La Consulta non è un’arena politica di Andrea Pugiotto Il Manifesto, 9 dicembre 2015 Che il Parlamento non riesca a garantire il plenum della Consulta è il remake di un film già visto: un anno fa, servirono 21 scrutini per eleggere la giudice Sciarra. I suoi sottotitoli confermano un grave deficit di cultura istituzionale tra forze politiche e gruppi parlamentari. Le prime mostrano una concezione proprietaria di un organo posto a tutela della Costituzione: le loro logiche, solo apparentemente diverse ("si fa come dico io", "devono bussare alla nostra porta", serve "il necessario lavorio per convincere chi esita"), esprimono la stessa faziosa egemonia su un organo di garanzia ridotto a cosa loro. Assecondando tali logiche, o perseguendone altre inconfessate al riparo del voto segreto, l’aula parlamentare erode a ogni scrutinio il proprio capitale di credibilità istituzionale, già a livelli di guardia. Con l’aggravante della recidiva: come a inizio legislatura per l’elezione del Capo dello stato, il parlamento conferma una disfunzionalità che tradisce insofferenza verso le figure garanti della Costituzione, quale regola e limite al potere legislativo. Tutto ciò si paga, a prezzi d’inflazione, specialmente a palazzo della Consulta. La defezione, anche occasionale, di altri due giudici provocherebbe l’arresto cardiaco di una Corte che, già quest’anno, ha spesso deliberato con undici membri. Questioni di costituzionalità problematiche e di grande impatto ordinamentale sono decise a maggioranza, anche con il minimo scarto. Costretta a lavorare a ranghi ridotti, inevitabilmente ridotta è la risposta alle domande di giustizia costituzionale. Manca quella piena collegialità che garantisce - in una Corte dove non è ammessa l’opinione dissenziente - una decisione impersonale davvero condivisa, dunque meglio ponderata. Su tutto, è la percezione diffusa dell’organo a uscirne stravolta. Lo stallo parlamentare, infatti, è spiegato alla luce delle decisioni cui i nuovi giudici concorreranno: ecco perché ciascuno vuole imporre "il suo". Si accredita così, pregiudicandone l’autonomia, l’idea di una Corte costituzionale da mettere in sicurezza, stritolando anche la biografia di candidati spesso (anche se non sempre) all’altezza del ruolo. È una logica al ribasso: il miglior giudice possibile diventa, infatti, il giurista scientificamente anonimo, o cerchiobottista, o fedele alla linea. Viceversa l’indipendenza di giudizio, unita a una riconosciuta competenza disciplinare, profila l’identikit del candidato preferibilmente da evitare. "Così va la politica, anima bella", replica il capogruppo di turno, pragmaticamente convinto che sia il necessario accordo politico a dettare i tempi per l’adempimento dell’obbligo costituzionale. È vero, invece, il contrario, stando alla ratio delle regole per l’elezione parlamentare dei giudici costituzionali. A votarli è il parlamento in seduta comune, mero collegio elettorale che non determina i fini che il soggetto eletto dovrà perseguire (come quando vota il Capo dello stato, o i membri laici del Csm). Lo scrutinio segreto preclude il nome telecomandato. Le elevate maggioranze richieste escludono scelte partigiane. Non c’è riferimento in Costituzione alla necessità che la composizione della Corte rispecchi i rapporti di forza parlamentari (come invece fa per le commissioni permanenti, o d’inchiesta). Nessuna parte politica, dunque, ha il dominio sulla carica di giudice costituzionale. La logica della Costituzione è, infatti, quella della leale collaborazione, che rappresenta l’altra faccia della separazione tra poteri a governarne i punti d’intersezione. È la leale collaborazione che il Capo dello stato evoca nel suo comunicato del 2 ottobre scorso, qualificando come "doveroso", "fondamentale", da adempiere "con la massima urgenza", l’obbligo costituzionale che grava sul parlamento. In passato dal Quirinale, in situazioni simili, non mancarono messaggi formali alle camere per richiamarle alla loro responsabilità istituzionale: li fecero Segni nel 1963, Cossiga nel 1991, Ciampi nel 2002. Anteporre l’obbligo ai tempi eterni della negoziazione politica si deve, ma come? Non certo con lo scioglimento anticipato del parlamento: per superare un blocco se ne provocherebbe un altro, che dilaterebbe il primo fino alla convocazione delle nuove camere. Meglio, molto meglio convocarle per scrutini ininterrotti, senza sospenderli e senza porre termine alla seduta, fino a quando non si sia prodotta la maggioranza richiesta (come proponeva già nel 1954 Giuseppe Guarino). Per un parlamento in conclave, militanti radicali, da settimane, sono in digiuno di proposta (e non di protesta). È lo spauracchio da mostrare ai grandi elettori, se anche il 14 dicembre sarà fumata nera. Bisogna anche "cambiare metodo", ha detto il presidente Grasso. Lo si prenda in parola, sostituendo la terna secca con rose di nomi d’eccellenza, all’interno delle quali i gruppi parlamentari possano - in scienza e coscienza - intrecciare i loro voti. Se si vuole si può fare. E se si può, si deve fare. Catastrofi annunciate (e non vere) di Sabino Cassese Corriere della Sera, 9 dicembre 2015 Si moltiplicano le voci di allarme sullo stato della nostra democrazia. L’astensionismo rende debole la rappresentanza. I cittadini sono privati del potere di scegliere i loro rappresentanti. Il governo fagocita il Parlamento. La dirigenza politica è inadeguata sul piano istituzionale e nello spazio internazionale. Vi sono un uomo solo al comando, presidenzialismo strisciante, pericoli di autoritarismo. Le riforme avviate vanno nella direzione sbagliata e ci conducono fuori della democrazia parlamentare e del disegno costituzionale. I poteri si spostano dallo Stato alle oligarchie finanziarie e industriali internazionali. Sono corrette queste diagnosi catastrofiche? C’è qualcosa di vero in questi segnali di pericolo? Gli indicatori dello stato di salute della nostra democrazia non confermano queste interpretazioni allarmistiche. Se si sommano tutti i rappresentanti popolari periodicamente eletti in tutte le sedi di decisione (Comuni, Regioni, Stato, Unione Europea) si può dire che poche nazioni danno tanta voce alle scelte popolari quanto l’Italia. Se, poi, si calcolano regolamenti comunali, leggi regionali e nazionali, direttive e regolamenti europei, si nota che gli organi rappresentativi sono in buona salute, attivi, pronti a fare e disfare leggi e norme (qualche volta, anzi, troppo attivi). Se si considera il ruolo svolto dai contropoteri, si registra una loro complessiva crescente indipendenza, maggiore in alcuni casi, come quello delle corti, minore in altri, quale quello delle autorità amministrative di regolazione. Se si misurano i poteri esercitati dal capo del governo, si nota che essi sono di dimensioni paragonabili con quelli del cancelliere tedesco, o del primo ministro inglese, o di altri capi di esecutivo, e ciò per una ragione semplice: chiamati a collaborare quotidianamente nelle sedi più disparate, dall’Onu all’Unione Europea, dall’Organizzazione mondiale del commercio al G20, i capi del governo debbono necessariamente avere poteri comparabili. Se si considerano le riforme dei "rami alti", quella costituzionale e quella elettorale, si nota che andiamo in una direzione comune a tante altre democrazie, con due Camere a diversa investitura e una formula elettorale che premia la più forte minoranza. Questo non vuol dire che vada tutto bene. Ma lamentare catastrofi oscura alcuni mali del nostro sistema politico, dei quali dovremmo invece preoccuparci. Il primo riguarda la debolezza del capitale sociale. La società italiana non ha mai avuto un buon tessuto e, se ha dato prova di capacità di mobilitazione nelle emergenze, non ha mostrato buone capacità aggregative nella vita di ogni giorno. Ora i corpi intermedi languiscono. Le fondazioni, che si sperava dessero voce alla società civile, sono nelle mani di ristrette oligarchie che si autoperpetuano. I partiti, ridotti in organizzazioni di seguiti elettorali, si sfaldano in Parlamento. I sindacati sono chiusi nel loro particolare. Le elite - quelle poche che abbiamo - si comportano da caste. Il secondo riguarda le forme della dialettica politica. Qui le opposizioni non cercano una voce per sé, un riconoscimento formale, un proprio "statuto", in vista di diventare maggioranza, ma tentano solo di buttare sabbia nelle ruote di chi governa. La politica (alleanze, schermaglie, rinvii, tattiche di ogni tipo) oscura sempre le politiche, cioè gli indirizzi, di governo e di opposizione, rendendo incomprensibili all’elettorato le linee di azione delle varie forze. Infine, la macchina dello Stato da troppo tempo è senza una guida. Quindi, i migliori suoi servitori sono disorientati, mentre i peggiori traggono profitto dall’assenza di orientamenti per consolidare posizioni di potere, corporative, o semplicemente benefici e rendite di posizione. Gli utenti, i cittadini, subiscono e si lamentano, pagando la tassa occulta che deriva dalla cattiva gestione dei servizi. Sono questi i veri problemi, che gli annunciatori di catastrofi finiscono per oscurare. La loro soluzione non è facile, non dipende dal governo, è legata alla storia, al modo in cui si è formata la società italiana, al ruolo svolto dalla classe dirigente, al non sanato divario tra Nord e Sud, alla insufficiente cultura organizzativa diffusa, allo stile e ai costumi della politica. Questo non vuol dire che non possano essere affrontati e risolti. Vuol dire che richiedono un’opera di ingegneria sociale lunga e complessa, non pianti, sgomenti e allarmi. "Populista" è ormai un insulto non una categoria politica di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 9 dicembre 2015 Le classi dirigenti accusano gli avversari vincitori di essere rozzi, plebei e di aver vinto con un voto "di pancia". Ma è pericolosa questa presunta superiorità antropologica perché allontana dalla realtà e fa il gioco dei demagoghi. Nel secolo che si è da poco inaugurato, "populista" è il nuovo "fascista", in auge nel ventesimo secolo. È un insulto, non una categoria politica. Un anatema, non una descrizione passabilmente precisa. È l’indicazione di un mostro, o di una strega da bruciare, se si tratta di una donna come Marine Le Pen. Esprime uno stato d’animo di frustrazione. La frastornata incapacità delle classi dirigenti europee di decifrare quel che sta accadendo nel profondo del "popolo" che la retorica democratica continua a definire, sempre più di malavoglia, "sovrano". E allora meglio una moratoria, almeno provvisoria. La messa al bando di un termine che non significa niente ma che funziona come segno di appartenenza a quell’establishment che è la bestia nera dei partiti e dei movimenti sbrigativamente e superficialmente scomunicati come populisti. Sembra un gioco degli specchi, e purtroppo ad andarci di mezzo è l’Europa, o l’illusione che l’Europa potesse essere qualcosa di diverso, di attraente, capace di suscitare, nientemeno, un sentimento di appartenenza. "Populismo" è l’arma contundente che si usa come fallo di reazione. I cosiddetti "populisti" amplificano l’ostilità per l’establishment, l’élite, la finanza, il "grande", l’"alto", i ricchi, i padroni della cultura, i grandi media ("i giornaloni" è diventato il loro mantra, a destra e a sinistra), i partiti tradizionali, il potere della burocrazia, i mandarini di un regolismo ossessivo e asfissiante. Dicono di voler dare voce ai "senza voce", rappresentanza ai "piccoli", esprimere ciò che ribolle nel "popolo": ma come in un massacrante gioco degli specchi, le élite, l’establishment, la burocrazia del potere rispondono con il disprezzo, la supponenza, l’alterigia. Non con la severità, che pure ha una sua autorevolezza se esercitata con schiettezza ed equanimità, ma con la boria di chi pretende di vantare una superiorità antropologica sul "popolo" grossolano e ignorante. Attenzione al lessico di chi abusa del termine "populismo", basta scorrere anni di rassegna stampa. Quando il popolo dà retta ai "populisti", scatta l’automatismo dei presuntuosi per dire che il popolo vota con la "pancia". Che è preda di un "umore" (mentre gli ottimati usano solo la fredda ragione). Che è "irrazionale", infantile, vulnerabile a ogni "sirena". "Rozzo" (anche questo è stato scritto). "Plebe" (anche questo è stato scritto). E, soprattutto, dominato dalla "paura". Dicono che il trionfo del partito della Le Pen sia il frutto dell’angoscia del Bataclan, ma tutti i sondaggi davano vincente il Front National anche prima del 13 novembre. Quanto avrà portato la paura del Bataclan alla Le Pen: l’1, il 2 per cento? E l’altro 28, come mai nessuno era riuscito a parlarci prima? Perché veniva disprezzato, confinato in un recinto infetto. Una reazione "di pancia" e irrazionale dell’élite: insultare chi ti volta le spalle, non cercare di capire cosa sta accadendo. Chi ha creduto nell’Europa, nella possibilità che un continente intero vivesse la sua unificazione come un incremento della libertà, libertà di circolazione delle idee, delle persone e delle merci, una casa comune fondata sulla pace e sul benessere che ti faceva sentire cittadino di una stessa patria morale europea, con una moneta unica e istituzioni democratiche aperte ed inclusive, con un solidale sistema di difesa anche militare, oggi non solo deve constatare che