Dove entra il Volontariato il carcere è più umano Il Mattino di Padova, 8 dicembre 2015 Il 5 dicembre è stata la Giornata Internazionale del Volontariato. Per le persone detenute il Volontariato ha una importanza particolare, perché è spesso un ponte con la società esterna, è la possibilità di aprirsi al confronto, è la garanzia della tutela della dignità di chi è rinchiuso. Di Volontariato abbiamo parlato allora con le persone detenute, per ragionare insieme sul suo ruolo, ma anche sulla necessità di battersi insieme perché chi fa volontariato in situazioni complesse come i luoghi di privazione della libertà abbia più autonomia e un riconoscimento chiaro da parte delle Istituzioni. Persone migliori grazie al Volontariato Per riflettere sul ruolo del Volontariato voglio partire dalla possibilità che il volontariato ha di incidere sulla vita degli istituti penitenziari e delle persone detenute. Quando una persona viene arrestata è come se venisse esiliata dalla società; compiendo un reato rompe un patto sociale, indispensabile per una convivenza civile, nel rispetto del prossimo. Allora mi chiedo: per ricostituire questo patto sociale è giusto togliere la possibilità al colpevole di confrontarsi proprio con la parte lesa? Per esperienza personale posso affermare che per ricucire la lacerazione che crea un reato nei confronti della società è necessario confrontarsi con la società stessa. In questi ultimi anni ho scritto molti articoli dove riconoscevo di essere stato sempre in guerra con il mondo che mi circondava; non voglio darmi alibi, ma dobbiamo riconoscere che se mettiamo una persona che come me era in guerra con tutti, in un contesto dove questa guerra viene mantenuta e alimentata, isolandola dal resto del mondo, non ricaveremo nulla di buono. Il senso di una pena deve essere rieducativo, ma come si può pensare di rieducare degli individui senza la presenza di persone che potrebbero aiutare noi detenuti a sviluppare quello che ci è sempre mancato, e cioè delle buone attitudini morali, intellettuali e perché no, anche fisiche? Il Volontariato è proprio una realtà che può portare il detenuto a riflettere in maniera critica e ovviamente diversa dal passato. Se non fosse stato per il contatto che oggi ho con persone esterne, difficilmente avrei scoperto di avere delle capacità riflessive. Noi detenuti siamo sempre pronti a darci degli alibi per ciò che abbiamo commesso, è un meccanismo oserei dire automatico, trovare sempre una causa che esula dalle proprie responsabilità, ma questo accade perché non c’è nessuno che tenta di farci vedere le cose sotto un’altra prospettiva. Quando iniziai a partecipare al gruppo di discussione della redazione di Ristretti Orizzonti un mio compagno mi definì un "guerrafondaio". È vero, lo ero. Ero incapace di mettere in discussione le mie convinzioni. È stato il Volontariato a farmi riflettere con un invito che mi fu ripetuto e che ancora oggi mi viene ribadito molto spesso, un invito a provare a mettermi nei panni dell’altro: ma come avrei potuto farlo da solo, senza l’aiuto di persone esterne? Senza loro, come avrei potuto mettere in discussione delle scelte di vita che mi hanno caratterizzato per anni e anni? Non ne sarei stato capace. Quando parliamo di rieducazione sono sempre le solite parole che emergono, confronto e responsabilizzazione, due parole che credo debbano camminare sempre di pari passo, senza il confronto non potrà mai avvenire la responsabilizzazione della persona detenuta. Oggi il carcere difficilmente apre i suoi cancelli alla società, ma dove avviene, il carcere è più umano, le pene diventano più umane, e a loro volta anche le persone ritrovano quella sensibilità che caratterizza ogni essere umano. Ho una condanna di 30 anni e ci sarebbe un abisso di differenza se oggi mi trovassi in un carcere tipo Novara, dove sono stato prima di arrivare a Padova, sicuramente adesso non sarei dietro a un PC a scrivere per far comprendere l’enorme influenza positiva che ha avuto il Volontariato che è presente a Padova. Se fossi a Novara la mia mente sarebbe proiettata a progettare il prossimo reato da compiere una volta riacquistata la libertà, pur avendo una condanna pesante. La domanda è sempre la solita che dobbiamo