sanitario dell'istituto, all'adeguatezza delle misure di profilassi contro le malattie infettive disposte dal servizio sanitario penitenziario ed alle condizioni igieniche e sanitarie dei detenuti ai sensi dell'articolo 11 commi 12 e 13 dell'Ordinamento penitenziario approvato con legge n. 354 del 1975 e infine, se e con che frequenza il magistrato di Sorveglianza competente abbia visitato, negli ultimi anni, i locali dove si trovano ristretti i detenuti ai sensi dell'articolo 75, comma 1, del regolamento di esecuzione penitenziaria approvato con decreto del Presidente della Repubblica n. 230/2000 e se abbia mai prospettato al ministro della Giustizia eventuali problemi, disservizi o violazioni dei diritti dei detenuti nell'ambito della sua attività di vigilanza ai sensi dell'articolo 69 del citato ordinamento penitenziario. Giustizia: niente provvigione a Giuseppe Gulotta, detenuto per 22 anni ingiustamente di Irene Puccioni La Nazione, 10 febbraio 2015 Giuseppe Gulotta è stato in carcere da innocente per 22 anni. Domani si riunisce la Corte di Reggio Calabria. Gli avvocati promettono battaglia. Gli è stato negato anche un sussidio mensile in attesa che venga stabilito il risarcimento economico per aver passato 22 anni in carcere da innocente. La Corte d'Appello di Reggio Calabria per il momento ha detto "no" alla richiesta di una provvigione per Giuseppe Gulotta avanzata dagli avvocati Pardo Cellini e Baldassare Lauria, fintanto che il procedimento che dovrà stabilire la cifra - quella stimata dai legali è di 56 milioni e 88mila euro - a riparazione del maltolto, non sarà concluso. E l'esito, a questo punto, non è per nulla scontato: l'avvocatura dello Stato, infatti, sta facendo una strenua quanto ostinata opposizione alla richiesta di risarcimento: "un attacco frontale", lo ha definito l'avvocato Cellini. Gulotta, il muratore di Certaldo oggi 57enne, è stato assolto con formula piena dalla stessa Corte calabrese il 13 febbraio 2012 che ha annullato la condanna all'ergastolo inflittagli nel 1990 per la strage di Alcamo Marina del 1976 in cui furono uccisi due carabinieri. Domani la Corte di Reggio Calabria si riunirà di nuovo e in aula gli avvocati promettono battaglia. "Siamo all'assurdo - tuona Cellini - l'avvocatura dello Stato è arrivata a sostenere che Giuseppe Gulotta non ha diritto al risarcimento perché di fatto l'errore giudiziario lo ha provocato lui stesso auto incolpandosi del duplice delitto. La confessione - sottolinea l'avvocato - gli fu estorta con torture e sevizie. C'è una sentenza passata in giudicato che lo ha stabilito. Lo Stato, dopo 36 anni, ha finalmente riconosciuto l'innocenza di quest'uomo e ora gli nega un sacrosanto diritto: quello di essere risarcito". Cellini è deluso e amareggiato e non nasconde una certa preoccupazione per quello che potrà accadere in aula. Tre i possibili scenari: la Corte potrebbe decidere di disporre una provvigione, accogliendo il ricorso degli avvocati, e prendersi altro tempo per valutare tutte le perizie fornite dai legali al fine di stabilire il ‘quantum' del risarcimento; i giudici potrebbero, invece, esprimersi immediatamente sulla cifra a riparazione del danno; come terza ipotesi la Corte potrebbe invece accogliere la memoria difensiva dell'avvocatura e rigettare la richiesta di risarcimento. "Un'eventualità, quest'ultima - dice con risolutezza Cellini - che non prendiamo neppure in considerazione. Quello che mi auspico è che la Corte difenda lo stato di diritto e non lo Stato che attraverso la propria avvocatura sta portando avanti un'opposizione in malafede. Quanto ancora dovrà pagare Giuseppe Gulotta prima di poter tornare a vivere? A diciotto anni gli è stata rovinata l'esistenza, per 22 anni ha vissuto da innocente dietro le sbarre e oggi che di anni ne ha 57 ed è un uomo libero, non ha ancora trovato pace per sé e per la sua famiglia". Giustizia: caso Yara; legale di Bossetti "va scarcerato, contro lui non c'è nessuna prova" Adnkronos, 10 febbraio 2015 Nessuna prova, un "quadro indiziario assente", che sembrerebbe sfaldare quella certezza granitica che lo scorso 16 giugno aveva portato in carcere Massimo Giuseppe Bossetti per l'omicidio di Yara Gambirasio. I nuovi elementi emersi nelle relazioni dei consulenti della procura di Bergamo sembrano sottrarre pezzi al puzzle dell'accusa e dare vigore alla tesi della difesa - a cui credono in pochi - che oggi torna a chiedere la scarcerazione dell'indagato accusato di aver ucciso, con crudeltà, la giovane ginnasta di Brembate di Sopra scomparsa il 26 novembre 2010 e il cui corpo senza vita fu trovato in un campo di Chignolo d'Isola a tre mesi esatti di distanza. Nella nuova istanza di 13 pagine consegnata al gip Vincenza Maccora, il legale Claudio Salvagni si focalizza sulle nuove perizie dei consulenti dell'accusa in cui si evidenzia l'assenza di peli e capelli di Bossetti sul corpo della 13enne - "nessun reperto pilifero riconducibile all'indagato risulta rinvenuto tra quelli presenti sul cadavere della vittima e nelle immediate vicinanze", così come si esclude "in modo categorico" la presenza di tracce di Yara sugli abiti, gli attrezzi e il furgone sequestrati al 44enne muratore. "L'esito assolutamente negativo" di questi accertamenti costituisce "un rilevante e determinante elemento a favore dell'indagato - si legge nell'istanza in possesso dell'Adnkronos - e, in particolare, un fatto nuovo sopravvenuto, idoneo a contrastare concretamente gli indizi di colpevolezza posti a base della misura restrittiva", trattandosi di circostanze "che minano, senza alcun dubbio, le argomentazioni esternate dall'accusa che, in tali indagini, indicava l'esistenza di rilevanti elementi indiziari". Novità di "natura determinante" anche alla luce dei nuovi riscontri scientifici. Sulla traccia mista (Yara - Ignoto 1) trovata sugli slip della 13enne ci sono "acclarati dubbi scientifici", a dire del legale, dopo la relazione firmata lo scorso 5 gennaio dal consulente dell'accusa Carlo Previderè in cui emerge come il Dna mitocondriale di "Ignoto 1" non corrisponde con quello di Bossetti, contro una piena corrispondenza tra il Dna nucleare del presunto assassino con quello dell'indagato, possibilità difficile da spiegare a dire di più esperti. Per la difesa questa nuova consulenza "ha innegabilmente - utilizzando e richiamando le stesse parole del Tribunale di Brescia - scalfito la solidità delle conclusioni delineando manifeste incongruenze dei test rivelatori del Dna". La relazione di Previderè "oltre a costituire elemento di seria pregnanza scientifica e di indubbio valore argomentativo provenendo, peraltro, da consulente della procura" contiene "argomentazioni che pervengono a soluzioni difformi od incompatibili" rispetto a quelle finora note. Un fatto cruciale alla luce dell'ordinanza dell'ottobre scorso del tribunale del Riesame di Brescia che ha respinto, così come fatto in precedenza dal gip di Bergamo, l'istanza di scarcerazioni. Diverse però le motivazioni: se il giudice delle indagini preliminari ha ravvisato la sussistenza di "gravi indizi di colpevolezza" in particolare quattro, il Riesame riduce sostanzialmente alla traccia biologica l'elemento che costringe in carcere Bossetti. La presenza sulla cute, sugli abiti e nelle vie aeree di Yara di polvere di calce tipica dei cantieri edili non può essere considerata univoca della presenza di Bossetti; così come il dato sul suo cellulare (aggancia la cella di via Natta a Mapello alle 17.45 del 26 novembre 2010 - giorno della scomparsa -, oltre un'ora dopo rispetto alla presenza del cellulare della 13enne nella stessa zona) e la descrizione del fratellino di Yara di un possibile sospetto, per il Riesame "non ha alcuna carica cautelare, ne´ costituisce sul piano ontologico-processuale un indizio". La mancanza di valenza indiziaria di questi tre elementi riduce dunque alla traccia genetica la prova regina contro Bossetti. Un solo elemento su cui ora emergono "acclarati dubbi scientifici" ammessi implicitamente, secondo l'avvocato Claudio Salvagni, dalla stessa procura di Bergamo. La scelta di non ricorrere al giudizio immediato "dimostra, una volta di più, l'assoluta inconsistenza delle allegazioni indiziarie formulate dalla procura. Se il compendio indiziario, è asseritamente esaustivo, allora si deve chiedere il giudizio immediato", l'aver desistito dal