almeno un terzo dell’elettorato nei vari Paesi europei dà stabilmente il suo consenso a movimenti e partiti (di destra o si sinistra importa poco) che fanno dell’Europa il loro bersaglio, ma deve anche assistere a una classe dirigente arroccata e senza idee, che insulta ed esorcizza chi si sente ai margini, minacciato nella propria identità e nel proprio benessere. E ora anche con l’Isis. Colpiscono la Francia? Se la veda Parigi, noi al massimo esprimiamo solidarietà. Il centro di Bruxelles a pochi passi dalle maggiori istituzioni europee viene messo sotto attacco? Ci pensi la polizia belga. Non l’Europa, ma il Belgio. L’Europa pensa ad affibbiare l’etichetta "populista". Una moratoria urgente che metta da parte il "populismo": giusto il tempo di cominciare a pensare. Tecnologia per la sicurezza, ma tuteliamo anche la privacy di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 9 dicembre 2015 La strage del 13 novembre è una di quelle circostanze che qua si impongono scelte di restrizione della libertà contro il terrorismo. Ma se la legge non si adegua ai sofisticati strumenti di controllo, rischiamo di perdere di vista il vero obiettivo. È cinico dirlo, ma del resto è cinica pure la circostanza da constatare: per i fautori della sorveglianza di massa la strage di Parigi è proprio uno di quei "fatti di sangue" che l’estate scorsa un consulente legale dei servizi di sicurezza americani immaginava potesse, prima o poi, offrire alle autorità l’opportunità di "far venire meno l’ambiente legislativo ostile" a restrizioni della privacy utili a non ostacolare il lavoro delle polizie. Un’opportunità da tramutare in un nuovo imperativo: rinuncia a pezzi della tua libertà se vuoi avere più sicurezza. Ma un conto è prendere atto che il contrasto del terrorismo e le esigenze di sicurezza costringono a congedarsi definitivamente dall’età spensierata di quando si poteva andare all’aeroporto senza doversi rassegnare a controlli estenuanti, si conservavano i biglietti e i passaporti quasi più come souvenir di frontiere abolite che come attestazioni di identità, i metal detector erano una curiosità rara e non presenza fissa ormai persino in piazza San Pietro o alla "prima" della Scala, e le telecamere nei luoghi pubblici non erano (come oggi) arredo urbano più delle panchine e dei semafori. E tutt’altro conto sarebbe offrire i polsi alle "manette" invisibili di una raccolta massiccia e indiscriminata di comunicazioni e dati personali che, prima ancora di poter rappresentare un pericolo per la democrazia, nemmeno serve a raggiungere lo scopo - la sicurezza - per la quale viene propagandata: qualunque intelligence smette infatti di essere intelligente e diventa abbastanza cieca se si auto-sommerge di falsi positivi e, raccogliendo tutto di tutti, finisce per capire niente di nessuno. Il 13 novembre parigino non è stato scongiurato dalla pur intrusiva recente legge che in Francia consente ai servizi di sicurezza di installare, nelle aziende di telecomunicazioni e nei fornitori Internet, "scatole nere" di analisi del traffico di metadati quali l’indirizzo IP dei siti visitati, mittenti e destinatari dei messaggi, durata delle connessioni. E anche per i 130 morti di Parigi, al pari che per i 7 di Tolosa nel 2012, le indagini a ritroso stanno mostrando come a mancare non fossero tanto le informazioni sugli estremisti che stavano progettando gli attacchi, quanto una lettura capace di dare forma e senso alla grande quantità di informazioni raccolte. Intercettazioni telefoniche e telematiche, profilazioni, geolocalizzazioni, analisi dei metadati e intrusioni informatiche sono invece strumenti d’indagine utili se mirati non su una generalità di indefiniti "sospetti", ma su obiettivi già sgrezzati dalle complementari e insostituibili tecniche classiche di polizia (qualità della rete di "fonti", osservazione sul campo, conoscenza dei quartieri, infiltrati). Sempre che si stabiliscano regole certe e chiare su che cosa si vuole che ciascuna di queste tecnologie disponibili possa fare, per quanto tempo, a quali condizioni d’uso, in base a quali declinazioni dei principi di pertinenza e proporzionalità, e con quali controlli e contrappesi di garanzia. Se si prende ad esempio il caso dei virus "trojan", che vengono inoculati dagli inquirenti sui computer o sugli smartphone le cui comunicazioni non potrebbero altrimenti essere intercettate perché non viaggiano sui ponti radio ma rimbalzano sui server, questi "captatori informatici" sono diventati tecnologicamente adulti mentre rimaneva nana la legislazione che dovrebbe regolarli. Quando intercettano una telefonata, fanno il lavoro per cui vengono autorizzati dai giudici. Ma una volta che infettano l’apparecchio, in teoria possono da remoto anche fissare in uno screenshot lo schermo del telefonino o del computer, usarlo come telecamera, visionare l’elenco dei files dell’hard disk, attivare il microfono in microspia che dunque finisce col registrare ubiquamente anche i terzi vicini al dispositivo infettato, oppure trasmettere in diretta il testo che il proprietario sta digitando sulla tastiera ma non ha ancora spedito e magari nemmeno spedirà: che cosa diventano queste? Sono ancora operazioni disciplinabili dalla normativa standard sulle intercettazioni, oppure sono di fatto delle perquisizioni che per essere utilizzabili imporrebbero di avvisare la persona e far partecipare il suo avvocato? E chi controlla i controllori? Chi maneggia questi "captatori", soltanto le forze dell’ordine o anche il personale delle ditte private (talvolta opache negli assetti proprietari) che li progettano e vendono a caro prezzo? C’è un mondo giuridico da riadattare alle tecnologie della sicurezza. E chi ritiene che nell’era delle stragi per strada sia un lusso, forse trascura che questi strumenti di controllo delle comunicazioni, e quindi dell’identità profonda delle persone, sono un po’ come gli spiriti della lampada: una volta che (a motivo della sicurezza antiterrorismo) siano usciti dalla lampada per entrare da padroni nei telefoni e computer delle persone, non si sa più se e quando i loro Aladino securitari saranno disposti a farceli rientrare. Il Giubileo e il popolo delle carceri di Pierangelo Sequeri Avvenire, 9 dicembre 2015 L’aveva detto, il papa Francesco, che anche le sbarre dei carcerati possono essere trasfigurate nella Porta Santa? L’aveva detto, nero su bianco. E io l’ho visto accadere. Nella lettera sul Giubileo della Misericordia, indirizzata a monsignor Fisichella, c’era questa frase: "Ogni volta che passeranno per la porta della loro cella, rivolgendo il pensiero e la preghiera al Padre, possa questo gesto significare per loro il passaggio della Porta Santa, perché la misericordia di Dio, capace di trasformare i cuori, è anche in grado di trasformare le sbarre in esperienza di libertà". Nella stessa ora in cui il papa Francesco apriva la Porta Santa del Giubileo, in san Pietro, sono stato invitato a celebrare la messa dell’Immacolata nel carcere di Bollate, vicino a Milano. Ho celebrato la Messa con i due cappellani e un folto gruppo di donne e uomini, insieme con il personale di custodia, radunati nel salone-teatro. Non mancava niente, anzi c’era qualcosa in più. Il salone non è informe, come una qualunque palestra (ci sono chiese vere meno accoglienti). Una platea ad anfiteatro, suggestivamente sagomata con assi di legno, per gli uomini, e file ordinate di piccoli seggiolini, semplici e ben disposti davanti all’altare per le signore. Le molte porte attraverso le quali si arriva fin lì sono aperte con gentilezza, senza minimamente far pesare i giusti controlli. Sul fondale dietro l’altare, è sagomata con il polistirolo la sky-line di una città immaginaria: le finestre sono tutte in alto, vicino alla linea dei tetti, che guardano un cielo completamente bianco. A un lato dell’altare c’è un coro, ben diretto, che ha provato con cura ed esegue i canti in modo al tempo stesso molto composto e molto partecipe. Devono aver provato a lungo. L’orchestra è composta di due soli strumenti, una chitarra e i bonghi, che suonano in modo molto appropriato ed elegante. La Messa incomincia con un silenzio caldo e accogliente: è fatto di sguardi, soprattutto. Le letture sono pronunciate con dizione trasparente, e una sorta di partecipazione rispettosa e di affettuosa comunicazione, che mi rapiscono (e io ne ho sentite di letture, alla Messa). Nella meditazione dopo le letture, mi sono sentito di comunicare un pensiero sulla purezza del cuore e della vita che impariamo da questo mistero dell’Immacolata, e dalle pagine della Sacra Scrittura che abbiamo ascoltato. L’Immacolata Concezione di cui parla il Mistero è quella di Maria, che prepara la Nascita di Gesù. Esiste qualcosa di profondo, di puro, di inviolabile nel mistero del rapporto e della sua creatura - che ci riguarda tutti - che dobbiamo custodire a costo di qualsiasi sacrificio. Il libro della Genesi l’ha detto, Dio, anche dopo il peccato, disse che la donna e la sua creatura sarebbero sempre rimaste separate dalle forze del male. Dio mette una barriera di "ostilità" fra il serpente maligno e la generazione dell’essere umano. Se ci affidiamo a questa benedizione, possiamo trovare la forza di riscattarci da ogni altro male. Se rispettiamo questo mistero della nascita dell’essere umano, in tutti i modi, molto ci verrà perdonato. Di lì è passato, e continua a passare il Figlio di Dio. Grazie a questo mistero, non c’è nessun essere umano nel quale non si possa trovare qualcosa di buono, qualcosa di puro, qualcosa di inviolabile, che possa essere tirato fuori con amore e restituito alla vita. A Giuseppe, l’uomo "giusto" al quale fu affidata la Madre del Signore, fu indicata questa via. La sorpresa di un figlio inatteso fu certamente una prova forte, nella sua vita. Egli fu giusto, perché intuì che ci doveva essere qualcosa di profondo, di puro, inviolabile - un mistero di Dio - in quella donna. E non si sbagliò. Se seguiamo la stessa strada, se ci aiutiamo l’un l’altro a cercarla e a percorrerla, la benedizione segreta che sta nel fondo del cuore di ogni uomo e di ogni donna, ci riaprirà la vita. Pensiamo a questo, d’ora in avanti quando apriamo le porte della nostra città, della nostra casa, e persino della nostra cella. Prima della preghiera finale, la figlia di un agente, con la sua famiglia, è venuta all’altare per ringraziare della raccolta di fondi destinata a bambini malati di leucemia. Era commossa, perché i detenuti avevano partecipato, sfidando i pregiudizi e non senza sacrificio. Infine, la benedizione, un augurio, un ringraziamento, un saluto. Tutto quello che ci deve essere, in una Messa cattolica, c’era. E anche qualcosa di più. È vero, dalla porta di una cella può uscire una benedizione che non pensavi nemmeno di avere. Ne sono sicuro, l’ho vista arrivare. Consulenze, soldi pubblici e veleni: in fondo a "Libera" di Giuseppe Pipitone e Sandra Rizza Il Fatto Quotidiano, 9 dicembre 2015 L’ultimo direttore, Luigi Lochi, è stato eletto da appena un mese e già si ritrova al centro di un conflitto di interessi che nessuno finora ha ritenuto di dover affrontare. Il penultimo, Enrico Fontana, si è dovuto dimettere all’inizio dell’estate per un incontro con due politici finiti nel calderone di Mafia Capitale. Il terzultimo era una donna: Francesca Rispoli, amica del Pd Davide Mattiello, relatore del ddl sulla modifica del 416 ter. Anche lei nel settembre 2013 ha dovuto lasciare l’incarico: non aveva segnalato in tempo a don Ciotti che quella riforma, targata Nazareno, era persino peggiore della norma precedente, esponendolo a una pubblica retromarcia. Ma non è tutto. A giugno scorso si è dimesso pure il vicepresidente Carlo Andorlini: coinvolto in un’indagine della Corte dei conti su alcune spese ordinate quando era capo-gabinetto del sindaco a Campi Bisenzio, in provincia di Firenze. Una, due, tre dimissioni "imbarazzanti" nel giro di un anno: strappi consumati in silenzio, senza clamore, all’interno di un’associazione che funziona come una moderna holding da quasi 5 milioni di euro all’anno, e nello stesso tempo viene descritta come una struttura arcaica, chiusa come una setta e riservata fino alla paranoia: quella che il suo stesso presidente onorario Nando dalla Chiesa definisce "una creatura fondata su un potere carismatico, dove la leadership non si discute". La leadership è quella di don Ciotti e le dimissioni a catena costellano l’ultimo capitolo della storia di Libera, una galassia che raccoglie oltre 1.500 associazioni, gestisce 1.400 ettari di terreni confiscati ai boss, ed è considerata il totem indiscusso dell’antimafia sociale. Non solo. Libera è l’invenzione stessa dell’antimafia, che per la prima volta, dopo Capaci e via D’Amelio, esce dalle aule dei tribunali e si ramifica sul territorio dove sono ancora fumanti le macerie del tritolo di Cosa Nostra. Vent’anni sono passati da quel lontano 1995 quando don Ciotti a Palermo fonda la sua associazione, povera tra i poveri, infiltrandosi nel cuore delle borgate mafiose, nelle case, nelle scuole, per insegnare il rifiuto di Cosa Nostra e del suo strapotere. Ma oggi? Che ne è oggi di quella teologia della liberazione anti-mafiosa, di quella visione rivoluzionaria del Vangelo? La sensazione è che tutto sia cambiato, a partire dall’idea stessa di antimafia, oggi fagocitata dal