porci: come vogliamo che siano i detenuti una volta scontata la propria condanna, migliori o peggiori? Lorenzo Sciacca Il Volontariato in carcere come ponte verso la società esterna Il Volontariato lo si trova in tutti i luoghi in cui vi sono dei soggetti deboli, nel senso che non sono in grado di avere il controllo totale della loro persona dal punto di vista fisico, morale o materiale, ed è a queste persone che fornisce in forma gratuita assistenza e sostegno. Il ruolo del Volontariato diventa più complesso quando opera in luoghi chiusi, in cui le regole ferree limitano la libertà delle persone che vi abitano. Il carcere è il luogo ristretto per eccellenza, per cui anche la persona che entra e che intende fare volontariato deve avere particolari requisiti e agire preferibilmente non da singola persona, ma aderire ad un’associazione riconosciuta e muoversi nell’ambito in cui questa associazione fornisce i suoi servizi. Il Volontariato penitenziario spesso è visto dall’istituzione come una serie di persone che prestano un’assistenza atta a coprire le carenze di questo o quel carcere, fornendo sostegno materiale, donando vestiario ad esempio, o psicologico, attraverso un’opera di ascolto nei confronti di persone che altrimenti non avrebbero nessuno con cui parlare dei propri problemi: una sorta di servizio che copre le carenze di un determinato istituto detentivo, che per mancanza di personale professionale e di risorse economiche non riesce a fornire il sostegno dovuto per legge alle persone recluse. L’altra forma di Volontariato presente negli istituti di pena, paradossalmente vista dalle istituzioni come più problematica, è quella prestata da chi mette a disposizione le sue competenze lavorative o culturali, per far sì che anche il detenuto possa crescere e a sua volta acquisire competenze che gli permettano in futuro di avere gli strumenti utili ad affrontare la libertà con più responsabilità e coscienza di sé. Queste due forme di partecipazione delle persone esterne alla vita del carcere sono una risorsa importante: la prima perché permette ai detenuti con difficoltà economiche e psicofisiche di poter avere la possibilità di un aiuto. Anche se è un’opera di assistenza che inevitabilmente rischia di immobilizzare il fruitore in una sorta di dipendenza e incapacità di acquisire strumenti diversi dalla logica del chiedere senza la possibilità di partecipare a quanto viene fatto per lui. Per questo credo sia importante fare attenzione a evitare la deresponsabilizzazione e la perdita di dignità, che spesso caratterizzano la vita della persona detenuta. La seconda permette al detenuto di partecipare in modo attivo alle diverse iniziative, rendendo il rapporto alla pari. Inevitabilmente, questo modo di fare volontariato può essere visto anche con diffidenza, perché porta autonomia, apre le menti alle persone ristrette, la richiesta che venga rispettato un diritto cambia tono, non è più una richiesta fatta con la speranza che l’istituzione "conceda" qualcosa, ma è una consapevolezza di sé e dei propri diritti. Questo lavoro permette anche di responsabilizzare una persona in un luogo in cui il concetto di responsabilità è inteso come un’obbedienza che non lascia spazio a critica; gli permette di cambiare prospettiva e mentalità, in quanto, privilegiando l’incontro e il confronto con il mondo esterno, dà la possibilità di sentire anche il punto di vista dell’altro, accorciando la distanza che c’è tra "buoni" e "cattivi" ed evidenziando la complessità che la vita ti presenta. Un lavoro che il volontario fa con il detenuto e non per il detenuto; sembra banale questa differenza di preposizione, ma ha un’enorme importanza, perché nel primo caso il detenuto è riconosciuto come una persona, pur con tutte le sue sfaccettature positive e negative; nel secondo caso il volontario è il solo soggetto attivo, mentre l’altro riceve passivamente, rischiando di perdere di fatto quella personalità e dignità che è propria dell’essere umano, e aumentando il proprio senso di frustrazione e di conseguenza restando inchiodato al suo status di detenuto. Io credo che la cosa fondamentale sia che il Volontariato venga inteso come un’apertura alla società, un incontrarsi, un dialogare, uno