farlo, costituisce "un determinante ‘fatto sopravvenuto" che dimostra, per il legale "l'inesistenza degli indizi di colpevolezza" contro il suo assistito. Qualora, non si dovesse tener conto dei dubbi emersi sulle traccia biologica - in seguito ai nuovi esami dei consulenti dell'accusa e a quelli depositati pochi giorni fa da Sarah Gino e Monica Omedei, esperte incaricate dalla difesa -, in tale caso, "dovrà`, comunque, valere - scrive l'avvocato Salvagni - il principio di valutazione dell'evidenza scientifica secondo il favor rei" come sancito dalla Suprema Corte, per cui "la valutazione dei gravi indizi di colpevolezza ai fini cautelari deve tenere conto della regola di giudizio a favore dell'imputato nel caso di dubbio". Il gip di Bergamo ha cinque giorni per decidere sulla nuova istanza con cui il legale chiede la revoca della misura cautelare in carcere o, in subordine, un'altra meno afflittiva come i domiciliari. Una mossa che, in caso negativo, consentirebbe alla difesa di ricorrere nuovamente in Appello e quindi ancora in Cassazione. I giudici di piazza Cavour, a cui si è già rivolta la difesa dopo il no del Riesame, il prossimo 25 febbraio dovranno pronunciarsi solo sul primo ricorso non tenendo conto delle ultime rivelazioni sull'omicidio di Yara. Criminologo Denti: palese errori su Bossetti, basta gogna pubblica "Nonostante una perizia firmata da Carlo Previderè, consulente dell'accusa, abbia evidenziato dei palesi errori nell'analisi delle tracce del Dna rinvenuto sul corpo di Yara, la Procura persista nel colpevolizzare Bossetti, sebbene sia ormai evidente che le lunghe e costose indagini non abbiano portato ad alcuna prova decisiva per la sua incriminazione". Lo afferma il criminologo investigativo Ezio Denti, che fa parte del pool difensivo di Massimo Giuseppe Bossetti, in carcere con l'accusa di aver ucciso Yara Gambirasio. "Fa specie realizzare - spiega - che in Italia dove, teoricamente, si discute del giusto processo e del sistema di garanzie a favore di chi è imputato, l'opinione pubblica e tutti gli addetti ai lavori, sin dall'arresto di Bossetti, si siano orientati nel presumerne la colpevolezza, anziché l'innocenza, senza nemmeno conoscere il contenuto delle indagini e degli atti di causa". Per Denti "le mostruose forze messe in campo dalla procura, che dovrebbero essere strumento di tutela della giustizia e mezzi per la scoperta della verità, si sono rivoltate contro un cittadino qualunque, diventando, per lo stesso, strumenti di ingiustizia e sofferenza". E se la tesi innocentista della difesa, dopo la "pubblica gogna", dovesse mostrarsi corretta "come si potrà superare - si chiede - il dramma personale e familiare che Bossetti ha affrontato e dovrà affrontare in futuro?". E al momento opportuno "si vedrà cosa avranno da dire tutti coloro che hanno visto in lui "il diavolo" o lo hanno additato - conclude Denti - come l'assassino". Sardegna: Caligaris (Sdr) "Colonie Penali senza detenuti, le aziende statali collassano" Dire, 10 febbraio 2015 "Paradossale situazione nelle tre Colonie Penali della Sardegna, le Case di Reclusione dove sono ubicate le aziende agricole in cui si praticano agricoltura e allevamento. A fronte di circa 750 posti disponibili attualmente vi lavorano soltanto 284 detenuti. Numeri particolarmente significativi se si considera che le aree in questione occupano complessivamente circa 6.200 ettari. Si configura insomma un collasso delle attività lavorative e produttive con pesanti negative ripercussioni sulle finanze dello Stato". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell'associazione "Socialismo Diritti Riforme", richiamando l'attenzione sulla necessità di "consentire l'accesso alle Colonie Penali ai detenuti che debbano scontare una pena residua di almeno 6/8 anni". "In Sardegna, gli ultimi dati del Ministero della Giustizia, evidenziano - sottolinea - una condizione critica delle Colonie. A Is Arenas (Arbus), 2.700 ettari di territorio comprese spiaggia e terre incolte, lavorano 72 detenuti per 176 posti disponibili. Non è diversa la situazione di Mamone (nel territorio di Lodè) dove per la stessa estensione territoriale sono presenti 123 reclusi per una capienza regolamentare di 392. Analogamente a Isili (800 ettari) lavorano 89 ristretti per 180 posti". "È evidente che l'ampia disponibilità di lavoro agro-pastorale contrasta - evidenzia la presidente di Sdr - con la concentrazione di cittadini privati della libertà totalmente inattivi in altre strutture penitenziarie ponendo in risalto la necessità di rivedere, almeno in parte, i criteri per l'assegnazione dei ristretti alle Colonie in modo da rendere produttive le aziende e rafforzare il programma di recupero dei reclusi. Le strutture all'aperto peraltro sono assegnate a Direttori con doppi e tripli incarichi senza contare le carenze delle figure amministrative". "Attualmente per accedere alle Colonie agricole la pena inflitta e/o residua non deve superare i 4 anni, il detenuto deve aver mantenuto una condotta costantemente corretta e deve possedere l'idoneità sanitaria. Prima del trasferimento inoltre ciascun recluso deve sottoscrivere un patto trattamentale con il quale si impegna non solo a rispettare le regole ma a partecipare attivamente alla vita della Colonia. Ciò significa - ricorda Caligaris - una responsabilizzazione personale molto importante per la riabilitazione sociale. Durante la permanenza il detenuto, che gode di una certa libertà di movimento dovendo svolgere attività lavorative, viene professionalizzato nei diversi settori dall'apicoltura alla potatura, dalla tosatura alla produzione di formaggi. Le Case di Reclusione all'aperto della Sardegna producono infatti il marchio Galeghiotto ma con un numero insufficiente di detenuti/lavoratori si corre il serio rischio di far naufragare il progetto". "Diventa dunque necessario - conclude - modificare il criterio di accesso alle Colonie portandolo almeno da 4 a 6/8 anni. In questo modo, pur con una ineliminabile valutazione del comportamento da parte dell'equipe d'Istituto, del tipo di reato e delle condizioni di salute, sarà possibile ridare slancio alle tre strutture alternative. Senza questa indispensabile modifica, da attuarsi in tempi rapidi, sarebbe più opportuno liberalizzare i territori, restituendoli alle amministrazioni locali per una valorizzazione, e promuovere cooperative sociali in cui possano trovare sbocco lavorativo anche gli ex detenuti". Napoli: Federico Perna morto di carcere, dopo un anno nessuna giustizia di Gaia Bozza www.fanpage.it, 10 febbraio 2015 Dopo oltre un anno, non c'è nessuna giustizia per il giovane di Pomezia morto in circostanze drammatiche e oscure nel carcere di Poggioreale: l'inchiesta aperta a Napoli si è impantanata. La madre: "Un martire delle carceri". L'avvocato accusa: "Non ci hanno fatto ascoltare i compagni di cella". Sono passati quindici lunghi mesi dalla morte di Federico Perna nel carcere di Poggioreale. Federico era un ragazzo di 34 anni, finito in cella per un cumulo di pene a causa di piccoli reati legati alla droga, e morto l'8 Novembre 2013 con molte gravi patologie e un corpo martoriato. Quindici mesi fa è stata aperta un'inchiesta dalla Procura di Napoli, ma da allora l'unica evoluzione è stata la richiesta di archiviazione e l'opposizione degli avvocati. Quindici mesi aggiungono pena a pena, soprattutto se non si riesce a venire a capo di una morte avvenuta in circostanze così drammatiche e oscure. "Non abbiamo ancora risposte - si sfoga la madre, Nobila Scafuro - e questo mi fa cadere le braccia. Ho fiducia nella giustizia ma spero che il giudice guardi bene a fondo la storia di Federico, che sicuramente non è morto di morte natura le come dicono. Basta guardare le sue foto, la sua situazione, le sue malattie". L'avvocato Camilo Autieri intanto, non si è fermato. Ora chiama in causa direttamente lo Stato: nello specifico, il Ministero della Salute e il Ministero della Giustizia, " che incarnano lo Stato e noi crediamo che sia dello Stato, nel suo complesso, la responsabilità della morte di Federico Perna". "Alla base della nostra azione - continua - ci sono innumerevoli pareri di medici incaricati e medici interni all'istituzione carceraria che dicono tutti, univocamente, una cosa: il ragazzo era incompatibile con il carcere". Questa mossa, spera l'avvocato, darà un impulso anche