sistema, diventata anch’essa un pezzo di sistema, perché sempre più succube della necessità di assicurarsi risorse finanziarie. Al punto che il presidente del Senato Pietro Grasso, recentemente, ha voluto ricordare che "serve un’antimafia umile, per un fine comune, che non è certo quello di essere l’associazione più visibile o più finanziata". Lo stesso don Ciotti più volte ha messo in guardia dai rischi di una banalizzazione dell’impegno contro le cosche: "L’antimafia - ha detto - è ormai una carta d’identità, non un fatto di coscienza. Se la eliminassimo, forse sbugiarderemmo quelli che ci hanno costruito sopra una falsa reputazione". Ma qualcuno osserva che pure Libera, come le altre associazioni che hanno nello Statuto il contrasto alla cultura mafiosa, è diventata una campionessa nel far incetta di finanziamenti pubblici. L’organizzazione ha chiuso il bilancio 2014 in attivo di 207.317 euro, con disponibilità liquide pari a 883.431 euro e crediti per un milione e 81mila euro, quasi tutti nei confronti di enti pubblici. La gestione dei beni confiscati, in convenzione con enti come Unioncamere, Telecom, Unicredit, frutta 60mila euro. Le entrate dei diritti d’autore, 5 per mille, Fondazione Unipolis e raccolta fondi ammontano a 1 milione 268mila euro. Solo Unipolis, la Fondazione di Unipol, che fa riferimento alla Lega coop, sgancia ogni anno 70 mila euro. Poi c’è il capitolo dei finanziamenti europei, come quello del Pon Sicurezza da 1 milione e 416mila euro, per migliorare la gestione dei beni confiscati, assegnato al Consorzio Sviluppo e Legalità, che raccoglie alcune cooperative della galassia antimafia in provincia di Palermo. Soldi, progetti, Pon, questo è il nuovo alfabeto di Libera. Che fa storcere il naso a tanti veterani del volontariato sociale, innamorati del don Ciotti predicatore di strada e paladino degli ultimi, e un po’ meno attratti dal don Ciotti manager che oggi ha un’agenda fitta di presentazioni, tavole rotonde e comparsate tv. Nessuno parla apertamente. Ma sono tanti i delusi e gli scontenti che pongono una domanda cruciale: qual è la reale capacità di denuncia di un’antimafia che è appesa ai finanziamenti pubblici e appare sempre più consociativa al potere che tiene i cordoni della borsa Qualcuno ha persino scritto che i commenti del prete duro e puro sono apparsi piuttosto tiepidi nei confronti delle coop rosse coinvolte negli affari di Mafia Capitale. L’associazione di don Ciotti rischia di addomesticarsi? È per questo che Franco La Torre ad Assisi, ha lanciato l’allarme sulla scarsa capacità di vigilanza sia a Palermo che a Roma? Liquidato con un sms di poche righe, il figlio di Pio La Torre (il segretario del Pci siciliano ucciso dalla mafia nell’82) ha comunicato il suo divorzio da Libera, definendo don Ciotti un "despota" e sottolineando i limiti di un gruppo dirigente più attento a collezionare prebende che a denunciare le emergenze criminali. Don Luigi nega che l’associazione sia una holding: "Nessuno - dice - sporchi la nostra trasparenza". Ma i suoi fedelissimi si sono chiusi a riccio. Non parla l’avvocato Enza Rando, dell’ufficio di presidenza, che difende i familiari delle vittime di mafia e nel frattempo ha ottenuto una consulenza da 25.000 euro presso la Regione Emilia Romagna (governata dal Pd Stefano Bonaccini), oltre a far parte del cda della Cassa di Risparmio di Modena. Non parla neppure Fontana, lo stesso che La Torre ha additato come uomo- simbolo del nuovo corso di Libera: è l’ex consigliere regionale di Sel del Lazio che dal 2011 incassa un vitalizio, pur essendo il promotore della campagna "Miseria Ladra" contro i vitalizi, e due anni dopo, in piena giunta Polverini, diventa consulente del presidente del consiglio regionale Pdl Mario Abbruzzese: 20 mila euro per un progetto antimafia. E tace soprattutto il neo-direttore Lochi, dal 1991 al 1999 dirigente di Sviluppo Italia e poi collaboratore di Invitalia (il suo contratto è scaduto il 31 maggio): l’esperto della gestione dei beni confiscati. Appena quattro giorni dopo la sua nomina, avvenuta l’8 novembre, la Camera ha approvato la cosiddetta "norma Saguto", che ha scatenato la furia del M5S. Perché? "La nuova legge - hanno spiegato i grillini - stabilisce che le aziende sequestrate, anche di grande rilievo, verranno gestite da Invitalia, erede di Sviluppo Italia, il carrozzone mangia-soldi dello Stato". La stessa azienda dove ha lavorato per anni il nuovo direttore di Libera. Che dice Lochi? Nulla. È la nuova Antimafia, bellezza! Quella dei pennacchi e dei premi, delle liturgie e delle litanie sommerse da un fiume di denaro. "Quasi flagranza" anche quando l’inseguimento non inizia per diretta percezione dei fatti di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 9 dicembre 2015 Corte di Cassazione - Sezione II - Sentenza 4 novembre 2015 n. 44498. Secondo la Cassazione, sezione II, 3 luglio 2015- 4 novembre 2015 n. 44498, in tema di arresto da parte della polizia giudiziaria, lo stato di "quasi flagranza" sussiste anche nel caso in cui l’inseguimento non sia iniziato per una diretta percezione dei fatti da parte della polizia giudiziaria, bensì per le informazioni acquisite da terzi (inclusa la vittima), purché non vi sia stata soluzione di continuità fra il fatto criminoso e la successiva reazione diretta ad arrestare il responsabile del reato. L’analisi dei giudici - A supporto la Corte ha osservato che il termine "inseguire" utilizzato dalla norma, nel suo significato letterale, non indica necessariamente e unicamente l’azione di chi "corre dietro a chi fugge", bensì anche quella di chi "procede in una determinata direzione, secondo uno o più punti di riferimento al fine di raggiungere qualcuno o qualcosa". Né, si ulteriormente argomentato, la norma dettata dall’articolo 382 del Cpp prevede che l’autore del reato debba essere stato "visto" dalla polizia giudiziaria, nè che il reato sia avvenuto sotto la "diretta percezione" della polizia giudiziaria, limitandosi invece a stabilire che l’inseguimento deve avvenire "subito dopo il reato": la qualcosa sarebbe del tutto superflua, ove il legislatore avesse limitato l’azione al mero "correre dietro chi fugge", azione che inevitabilmente è immediata rispetto alla commissione del reato. Da queste premesse, nella fattispecie, la Cassazione ha ritenuta la "quasi flagranza" in occasione dell’arresto eseguito dopo una rapina, avvenuta alle ore 11,30, nonostante che il primo contatto della polizia giudiziaria con l’arrestato fosse avvenuto solo alle ore 15,30, in occasione di una perquisizione: ciò in quanto l’"inseguimento" era avvenuto subito dopo la rapina, essendo stato fornito agli operanti il numero di targa del veicolo utilizzato per la fuga e avendo questi proceduto subito alle relative ricerche. Una posizione minoritaria - La tematica, peraltro, è controversa e indubbiamente la posizione seguita dalla sentenza in esame è minoritaria (nello stesso senso, Sezione II, 10 novembre 2010, Califano ed altro, nonché, Sezione I, 15 marzo 2006, PM in proc. Dottore, relativa ad una fattispecie di condotta di "inseguimento" intrapresa dai Carabinieri, immediatamente intervenuti sul posto a seguito di denuncia di un terzo). Secondo l’orientamento, prevalente, infatti, non sussiste la condizione di cosiddetta "quasi flagranza" qualora l’inseguimento dell’indagato da parte della polizia giudiziaria sia stato iniziato non già a seguito ed a causa della diretta percezione dei fatti da parte della polizia giudiziaria, bensì per effetto e solo dopo l’acquisizione di informazioni da parte di terzi. Con la conseguenza, quindi, che non ricorre lo stato di "quasi flagranza" quando l’azione che porta all’arresto trovi il suo momento iniziale non già in un immediato inseguimento da parte della polizia giudiziaria, ma in una denuncia della persona offesa, raccolta quando già si sia consumata l’ultima frazione della condotta delittuosa. Al proposito, si sostiene, avendo riguardo al contenuto letterale dell’articolo 382 del Cpp, che l’espressione "inseguire", denotante l’azione del "correre dietro chi fugge", e l’ulteriore requisito cronologico di immediatezza ("subito dopo il reato"), richiesto dalla legge, postulano la necessità della correlazione funzionale tra la diretta percezione dell’azione delittuosa e la privazione della libertà del reo fuggitivo. È quindi la diretta percezione e constatazione della condotta delittuosa da parte della polizia giudiziaria procedente all’arresto che può suffragare la sicura previsione dell’accertamento giudiziario della colpevolezza e giustificare l’eccezionale attribuzione alla polizia giudiziaria del potere di privare della libertà una persona (cfr. di recente Sezione VI, 14 gennaio 2015, B., che, quindi, ha così escluso lo stato di "quasi flagranza" in una vicenda in cui il provvedimento di allontanamento d’urgenza dalla casa familiare ex articolo 384-bis del Cpp era stato adottato dalla polizia giudiziaria solo dopo avere raccolto la denuncia della vittima presso il pronto soccorso del nosocomio, quando la condotta aggressiva, integrante il reato di lesioni personali, si era già ampiamente conclusa; in precedenza, Sezione III, 13 luglio 2011, Pm in proc. Z.; Sezione IV, 7 febbraio 2013, Pm in proc. Cecconi ed altri; nonché, Sezione I, 3 ottobre 2014, Proc. Rep. Trib. Catanzaro in proc. Quaresima). La questione sembra risolta a favore dell’orientamento maggioritario dalla recentissima sentenza delle Sezioni unite, 24 novembre 2015, Pm in proc. Ventrice (la cui motivazione ad oggi non è ancora depositata), laddove si è escluso che possa procedersi all’arresto in flagranza solo sulla base di informazioni della vittima o di terzi fornite nell’immediatezza dei fatti. L’iscrizione all’Aire non salva dal reato di riciclaggio di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 9 dicembre 2015 Cassazione - Sezione seconda - Sentenza 7 dicembre 2015 n. 48288. L’iscrizione all’anagrafe degli italiani residenti all’estero non salva il professionista dalla condanna per riciclaggio se il denaro inviato all’estero su conti di "sponda" non è compatibile con il reddito. La Cassazione, con la sentenza 48288 del 7 dicembre, conferma la condanna a carico di un architetto per il reato previsto dall’articolo 648-bis del Codice penale e la conseguente confisca allargata sui beni sequestrati. Il professionista era finito nel mirino della magistratura in seguito ad un’indagine della Guardia di Finanza relativa a un’associazione a delinquere finalizzata ad emettere e utilizzare fatture per operazioni inesistenti, da scontare in banca per ottenere anticipazioni sugli importi. Collaudato lo schema messo in atto su "commissione" dell’architetto: su una società anonima costituita in Svizzera confluivano le somme provento di truffe e di evasione che, una volta ripulite, venivano riaccreditate sul conto di una società italiana e investite nell’acquisto di beni immobili. Il carattere illecito delle operazioni era emerso grazie alle intercettazioni e alla collaborazione di un coimputato. Tra gli elementi utili a sostenere la tesi del riciclaggio anche il passaggio di consistenti cifre di denaro in contanti, operazione di per sé sospetta, e la non razionale scelta compiuta dall’imputato, se in buona fede, di spostare soldi dall’Italia all’estero, per poi riportali su conti italiani. In questo quadro si giustifica la scelta di sottoporre il denaro alla confisca allargata prevista dall’articolo 12 sexies della legge 356 del 1992. In caso di un’accertata sproporzione tra guadagni, desumibili dal reddito dichiarato ai fini delle imposte e il patrimonio scatta una presunzione di illecita accumulazione. "Ipotesi" che può essere superata se l’interessato è in grado di dimostrare di aver acquistato i beni con "proventi proporzionati alla propria capacità reddituale lecita e quindi, anche attingendo al patrimonio legittimamente accumulato". Nel caso esaminato la documentazione prodotta, benché voluminosa, non è stata utile allo scopo. Le carte, relative a numerose commesse e all’attività professionale svolta dall’architetto a livello internazionale, dimostravano il suo impegno ma non la provenienza lecita di un patrimonio comunque eccessivo se paragonato ai profitti. Per la Cassazione la circostanza che l’imputato producesse reddito all’estero e non fosse, in quanto iscritto all’Aire, tenuto a presentare la denuncia in Italia, è un "non fatto" inidoneo a superare la presunzione di illecita accumulazione. La sproporzione va, infatti, "calcolata avendo come punto di riferimento per il primo parametro, il "reddito" netto (o l’attività economica) ossia la sua capacità reddituale". Licenziamento disciplinare per condotta illecita extra-lavorativa. Selezione di massime Il Sole 24 Ore Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Disciplinare - Detenzione in ambito extra-lavorativo di sostanze stupefacenti - Giusta causa di licenziamento - Configurabilità. La detenzione, in ambito extra-lavorativo, di un significativo quantitativo di sostanze stupefacenti a fine di spaccio è idonea ad integrare la giusta causa di licenziamento, poiché il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta ma anche a non porre in essere, fuori dall’ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o da comprometterne il rapporto fiduciario, il cui apprezzamento spetta al giudice di merito. • Corte di Cassazione, sezione Lavoro, sentenza 6 agosto 2015 n. 16524. Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Disciplinare - Condotta illecita extra-lavorativa - Rilievo disciplinare - Configurabilità. Una condotta illecita extra-lavorativa è suscettibile di rilievo disciplinare poiché il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta ma anche a non porre in essere, fuori dall’ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o da comprometterne il rapporto fiduciario. • Corte di Cassazione, sezione Lavoro, sentenza 31 luglio 2015 n. 16268. Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Disciplinare - Condotta illecita extra-lavorativa - Rilievo disciplinare - Configurabilità - Valutazione della gravità della condotta - Carattere pubblicistico dell’attività - Rilevanza. La condotta illecita extra-lavorativa è suscettibile di rilievo disciplinare poiché il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta ma anche, quale obbligo accessorio, a non porre in essere, fuori dall’ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiale del datore di lavoro o compromettere il rapporto fiduciario con lo stesso; tali condotte possono anche determinare l’irrogazione della sanzione espulsiva ove siano presenti caratteri di gravità, da apprezzarsi diversamente in relazione alla natura privatistica o pubblicistica dell’attività svolta. • Corte di Cassazione, sezione Lavoro, sentenza 19 gennaio 2015 n. 776. Lavoro - Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Disciplinare - Condotta illecita extra-lavorativa - Responsabilità disciplinare del lavoratore - Sanzione disciplinare conseguente a condanna del lavoratore - Compromissione del rapporto di fiducia del datore di lavoro - Giusta causa di licenziamento. I comportamenti tenuti dal lavoratore nella vita privata ed estranei perciò all’esecuzione della prestazione lavorativa, se, in genere, sono irrilevanti, possono tuttavia costituire giusta causa di licenziamento allorché siano di natura tale da compromettere la fiducia del datore di lavoro nel corretto espletamento del rapporto, in relazione alle modalità concrete del fatto e ad ogni altra circostanza rilevante in relazione alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, nonché alla portata soggettiva del fatto stesso. • Corte di Cassazione, sezione Lavoro, sentenza 30 gennaio 2013 n. 2168. Veneto: allarme estremismo islamico tra i detenuti, in carcere arrivano imam "certificati" di Nicola Munaro e Andrea Priante Corriere Veneto, 9 dicembre 2015 Accordo tra ministero e Ucoii: si parte da Verona. La Digos: a Padova il muezzin è un pregiudicato. Il carcere raduna centinaia di musulmani, con il risultato che spesso sono gli stessi detenuti a guidare la preghiera e le celle diventano piccole moschee. Quanto basta per preoccupare i nostri servizi segreti: le prigioni, agli occhi dei terroristi, sono luoghi ideali per fare proselitismo. Lo conferma anche il Sappe, uno dei principali sindacati di polizia penitenziaria: negli istituti si assiste alla "radicalizzazione di molti criminali comuni, specialmente di origine nordafricana, i quali, pur non avendo manifestato nessuna particolare inclinazione religiosa al momento dell’ingresso in carcere, sono trasformati gradualmente in estremisti sotto l’influenza di altri detenuti già radicalizzati". Per questo motivo il Viminale ha già provveduto, in collaborazione con la polizia, a rafforzare il monitoraggio di quanto avviene all’interno delle celle. Ma non solo: tre settimane fa è stato firmato un accordo tra il Dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap) e l’Ucoii, l’Unione delle comunità islamiche in Italia. L’obiettivo è di portare imam "certificati" all’interno delle prigioni. In Veneto si partirà da Verona - dove tra l’altro le guide islamiche già sono in contatto periodico con i detenuti - ma la speranza è che al più presto il progetto sia esteso agli altri istituti. È il modo migliore per evitare che i prigionieri eleggano degli imam all’interno del carcere, con il rischio che promuovano la causa dell’Isis. Specialmente nella nostra regione, che ha il record di presenze di stranieri tra i carcerati: il 55 per cento. Significa che dei 2.241 detenuti presenti in Veneto, 1.236 non hanno la cittadinanza italiana. A Padova, nell’ambito di un’inchiesta che ipotizzava - nei confronti di un detenuto del Due Palazzi - il reato di istigazione a delinquere con finalità terroristiche, lo scorso anno il pm Sergio Dini aveva chiesto alla Digos di analizzare il "mondo islamico penitenziario". Dalla relazione emerge che, nel carcere a Padova, un terzo dei detenuti è musulmano e il ruolo di leader, senza che ne abbiano i "titoli" religiosi, l’hanno assunto due marocchini che la polizia definisce "musulmani carismatici" con "un ruolo di rilievo nella gestione dei riti religiosi". Uno dei due ricopre il ruolo di muezzin: agli orari stabiliti dal rito religioso, chiama dalla sua cella i fedeli alla preghiera. E questo avviene tutti i giorni, tre volte al giorno. Al venerdì invece, giorno sacro dell’Islam, i fedeli del Due Palazzi si ritrovano in una sala, avvertiti dal solito detenuto, ma - si legge ancora nella relazione della Digos - a prendere la parola è l’altro marocchino "con posizione religiosa di rilievo". È lui a fare da imam: pronuncia il sermone e guidare la preghiera collettiva. Anche se finora non sono mai state riscontrate parole o atteggiamenti inneggianti al jihad, è evidente che affidare ai pregiudicati il compito di guida religiosa, espone al rischio di una radicalizzazione dei "fratelli" detenuti. La soluzione non può che essere quella indicata dall’Ucoii: far entrare nelle carceri degli imam "certificati". Como: oggetti prodotti in carcere e venduti in tribunale Il Giorno, 9 dicembre 2015 Borse, abiti e oggetti realizzati nei laboratori del Bassone nel banchetto allestito nell’atrio del Tribunale di Como. Borse da giorno e da sera, abiti per bambini, piccole coperte, oggettistica da scrivania e accessori. Sono solo alcuni dei prodotti realizzati all’interno dei laboratori della casa circondariale Bassone di Como, coordinati dalla Cooperativa Impronte di libertà. Oggetti interamente creati dai detenuti, che saranno in vendita i giorni prima di Natale presso un banchetto allestito per il secondo anno nell’atrio del Tribunale di Como, in viale Spallino. In particolare, la vendita sarà organizzata nei giorni 14, 16, 17, 21 e 23 dicembre, aperta a tutti, fino a esaurimento dei prodotti, il cui assortimento spazia sia per varietà che per gusto. Le produzioni arrivano, in particolare, dai laboratori di sartoria e di pelletteria, e di stampanti 3D. in tutto sono impiegati una ventina di detenuti, che si occupano di ogni fase della realizzazione dell’oggetto, dalla progettazione fino al confezionamento. Una proposta che già lo scorso hanno ha ottenuto un ottimo successo, utile non solo a sostenere i progetti, ma anche a divulgare l’esistenza dei laboratori, mostrandone concretamente i risultati, e la professionalità che si lega a queste attività. Nella maggior parte dei casi, viene acquisita, da chi partecipa ai progetti, esclusivamente all’interno della struttura detentiva, e solo raramente i detenuti avevano queste competenze già in precedenza. I materiali utilizzati sono quasi sempre di recupero, e quindi con un lavoro di riciclo di ciò che sarebbe destinato allo smaltimento, come avvenuto con i teli realizzati per le mostre di Villa Olmo. Iniziative come questa, servono anche a trovare uno spazio di mercato per queste attività, le cui produzioni sono rigorosamente artigianali e numericamente limitate. Bari: progetto "Made in carcere", così ricuciamo le storture della vita Corriere del Mezzogiorno, 9 dicembre 2015 Gli articoli prodotti dalle detenute degli istituti penitenziari di Lecce e Trani si potranno acquistare anche nei Temporary corner firmati "Made in Carcere" e "Bari per Bene" allestiti in diversi negozi del capoluogo pugliese. "Qui noi, raddrizziamo le cuciture storte della vita, stiriamo le brutte pieghe e rafforziamo i punti deboli. Incontriamo donne in carcere che grazie al lavoro scommettono sulla possibilità di cambiare lo stato delle cose. Il primo giorno di lavoro diciamo sempre che due sono le cose importanti: rispettare le diversità di carattere e saper cucire". È questo il pensiero che Luciana delle Donne cerca di trasmettere ogni giorno alle sue collaboratrici. Perché l’ideatrice di "Made in Carcere" scommette sulla vita delle donne detenute negli istituti penitenziari di Lecce e Trani. Donne che, una volta scontata la pena, devono cercare di reinserirsi nel tessuto socio-lavorativo con l’obiettivo di costruirsi una nuova vita. Possibilmente migliore. E per farlo, trovano forza e fiducia restituendo a nuova vita i tessuti di scarto facendoli diventare borse colorate, buste per la spesa, braccialetti e tanto altro. Quella di "Made in Carcere", dunque, rientra tra le più virtuose esperienze di reale occupazione avviate all’interno delle carcere italiane. Un’esperienza destinata a contaminare, a lasciare il segno. E adesso, gli articoli prodotti dalle detenute degli istituti penitenziari di Lecce e Trani si potranno acquistare anche nei Temporary corner firmati "Made in Carcere" e "Bari per Bene" allestiti in diversi negozi del capoluogo pugliese. L’iniziativa è promossa dal Comune di Bari che ha coinvolto le attività commerciali baresi per creare una sorta di "patto di cittadinanza" finalizzato a "promuovere il senso civico e i valori della solidarietà attraverso una campagna di sensibilizzazione che intende sostenere e contribuire a progetti sociali della nostra città e dell’associazione stessa Made in carcere" spiega il sindaco Antonio Decaro. Nei Temporary corner posizionati nei vari negozi, quindi, saranno venduti tanti prodotti realizzati a mano dalle detenute: dal coprisella delle biciclette alle fasce scalda-collo, dal portacellulare alle borse e tanto altro. Insomma, acquistando uno di questi articoli si potranno fare due importanti buone azioni: "Sostenere il progetto Made in Carcere, che da anni lavora con le detenute, dando loro la possibilità di imparare un nuovo mestiere e di riscattarsi socialmente attraverso l’ideazione e la produzione di opere sartoriali - aggiunge Decaro - e contribuire a far nascere un progetto sociale per la nostra città dedicato alle forme di contrasto alla violenza sulle donne che sarà realizzato nei prossimi mesi". L’Aquila: le voci del carcere raccontate nel libro "Il futuro sarà di tutta l’umanità" avezzanoinforma.it, 9 dicembre 2015 "Che ci faccio qui? A me piaceva lavorare, io sono il mio lavoro che ho scelto grazie a un vicino di casa, un anziano che faceva il costruttore, era bello il mio lavoro, e mi ha dato tante soddisfazioni". Questa è solo una parte di uno dei tanti racconti che si leggono nel libro "Il futuro sarà di tutta l’umanità", presentato all’Aquila, nella sede della Cgil, dagli autori Antonella Speciale ed Emanuele Verrocchi. Nel libro si legge ancora: "Ma allora chi sono io? Io sono un pazzo, un ragazzino, io sono fatto di carne, io sono saggio, ma succede che a volte mi perdo. Io sono una persona che spera di tornare presto a casa". Sono tutte trascrizioni di esperienze vere, vissute e raccontante senza timore, da detenuti, trascritte nei laboratori di scrittura autobiografica e creativa della dottoressa in Lingue, di origine siciliana, Speciale, che opera nei penitenziari per adulti e minori italiani. Nel libro, "Le voci dal carcere" si alternano ai racconti di paure e di speranze, di rassegnazione e di libertà con le riflessioni di Verrocchi, segretario generale della Fillea-Cgil della provincia dell’Aquila, che nel 2014 ha organizzato il Congresso sindacale all’interno del carcere di Alta sicurezza di Sulmona. È così che il lettore è portato a riflettere sul ruolo del lavoro e sulle possibilità che anche i sindacati, in tema di reintegrazione dei detenuti possono e devono avere. Alla presentazione del libro, edito dalla casa editrice Dissensi, è intervenuto il segretario generale della Cgil dell’Aquila, Umberto Trasatti. Ha mediato l’incontro l’assessore al lavoro del Comune dell’Aquila Fabio Pelini. Modena: Giubileo della Misericordia, il vescovo apre le celebrazioni in carcere modena2000.it, 9 dicembre 2015 "Siamo qui per aprire il nostro cuore a questo anno di grazia" : dalla liturgia il senso della celebrazione presieduta oggi 8 dicembre dal vescovo Erio alla Casa circondariale S. Anna di Modena. "Una celebrazione auspicata dalla direttrice Rosa Alba Casella già alla proclamazione dell’Anno Santo - racconta il cappellano del carcere don Angelo Lovati - a un mese dalla morte di mons. Lanfranchi: e oggi siamo qui, felici di accogliere il nuovo vescovo Erio". Parole di gratitudine le prime pronunciate dal vescovo nell’Omelia: "Per il Signore che ci ha convocati qui, per la direzione, che ha avuto l’idea di anticipare l’Anno Santo con questa celebrazione, per don Angelo e gli altri volontari che operano in carcere, per gli agenti di Polizia penitenziaria e per tutti voi che avete accolto l’invito a vivere questa celebrazione". Le parole del Vangelo sono quelle dell’Annunciazione dell’angelo a Maria. "Maria che rischiava ben di più del carcere: era promessa sposa, se si fosse saputo che era incinta, e non del