scambio reciproco di ragionamenti e punti di vista: solo così si riesce ad abbattere quel muro che crea due mondi separati, attraverso luoghi comuni che non fanno capire che il mondo è uno solo, pur con complessità e sfaccettature diverse. Sandro Calderoni Giubileo: cristiani e musulmani uniti, la sicurezza non basta Redattore Sociale, 8 dicembre 2015 Incontro a Roma alla vigilia dell’apertura della Porta Santa. Redwane (Centro islamico): "Bombe non bastano a sconfiggere Isis". Ripamonti (centro Astalli): "No all’equazione immigrato uguale terrorista". Abbattere i muri, contrastare l’odio e il terrore, lavorare affinché il dialogo interreligioso porti a un vero cammino di pace. Alla vigilia dell’apertura della porta Santa a San Pietro i rappresentanti delle comunità cristiane e musulmane, si sono riuniti oggi a Roma, presso la sede della Federazione nazionale della stampa, per riflettere sugli attacchi terroristici delle ultime settimane, ma anche sul messaggio lanciato da papa Francesco nel corso del suo viaggio in Africa. "Il nostro futuro insieme non può basarsi sulla sicurezza, di cui tanto si parla oggi, ma ha bisogno di pace. La sicurezza senza pace produce solo bombe a orologeria, che prima o poi esploderanno - ha detto don Antonio Spadaro, direttore di Civiltà cattolica, aprendo i lavori del convegno organizzato da Articolo21 e Associazione giornalisti amici di padre Dall’Oglio. Dobbiamo costruire un nuovo immaginario collettivo fondato sul dialogo seguendo l’esempio del pontefice. È vero che il muro fortifica la costruzione ma quella di Bergoglio è da sempre una visione eccentrica e sbilanciata: la sua è una chiesa delimitata da pareti flessibili e permeabili". Spadaro ha ricordato che "misericordia" nel pensiero di papa Francesco non è un concetto esclusivamente religioso ma ha un "valore civile e politico che interviene anche in questioni geopolitiche, diventando fattore di pace e dialogo". Per Abdellah Redwane, segretario generale del centro culturale islamico di Roma, va fatto un grande lavoro soprattutto in ambito culturale. "Sappiamo tutti di vivere momenti grande difficoltà e angoscia dopo i grandi accadimenti degli ultimi mesi. Le atrocità della guerra e gli efferati atti di terrorismo hanno minato la convivenza pacifica, e sono arrivati a turbare lo scorrere della vita quotidiana di ognuno - afferma -. Il centro islamico è stato sempre in prima linea nel condannare tutti gli atti di terrorismo, ma se per contrastarlo le azioni militari sono indispensabili, a mio giudizio sono anche insufficienti soprattutto per contrastare le fonti che lo alimentano, come l’ideologia e il radicalismo. I bombardamenti potranno forse sconfiggere Isis ma non potranno sradicarne le sue radici profonde. La grande battaglia da fare è sul piano culturale, servono più incontri come quello di oggi per dire no alla violenza e per promuovere una vera cultura della misericordia". Anche Yahya Pallavicini, presidente del Coreis ha ricordato che "misericordioso" è un attributo di Dio che i musulmani invocano costantemente, nelle preghiere rituali, al mattino appena svegli e nei saluti tra parenti. "In questi tempi di grande confusone e strumentalizzazione della religione e dell’Islam, in particolare, è opportuno che i credenti tornino insieme a meditare sui segni di Dio - aggiunge - I maestri musulmani chiamano alla pace interiore ed esteriore". Il tema della misericordia, che sarà al centro dell’anno giubilare, chiama a riflettere anche sulla crisi migratoria, sottolinea il cardinale Antonio MariaVegliò, presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, in un messaggio inviato in occasione del convegno. "Lo choc, la paura e il dolore, che gli eventi delle ultime settimane hanno creato non aiutano a porre le basi per una reale situazione di accoglienza - afferma -. La risposta giusta non è la vendetta ma la misericordia che con il Giubileo, che si apre domani, siamo chiamati a vivere col cuore. Dobbiamo ricordare - aggiunge - che nessuna religione è immune dal rischio del fondamentalismo, bisogna guardare ai valori positivi che le religioni propongono e che le fanno essere sorgenti di speranza". Sulla stessa scia anche padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli. "Parto