all'azione penale: "Nell'inchiesta aperta a Napoli - accusa - Siamo stati ostacolati nel diritto di difesa: di fatto, non siamo stati messi in condizione di svolgere indagini difensive". Ma in che senso? "Non ci è mai stata rilasciata copia delle cartelle cliniche del giovane - risponde Autieri. Mai date autorizzazioni per parlare con le persone che erano in cella con lui; abbiamo fatto istanze su istanze, ma non ci è stata data nemmeno risposta. Pensi che non ci hanno concesso nemmeno di ritirare gli effetti personali di Federico, le poche cose che aveva in cella". Oltre a chiamare in causa i ministeri, il legale ricorrerà anche alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo. La vicenda è quanto mai controversa e drammatica, come Fanpage.it ha raccontato in questo lungo periodo. Federico Perna era molto ammalato. Era tossicodipendente, e nonostante avesse epatite C, cirrosi epatica, leucopenia e piastrinopenia (carenza di difese immunitarie), un disturbo borderline di personalità e lamentasse problemi cardiaci, è stato trasferito di carcere in carcere fino a Poggioreale: tutte le istanze per riportarlo a casa e le richieste dei sanitari di trasferirlo in una struttura dove potesse essere curato sono state rigettate o ignorate: "Può essere curato in carcere, stiamo attendendo un ricovero, c'è carenza di letti", queste le risposte più comuni. Intanto Federico stava male: la sua situazione è il paradigma della tortura che le carceri italiane possono infliggere alle persone, tra sovraffollamento, carenza di assistenza sanitaria, abbandono e maltrattamenti. E poco importa che vi siano stati pareri da parte di medici interni alle strutture carcerarie e medici di parte che certificavano la sua incompatibilità con il regime detentivo per le gravi condizioni di salute. Si è aggiunta gravità a gravità, perché a un certo punto il ragazzo ha iniziato a lamentare fiato corto, problemi riconducibili al cuore "mai approfonditi", denunciano gli avvocati. Fino alla morte, avvenuta l'8 Novembre 2013: secondo la perizia disposta dalla Procura di Napoli si è trattato di un attacco ischemico. Ma la madre di Federico, che dopo l'autopsia aveva deciso con un gesto estremo di pubblicare le foto del figlio, stenta a credere che quel corpo martoriato sia semplicemente il risultato di un malore improvviso. Nel 2013 sono state presentate anche due interrogazioni parlamentari. Siamo nel periodo in cui è ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri, che si era interessata personalmente della vicenda di Giulia Ligresti, in carcere e affetta da anoressia, figlia dell'imprenditore Salvatore Ligresti, amico di vecchia data dell'ex ministro. Anche l'associazione Antigone Campania è intervenuta sul nostro giornale per affermare con forza che il giovane non poteva stare in carcere. "Non avevo il numero della Cancellieri", si sfogava Nobila in quel periodo. Federico lo scriveva spesso, nelle lettere alla madre, che voleva tornare a casa per curarsi: "Mamma, mi stanno ammazzando, portami a casa", ed era diventato una specie di mantra. "Mio figlio ha cambiato nove carceri in condizioni di salute disperate, è stato un martire dello Stato, lasciato morire in cella - racconta Nobila Scafuro. E poi nessuno mi leva dalla testa la smorfia di dolore impressa sul suo volto. Non aveva più i denti, aveva una grossa ustione sul braccio, un palmo della mano rotto perché secondo l'autopsia ha urtato contro un corpo contundente. C'è anche chi mi ha descritto che Federico è stato picchiato (Fanpage.it ha pubblicato una lettera, che deve essere vagliata dai difensori, ndr). Questo è un dubbio lacerante che nessuno mi toglierà mai dalla testa". Intanto, Nobila ha scritto un libro per ricordare la sua amarissima vicenda e ha aperto una associazione, "Federico Perna - Diritti e Doveri", per aiutare detenuti ed ex detenuti. E per mantenere viva la memoria di Federico. Bollate (Mi): "Abc-La sapienza in tavola", così il machete di Renzi riduce a tocchetti le coop di Damiano Aliprandi Il Garantista, 10 febbraio 2015 Dopo che la Cassa delle Ammende ha chiuso i rubinetti, le cooperative che gestivano la mensa cercano altre vie per finanziarsi. C'è la cooperativa dei detenuti "Abc-La sapienza in tavola" del carcere di Bollate (Milano) che sopravvive nonostante la chiusura del progetto di gestione della mensa. Ma la presidentessa Silvia Polleri non sa fino a quanto potranno continuare, così sta lavorando a un grande progetto che è ancora tenuto in segreto attraverso cui accedere a nuovi fondi. Da quando il 15 gennaio la Cassa delle ammende ha sospeso i finanziamenti per le cooperative che avevano in gestione le mense di nove carceri italiane, i detenuti di Abc sono pagati a mercede, attraverso un voucher erogato dall'azienda in cui sono comprese le coperture Inps e mail. Sul fatto che il finanziamento di Cassa delle ammende si interrompesse, l'amministrazione penitenziaria non ha mai fatto mistero: "Lo sapevamo già da un anno", ammette il direttore di Bollate Parisi. Per la cooperativa non ci sono più sgravi fiscali, previsti invece dalla commissione Smuraglia per il lavoro in carcere. Anche lo stipendio dei detenuti si è dimezzato con il cambio di regime: da circa 1.200 euro al mese a meno di 600. "Questo non sarà il catering della misericordia. Stiamo continuando a cercare strade alternative per proseguire con il nostro servizio", dichiara Polleri, la presidentessa della cooperativa. Da parte della direzione del carcere c'è stata la disponibilità a continuare a concedere l'uso della cucina anche per i prodotti di catering esterno, una delle stampelle su cui si reggono le finanze di Abc. I numeri raccolti dalla cooperativa confermano i risultati positivi dei dieci anni di progetti come la riduzione della recidiva: dei 50 detenuti che hanno lavorato ad Abc solo cinque sono tornati a delinquere. Polleri stima che il carcere di Bollate abbia risparmiato all'anno grazie ad Abc 43 mila euro, soprattutto in spese di manutenzione della cucina e spese per la sorveglianza dei detenuti. Ricordiamo la storia , definitivamente conclusa, sui progetti finanziati dal Governo. Nel 2003 il Dipartimento amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, avvia una sperimentazione in dieci penitenziari in tutto il Paese. Con il finanziamento del Dap si ristrutturano a fondo gli impianti delle cucine e si affida la gestione a cooperative sociali che devono formare professionalmente i detenuti. Il che ha significato lunghi periodi di formazione, affiancamento a professionisti, gestione con criteri di efficienza, adeguamento agli standard di qualità e sicurezza, fino all'inserimento dei detenuti in articolo 21 e misure alternative alla detenzione. E stipendi altrettanto veri, allineati al contratto collettivo nazionale. Dal 2009 il finanziamento non viene più erogato direttamente dal Dap, ma dall'ente del Ministero della Giustizia che finanzia i programmi di reinserimento in favore di detenuti. Finanziamento che l'attuale Governo - il quale dovrebbe essere il più sensibile alle tematiche sociali - ha deciso di non rinnovarlo. E ora con fatica le cooperative migliori stanno facendo di tutto per rimanere ancora a galla. Tempio Pausania: in carcere acqua non potabile, rifornimenti idrici assicurati da autobotti La Nuova Sardegna, 10 febbraio 2015 Nel supercarcere modello di Nuchis il problema più grosso è quello della distribuzione interna di acqua di acqua potabile. Lo hanno scoperto, due settimana fa, gli addetti ai controlli alla sicurezza e igiene interna al carcere di massima sicurezza, quando si sono resi conto, visivamente, che dai rubinetti l'acqua che sgorgava non era proprio di fonte, cristallina, ma un pochino opaca. Le immediate analisi richieste alla Asl hanno confermato la presenza di contaminazione di origine naturale, ovvero dosi al di sopra dei valori di media di ferro, da qui il colore rossastro dell'acqua. La ricerca della "fonte" di tale contaminazione pare sia state rapidissima, e qui sta il dilemma. Parrebbe che alcune condotte interne siano state realizzate, dall'impresa che ha costruito il supercarcere (la Gia.Fi. di Firenze, una delle aziende finite sotto inchiesta per gli affari con la Cricca della Ferratella) con tubature metalliche contenente ferro che, con l'usura del tempo, si sarebbero arrugginite. In attesa del completamento degli accertamenti