fidanzato, rischiava la morte, e lo sapeva bene". Maria si trova imprigionata nella gabbia di un progetto diverso di Dio per lei e ne rimane turbata. "le vere gabbie - ha proseguito il vescovo - sono quelle del cuore, questo è il carcere più pesante. Ci sono persone esteriormente libere, ma prigioniere nelle sbarre del proprio egoismo; la libertà più importante è invece quella de cuore, possibile anche quando quella materiale è limitata. Il 13 apriremo la Porta Santa in Cattedrale, oggi apriamo la porta santa del cuore: il Signore ci chiede di credere nella possibilità di riscatto, di essere amati, di crescere attraverso le esperienze più dure, di tenere aperto il cuore con le possibilità che abbiamo: per voi qualche sorriso in più, parole buone con gli altri, la condivisione dei momenti formativi. Il Signore ci aiuti a buttare giù le sbarre interiori che ci tengono imprigionato l’animo". Le preghiere dei fedeli hanno ricordato sacerdoti e volontari, la polizia e la direzione, e tutti i detenuti nel loro percorso. Una lunga ed accorata preghiera è stata proposta alla fine della celebrazione: "In questa comunità di peccatori - ha detto uno dei detenuti - ci è data la possibilità di avere infiniti passaggi attraverso porte sante. Ogni cosa umana può diventare figura del Divino e occasione di rinnovamento, se docilmente ci rediamo disponibili a farci guidare dal Colui che è nostro Padre". Alla fine il Vescovo ha ricevuto alcuni doni, realizzati dai detenuti: una capanna del presepe, fatta interamente a mano, due cornici di chicchi di riso, un compri ambone ed un copri leggio cuciti e ricamati a mano, un cestino di carta fatto con materiale di recupero, che diventa una bomboniera. I detenuti del S. Anna offrono al vescovo, per una famiglia povera, un set di bomboniere fatte a mano da loro con questa tecnica, sottolineando l’invito ad averlo ancora con loro. Il vescovo, ringraziando per i doni, ha confermato che celebrerà l’Eucarestia in carcere anche il giorno di Natale. Roma: Giubileo della Misericordia, Porta Santa aperta anche nel carcere di Rebibbia Agi, 9 dicembre 2015 Anche nel carcere di Rebibbia in occasione dell’Anno Santo della Misericordia è stata aperta una Porta Santa. "L’apertura della Porta Santa in carcere - ha dichiarato il cappellano del carcere di Rebibbia, don Roberto Guernieri - è un segno di grande speranza. La speranza di ricevere il perdono del Signore, la speranza di una nuova attenzione per chi ricopre un ruolo politico verso i detenuti e la speranza di potercela fare perché molti detenuti che escono dal carcere non sono di nessuno". Alla cerimonia erano presenti circa 300 detenuti di 14 diversi reparti di reclusione. "Solitamente qui dentro - ha detto Simone, un detenuto - le porte si chiudono, oggi invece viene aperta una Porta Santa che per noi rappresenta una prospettiva per il futuro. Speriamo che tra qualche anno si possano aprire anche le porte della libertà". "Sto scontando una condanna a 20 anni - ha aggiunto Stefano, un altro detenuto - è da un anno che faccio un cammino spirituale da sacrestano, spero che porti dei frutti. L’apertura della Porta Santa per noi ha un significato particolare. È un momento importante di riflessione interna per vedere il futuro con occhi diversi". Le telecamere di Tv2000, l’emittente della Cei, sono entrate all’interno del penitenziario romano per testimoniare questo gesto simbolico e significativo per i detenuti e le loro famiglie. Pesaro: "Cantica delle donne", a teatro con Michalis Traitsis le detenute della Giudecca estense.com, 9 dicembre 2015 Protagoniste saranno le donne detenute della Casa di reclusione femminile di Giudecca. Domenica 13 dicembre, presso la chiesa della Santissima Annunziata di Pesaro, alle 17, nell’ambito della rassegna nazionale di teatro in carcere "Destini Incrociati", promosso dal coordinamento nazionale di "Teatro in Carcere" e in collaborazione con il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e l’istituto superiore di studi penitenziari, sarà replicato "Cantica delle donne". Lo spettacolo teatrale è diretto da Michalis Traitsis, regista e pedagogo teatrale di "Balamòs Teatro" e responsabile del progetto teatrale "Passi Sospesi" negli istituti penitenziari di Venezia. Protagoniste saranno le donne detenute della casa di reclusione femminile di Giudecca, Nawal Boulahnane, Ileana Padeanu, Sara Zorzetto, voce fuori campo di "Venere" Ifeoma Ozoeze, partecipazione di Luminita Gheorghisor, collaborazione dell’attrice e musicista Lara Patrizio, contributo artistico di Patrizia Ninu, video di Marco Valentini, foto di Andrea Casari. Il lavoro si è incentrato sulla valorizzazione della ricchezza e della complessità della figura femminile attraverso testi, immagini, musiche, canzoni, danze, al femminile. Le voci delle donne detenute provano a imprimere ai testi un proprio, particolare, moto e respiro. Prato: un corso di boxe alla Dogaia riservato alla Polizia penitenziaria fi Paolo Nencioni Il Tirreno, 9 dicembre 2015 Potrebbe non essere proprio una buona idea, almeno sotto il profilo dell’immagine, quella a cui sta lavorando la casa circondariale della Dogaia insieme all’associazione Action di Mezzana: un corso di boxe rivolto agli agenti della polizia penitenziaria. Non tanto perché la boxe non sia uno sport nobile, quanto per i destinatari del corso. È di pochi giorni fa la notizia che ha fatto il giro d’Italia sulle presunte percosse ricevute da un detenuto marocchino già ospite della casa circondariale di via della Montagnola. Rachid Assarag, 41 anni, ha registrato di nascosto una serie di conversazioni con la polizia penitenziaria nei tanti carceri nei quali è stato recluso e quelle registrate a Prato sono particolarmente pesanti, soprattutto una nella quale un brigadiere, di fronte alle sue rimostranze per essere stato picchiato, gli dice che se non la smette di rompere ne prenderà altre, di botte. Quelle registrazioni sono ora agli atti di un’inchiesta del sostituto procuratore Lorenzo Gestri, che ha raccolto la testimonianza di Assarag quando era a Sollicciano. E dunque l’iniziativa di Lorenzo Patriarchi, della palestra Action, arriva in un momento quantomeno delicato. In realtà Patriarchi ha proposto a Vincenzo Tedeschi, direttore del carcere, un corso di boxe per i detenuti, ma si è sentito rispondere picche. Se il corso si deve fare, lo si faccia per gli agenti di polizia penitenziaria, avrebbe detto il direttore, secondo quanto riferisce lo stesso Patriarchi. Il corso inizierà a gennaio. Facile però immaginare le ironie che susciterà una simile iniziativa. Mentre la magistratura indaga sulle botte ricevute da un detenuto, gli agenti si allenano a tirare di boxe. "Noi vorremmo coinvolgere i detenuti - spiega Patriarchi - Del resto il pugilato ha salvato molti di noi e quindi potrebbe funzionare anche per altri soggetti. Non è uno sport violento, tutt’altro, insegna la disciplina, il rispetto per sé e per le regole e quindi permette di affrontare meglio situazioni particolarmente difficili". Torino: "Never Give up", mostra fotografica sull’esperienza al carcere minorile di Nisida di Annalaura di Luggo luukmagazine.com, 9 dicembre 2015 In occasione di "The Others Art Fair", fiera d’arte contemporanea a Torino nel Carcere Le Nuove, a cura della Galleria The Format - Contemporary Culture Gallery di Guido Cabib, è stata presentata la mostra "Never give up" di Annalaura di Luggo, frutto dell’incontro performativo con dieci detenuti del Carcere Minorile di Nisida. I detenuti sono stati stimolati dall’artista, per due giornate, attraverso l’utilizzo sia di interviste singole che di coinvolgimento performativo collettivo con l’obiettivo di sviluppare un processo positivo di autostima e di conoscenza interiore: "Never give up", appunto. Il risultato di queste giornate ha preso forma concreta sulle pareti di una delle celle di isolamento del carcere Le Nuove di Torino, dove le iridi giganti dei giovani sono state affiacate da scritte sui muri, mantra di sogni, desideri, visioni, paure ed incertezze. Con una macchina fotografica appositamente da lei modificata, Annalaura porta avanti il suo progetto Occh-IO Eye-I: ritrarre l’anima e oltrepassare le maschere che immancabilmente si costruiscono, per imbrogliare noi stessi. Ai visitatori della mostra The Others è stata proposta una suggestiva esperienza in cui, una persona alla volta, si viene chiusi all’interno di una cella, trovandosi così avvolti dai sentimenti di sofferenza, abbandono, rabbia e speranza trasmessi imponentemente dai 10 mega ritratti dell’iride dei detenuti. Nel bagno della cella, invece, è stato esposto un video artistico con in sottofondo le voci originali dei giovani. "Vuless’ fa contenta a mammà". "Io vorrei cambiare un po’". "Cambiare solo un poco?", "Sì sì, un poco perché non voglio rinunciare allo scugnizzo che è in me". "Vuless cammenà mano a mano con mia figlia". "Chiudo gli occhi e vedo òscuro". Questi sono solo alcuni degli stralci dell’incontro-dialogo che Annalaura di Luggo ha tenuto con i ragazzi del carcere minorile di Nisida, a Napoli. "Ero preoccupata - racconta - perché direttore del carcere e operatori mi avevano avvertita che non sarebbe stato facile riuscire a creare una relazione con i ragazzi, catturare la loro attenzione. Invece è stata una meravigliosa sorpresa, abbiamo trascorso insieme tre ore e mezza e sono tornata anche il giorno successivo". Tra gli ospiti d’eccezione ritratti nella cella: Daniel Mc Vicar, famoso protagonista della soap tv Beautiful, Eleonora Brigliadori, Angela Missoni con Bruno Ragazzi che si sono tutti fatti fotografare l’iride davanti al pubblico incuriosito. La mostra sarà portata a Napoli a Febbraio all’interno del carcere di Nisida. Così il progetto Occh-IO, Eye- I che, ha immortalato oltre a persone comuni anche personaggi famosi - come Antonio Banderas, Kerry Kennedy, Alessandro Preziosi, Robert Davi, Lola Ponce Aaron Diaz, Paul Haggis, Mark Canton, Giulio Berruti - è arrivato al carcere di Nisida: l’artista ha scelto l’Iride come strumento di parificazione che prescinde da sesso, età, notorietà, posizione sociale o razza, diventando uno strumento di accesso all’essenza dell’anima di qualunque individuo. Annalaura di Luggo ha cercato di spingere i giovani a tirar fuori le proprie potenzialità, credere in sé stessi e avere la capacità di reagire per lasciarsi il passato alle spalle e guardare al futuro con positività: con quegli "occhi nuovi" che lei stessa ha voluto ritrarre. Libri: "I giustizieri della rete", di Jon Ronson recensione di Benedetto Vecchi Il Manifesto, 9 dicembre 2015 Giustizialismo, tweet storm, bufale, identità rubate e umiliazioni nel regno del verosimile. "I giustizieri della rete" di Jon Ronson per Codice edizione. Umiliazione, vergogna. Due sentimenti squisitamente privati, ma che acquistano una dimensione pubblica se c’è un malcapitato che ha commesso forse errori, leggerezza nei comportamenti, ma mai azioni che abbiano a che fare con la bibbia dell’ordine costituito (il codice di procedura penale) e che per questo viene messo all’indice in Rete. A quel punto, l’umiliazione diventa pubblica e non lascia vie di fuga. Jon Ronson è un giornalista, scrittore e sceneggiatore inglese. È noto per aver scritto L’uomo che fissa le capre, reportage romanzato sulle strategie statunitensi di intelligence non ortodosse che ha ispirato un film con George Clooney. È anche un attento frequentatore della Rete. Spulciando Facebook o Twitter, si è imbattuto in alcuni casi che ha qualificato come una riedizione digitale della "gogna" che colpisce chi ha inviato un post ironico, una foto irriverente o di cattivo gusto. Leggendo i commenti ha constatato il crescendo di violenza verbale e di turpiloquio, fino a quando i messaggi diventano uno tsunami che ha una sola vittima e tanti carnefici. L’artefatto dell’oblio. Il racconto della decisione di scrivere il libro I giustizieri della rete (Codice edizione, pp. 238, euro 21) potrebbe ridursi a una catena ininterrotta di aneddoti che, d’altronde, l’autore dispensa a piene mani, ma a che fare con la riduzione della comunicazione on line in un inferno. L’oggetto di questo libro non è però il furto di identità digitali, fenomeno molto diffuso che ha alimentato racconti di gruppi di smanettoni dal cuore d’oro che si danno da fare per recuperarla e mettere all’indice i "rapinatori". Ciò che a Ronson preme indagare sono le inedite forme di ripristino della gogna, che non ha un ceppo, né un pubblico ghignante raccolto in una piazza, bensì piattaforme digitali, social network e una platea potenzialmente illimitata. Così viene descritto il caso dello scrittore di successo messo alla berlina perché scoperto a inventarsi episodi e frasi di un mito della musica statunitense (Bob Dylan). O quello della ragazza che posta una foto corredata da un commento critico verso due nerd, accusati di frasi machiste a sfondo sessuale mentre parlavano in uno slang tecnicista che solo loro capiscono. La giovane viene letteralmente investita di insulti perché quel post ha provocato il licenziamento dei due nerd. C’è poi il caso di un boss della formula 1 accusato di organizzare orge in stile nazista, che reagisce e riesce a uscire indenne dalle accuse. Le storie raccontate risultano sempre uguali nel loro esito: disperazione del malcapitato o della malcapitata. Interessante