da un’espressione che mi ha molto colpito del cardinale Kasper "la mistica della misericordia è una mistica degli occhi aperti". Parto da questa espressione perché la ritengo molto adeguata per affrontare il tema della misericordia verso i migranti - sottolinea - pur essendo il fenomeno sotto gli occhi di tutti e pur dovendone constatare la enorme portata facciamo fatica a vederlo nella sua reale portata. Non lo vediamo nel modo adeguato perché lo vediamo solo dal nostro punto di vista di europei, di occidentali che tendono alla salvaguardia dei propri interessi alla difesa delle proprie frontiere più che alla difesa dei diritti di tutti, trasformiamo i diritti in privilegi. Occorre riportare la loro dignità al centro. Di fronte al flusso nel Mediterraneo di persone di diverse nazionalità africane della scorsa estate si è fatto avanti l’alibi del migrante economico. Da più parti abbiamo sentito ripetere che si può essere disposti a accogliere chi fugge da guerre ma chi parte in cerca di condizioni più umane per sé e la propria famiglia costui non ha diritto di entrare in Europa, va identificato e rimandato a casa sua. Tuttavia oggi si registra una crescente tendenza a livello internazionale a riconoscere tali persone come rifugiati "de facto" per ragioni umanitarie, data la natura involontaria della loro migrazione". Ripamonti ha ribadito che non bisogna lasciar passare il binomio migrante, rifugiato-terrorista: "è difficile da scalfire e poco valgono dichiarazioni di smentita anche di persone autorevoli quando nei fatti si opera in altro modo. Trovo pernicioso mettere sullo stesso piano i rifugiati, i migranti, con i terroristi. Ricordiamoci che si tratta di persone che sono obbligate a scappare dal loro Paese per colpa di chi sparge il terrore. Eppure la rinnovata enfasi sulla sicurezza ha avuto come conseguenza immediata un’accelerazione delle politiche di chiusura dei confini. Senza andare troppo lontano anche nel nostro Paese e nella nostra città si sono intensificati i controlli soprattutto in quei luoghi di aggregazione di migranti da mesi per non dire da anni sotto gli occhi di tutti nelle modalità in cui appaiono oggi. Tutto questo non fa certo verità sulla vita della maggioranza di queste persone che arrivano nei nostri paesi ma complica la loro vita creando confusione nell’opinione pubblica. Allora credo che il giubileo della misericordia e la misericordia per i migranti e dei rifugiati passi innanzitutto nel mettersi nei loro panni nel cercare di capire le loro motivazioni, nel cercare di entrare nella varietà delle loro culture e di dialogare con le diversità delle loro religioni". All’incontro hanno partecipato anche due "voci della speranza in Libano", come li ha definiti don Vittorio Ianari di Sant’Egidio. Il primo Antoine Courban, docente Saint Joseph University, ha fatto appello ai moderati delle diverse religioni per un patto contro ogni forma di terrore. "Come cristiani della chiesa di Antiochia ci rifiutiamo di rispondere al male con il male - ha detto - La chiesa ortodossa non benedice alcuna guerra, sta a ciascuno di noi essere misericordioso e non demonizzare l’altro. Serve un’azione congiunta dei moderati delle due sponde del Mediterraneo. Sogno una riconciliazione con Ismaele e spero che papa francesco trovi la via". Mohammad Sammak Islamic, segretario generale dell’Islamic Spiritual Summit ha ricordato che un terzo dei musulmani, (1, 6 milioni) non vivono in paesi musulmani, "questa interconnessione fisica comporta una mutua accettazione, il rispetto e la cooperazione - ha detto. La porta principale per giungervi è un reciproco comprendersi, la nostra Aetate (il documento che regola i rapporti tra religione cristiana e altre religioni, ndr) è la fonte principale di questa comprensione". Perché la proposta di mandare i detenuti stranieri "in galera a casa loro" non ha senso di Claudia Torrisi fanpage.it, 8 dicembre 2015 La Lega l’ha proposto più volte, l’ultima in ordine di tempo con un emendamento alla relazione sul terrorismo al Parlamento europeo. Ma sulla questione esiste già una normativa internazionale, ed è molto diversa da quella che vorrebbe Salvini. Mercoledì 2 dicembre, in un video messaggio pubblicato