già disposti dalla direzione del penitenziario di massima sicurezza sono scattate le contromisure. Per l'approvvigionamento idrico della struttura, che ospita duecento detenuti e dove lavorano giornalmente una ottantina di agenti, circa venti tra impiegati e funzionari e altrettanti addetti al reparto sanitario, un vero e proprio ospedale interno con medici e infermieri professionisti, è stato attivato un servizio di autobotti utilizzando furgoni dell'amministrazione penitenziaria, che portano acqua potabile alle cucine per la mensa dei detenuti (si spera anche per quella degli agenti della polizia penitenziaria) e riforniscono i depositi di acqua potabile interni. Il controllo dell'impianto idrico sarà completato nelle prossime ore da parte del personale inviato dal dipartimento per gli istituti di pena. Catanzaro Uil-Pa; visita in carcere per verifica luoghi di lavoro della Polizia penitenziaria www.catanzaroinforma.it, 10 febbraio 2015 Sabato 21 febbraio, dalle ore 9 alle ore 11.30, una delegazione della Uil guidata dal Segretario generale Carmelo Barbagallo, effettuerà una visita alla Casa circondariale di Catanzaro per verificare lo stato dei luoghi di lavoro della polizia penitenziaria. Ad affiancare il segretario generale della Uil durante la visita - è scritto in una nota - ci saranno, tra gli altri, il Segretario Generale della Uil Pubblica Amministrazione Attili, il Segretario Generale della Uil-Pa Penitenziari Sarno ed il Segretario Regionale della Calabria Uilpa Penitenziari Paradiso. Durante la visita sarà effettuato un servizio fotografico che documenterà la situazione lavorativa. Si tratta dell'ennesima tappa di una iniziativa denominata "Lo scatto dentro, perché la verità venga fuori". Un tour che ha già toccato, in poco più di due anni, circa 50 istituti Penitenziari d'Italia documentando, in numerosissimi casi, le infamanti e difficili condizioni di lavoro cui sono costretti gli agenti penitenziari e le incivili condizioni della detenzione. "Intendiamo contribuire alla diffusione di una verità troppo spesso celata dalle mura di cinta. I nostri servizi fotografici - spiega Eugenio Sarno, segretario generale della Uil-Pa Penitenziari - sono un momento alto di informazione. Riteniamo che le immagini, molto più delle parole, possano contribuire ad una presa di coscienza collettiva di come sia ancora distante la soluzione al dramma sociale delle condizioni di lavoro e di detenzione nelle nostre carceri. La presenza a Catanzaro, quindi, di Barbagallo ed Attili non solo conferma una storia ultraventennale di attenzione e sensibilità verso il mondo carcerario e di chi ci lavora di tutta la Uil, quant'anche una sollecitazione forte alla politica a risolvere, presto e bene, una questione sociale che, da più parti, è stata definita una vergogna per l'Italia". Già nel novembre del 2013 una delegazione della Uilpa Penitenziari documentò, attraverso un servizio fotografico, lo stato dei luoghi di lavoro dell'istituto di Siano "ma da aprile dello scorso anno è stato attivato un nuovo padiglione - ricorda Sarno - che sarà il soggetto principale delle nostre rilevazioni fotografiche. Sul punto è bene sottolineare come la burocrazia impedisca di assegnare in via definitiva il personale necessario al funzionamento della nuova struttura e, in attesa di una auspicata revisione delle piante organiche, si è ripiegato sull'escamotage del distacco provvisorio per le 35 unità provenienti da altri istituti penitenziari d' Italia. Così come è intollerabile che a distanza di un anno dalla chiusura del carcere di Lamezia Terme non vi sia ancora un formale decreto ministeriale di dismissione e che a sorvegliare una struttura inattiva vi sia un contingente di 6 unità di polizia penitenziaria che potrebbe essere destinato a compiti operativi più confacenti alle necessità, senza dimenticare - chiosa il Segretario della Uil-Pa penitenziari - l'esigenza del personale che ha perso la sede ad avere un quadro chiaro e certo del proprio futuro lavorativo". Copie del servizio fotografico effettuato durante la visita saranno distribuite nel corso di una Conferenza Stampa (a cui parteciperanno Barbagallo, Attili e Sarno) che si terrà nella sala conferenze del carcere di Catanzaro alle ore 12.00 di sabato 21 Febbraio 2015. Le foto saranno tutte pubblicabili, avendo già acquisito specifica autorizzazione da parte del Dap (Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria). Viterbo: detenuto assolto per metadone rubato in carcere, processo si trascinava da anni www.tusciaweb.eu, 10 febbraio 2015 Assolto su tutta la linea dall'accusa di aver spacciato eroina in carcere e rubato metadone dall'infermeria. Si trascinava da anni il processo a un quarantenne sardo, detenuto a Mammagialla per omicidio e rapina. Oggi l'assoluzione: per il tribunale di Viterbo non è stato lui a sottrarre dalla cassaforte dell'infermeria le tre fiale di metadone, insieme a un bisturi, dodici lame, pasticche psicotrope e un cucchiaino. Il furto risalirebbe a parecchi anni fa, tra il 2008 e il 2009. Il principale indiziato diventa il detenuto, trasferito a Mammagialla dalla Sardegna per il suo comportamento turbolento e con alle spalle vent'anni da recluso tra carcere e riformatorio. Praticamente metà della sua vita passata dietro le sbarre. A Mammagialla si dà da fare come addetto alle pulizie e assistente al personale medico. Proprio per questo viene sospettato del furto nell'infermeria del carcere e trovato con una sostanza che, all'apparenza e al narcotest, risultava essere eroina. Ipotesi sconfessata ieri al processo dalla tossicologa incaricata di stendere una perizia proprio sul tipo di sostanza che, a detta del perito, non era stupefacente. La difesa - rappresentata da Carlo Mezzetti - ha sottolineato anche la testimonianza di una guardia carceraria in favore del detenuto: l'esito della perquisizione personale eseguita dall'agente fu negativo. Il detenuto, peraltro, non era tossicodipendente e non faceva uso di metadone. Dal reato di detenzione ai fini di spaccio di droga è stato assolto con formula piena perché il fatto non sussiste. Scagionato, invece, dall'accusa di furto aggravato per non aver commesso il fatto. Ferrara: lo "Sport Libera" dietro le sbarre, collaborazione tra Coni e Casa circondariale www.estense.com, 10 febbraio 2015 Lo "Sport… Libera" emozioni e propone modelli di riferimento, ha regole da rispettare nonché valori quali rigore e disciplina, alla base anche di un progetto rieducativo. Ne sono fortemente convinti i promotori del progetto di collaborazione tra Coni Point Ferrara e la casa circondariale di Ferrara che ha avuto un primo momento dimostrativo al carcere di via Arginone. Da una parte l'amministrazione della casa circondariale rappresentata dal direttore Paolo Malato coadiuvato sia dal comandante del reparto di polizia penitenziaria, il commissario Paolo Teducci, sia dalla vice comandante Annalisa Gadaleta; dall'altra, il Coni Point Ferrara, con in testa il delegato provinciale Luciana Boschetti Pareschi, accompagnata da un nutrito staff tecnico sportivo, che aveva fra gli altri in Andrea Ansaloni, giocatore di pallamano, conduttore di giornata; Massimiliano Duran, ex pugile, testimonial per l'occasione; Marco Schiavina e Federico Meriggi, rispettivamente, atleta e istruttore di scherma; Mattia Musacchi e Alessandro Caccia, boxeur in via d'affermazione. Presente anche Simone Merli, assessore allo sport del Comune di Ferrara. In platea un centinaio di detenuti, quasi un terzo della popolazione della casa circondariale estense. Ai quali il movimento sportivo locale vuole offrire segnali di futuro e di concreto supporto, ben oltre l'evento: "Sensazioni positive - è il parere del commissario Paolo Teducci. La presenza del Coni testimonia la vicinanza a noi del tessuto sociale ferrarese che è molto ricettivo su questo piano. Il rispetto delle regole, d'altronde, è alla base della vita penitenziaria ma anche un domani, al di fuori di esso. Non sarà la prima né l'ultima iniziativa ma verranno ripetute: un modo per dare esecuzione al principio costituzionale sulla rieducazione del condannato". "Impatto positivissimo - ha commentato al termine il vice commissario Annalisa Gadaleta: un momento straordinario di liberazione dalle emozioni e di trasmissione di valori fondamentali per i detenuti quali rigore, difesa e disciplina. Lo