è tuttavia la descrizione delle imprese che lavorano, dietro lauti compensi, per "produrre" l’oblio di chi è rimasto intrappolato dentro il rapporto tra vittima e carnefici. Così apprendiamo che ci sono imprese che inventano notizie positive sulla vittima, facendo retrocedere nel dimenticatoio le sciocchezze che ha postato in passato. Ma più i casi aumentano, meno chiaro è il punto di vista dell’autore. L’unica cosa chiara è che I giustizieri della rete sono seduti davanti al computer e amano attivare e diffondere campagne denigratorie verso chi è colpevole di leggerezza o di messaggi, appunto, di cattivo gusto. La prima conclusione a cui si giunge leggendo il libro è che il giustizialismo cresce proprio nel regno del verosimile che è la Rete. La viralità dell’insulto. Internet è da sempre il luogo del dileggio, degli insulti, della violenza verbale. Da sempre ci sono troll e flame che disturbano la comunicazione on line. Non è quindi una novità che nei social network possano accendersi discussioni violente o che persone vengano messe all’indice perché hanno detto o fatto cose che stridono con la morale dominante o perché lesive di un atteggiamento politicamente corretto. Quel che colpisce stando in rete è semmai la diffusione virale di un messaggio o la rapidità nella formazione di una tweet storm che può propagarsi e diventare tsunami. Per spiegare tutto ciò forse vale la pena ricordare il vecchio adagio su una farfalla che ha preso il volo in qualche punto dell’emisfero e il vento provocato si è trasformato in un uragano in qualche altra parte del pianeta. Jon Ronson si propone di tenere sotto controllo la materia incandescente che ha tra le mani. Ha sperimentato come la Rete possa diventare una gabbia per limitare la libertà di espressione, scoprendo che gli strumenti di autodifesa individuali sono limitati e spesso inefficaci. Ma alla fine non riesce a dare una spiegazione plausibile sul perché questo accada. I giustizieri della rete non hanno volto, possono diventare folle che mettono all’indice il malcapitato di turno. Non è un caso che un capitolo sia dedicato all’analisi di Gustave le Bon, lo spregiudicato autore francese de La psicologia delle folle, strampalato pamphlet scritto a fine Ottocento per spiegare lo spirito gregario nella società di massa e nelle nascenti organizzazioni del movimento operaio. Un volume giustamente dimenticato, ma che Ronson invece utilizza per segnalare un salto di qualità nelle capacità di manipolazione e di propaganda in una realtà dove la Rete è una pervasiva e invasiva tecnologia del controllo. Non c’è un "grande fratello", ma un synopticon che vede i singoli diventare parti attive nel fustigare comportamenti eterodossi, ma non criminali, alimentando così il flusso di dati che, oltre a definire l’opinione pubblica dominante, sono le materie prime del sempre fiorente settore produttivo dei Big Data. Lo spirito gregario. I case study di questo libro sono però storie di licenziamenti, di cancellazione coatta della socialità, di personalità andate in frantumi dopo la gogna on line. Ma più che per l’analisi della vergogna e dell’umiliazione, il libro di Ronson è significativo perché aggiunge un tassello nel puzzle che ha come oggetto le forme di produzione dell’opinione pubblica nell’era di Internet. Da buon liberale, Ronson ritiene che nella produzione dell’opinione pubblica ci siano antidoti alla gogna mediatica. È cioè convinto che alla fine la verità si faccia strada nel labirinto delle falsità e nella foresta del verosimile. La diffusione delle "bufale" e il loro "svelamento" da parte degli internauti è sicuramente una conferma di questa fiducia illuministica nel potere della folla. Ma ciò che è rilevante è il fatto che la denigrazione, gli insulti, i troll e i flame sono elementi fondanti della comunicazione on line, perché hanno la capacità di catturare l’attenzione di un pubblico distratto, sovraccarico di stimoli e informazioni. L’opinione pubblica dentro e fuori la Rete - la televisione è stata l’apripista di questa modalità "gridata" della comunicazione - non si forma attraverso un agire discorsivo "razionale" ma facendo leva su reattività primarie. In altri termini, il giustizialismo in rete è fratello gemello del giustizialismo politico. Sono cioè i due volti del populismo dentro e fuori la rete, dove l’essere connessi a "ciclo continuo" è la condizione necessaria alla presenza di una opinione pubblica sempre in divenire, dove il verosimile è preferito alla verità. Con buona pace di Aristotele, Platone e Jürgen Habermas. I giustizieri della rete più che funzionare come paladini della verità sono i guerrieri dell’ordine costituito, anche se a parole si scagliano contro i potenti. Fanno leva sul verosimile per legittimare punti di vista che di sovversivo hanno ben poco, come testimonia l’esperienza on line di movimenti politici come gli italiani pentestellati o i blog legati alla destra evangelica negli Stati Uniti. La radice del problema - la gogna mediatica - sta dunque nel modo di produzione dell’opinione pubblica, cioè in quel dispositivo che produce consenso all’ordine costituito. Noam Chomsky ha scritto molto sulla fabbrica del consenso, riferendosi a come gli stati nazionali hanno usato la comunicazione per legittimare la propria volontà di potenza. Come è noto, nella Rete la produzione di opinione pubblica non ha solo a che fare con il consenso, ma anche con un settore economico specifico, quello dei Big Data. Jon Ronson non affronta tutto ciò. Relega i suoi case studies delle distorsioni della comunicazione pubblica. Ma più che una eccezione, le azioni dei giustizieri della rete sono dunque la norma. Perché contribuiscono a una sovrapproduzione di informazione, fattore fondamentale alla crescita dei Big Data e delle cloud che devono puntare a saturare l’infosfera per produrre accumulo dei dati da elaborare e trasformare in merci. Il conflitto, come suggerisce una giovane radical intervistata da Ronson, riguarda proprio questo modo di produzione. La ricerca della verità sta quindi nella messa a critica del modo di produzione capitalistica dell’opinione pubblica. È su questo tornante che i giustizieri della rete possono perdere l’aura dei ribelli a favore dell’ordine costituito per indossare, finalmente, gli abiti dei militanti politici contro l’ordine costituito. Le trincee che distruggono l’Europa di Guido Viale Il Manifesto, 9 dicembre 2015 Decreto di espulsione differita. È un foglio che le autorità mettono in mano ai profughi appena sbarcati In Italia, con cui viene ingiunto di abbandonare il paese dall’aeroporto di Fiumicino entro sette giorni. Così, persone appena uscite dall’incubo di un viaggio atroce e disperato, senza denaro, biglietto aereo, documenti, conoscenza della lingua, parenti, amici o strutture di sostegno, vengono abbandonate alla clandestinità e all’arte di arrangiarsi, in territori infestati da mafia e criminalità pronte a reclutarle. Difficile da credere, ma è così. Per ora ha riguardato un numero ristretto di profughi ai quali è stata negata la richiesta di asilo: in base alla nazionalità o al paese di provenienza, considerato non in guerra; o anche senza aver nemmeno accertato questo dato. È il risvolto locale della decisione di Bruxelles di distinguere tra profughi di guerra e migranti economici: i primi meritevoli di protezione, i secondi da respingere. Una selezione da affidare agli Hot spot di Italia e Grecia, che però non sono ancora in funzione e che rischiano di trasformare entrambi i paesi in "depositi" incontrollati dei profughi che gli altri Stati non vogliono. Non ci sono soldi per pagare i voli di ritorno, né accordi con i paesi in cui rimpatriare i migranti economici, perché è silenziosamente fallito il vertice di La Valletta, il cui obiettivo era lo scambio di un miliardo e otto di aiuti - soprattutto per organizzare campi in cui internare profughi in fuga o rimpatriati - con la disponibilità dei paesi africani a bloccare quei flussi per conto dell’Europa. Per questo si ricorre ai decreti di espulsione differita. Quanto questa misura sia non solo cinica e criminale, ma anche miope e stupida, tanto da mettere in pericolo sicurezza e incolumità dei cittadini italiani, soltanto il silenzio complice dei media riesce a nasconderlo. Con essa l’Unione europea conta di sbarazzarsi, senza sapere come, di almeno la metà dei profughi che hanno raggiunto il suo territorio quest’anno (più o meno un milione; quanti i migranti richiamati ogni anno dall’Europa prima della crisi del 2008 e delle politiche di austerity; e meno di un terzo del necessario per mantenere in equilibrio il saldo demografico dell’Unione, in caduta verticale, e la sua vacillante economia). Ma ciò che non è andato in porto con i paesi africani sembra invece riuscito con la Turchia: in cambio di tre miliardi - tutti ancora da stanziare, in gran parte a valere sui bilanci di renitenti Stati membri - Erdogan si impegna a trattenere in Turchia (o in un’enclave da ricavare manu militari in territorio siriano) due milioni e mezzo di profughi, in gran parte siriani, iracheni e afghani (ma molti anche subsahariani, senza contare quelli nuovi, che le guerre continueranno a creare). Questo accordo - fortemente voluto dalla Merkel per bilanciare l’impopolarità creatale, non tanto tra i cittadini tedeschi, quanto in seno all’establishment della Grande coalizione, dall’avventata promessa di accogliere tutti i profughi siriani - è stato fatto nel momento in cui di Erdogan venivano finalmente messi in chiaro i crimini politici, le misure antidemocratiche, i finanziamenti, le armi e l’addestramento offerti all’Isis. Pur di sbarazzarsi dei profughi l’Unione europea, proprio mentre comincia a bombardare l’Isis senza intervenire sui flussi da cui provengano i soldi, le armi e gli appoggi di cui gode, è disposta a passare sopra a tutte queste cose; e persino a riaprire le procedure di ingresso della Turchia nell’Unione. Con questo accordo i governi dell’Unione si sono però consegnati in mano a un feroce dittatore, che ora ha a disposizione una bomba umana (a questo servono i due milioni di profughi) da scagliare contro l’Unione appena si dimostrerà poco accondiscendente con le sue richieste. I primi a farne le spese sono i Kurdi, che non otterranno più asilo in Europa non potendo più sostenere di essere discriminati, perseguitati e massacrati in Turchia. Così i capi di Stato di tutto il mondo, e soprattutto quelli europei, accorsi a Parigi (con puntate a Bruxelles) per lanciare una battaglia che non faranno mai contro i cambiamenti climatici, ne hanno approfittato per decidere invece una guerra; che oltre a creare migliaia di vittime e milioni di nuovi profughi è, di tutte le attività umane, quella che più contribuisce alla produzione di gas di serra; anche se nel computo delle emissioni climalteranti questa minuzia non viene mai calcolata. Renzi se ne è per ora chiamato fuori, riscuotendo le lodi di sostenitori e avversari; ma solo per tenersi mani e truppe libere per la guerra in Libia che la Nato sta preparando. Non bisogna rifare il disastro della guerra contro Gheddafi, ripete; ma non si vede dove stia la differenza con quella in programma. Se mettiamo in fila questi episodi grandi e piccoli ne esce il quadro di una governance dell’Unione europea totalmente allo sbando: quasi una banda di ubriachi che non sa più dove andare. Quanto basta per ridicolizzare Stefano Manservisi (una specie di badante dell’Alto Rappresentante Federica Mogherini), che concludendo giovedì scorso a Milano un convegno sul XXI rapporto dell’Ismu sulle migrazioni, aveva sostenuto che, se le politiche economiche hanno contribuito a mettere in crisi l’Unione europea, la condivisione delle misure sui migranti ne sta invece ricomponendo l’unità; aprendo la strada all’agognata unione politica…Peccato che quelle misure, oltre a essere criminali, sono inattuabili e, in alcuni casi, come l’accordo con la Turchia o l’entrata in guerra, suicide. L’Europa allargata ai profughi e ai loro paesi di provenienza è un progetto che deve essere ripensato dalle fondamenta, costruendo innanzitutto un fronte di coloro che non vogliono rinchiudersi in una fortezza dominata dal cinismo, dal nazionalismo e dal razzismo. Questo modo di governare, che spinge l’Unione europea verso l’insignificanza e la dissoluzione e spiana la strada alle forze antieuropeiste e razziste delle destre, evidenzia l’incapacità di misurarsi con le sfide che il pianeta e la popolazione mondiale si trovano di fronte. Governano come se tutto dovesse continuare a scorrere come prima. La crisi climatica alle porte, e in molte regioni già in pieno corso, è solo una, e non certo la maggiore, delle questioni sul tappeto, su cui nessun uomo o donna di governo è disposto a giocarsi il proprio ruolo, e meno che mai a mettere in relazione i cambiamenti climatici con i profughi che sta cercando di tenere lontani. La guerra è un’altra quisquilia, affrontata con leggerezza e senza il minimo progetto per il dopo, per far salire di qualche punto la propria popolarità ormai irrimediabilmente a terra (come aveva fatto Blair a suo tempo; e sappiamo come è poi andata). Tutto viene deciso nella convinzione che, vinta la guerra - che in Afghanistan e in Iraq dura da anni e non si sa quando e come possa finire - governi finanza e imprese potranno continuare