sul suo profilo Facebook, il leader della Lega Nord Matteo Salvini ha riassunto il manifesto del Carroccio sulla questione carceri. Gli istituti di pena italiani, da nord a sud, sono diventati "un luogo dove si coltiva il terrorismo e dove i 52mila detenuti, in gran parte stranieri, potrebbero portare a conseguenze imprevedibili". Per questo motivo, il segretario della Lega ha richiamato la necessità di più agenti, più risorse, più carceri, certezza della pena e mandare "a scontare in galera a casa loro le migliaia di delinquenti stranieri che manteniamo nelle nostre carceri". Il riferimento al mandare i detenuti immigrati nelle prigioni dei paesi di provenienza era stato già oggetto di un post di qualche ora prima, in cui Salvini dava conto della bocciatura in sede europea della proposta della Lega - come emendamento alla relazione Rachida Dati sul terrorismo - "per rimandare in galera a casa loro, i detenuti stranieri in Italia. Hanno votato contro, fra gli altri, Pd e 5 Stelle. Alla faccia della sicurezza". Il messaggio è stato ripreso dalla parlamentare europea del Movimento 5 stelle Laura Ferrara, che ha risposto al post del leader della Lega mettendo poi tutto sulla sua pagina. L’emendamento della Lega è stato presentato alla relazione di Rachida Dati (Ppe), sulla prevenzione della radicalizzazione e del reclutamento di cittadini europei da parte di organizzazioni terroristiche, che contiene interventi volti ad affrontare l’estremismo nell’Ue, partendo dalla creazione di una black-list europea di jihadisti e sospetti terroristi. "Secondo l’emendamento presentato dalla Lega, sarebbe urgente, per gli Stati membri dell’Ue, concludere degli accordi finalizzati al rimpatrio dei detenuti nel rispettivo Paese d’origine", ha spiegato Ferrara, che considera la proposta "del tutto fuori luogo e meramente populistica". Innanzitutto, "il report riguardava cittadini europei e non extraeuropei, ai quali faceva riferimento Salvini", e in secondo luogo, "gli accordi a cui fa riferimento il leader leghista già esistono sin dal 1983, sia sotto forma di convenzionai internazionali multilaterali, sia sotto forma di accordi bilaterali tra Stati". La richiesta di trasferire i detenuti stranieri nei loro paesi d’origine è stata fatta a più riprese dalla Lega Nord. Lo stesso Salvini l’aveva detto lo scorso marzo; a gennaio era stato auspicato dal sindaco di Padova, Massimo Bitonci; e dall’assessore regionale alla Sicurezza della Lombardia Simona Bordonali. L’ultima volta in ordine di tempo è stato di nuovo il segretario della Lega Nord. Uscendo da una visita a San Vittore ha dichiarato che "la Lega rilancia la sua idea di mandarli a casa loro a scontare la pena perché tenerli qui ha un costo economico e sociale enorme". In generale, quindi, agire con i trasferimenti sarebbe urgente prima di tutto per questioni di sicurezza e in secondo luogo di sovraffollamento delle carceri. La questione dello spostamento dei detenuti nei loro paesi d’origine è però già disciplinata, seppur in termini diversi da quelli invocati dalla Lega. " L’idea che aleggia dietro la proposta di Salvini - ha aggiunto l’europarlamentare M5s - ha a che fare più con le deportazioni di massa di detenuti che con il trasferimento consentito dalle convenzioni e dagli accordi internazionali, che devono sempre e comunque salvaguardare i diritti fondamentali dell’uomo". Cosa dice la normativa. Per quanto vengano invocate esigenze di sicurezza, la ratio della normativa che regola lo spostamento degli stranieri è un’altra. La questione è disciplinata dalla Convenzione di Strasburgo del 1983, che l’Italia ha ratificato e inserito nell’ordinamento nel 1989. La Convenzione di fatto è stata sottoscritta solo da alcuni paesi e poi via via allargata da accordi bilaterali. Con questo atto è stata prevista una procedura di trasferimento applicabile da tutti gli Stati, anche se non aderenti al Consiglio d’Europa, per l’esecuzione della sentenza nel Paese d’origine della persona condannata. Una cooperazione tra gli stati che "deve essere indirizzata alla buona amministrazione della giustizia e a favorire il reinserimento sociale delle persone condannate". Ci sono, però, alcune condizioni per il trasferimento - prescritte all’articolo 