sport libera veramente. Perciò ci sarà una lunga serie d'iniziative". La commovente testimonianza sul mondo pugilistico dell'ex campione mondiale dei massimi leggeri Massimiliano Duran, insieme a quella di Gualtiero Becchetti, autore di un libro dedicato alla famiglia Duran, e l'istrionico accompagnamento del maestro Federico Meriggi nei segreti più reconditi della scherma, hanno coinvolto i presenti ai quali vanno aggiunti anche gli operatori educativi e non, che a vario titolo completano il quadro del personale oltre a quella della polizia penitenziaria. Dare continuità alla singola proposta attraverso la presentazione di un progetto ad hoc è in questa fase obiettivo di tutti: "Abbiamo già la disponibilità di tre persone tra tecnici, insegnanti e istruttori qualificati - anticipa Luciana Pareschi - finalizzata a svolgere all'interno delle carceri sedute di ginnastica a cadenza e orari concordati con l'amministrazione della casa circondariale, per ora quasi certamente fino a maggio 2015. Una di queste, poi, in quanto anche insegnante di arti marziali, potrebbe fornire corsi di formazione a titolo gratuito al personale di polizia penitenziaria. Oltre ad attivarci per calendarizzare evento il reperimento di vestiario e abbigliamento tecnico e attrezzature varie per il riadattamento delle palestre. Al momento disponibile già un virtual trainer". Garante delle proposte è naturalmente anche Paolo Malato, direttore della casa circondariale estense, che in questo modo vedrebbe ulteriormente attuato il regime "a celle aperte" che consente ai "detenuti di poter star fuori dalla camera di pernottamento per almeno otto ore giornaliere potendo utilizzare gli spazi comuni fra cui la palestra attrezzata". Un modo concreto per affermare davvero che anche lo sport libera. Cagliari: l'ex carcere cerca una destinazione, perché non usarlo per dare asilo ai poveri? di Patrizio Carboni www.sardegnalive.net, 10 febbraio 2015 Sito su un colle che gode di una vista mozzafiato sul golfo di Cagliari, l'ex penitenziario da cui nessuno riusciva ad evadere, è oggi al centro di un'accesa disputa per deciderne la destinazione. Per molti dovrebbe essere destinato a luogo di incontro culturale, oppure un museo della sofferenza o comunque una tappa turistica. Per altri, a seconda dell'ideologia, si potrebbe trasformarlo in Hotel di lusso, oppure in pensione a basso costo. A ognuno la sua, senza che nessuno abbia pensato che in tempi di crisi, nei quali la Caritas non riesce a soddisfare le richieste, avere un tetto sulla testa diventa un vero lusso per tante persone. Cosi il carcere di Buoncammino, di recente abbandonato dai suoi ospiti, potrebbe essere la soluzione per chi questo tetto non lo ha. Oppure per chi, avendo perso il lavoro, non ha neppure la possibilità di un brodo caldo per la cena. Le stanze e i relativi bagni così come la "sala delle colazioni" non sono meritevoli delle 5 stelle. Ancora meno somigliano all'Hotel Aman (7 stelle), situato sul Canal Grande a Venezia e ricavato da un palazzo del XVI° secolo. Ma la struttura c'è, è li che aspetta, con tanto di infermeria, sala mensa, bar, oltre che stanze e bagni pronti per l'uso. Sarebbe sufficiente affidare l'immobile ad un'associazione di volontariato per la gestione dei servizi principali, con la prospettiva di ricevere, in cambio dell'ospitalità, altrettanta buona volontà per la manutenzione ordinaria dello stabile. Chi è ospite infatti dovrebbe anche lavorare per poterlo tenere in uno stato decoroso: qualcuno che pitturi, altri che si occupino dell'impianto elettrico o idraulico, del giardino o, più semplicemente: delle pulizie. Diversamente da quanto accade di frequente in tante case popolari, dove regna l'abbandono solo perché si tende ad aspettare l'intervento del comune anche per sostituire una lampadina o tagliare l'erba del prato. Camerino (Mc): yoga, musica e pittura per i detenuti, stanziati 14mila euro dal Comune di Monia Orazi Cronache Maceratesi, 10 febbraio 2015 Lo scopo del progetto organizzato in collaborazione con l'Ato 18 sarà potenziare la condizione fisica della persona e le capacità di avere di acquisire professionalità spendibile all'esterno. Ancora critiche le condizioni della casa circondariale che ospita 45 persone, di cui sei donne e 39 uomini, a fronte di una capienza regolamentare di 33 unità complessive. Yoga, un cane per amico con la pet therapy, musica, informatica, laboratorio di scrittura creativa, corso di ginnastica dolce e pittura. Sono le attività messe in campo dal Comune per far sentire meno soli i detenuti della Casa circondariale di Camerino. Così si cercherà di "Potenziare la condizione fisica della persona - riporta la relazione dell'amministrazione comunale sui progetti annuali destinati alla popolazione detenuta - e le capacità di avere di acquisire una professionalità spendibile all'esterno, con funzione di socializzazione". Circa 14mila euro per interventi durante tutto il 2015. In collaborazione con l'ambito territoriale sociale 18 sono stati organizzati una serie di progetti per il carcere, che attualmente ospita 45 persone, di cui sei donne e 39 uomini a fronte di una capienza regolamentare di 8 donne e 25 uomini. Le attività scolastiche e culturali si svolgono nella cappella del carcere, dove spesso di domenica l'arcivescovo Francesco Giovanni Brugnaro celebra la messa domenicale. Un gruppo di volontarie della San Vincenzo De Paoli aiuta i detenuti, con vestiario e piccole attività di solidarietà. Il ricambio dei detenuti è abbastanza rapido, per la maggior parte si tratta di persone extracomunitarie. Nel tavolo di incontro tra rappresentanti del Comune, operatori della casa circondariale, del Sert di Camerino, dell'ambito territoriale sociale è emersa la volontà di portare avanti quanto già avviato negli anni scorsi con lo sportello unico, il mediatore linguistico-culturale ed il consulente legale, mentre all'interno della struttura sono già presenti educatore e psicologo. Sarà avviato un corso base di informatica e attività di formazione ed interventi per migliorare l'inclusione sociale ed i rapporti con il mondo esterno. Saranno attuati due progetti: "Apriamo i muri" di promozione della persona con la redazione di un giornalino per far conoscere le storie individuali dei detenuti e far loro conoscere la realtà territoriale in cui si trovano e "Dietro le sbarre", che grazie al gruppo di volontarie della San Vincenzo De Paoli permette ai detenuti stranieri e coloro che sono senza rete familiare di far fronte alle necessità quotidiane ed igieniche. Siracusa: Osapp; aggrediti agenti penitenziari, situazione al collasso, serve più personale www.giornalesiracusa.com, 10 febbraio 2015 Resta alta la tensione nelle carceri, è di pochi minuti fa la notizia di una nuova aggressione nei confronti di alcuni agenti penitenziari. Qui di seguito il comunicato del segretario generale dell'Osapp, Domenico Nicotra, che punta il dito sul necessario rafforzamento di personale del Copo di Polizia Penitenziaria: "Ennesima aggressione nel carcere di Siracusa e poliziotti penitenziari inviati al pronto soccorso". "Alle 11 di ieri - prosegue Nicotra - un detenuto extracomunitario per motivi ancora sconosciuti si è scagliato violentemente contro i Poliziotti Penitenziari presenti causando il trauma cranico e la rottura di un braccio di un ispettore, oltre che varie contusioni riportate da altro personale del Corpo intervenuto per riportare l'ordine e la sicurezza". L'episodio di questa mattina segue una furente rissa avvenuta nei giorni scorsi tra detenuti, tutti di alta sicurezza, di origine campana e catanese. "È evidente - conclude Nicotra - che le carenze di personale del Corpo fanno regredire gli standard di sicurezza penitenziaria e che, pertanto, non sono più rinviabili urgentissimi provvedimenti che incrementino il poco personale perché diversamente, purtroppo, la questione non può che degenerare". Mantova: Polizia penitenziaria sequestra 100 grammi di hashish in sala attesa di familiari Adnkronos, 10 febbraio 2015 La Polizia penitenziaria, nell'ambito di un'operazione antidroga, ha trovato e sequestrato circa 100 grammi di hashish nascosti in carcere presso la Sala d'attesa dei familiari dei detenuti. La droga, secondo gli accertamenti effettuati, sarebbe stata pronta per essere ritirata dal detenuto lavorante addetto alle pulizie, per poi