o riprendere gli affari di sempre. Lo stesso vale per l’economia: la crisi sarebbe dietro le spalle perché il Pil di alcuni paesi registra un mezzo punto in più, senza considerare la scia di disoccupati, generazioni perdute, devastazioni ambientali, disperazione, miseria e rancori che l’austerity ha creato e a cui la "ripresa" non apporta alcun rimedio. Peggio ancora per lo spirito pubblico: il pensiero unico, che è una rappresentazione vuota e falsa della realtà, ha lasciato dietro di sé, a destra, al centro e a sinistra, il deserto: una totale incapacità di raccogliere i fili di un progetto di salvaguardia del pianeta, delle vite e dei rapporti sociali tra le persone. Siamo ormai in trincea, avendo allegramente dilapidato tutto quello di buono che avremmo potuto salvare di un’epoca ormai trascorsa. Dobbiamo prepararci a un lungo periodo di ricostruzione di una prospettiva più umana. Che il papa e la sua enciclica siano diventati un punto di riferimento non è un buon segno: perché è il risultato della miseria altrui. Strage in mare, sei piccole vittime. Sui migranti è scontro Ue-Italia di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 9 dicembre 2015 Nella stessa zona è affiorato ieri il corpo di una bimba siriana di 5 anni, identificata come Sajida Ali, che sarebbe annegata in un naufragio di alcuni giorni fa. È l’ultimo atto di uno scontro che va avanti ormai da mesi: Unione europea contro Italia per la "schedatura" dei migranti. E si consuma nel giorno dell’ennesima strage in mare con sei bambini, uno era neonato, morti per il naufragio di un gommone pieno di profughi afghani avvenuto al largo di Cesme, nella provincia di Smirne, sulla costa egea della Turchia. Sono otto i sopravvissuti, ma il bilancio potrebbe aggravarsi nelle prossime ore visto che nessuno è in grado di sapere quante erano davvero le persone a bordo. Nella stessa zona è affiorato ieri il corpo di una bimba siriana di 5 anni, identificata come Sajida Ali, che sarebbe annegata in un naufragio di alcuni giorni fa. Una tragedia senza fine, di fronte alla quale l’Europa torna evidentemente a dividersi. I vertici del Viminale sono volati a Bruxelles per passare al contrattacco, ma le giustificazioni potrebbero non bastare per scongiurare l’avvio della procedura d’infrazione contro il nostro Paese. L’accusa è pesante, sempre la stessa, e riguarda il mancato foto-segnalamento di chi chiede asilo. Secondo la commissione guidata da Jean Claude Junker all’appello mancherebbero almeno 60 mila stranieri giunti sulle nostre coste nell’ultimo anno. Una contestazione che il capo del dipartimento Immigrazione Mario Morcone ha respinto consegnando una relazione preparata dal capo della polizia Alessandro Pansa e durante un’audizione di fronte alla commissione del parlamento europeo: "Nei nostri confronti c’è un pregiudizio di tipo politico. Abbiamo foto-segnalato l’80 per cento delle persone, manca una parte di eritrei e siriani che rifiutano di farsi prendere le impronte anche facendo resistenza fisica. Per questo d’ora in poi sarà videoregistrata la procedura di chi si oppone". La questione esplode nei mesi scorsi, mentre l’Europa è invasa da migliaia di profughi. La prima ad accusare l’Italia è la cancelliera tedesca Angela Merkel: "È evidente che attualmente la registrazione dei profughi nei Paesi alle frontiere esterne dell’Ue non funziona". A settembre anche la Francia si schiera contro di noi e in una lettera inviata al direttore generale per gli Affari Interni e l’Immigrazione Matthias Ruete, Pansa evidenzia come sia "raddoppiato il numero delle persone foto-segnalate" sottolineando di essere "perfettamente in regola con quanto previsto dalle norme europee perché l’unico problema riguarda eritrei e siriani che temono di non poter poi raggiungere lo Stato che hanno scelto come destinazione finale e dunque vengono soltanto fotografati". Il trattato di Dublino impone di rimanere nello Stato di primo ingresso fino al termine della procedura per il riconoscimento dello status di rifugiato, dunque chi vuole raggiungere il Nord Europa cerca di sfuggire alla registrazione. Qualche settimana fa la Commissione chiede nuovi chiarimenti, minaccia l’avvio della procedura di infrazione. Morcone vola a Bruxelles, consegna la relazione con i dati. Spiega che dal 1°gennaio al 7 dicembre "sono entrati in Italia 149.110 migranti, di cui 38.205 eritrei e 7.401 siriani". Chiarisce: "Il 20 per cento che non risulta foto-segnalato appartiene nella maggior parte dei casi agli eritrei che, come si sa, chiudono i pugni e si oppongono in ogni modo alla registrazione delle impronte digitali. Un atteggiamento registrato anche altrove senza che siano formulate le stesse accuse". Morcone non lo dice, ma il riferimento è a Germania, Austria, Slovenia e Ungheria che nei giorni di massimo afflusso alle frontiere avevano allentato i controlli proprio come in Italia durante l’emergenza legata agli sbarchi. Il Presidente del Parlamento europeo Martin Schulz: "Siamo sull’orlo del collasso" di Carlo Lania Il Manifesto, 9 dicembre 2015 In un’intervista collettiva a Bruxelles, Martin Schulz si esprime contro le politiche di chiusura sul tema dei migranti: "Ci sono forze che vogliono riportarci indietro, all’epoca degli Stati nazione. Sono preoccupato per questa situazione". "L’Unione europea sta vivendo il suo momento forse più drammatico dai giorni dell’unificazione e dell’allargamento all’Europa orientale. Ci sono forze che vogliono riportare l’Europa indietro agli Stati nazione. Sono preoccupato per questa situazione". Non usa mezzi termini Martin Schulz per descrivere il momento di estrema difficoltà che l’Unione europea sta vivendo da mesi. I motivi di esserlo, secondo il presidente del parlamento europeo, sono molteplici: l’avanzata delle forze populiste in molti paesi dell’Unione (come hanno appena dimostrato le elezioni regionali francesi), la crisi dei migranti, che ogni giorno presenta il conto con naufragi e vittime e il terrorismo. Tutti fattori di forte instabilità ai quali si somma, ed è forse l’elemento di inquietudine più forte, la scarsa collaborazione tra paesi che, in quanto membri della stessa comunità politica, anziché trovare strategie comuni sembrano voler andare sempre più ognuno per la sua strada. "L’Europa è sull’orlo del collasso", avverte quindi Schulz che a Bruxelles accetta di sottoporsi a un’intervista collettiva da parte di giornalisti di tutta Europa. In un giorno in cui, per di più, bisogna registrare l’ennesima strage di migranti lungo le coste della Turchia, con sei bambini morti nel tentativo di approdare ad una vita migliore. "Manca la volontà di collaborare nell’aiutare i rifugiati", denuncia Schulz facendo riferimento, pur senza citarli mai, ai paesi dell’est contrari alla politica di ricollocamento voluta da Bruxelles. "Abbiamo di fronte persone che scappano dal terrorismo, dal regime di Assad e che vengono da noi senza avere più niente, solo con i bambini in mano. Dobbiamo accogliere queste persone, ma è chiaro che non possiamo faro con tutti: dobbiamo controllare caso per caso chi ha diritto all’asilo e chi no. Un milione di persone divise per 500 milioni di abitanti dell’Unione europea non rappresentano un problema. Ma se alcuni stati membri si rifiutano di accoglierli, allora sono un problema. Per questo dobbiamo rendere più sicuri in confini esterni dell’Unione, in modo da continuare a garantire la libera circolazione attraverso i confini interni". Nel corso dell’intervista collettiva a Bruxelles, il presidente del parlamento europeo ha affrontato vari temi: gli hotspot, la pressione dell’Unione europea per una maggiore collaborazione tra gli Stati membri, la divisione dei migranti, considerando il desiderio maggioritario di recarsi presso paesi ben precisi, Germania e Nord Europa, fino ad arrivare alla possibilità che si realizzi una mini-Schengen e alle problematiche determinate dall’atteggiamento di alcuni paesi dell’est, come ad esempio Macedonia e Ungheria. Presidente, Italia e Grecia stanno aprendo gli hotspot: è davvero questa la strada per risolvere la crisi dei rifugiati? "No, gli hotspot non sono la soluzione alla crisi, ma dobbiamo avere un sistema che funziona meglio di quanto non accada oggi. Per questo occorre far funzionare il meccanismo dei ricollocamenti". Cosa può fare l’Unione europea per garantire sicurezza ai suoi cittadini e allo stesso tempo aiutare i rifugiati? "Come Unione europea stiamo facendo pressione sugli Stati membri perché collaborino di più nello scambio di informazioni. Il problema è che siamo a un punto così drammatico che paesi come la Danimarca fanno un referendum per chiedere ai propri cittadini se avere oppure no una maggiore collaborazione tra gli stati membri sulla sicurezza, e i cittadini hanno detto no (posizione sostenuta dal Partito Popolare, formazione euro scettica e anti immigrati, ndr). È incredibile. Questo voto dimostra che i cittadini danno la colpa all’Ue di quanto sta accadendo. Cercano capri espiatori ma non danno mai soluzioni. La situazione è complicata e il nostro compito è di trovare delle risposte adeguate cosa che i partiti populisti non fanno. Bisogna tener conto che i movimenti estremisti di destra in Francia, Belgio, Germania, esistevano prima della crisi dei rifugiati". Che senso ha distribuire i rifugiati tra i 28 paesi se poi le popolazioni che migrano in realtà hanno un unico desiderio, ovvero spostarsi e vivere tutti in Germania e in Svezia? "I rifugiati hanno diritto a essere protetti. Se ci deve essere una risposta europea allora chi chiede aiuto deve riceverlo in Ungheria come in Germania. Io dico no all’Europa come una fortezza, ma ci sono alcuni Stati che si comportano come una fortezza". Il sistema dei ricollocamenti può essere considerato come la soluzione giusta? "Non è la panacea di tutti i mali ma stiamo andando nella direzione giusta. Il problema è che i flusso dei migranti non diminuirà fino a quando continuerà la guerra civile in Siria e la regione resterà destabilizzata. Per questo serve un sistema che consenta di ricevere i profughi, ma se non riusciamo a distribuire le 160 mila persone sulle quali abbiamo già un accordo, come faremo ad accoglierne altri? L’Unione europea non ha certo il carico maggiore di rifugiati. La Giordania ne ha 2 milioni, un paese piccolo come il Libano più di un milione. Servono soldi per gestire questa emergenza. Nell’estate del 2015 l’Unhcr e il World Program hanno dovuto ridurre la spesa pro capite per i rifugiati a 50 centesimi al giorno. Servono soldi e faccio un appello agli stati membri perché contribuiscano di più". Si realizzerà una mini-Schengen? "Non penso che una mini-Schengen rappresenti una soluzione. Se la facessimo, o se reintroducessimo controlli sistematici alle frontiere divideremmo l’Unione europea. Non sono dibattiti interessanti. Il Front national propone di chiudere le frontiere, ma ci sono centinaia di migliaia di frontalieri che se davvero lo facessimo la mattina non potrebbero più andare a lavorare. E si bloccherebbero anche le merci, perché non potremmo fermare le persone e non i camion. Perderemmo tutti i beni ai quali siamo abituati oggi". L’Ungheria e la Macedonia però hanno chiuso i loro confini. "È un peccato. Si tratta della reazione all’incapacità degli stati membri a mettersi d’accordo sui ricollocamenti. I paesi più piccoli come la Macedonia e la Slovenia si trovano in una situazione che non riescono a controllare. Ma tutti i paesi membri devono capire che il prezzo più alto di questa situazione così drammatica lo pagano i rifugiati, le persone che stanno fuggendo dal terrorismo". Canapa medica, un decreto ricco di divieti di Giorgio Bignami Il Manifesto, 9 dicembre 2015 Il 30 novembre è apparso in Gazzetta Ufficiale il Decreto Lorenzin che regolamenta le coltivazioni, le lavorazioni e gli impieghi terapeutici della cannabis. Previo "inchino" della Conferenza Stato-Regioni, forse convinta che la cannabis terapeutica vada "calmierata" in quanto cavallo di Troia di una demoniaca cannabis ricreativa; e poco sensibile alle esigenze e ai diritti di tanti pazienti e ai diritti/doveri dei loro curanti, la ministra e Conferenza hanno cestinato le obiezioni e proposte di modifiche di varie parti, tra cui quelle maggiormente competenti in materia, come l’Associazione cannabis terapeutica (Act) e la Società italiana ricerca cannabis (Sirca). Solo qualche cenno a quanto già detto e ridetto in questa e altre sedi. Resta la doppia limitazione alle indicazioni terapeutiche, cioè da un lato l’esclusione di diverse patologie (per es. l’epilessia resistente alle altre terapie, il Parkinson, l’Alzheimer), dall’altro, per le indicazioni ammesse, l’autorizzazione all’uso solo dopo il fallimento di altre terapie. Restano l’esclusione di estratti come olii e resine e le condizioni per le preparazioni galeniche che di fatto le mettono "fuori mercato" (vedi in proposito www?.farmagalenica?.it). Restano le riserve sull’efficacia delle terapie (di fatto una svalutazione delle cure palliative) coniugate con un’enfasi sulla gravità degli effetti collaterali, così da sminuire sostanzialmente il reale rapporto beneficio/rischio. Resta il divieto di guida per almeno 24 ore dall’ultimo trattamento: un divieto che pur giustificabile in forma più blanda, cozza sia con la pericolosità relativamente bassa della