3: a. la persona condannata è cittadino dello Stato di esecuzione; b. la sentenza è definitiva; c. la durata della pena che la persona condannata deve ancora scontare è di almeno sei mesi alla data di ricevimento della richiesta di trasferimento, o indeterminata; d. la persona condannata - o, allorquando in considerazione della sua età o delle sue condizioni fisiche o mentali uno dei due Stati lo ritenga necessario, il suo rappresentante legale - acconsente al trasferimento; e. gli atti o le omissioni per i quali è stata inflitta la condanna costituiscano reato ai sensi della legge dello Stato di esecuzione o costituirebbero reato se fossero commessi sul suo territorio; f. lo Stato di condanna e lo Stato di esecuzione sono d’accordo sul trasferimento. Per facilitare il trasferimento, il Consiglio dell’Unione Europea ha poi approvato la Decisione Quadro 2008/909/Gai "relativa al reciproco riconoscimento delle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà ai fini della loro esecuzione nell’Unione europea", rivolta esclusivamente ai membri dell’Ue. In questo caso la procedura di trasferimento è semplificata - senza consenso del condannato - e basata sulla presunzione che il luogo di origine del condannato sia - salva prova di radicamento altrove - quello in cui ha legami sociali, familiari, culturali e linguistici e quindi il più favorevole alla sua rieducazione. Ad ogni modo, la Convenzione di Strasburgo prevede come requisito la volontà del condannato e dello stato di destinazione per il trasferimento. "Un rimpatrio forzato dei detenuti, quello che populisticamente va urlando Salvini, è di fatto e di diritto irrealizzabile alla luce del nostro ordinamento costituzionale che deve conformarsi alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute tra le quali la Convenzione del 1983", ha detto Ferrara. Proprio per questo motivo, come ha spiegato in un’intervista Angelo Alessandro Sammarco, professore di diritto dell’esecuzione penale e coautore di un trattato su esecuzione e rapporti con autorità giurisdizionali straniere, "è improprio e semplicistico definirli semplicemente scambi perché sono trasferimenti concordati. Questo è un punto centrale e delicatissimo. Ogni trattato non può prescindere da una procedura individuale. Non si possono spedire all’estero i detenuti solo perché c’è un accordo. Per questo non è immaginabile, e sarebbe palesemente incostituzionale, che uno Stato intraprenda la strada delle deportazioni di massa dei detenuti. Non è poi così automatico e scontato il riconoscimento e l’esecuzione di sentenze penali straniere, anche se sono stati firmati dei trattati tra Paesi". In Italia esiste anche la legge 10/2014 che il 21 febbraio ha convertito il decreto 146/2013 - lo "svuota carceri" - che ha allargato casi in cui si applica l’espulsione come alternativa in caso di pena, anche residua, non superiore ai due anni. Vi rientra anche chi è condannato per un reato previsto dal testo unico sull’immigrazione purché la pena non sia superiore nel massimo a 2 anni e chi è condannato per rapina o estorsione aggravate. Il caso dello svuota carceri, però, è diverso dall’espiazione all’estero: per il provvedimento italiano, infatti, l’espulsione è un’alternativa alla pena. Alla luce dell’esistenza della convenzione di Strasburgo, le proposte della Lega di portare "in galera a casa loro" i detenuti stranieri sono per Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, "pura propaganda". "La legislazione c’è ed è complessa. La convenzione è stata ratificata anche dall’Italia ma non da alcuni paesi di provenienza degli immigrati. E, siccome prevede il consenso per il trasferimento del detenuto e dello stato in questione, è difficile applicarla. Gli accordi con alcuni paesi ci sono, ad esempio con l’Albania. Ma non si può pensare che sia una cosa che funzioni in automatico". Gonnella ha spiegato che spesso ci sono problemi di identificazione, perché le autorità consolari di altri paesi non aiutano in questo percorso o con la convalida della condanna perché nel paese di destinazione non c’è un corrispettivo della sentenza italiana. "Se anche si potesse spedire un detenuto agilmente - ha aggiunto il presidente di Antigone - vorrei capire