introdurla all'interno delle sezioni. Il personale di Polizia Penitenziaria ha atteso che il detenuto se ne appropriasse per coglierlo in flagranza. A dare notizia del sequestro è Donato Capece, segretario generale del sindacato autonomo polizia penitenziaria, il Sappe. In una nota, Capece sottolinea che "questa importante operazione di servizio, oltre a confermare il grado di maturità raggiunto e le elevate doti professionali del personale di polizia penitenziaria in servizio nel carcere di Mantova, ci ricorda che il primo compito della polizia penitenziaria è e rimane quello di garantire la sicurezza dei luoghi di, ferma restando la necessità di adottare tutti gli accorgimenti utili a stroncare l'ingresso nei penitenziari di stupefacente e di ogni altro oggetto vietato. È possibile immaginare quali pericolose conseguenze avrebbe determinato il possesso e il consumo di droga nelle celle". Capece ricorda poi la situazione del carcere di Mantova dove "nel corso del 2014 un detenuto ha tentato il suicidio, salvato in tempo dai poliziotti penitenziari, ci sono stati 17 episodi di autolesionismo, 2 ferimenti e 16 colluttazioni. A dimostrazione che l'emergenza penitenziaria intesa come vivibilità delle carceri non è affatto superata e che il personale di polizia penitenziaria paga quotidianamente, in termini di stress e di sicurezza personale, un grande tributo per la gestione degli eventi critici che si verificano ogni giorno nelle carceri". Torino: caffè, sigarette e fornelli… in mostra i riti dei detenuti nelle carceri italiane Redattore Sociale, 10 febbraio 2015 La mostra fotografica si chiama "Pure ‘n carcere ‘o sanno fa" e a volerla è stato il Garante regionale del Piemonte. Vi sono raccolti una ventina di scatti del fotografo cuneese Davide Dutto, che ha immortalato i detenuti nell'atto di cucinare o preparare la moka. In "Don Raffaé", una delle sue canzoni più famose, il compianto Fabrizio De André raccontava la quotidianità del carcere attraverso una serie di dialoghi tra i detenuti che aspettavano insieme il gorgoglio della moka, per gustare uno dei pochi piaceri ancora concessi a chi è rinchiuso in cella, quello del caffè. Venticinque anni dopo, il fotografo cuneese Davide Dutto ha preso a prestito uno dei versi di quella canzone per dare titolo a un esperimento sulla stessa falsariga. Realizzata su impulso del Garante regionale dei detenuti per il Piemonte, "Pure ‘n carcere ‘o sanno fa" raccoglie una serie di scatti realizzati nelle case circondariali di Fossano (Cuneo), Saluzzo, Alessandria e al "Lorusso e Cutugno" di Torino. Ritratti soprattutto durante la preparazione della moka, i detenuti sono immortalati anche in cucina, a tavola o durante il lavoro nei laboratori allestiti dalle cooperative presenti negli istituti di pena. "La mostra - spiega Dutto - rappresenta l'evoluzione di un progetto iniziato nel 2003 con la mia associazione cuneese, Sapori reclusi, che si occupa principalmente di osservare la cucina e il cibo nelle carceri italiane attraverso la fotografia. Mentre aspettavamo il caffè, a ogni detenuto chiedemmo di raccontarci una storia, che abbiamo poi trascritto con l'intenzione di farne delle didascalie per le foto". Quegli aneddoti ora accompagnano i venti scatti che dallo scorso lunedì possono essere visitati nell'Ufficio relazioni con il pubblico del Consiglio regionale del Piemonte. C'è il Nord Africano che racconta di un momento di profonda solitudine, quando "nella tazzina piena di caffè, scura, amara, vedevo solo brutti presagi"; quello che alle 7 di ogni mattina si sveglia per andare in cucina a preparare la moca per tutto il suo braccio, "facendo attenzione a non fare troppo rumore, che a quell'ora in carcere dormono ancora tutti"; o ancora il Senegalese, che racconta di non aver mai conosciuto il sapore del caffè prima di venire in Italia, come nemmeno quello della reclusione. "In carcere - racconta Dutto - la preparazione della moka è un vero e proprio rito, un momento di condivisione e di evasione dalla quotidianità della reclusione. Ogni cella ha una sua variante, che spesso nasce dalla contaminazione delle varie ricette regionali: qualcuno, assieme alla miscela, mette un chicco di sale grosso o una fogliolina di menta; quasi tutti poi, preparano la cremina con lo zucchero e la prima parte del liquido, e anche qui le varianti sono infinite. Gli arabi offrono il caffè alla turca ai detenuti italiani, e viceversa". Inaugurata alla presenza del presidente del Consiglio regionale Bruno Mellano, e del Garante dei detenuti Mario Laus, la mostra è realizzata con la collaborazione della rete del Caffè Sospeso, circuito di bar ed esercizi commerciali che stanno cercando di riportare in auge la vecchia usanza di lasciare un caffè pagato per chi non può più permetterselo. Al progetto ha inoltre preso parte la rete delle cooperative che lavorano con i detenuti all'interno delle carceri piemontesi: come "Fumne", l'atelier nato nella sezione femminile del Lorusso e Cutugno di Torino, dove un gruppo di detenute realizza oggetti per la casa, abiti e accessori da donna. All'inaugurazione, inoltre, era presente il regista e sindaco di Fossano Davide Sordella, che ha presentar tre lavori realizzati con i detenuti della casa circondariali del suo comune: il cortometraggio "La squadra" e i videoclip "Pausa caffè" e "Pausa sigaretta". "Pure ‘n carcere ‘o sanno fa" rimarrò aperta fino al prossimo 3 marzo nell'Ufficio relazioni con il pubblico del Consiglio regionale del Piemonte, in via dell'Arsenale 14. La mostra è visitabile negli orari di apertura dell'Urp, ovvero dal lunedì al venerdì dalle le 9 alle 13 e dalle 14 alle 16. Per informazioni 800101011. Immigrazione: giovane siriano tenta di togliersi la vita nel Cie di Ponte Galeria di Annamaria Rivera Il Manifesto, 10 febbraio 2015 Il giovane è stato sottoposto a due interventi chirurgici. Proteste degli altri migrati rinchiusi. Decine di volte ho scritto, in saggi e articoli, contro i lager di Stato o, se l'espressione vi sembrasse eccessiva, dei Guantánamo italiani. Ma altra cosa è essere messa brutalmente di fronte alla loro realtà materiale e umana, alla loro concreta essenza concentrazionaria. All'orrore di lunghi, allucinanti corridoi di sbarre, dove i più camminano come fantasmi, qualcuno urla senza sosta la propria angoscia. All'agitazione contagiosa di persone, anche giovani, cui è stata inflitta la "doppia pena": il lager dopo il carcere. Allo squallore di camerate prive d'ogni arredo e colore. Allo stanzino angusto e senza finestre, con un logoro materassino di gommapiuma, messo sul pavimento come giaciglio. Qui, secondo la spiegazione dei nuovi gestori del Cie di Ponte Galeria, sono isolati certi "utenti" (è il loro lessico, da banalità del male), quelli che hanno bisogno di assistenza o sorveglianza "perché non si facciano del male". Qui ha trascorso la serata e la notte tra il 6 e il 7 febbraio un giovane internato, forse di nazionalità siriana, reduce da un intervento chirurgico per essersi tagliato, con una lametta, vene e tendini di un polso. Ha passato quella notte in compagnia delle forze dell'ordine, che non devono avergli riservato cure troppo amorevoli, né devono essersi commosse oltre misura ai suoi pianti e alla disperazione. Fatto sta che l'indomani mattina, polso e avambraccio erano talmente gonfi da richiedere una nuova visita in ospedale, alla quale seguirà, sembra, una seconda operazione. Non prendo per oro colato ciò che dicono alcuni testimoni dall'interno del Cie, a proposito d'una presunta istigazione all'atto autolesionistico da parte d'un rappresentante delle forze dell'ordine. Ma non sarebbe troppo sorprendente: lo schema più consueto degli atti di autolesionismo compiuti nei lager per migranti (quello di Ponte Galeria ne ha una storia ragguardevole) contempla la provocazione di qualcuno "che sta sopra". Si consideri, inoltre, che lì agli internati è proibito tenere perfino penne e matite, meno che mai, evidentemente, lamette e altri oggetti affilati. Lo ho potuto constatare di persona il 27 gennaio scorso, nel corso della visita in quel Cie, compiuta insieme con Gabriella Guido, di LasciateCIEentrare, Daniela Padoan, portavoce dell'eurodeputata Barbara Spinelli e altri. Sarebbe opportuno, dunque, che s'indagasse sulla dinamica che ha indotto un così giovane internato a tagliarsi le vene. Del pari, converrebbe