guida sotto l’effetto della cannabis, a meno di una associazione con alcolici e/o altre droghe "dure" (cfr. la seconda edizione del 6° Libro bianco sulla legge sulle droghe su Fuoriluogo), sia col fatto che da sempre si ignora il ben documentato rischio della guida sotto l’effetto di psicofarmaci. Infine le disposizioni del decreto nel loro insieme configurano un "farmacoligopolio" sotto il controllo del Ministero della salute e dell’Agenzia per il farmaco (AIFA): sia sulle produzioni dello Stabilimento chimico-farmaceutico militare, l’unico per il momento autorizzato, sia sugli acquisti all’estero. In teoria l’offerta si dice basata sulla domanda espressa dalle aziende sanitarie e dalle regioni, le cui normative in materia sono tuttavia assai eterogenee o addirittura inesistenti: altro meccanismo suscettibile di ritardare l’andata a regime dell’operazione, di favorire i frenatori di coda a vocazione proibizionista, di produrre discriminazioni fra i cittadini di diverse parti del Paese. E allora? I decreti ministeriali sono strumenti normativi fragili (più d’una volta in passato sono caduti tramite le sentenze dei pretori d’assalto), lungi dall’avere forza di legge, particolarmente quando si può sospettare un conflitto coi dettati costituzionali, cioè quelli che riguardano la tutela della salute e la libertà d’impresa. Le possibili azioni mirate a una modifica del decreto Cannabis sono molteplici: per esempio, quelle basate sulla prescrizione "off label", cioè al di fuori delle indicazioni ufficialmente approvate, prassi assai frequente da parte di medici e servizi di buona volontà, di per sé legittima salvo l’accresciuta responsabilità del medico in caso di effetti avversi. Se l’estensione di questa prassi dai farmaci "non stupefacenti" a farmaci "stupefacenti" di cui è previsto l’uso medico dovesse dar luogo a sanzioni, allora l’apertura di un fronte giudiziario - magari sino alla Consulta - potrebbe portare a quelle modifiche che paiono irrinunciabili. Stati Uniti: Trump e quei silenzi repubblicani sulla provocazione anti-musulmani di Federico Rampini La Repubblica, 9 dicembre 2015 La Casa Bianca interviene subito per condannare le parole del magnate. Così anche alcuni candidati del Gop, come Bush e Christie. Ma molti altri preferiscono tacere. E d’altra parte il frontrunner del partito cresce nei sondaggi. L’America ha trovato il suo Le Pen? "È contrario ai nostri valori, alla nostra Costituzione, ai diritti fondamentali di ogni cittadino americano. Ma è anche contrario ai nostri interessi, perché in questa fase abbiamo bisogno della massima cooperazione della comunità islamica per individuare, isolare e sconfiggere i terroristi". Il primo a reagire è Ben Rhodes, il consigliere strategico di Barack Obama, in una dichiarazione alla Cnn. Ma non è certo l’ultimo. L’intero mondo politico è in subbuglio dopo l’ultima "bomba" di Donald Trump. La proposta lanciata stasera in un comunicato della sua campagna elettorale è clamorosa: chiudere le frontiere degli Stati Uniti ai musulmani. Nientemeno. Nel titolo della email con cui questa proposta è stata annunciata a tutti noi giornalisti accreditati presso Trump, compare la parola "immigrati". Che però non c’è nel testo. E gli stessi portavoce di Trump sembrano darne l’interpretazione più vasta: confini chiusi per tutti i fedeli di quella religione, inclusi turisti, diplomatici, o chi viaggia per lavoro. Comunque sia, la proposta non è solo anti-costituzionale visto che la legge suprema degli Stati Uniti vieta di discriminare in base alla religione. È anche impraticabile: bisognerebbe fare ad ogni persona che sbarca in un aeroporto americano un interrogatorio sulla sua fede? Ridicolo, grottesco, e naturalmente un regalo ai jihadisti dello Stato Islamico: con questo genere di annunci indiscriminatamente ostili verso l’intero Islam, si offre ai terroristi una "rappresentanza" insperata. L’amalgama è tutto a loro vantaggio. Se tutti i musulmani del mondo, cioè un miliardo e 600 milioni, sono potenziali nemici dell’America, allora davvero la capacità di reclutamento dei terroristi e fantastica, illimitata. Il coro di condanne a Trump stasera è abbastanza ampio, oltre all’Amministrazione Obama e al partito democratico include alcuni repubblicani moderati come Jeb Bush e Chris Christie. Senonché Bush e Christie sono ampiamente ignorati dalla base del loro partito. Altri repubblicani brillano stasera per il loro silenzio. Non osano attaccare Trump, per timore di condannarsi alla marginalità. Perché il fatto è che dalla strage di San Bernardino in poi, le sparate anti-musulmani di Trump lo hanno ulteriormente rafforzato nei sondaggi. Lui è sempre più solo in vetta agli indici di popolarità, tra gli elettori di destra. L’America ha trovato il suo Le Pen? Di certo Trump ha un fiuto notevole per interpretare le paure di una parte della società americana, lo fa prima degli altri, meglio degli altri, con una potenza comunicativa strepitosa, un’aggressività impolitica, in un’escalation di politically un-correct che manda in visibilio gli elettori più arrabbiati. E il tornado di reazioni alle sue ultime parole, supera la risonanza che aveva avuto appena 24 ore prima il pacato discorso di Obama alla nazione, sullo stesso argomento. Stati Uniti: la Camera dà il via libera a una stretta sui visti di ingresso La Repubblica, 9 dicembre 2015 Saranno necessari per chiunque abbia visitato Siria e Iraq. La misura riguarderà anche l’Italia. La Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti ha approvato un progetto di legge che detta una stretta sul sistema di Ingresso negli Usa, rendendo necessario il visto per chiunque abbia visitato Iraq e Siria negli ultimi 5 anni, anche se proveniente da Paesi fino ad ora esenti attraverso il "Waiver Visa Program". Nelle ore in cui fanno discutere le bordate di Donald Trump su musulmani e possibili limitazioni all’utilizzo di Internet, i deputati si apprestano dunque ad adottare norme più severe in materia di ingresso negli States, come d’altronde annunciato dallo stesso presidente Obama nel suo discorso dallo Studio Ovale. Il testo è stato approvato a larga maggioranza, con 407 voti favorevoli e 19 contrari. E la proposta - appoggiata dalla Casa Bianca - interessa specificatamente il cosiddetto "Waiver Visa Program" che consente l’esenzione dal visto all’ingresso negli Stati Uniti per i cittadini di 38 paesi, tra cui molti Stati europei come Belgio, Francia e anche Italia. La proposta era stata avanzata dopo gli attacchi di Parigi e i cambiamenti che verrebbero introdotti - se approvata definitivamente - riguardano cittadini di Iraq e Siria o chiunque abbia viaggiato in quei Paesi negli ultimi cinque anni. Non si tratta tuttavia di una misura autonoma, ma di un provvedimento nell’ambito di una legge di bilancio di fine anno il cui testo complessivo è in questi giorni in fase di ‘limaturà al Congresso e la cui approvazione finale, dopo il voto anche al Senato, è attesa per il fine settimana. Naturalmente i repubblicani sono in prima fila nel rivendicare l’approvazione del provvedimento: "Ci sono oltre 5000 individui che hanno passaporti occidentali compresi in questo programma e che sono stati in Iraq o Siria negli ultimi cinque anni", ha detto il leader della maggioranza repubblicana alla Camera Kevin McCarthy, "queste sono le lacune su cui dobbiamo intervenire". "Ci aiuterà a neutralizzare la minaccia dell’ingresso nel nostro Paese di terrorisi stranieri", ha aggiunto lo speaker della Camera Paul Ryan. Siria: scambio di prigionieri e salme tra l’opposizione siriana e il regime Nova, 9 dicembre 2015 L’opposizione siriana e il regime di Bashar al Assad hanno attuato uno scambio di prigionieri e di salme dei loro uomini morti in battaglia nelle province si Aleppo e Hama, nel nord della Siria. Lo scambio è avvenuto sotto la mediazione della Mezzaluna rossa siriana: sono sei i detenuti consegnati in mano al regime che sono ritornati tra le fila del gruppo ribelle Jund al Aqsa in cambio delle salme di diversi militari siriani uccisi nella battaglia avvenuta di recente nella città di Muruk, nei dintorni di Hama. Sono stati inoltre scambiati i cadaveri di soldati uccisi ad Aleppo con quelli di 12 oppositori e Damasco ha librato sei detenuti in cambio dei cadaveri di 28 suoi militari. Uno scambio simile è avvenuto lo scorso settembre nella zona di Qalaa vicino Hama. Congo: l’Onu denuncia "repressione inquietante e violazioni dei diritti dell’uomo" Agi, 9 dicembre 2015 Le Nazioni Unite esprimono, attraverso un rapporto pubblicato a Kinshasa, tutta la loro "inquietudine per il restringimento dello spazio democratico" nella Repubblica democratica del Congo con l’avvicinarsi delle elezioni ed esortano le autorità di Kinshasa a "proteggere i diritti civili e politici". Nel rapporto l’Onu si rileva la "tendenza alla restrizione della libertà di espressione per coloro che esprimono opinioni critiche nei confronti delle azioni del governo. Fatto questo che denota un restringimento dello spazio democratico, suscettibile di minare la credibilità del processo elettorale". Dall’inizio dell’anno, fanno notare le Nazioni Unite, "minacce, arresti e detenzioni arbitrarie hanno colpito principalmente i professionisti dei media, i membri della società civile e oppositori politici". Il rapporto redatto della Missione Onu in Rdc (Monusco) e dall’Alto commissario dell’Onu per i diritti dell’uomo, denuncia una "repressione inquietante" e ha documentato "143 violazioni dei diritti dell’uomo legati al processo elettorale", nel corso dei primi tre trimestri del 2015, periodo nel quale "almeno 649 persone sono state arrestate e detenute arbitrariamente". Secondo il rapporto queste violazioni sono state registrate principalmente nelle "provincie dove i partiti dell’opposizione e la società civile sono particolarmente attivi": Kinshasa, Nord e Sud Kivu e Kasai Orientale, regione d’origine del "vecchio" oppositore Etienne Tshisekedi, rivale acerrimo del presidente congolese Joseph Kabila nelle elezioni del 2011, segnate da frodi massive. Il clima politico in Rdc è particolarmente teso, dopo che la Corte costituzione, nel settembre scorso, ha sospeso il processo elettorale che doveva cominciare in ottobre per arrivare alle elezioni presidenziali, previste nel novembre del 2016, alle quali, secondo la costituzione vigente, il presidente uscente Kabila non può ricandidarsi essendo al potere dal 2001. La Costituzione prevede, infatti, solo due mandati. L’opposizione, compatta, accusa il "clan" presidenziale di manovrare per permettere al capo di Stato di restare al potere oltre il termine del suo mandato (dicembre 2016), cercando di ritardare la tenuta delle elezioni presidenziali. Malawi: una band di detenuti e detenute candidata ai Grammy Awards 2016 iljournal.today, 9 dicembre 2015 Alla 58esima edizione dei Grammy Awards del prossimo 15 febbraio, gli Oscar della Musica rischiano di non andare ai soliti artisti main stream, conosciuti già prima di arrivare sul palco dello Staples Center di Los Angeles. Le nomination, diffuse solo pochi giorni fa, vedono in testa il rapper Kendrick Lamar e The Weekend, la nuova stella dell’r&b. Ma nell’elenco degli artisti illustri candidati ai Grammy nella categoria World Music (Musica del mondo), quest’anno c’è una sorpresa: una band perfettamente sconosciuta, ma molto talentuosa. Si tratta di un gruppo di uomini e donne della prigione di massima sicurezza di Zomba, in Malawi, che hanno registrato il loro album con strumenti basilari, ricavati da elementi naturali e di scarto. "I have no everything here" è il titolo dell’album registrato a gennaio dal Zomba Prison Project e raccoglie 20 canzoni, 18 delle quali scritte dagli stessi detenuti. Sono circa 70 gli uomini e le donne che hanno preso parte al lavoro discografico, per un’età che va dai 20 ai 70 anni. Le canzoni, cantate in chewa, una lingua bantu parlata in gran parte dell’Africa centrale e meridionale, sono state registrate in 2 settimane circa nell’estate del 2013, quando Ian Brennan, un famoso produttore americano già vincitore di Grammy, che ha parlato del progetto ad Al Jazeera, aveva deciso di fare ritorno in Malawi per scoprire nuovi talenti musicali sconosciuti. In passato Brennan aveva già aiutato ad emergere gruppi famosi del Malawi, come i Malawi Mouse Boys, un gruppo gospel i cui membri vivevano vendendo topi arrosto in strada e i The Good Ones, un trio scampato al genocidio del Rwanda. Brennan è convinto infatti che si debba dare voce non solo a quanti non siano rappresentati a livello internazionale, come i musicisti che provengono dal continente africano, ma anche a quanti, nella stessa Africa, vivono totalmente ai margini della società. Da qui la scelta dei detenuti. Molti dei partecipanti resteranno in carcere per tutta la vita. I loro crimini variano dall’omicidio al furto, mentre altri, in particolare le donne, sono state imprigionate per reati molto più ambigui, legati ad esempio all’omosessualità o alla stregoneria. Brennan nel corso del progetto è riuscito a guadagnarsi la fiducia del direttore della prigione e a portare i membri della band fuori da quelle mura, per registrare i brani. Il progetto ha raccolto fondi per l’assistenza legale di alcuni detenuti. Ma è quasi certo che gli artisti della prigione Zomba non presenzieranno alla cerimonia di Los Angeles.