verificare le voci numerose - d'internati ed ex internati - che dicono di una "squadretta" delle forze dell'ordine, talvolta accompagnata da cani (anch'essi vittime di quel sistema), pronta a intervenire con modi non troppo gentili nei confronti dei più agitati tra gli "utenti". Quel venerdì mattina del 6 febbraio, la vista del giovane siriano che perdeva sangue copiosamente aveva scatenato una rivolta, con l'usuale corollario del rogo di materassi (saranno stati sostituiti con letti più decenti?). Rivolta effimera e vana: tutto sembra tornato come prima, se non fosse per l'attenzione da parte di alcuni rappresentanti della "società civile" e delle istituzioni (tra i quali, la già citata Spinelli). Le cui regolari visite e denunce, però, non sembrano incidere granché sulla struttura e sulla routine di quell'isola concentrazionaria, così come di altre simili. Può accadere perfino che a visite di tal genere seguano atti illegittimi ai danni degli internati: ritorsioni o solo casuali coincidenze nefaste? Il giorno dopo la nostra, del 27 gennaio, il console nigeriano sarebbe entrato nel Cie per identificare diciannove suoi concittadini da rimpatriare. Il 29 gennaio i diciannove, compreso un giovane richiedente asilo in sciopero della fame e condizioni di salute assai precarie, sarebbero stati deportati in Nigeria con un charter dell'Agenzia Frontex: un caso di scandalosa violazione di direttive europee, della Carta dei diritti dell'Ue, dello stesso articolo 10 della nostra Costituzione. Quanto alle condizioni del Cie, le cose sembrano perfino peggiorate dacché all'Auxilium, ente gestore fin dal 2010, dal 15 dicembre scorso è subentrata l'Associazione Acuarinto di Agrigento: facente parte di un raggruppamento d'imprese guidato dalla Gepsa, una SpA francese che si occupa di penitenziari, a sua volta filiale di Cofely, holding dell'energia, controllata dalla multinazionale Gdf-Suez. L'appalto è stato ottenuto grazie alla drastica riduzione dei costi, del personale e dei servizi garantiti. Si immagini cosa voglia dire, in una situazione così esplosiva, la riduzione non solo di cibo, sigarette, tessere telefoniche, ma anche degli oggetti più elementari per il decoro personale e dei servizi di assistenza psicologica. Sempre più si ribelleranno, le nonpersone dette ipocritamente utenti, affermando così la pienezza della loro umanità. Iraq: italiano convertito all'Islam arrestato in estate a Erbil, voleva unirsi all'Isis di Alberto Zanconato Ansa, 10 febbraio 2015 Dall'Italia all'Iraq, con il sogno di entrare a combattere nelle file dello Stato islamico. È questa la storia di un connazionale che dall'estate scorsa è in carcere in Kurdistan. "Una storia strana", l'ha definita il presidente della regione autonoma irachena, Massud Barzani, in un'intervista al quotidiano panarabo al Hayat, sottolineando che l'uomo è arrivato con un visto regolare dalla Turchia dichiarando apertamente alle guardie di frontiera di voler diventare un jihadista. Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni si è limitato a confermare oggi che un connazionale è stato "arrestato a luglio scorso nella zona di Erbil" ed è "detenuto dal dipartimento antiterrorismo della regione autonoma curda". Da parte sua, l'ambasciatore a Baghdad, Massimo Marotti, ha detto all'Ansa che le autorità diplomatiche sono state informate in settembre dell'arresto di un italiano e che da allora "gli viene fornita assistenza consolare". Marotti ha aggiunto di non avere ancora ricevuto dalle autorità locali alcun atto in cui vengano precisate le accuse rivolte all'arrestato. Nessuna notizia è stata data sull'identità dell'uomo. Tuttavia, già il 18 gennaio scorso, il ministro dell'Interno, Angelino Alfano, aveva fatto sapere che un italiano, identificato come Giampiero F., era in carcere in Iraq per terrorismo internazionale. E, secondo fonti locali contattate oggi dall'Ansa, non vi sono altri connazionali che risultino detenuti in Iraq. Giampiero F., nato a Reggio Calabria 35 anni fa, è cresciuto a Bologna. Lì si converte all'Islam, si avvicina a circoli integralisti contigui al terrorismo e crea una rete di contatti. Dopo un periodo in Spagna (viene segnalato a Granada), transita dal buco nero della Turchia per provare ad arrivare nei territori del Califfato. Alcune comunicazioni via whatsapp con altri convertiti italiani sembrano inequivocabili: "È iniziata la mia lotta contro l'Occidente predone". "Islam libertà per i popoli oppressi". "Lottiamo fino alla fine per liberare le terre schiacciate dalla violenza occidentale". I suoi familiari, citati recentemente da organi di stampa, erano rimasti sorpresi dalle scelte fatte dal loro congiunto, dicendosi convinti che fosse stato sottoposto ad un lavaggio del cervello. Intanto però il Califfo dello Stato islamico, Abu Bakr al Baghdadi, ha sospeso proprio il reclutamento di miliziani stranieri, cioè al di fuori dell'Iraq e della Siria, per il timore di infiltrazioni nella rete jihadista, mentre dagli Usa arrivano segnali che si sta preparando una controffensiva contro le forze dell'Isis a partire dall'Iraq. Il quotidiano panarabo Al Arabi al Jadid, edito dal Qatar, cita a questo proposito una "fonte ben informata del ministero della difesa iracheno" secondo la quale il bando riguarda in particolare gli aspiranti jihadisti provenienti da alcuni Paesi della Coalizione internazionale a guida americana che combatte lo Stato islamico. Coalizione che sta preparando una "massiccia offensiva" a partire dall'Iraq, secondo quanto ha affermato in un'intervista all'agenzia giordana Petra il generale americano John Allen, coordinatore dell'alleanza, che oggi era in visita ufficiale ad Amman. In Afghanistan, nel frattempo, il jihadista che era considerato il responsabile dell'Isis nel Sud del Paese, il Mullah Abdul Rauf, è stato ucciso da un razzo probabilmente sparato da un drone Usa che ha centrato in pieno l'auto su cui viaggiava nella provincia di Helmand. Lo hanno reso noto oggi i servizi di intelligence (Nds) a Kabul, aggiungendo che Rauf, noto con il soprannome di Khadim, è morto con cinque suoi collaboratori. L'utilizzazione di un drone è stata resa nota dal vice governatore della provincia di Kandahar. Secondo i servizi d'intelligence, l'attività del Mullah Rauf, che in passato era stato ai vertici dei Taleban addirittura come braccio destro del Mullah Omar, conferma che l'Afghanistan rimane una delle basi del terrorismo internazionale. Siria: Ong lancia motore online per ricercare i detenuti nelle carceri del regime Adnkronos, 10 febbraio 2015 Un motore di ricerca online per rintracciare i detenuti. È questa l'iniziativa lanciata dalla Rete siriana per i diritti umani, una ong nata nel 2011 sulla scia della rivoluzione contro il regime del presidente Bashar al-Assad, che si prefigge di documentare tutte le violazioni dei diritti umani che si verificano in Siria. Il nuovo motore di ricerca contiene i dati di decine di migliaia di detenuti rinchiusi nelle carceri del regime siriano e di cui si ha documentazione, ma il servizio permette anche al visitatore di aggiungere informazioni a sua disposizione su un detenuto, come il nome, la foto, la data di nascita, il luogo o la data dell'arresto. Non esistono dati ufficiali sul numero dei siriani detenuti nelle carceri del regime di Assad dall'inizio della rivoluzione, ma secondo gli attivisti si tratta di decine di migliaia di persone. Stati Uniti: in Oklahoma per la pena di morte camere a gas invece del cocktail di farmaci? Ansa, 10 febbraio 2015 Sarebbe una sorta di "piano B": lo stato americano dell'Oklahoma sta valutando la possibilità di utilizzare le "camere a gas" come metodo per l'esecuzione delle condanne a morte, in attesa che la Corte suprema degli Stati Uniti si esprima sull'uso dei medicinali impiegati per le iniezioni letali. Proprio in seguito al ricorso di tre condannati a morte in Oklahoma, la Corte suprema Usa ha deciso di riesaminare la costituzionalità delle nuove combinazioni di farmaci per l'iniezione letale che alcuni stati utilizzano per le esecuzioni. L'alta corte, che il mese scorso ha permesso l'esecuzione di un detenuto con lo stessa combinazione di farmaci, dovrà decidere se l'uso del cocktail viola il divieto della Costituzione americana di infliggere punizioni crudeli. In particolare, i giudici dovranno verificare se il sedativo midazolam possa essere utilizzato nelle esecuzioni a seguito dei timori che non produca un profondo stato comatoso e di incoscienza. Dovranno inoltre assicurarsi che il detenuto non sperimenti un dolore intenso e inutile quando gli vengono iniettati altri farmaci per ucciderlo. Lo scorso anno in Tennessee è stata approvata una legge che consente l'impiego della sedia elettrica nel caso in cui non si possano ottenere i farmaci necessari per l'iniezione letale, mentre nello Utah e in Wyoming si sta valutando di ripristinare l'utilizzo del "plotone di esecuzione". Russia: la pilota ucraina che muore di fame nelle galere russe di Marco Sarti www.linkiesta.it, 10 febbraio 2015 Storia di Nadiya Savchenko, militare ucraina detenuta da giugno in Russia. In Patria è un simbolo. In Ucraina è considerata un'eroina, in Russia un'omicida. Trentatré anni, occhi azzurri e capelli cortissimi, Nadiya Savchenko è divenuta sua malgrado il simbolo del conflitto nel Donbass. Ex ufficiale delle forze armate di Kiev, dalla scorsa estate è detenuta a Mosca. In sciopero della fame dal 15 dicembre, questa settimana un tribunale russo deciderà il suo destino. Intanto la storia di Nadiya arriva in Parlamento. Un'interrogazione della deputata Pd Eleonora Cimbro porta all'attenzione della politica italiana il dramma della militare ucraina. Tutto a pochi giorni dall'atteso vertice di Minsk, quando i presidenti Petro Poroshenko e Vladimir Putin discuteranno il piano di pace franco-tedesco, al momento senza troppa speranza di trovare una soluzione. In questi mesi Nadiya è diventata il simbolo dell'orgoglio patriottico. Prima ragazza ammessa nella prestigiosa accademia aeronautica di Kharkov, unica donna a partecipare alla missione di pace in Iraq. Nel 2009 la giovane ufficiale ucraina diventa pilota di elicotteri d'attacco e cacciabombardieri. Un anno fa Nadiya lascia il suo reparto per andare a combattere nella regione di Luhansk, la regione contesa ai ribelli filorussi. Si unisce al battaglione Aidar, uno dei tanti battaglioni di volontari che affiancano le forze regolari contro i separatisti (spesso protagonista di abusi denunciati da Amnesty International). Il 17 giugno Nadiya viene catturata durante un'azione. Trasferita in Russia pochi giorni dopo, "il 30 giugno - come si legge nel documento depositato alla Camera - la sua detenzione diventa ufficiale". Qui inizia il calvario. La commissione investigativa russa che si occupa della vicenda ipotizza la responsabilità dell'ufficiale nella morte di alcuni giornalisti. Sono due corrispondenti di Mosca. Secondo l'accusa è stata la pilota ucraina a fornire le coordinate che hanno permesso di colpire con alcuni mortai la troupe televisiva. Ma Nadiya sarebbe anche colpevole di aver volontariamente oltrepassato il confine, confondendosi tra i rifugiati. La versione di Kiev è molto diversa. Il legale di Nadiya è l'avvocato che tre anni fa ha difeso a Mosca le attiviste del gruppo Pussy Riot. Davanti alla commissione investigativa viene presentata una documentazione "indicante chiaramente l'innocenza dell'imputata", spiega l'interrogazione parlamentare. Secondo la difesa, la pilota ucraina è stata fermata dai separatisti filorussi prima dell'attacco che ha causato la morte dei giornalisti. E ne è quindi totalmente estranea. I legali denunciano le condizioni inaccettabili della detenzione. Per oltre un mese l'ufficiale ucraino viene trattenuto in un ospedale psichiatrico a Mosca. Per le autorità russe è una fase necessaria per i dovuti accertamenti medici. In realtà, spiega l'interrogazione alla Camera dei deputati, la permanenza ha l'obiettivo di isolare ancora di più Nadiya. Nella struttura non viene ammesso alcun osservatore internazionale. Anche i contatti con i legali sono rari. Un incontro a settimana. "I suoi colloqui sono controllati - si legge - avvengono da dietro un vetro, attraverso un telefono. È fatto obbligo di parlare solo in russo". Russi e ucraini si smentiscono vicenda. Le autorità di Mosca assicurano di aver rispettato tutti i diritti della detenuta, a Kiev si denunciano le torture subite dalla giovane militare. "La luce della cella - spiega l'interrogazione della deputata italiana - è accesa 24 ore al giorno". Nonostante le richieste, a Nadiya vengono negate le cure mediche per un'acuta infiammazione all'orecchio. Fino a quando perde parzialmente l'udito. "Il suo trasporto coatto in Russia - si legge ancora nel documento di Montecitorio - è considerato sequestro dalle principali leggi internazionali". E ancora: "Le accuse verso di lei sono motivate politicamente e le prove non sono imparziali. Ciò in violazione della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali". E così il 15 dicembre la Savchenko inizia uno sciopero della fame. In prigione rifiuta il cibo, accettando solo acqua e tè. In Ucraina è già un'eroina. Per il presidente Poroshenko la giovane soldatessa rappresenta "il simbolo del sacrificio del Paese. Imprigionata, ha dimostrato il fiero spirito di un militare che non tradisce la Madrepatria". Pochi mesi prima Nadiya è stata anche eletta in Parlamento. Un'elezione in absentia - durante il voto di ottobre - che le ha consentito di acquisire lo status di deputata. Non è una differenza di poco conto. Il nuovo incarico permette alle Camere di approvare una risoluzione che chiede ufficialmente a Vladimir Putin la liberazione della parlamentare. Richiesta a cui non segue alcuna risposta. Ma non è solo il Parlamento ucraino a rivolgersi alle autorità russe. Lo scorso 18 settembre il Parlamento europeo, adottando una risoluzione sul conflitto ucraino, chiede al Cremlino il rilascio di alcuni cittadini di Kiev, compresa la Savchenko. Richiesta reiterata pochi giorni fa dal presidente ucraino Poroshenko. A richiedere la liberazione di Nadiya, solo poche ore fa, anche quattordici ministri degli Esteri Ue riuniti a Bruxelles. Il destino della deputata ucraina potrebbe decidersi nelle prossime ore. Detenuta nel carcere di massima sicurezza di Lefortovo, a Mosca, i termini della custodia cautelare di Nadiya scadono il prossimo venerdì. La commissione investigativa ha chiesto di estendere le indagini fino a maggio e prolungare l'arresto. A breve un tribunale russo deciderà se accettare la richiesta. Iraq: "confessioni estorte con tortura", legale tre condannati a morte chiederà amnistia Nova, 10 febbraio 2015 L'avvocato dei detenuti sauditi in Iraq, Hamed Ahmed, ha rivelato la sua intenzione di chiedere una nuova amnistia al presidente della Repubblica dell'Iraq per oltre venti detenuti sauditi, nei vari carcere dell'Iraq. Ahmed ha detto al quotidiano saudita "Okaz" che intende presentare una richiesta di revisione del processo per i prigionieri sauditi condannati a morte, "poiché le loro confessioni sono state estorte sotto la minaccia della tortura". I detenuti sauditi condannati alla pena capitale sono: Abdullah Azzam, Badr Aofan Jarallah, Ali Hassan al-Fadel. Arabia Saudita: detenuto al Qaeda accusa 3 alti funzionari di Riad di sostenere terroristi Nova, 10 febbraio 2015 Gli ex capi dell'intelligence saudita Turki al Faisal e Bandar bin Sultan al Saud e il principe miliardario al Waleed bin Talal sarebbero tra le figure di spicco dell'entourage politico e religioso dell'Arabia Saudita che hanno sostenuto finanziariamente al Qaeda negli ultimi anni. È quanto emerge dalle testimonianze rese a un tribunale statunitense da Zacarias Moussaoui, cittadino francese condannato all'ergastolo per il proprio ruolo negli attentati dell'11 settembre 2001. Il jihadista ha affermato di aver ricoperto il ruolo di corriere per l'ex leader dell'organizzazione Osama bin Laden e, sulla base delle informazioni ricevute, di aver compilato una lista dei principali donatori di al Qaeda. "Lo sceicco Osama voleva tenere memoria dei nomi di chi contribuiva al Jihad", ha spiegato Moussaoui. L'ergastolano ha riferito inoltre di aver incontrato il re saudita Abdullah, scomparso alla fine di gennaio, insieme ad altri membri della famiglia reale di Riad con messaggi da parte di Osama bin Laden. Ancora, Moussaoui ha detto di aver discusso in Afghanistan di un possibile attacco all'Air Force One con un ufficiale dell'ambasciata saudita a Washington. "Sarei dovuto andare negli Stati Uniti con lui per organizzare l'attacco e riuscire poi a fuggire - ha raccontato - ma sono stato arrestato prima di entrare in azione".