Salvini come spiegherebbe il caso di un marocchino e un italiano che fanno insieme una rapina e vengono condannati a tre anni. Poi l’italiano sconta i tre anni qui, e il marocchino lo espelliamo non avendo garanzie di pena nel suo paese d’origine". Infine, ci sono difficoltà nel procedere alle espulsioni per le situazioni in cui versano gli stati: "Quale interesse potrà mai avere un paese in guerra come la Siria ad esempio a riprendersi i siriani in carcere? Sono cose complicate che richiedono accordi e cooperazione che possono essere fatti con paesi che hanno un minimo di establishment democratico. Anche se avessimo il governo più efficiente di questo mondo, non è che si può imporre a uno stato nazione di riprendersi i detenuti. Non funziona che glieli mettiamo alla frontiera e glieli buttiamo con il paracadute". Senza contare il fatto che nel caso in cui nel paese di destinazione il condannato rischi maltrattamenti o violazioni dei diritti umani, "una democrazia come la nostra non può consentirlo. La Corte europea l’ha detto più volte: non si può mandare una persona verso paesi dove c’è tortura sistematica, lo vietano le norme internazionali". Quanto ci converrebbe mandarli "a casa loro"? Secondo i dati raccolti da Antigone e pubblicati a febbraio di quest’anno, nelle carceri italiane sono stranieri 17.403 detenuti, su una popolazione totale di 53.889, il 32%. Le donne sono 867, ossia il 4,9% sul totale degli stranieri detenuti e il 4,3% sul totale delle detenute. Si tratta di persone prevalentemente giovani: 4.100 detenuti che hanno meno di 25 anni, molti hanno meno di 44 anni (66,24%) e quasi la metà è tra i 30 e i 44 anni (45,78%). In effetti, rispetto agli altri paesi europei, in Italia la percentuale di detenuti stranieri è superiore rispetto alla media, che è del 21%, ma ci sono paesi che totalizzano più del nostro 32%: come la Svizzera, dove il 74,2% dei detenuti è straniero, l’Austria (46,75%) e il Belgio (42,3%). La maggior parte dei carcerati non italiani viene da Marocco, Romania, Albania, Tunisia, Nigeria, Egitto, Algeria, Senegal, Cina e ed Ecuador. Quanto alla religione, sui circa 53 mila detenuti complessivi, al 31 dicembre del 2014 5.786 erano di fede islamica, contro i 30.794 di fede cattolica. "I detenuti stranieri sono in calo, erano il 37% nel 2010, oggi sono il 31,8%. Significa che c’è stata una deflazione, hanno funzionato le norme sulle espulsioni a domanda del detenuto come misura alternativa", ha spiegato Gonnella, secondo cui anche mettendo in pratica la normativa e ottenendo i trasferimenti si sposterebbero altre cinquecento o mille persone, che non riescono a incidere così tanto sulla questione sovraffollamento. Senza contare che ci sono per Antigone 3500 detenuti italiani all’estero "e la condizione reciprocità è un principio di diritto internazionale". E i trasferimenti non avrebbero grossa incidenza nemmeno sui costi: come sostiene Ornella Favero di Ristretti Orizzonti "se anche uscissero ventimila stranieri, che sono il 30% della popolazione ristretta, i costi del sistema penitenziario non si ridurrebbero del 30%, perché le spese di gestione, quelle strutturali e per il personale non si possono tagliare in proporzione. Quanto ai costi vivi cosa resta? Il vitto? Costa 3,4 euro al giorno e viene trattenuto in busta paga per i detenuti che lavorano o fatto pagare a fine pena". Stando ai dati, anche l’argomento sicurezza, al di là delle suggestioni dell’allerta terrorismo, vacilla: gli stranieri sono per lo più colpevoli di reati meno gravi, dettati dalle condizioni di vita di marginalità. La maggior parte è incarcerato per reati minori: il 50% degli stranieri sconta condanne da 0 a 1 anno, il 12% a oltre 20 anni, contro l’88% dei nostri connazionali. Come funzionano le nuove Rems? Il Comitato StopOpg ne ha visitate 4, in 3 Regioni ilfarmacistaonline.it, 8 dicembre 2015 Ecco il primo bilancio: "Un unico mandato ma notevoli differenze". In alcune il tratto custodiale prevale su quello sanitario e riabilitativo, in altre ci sono sbarre alle finestre, in generale i Progetti terapeutico riabilitativi individuali sono pochissimi. Queste alcune delle rilevazioni del Comitato StopOpg dopo i sopralluoghi in 4 Rems (1 in Friuli Venezia Giulia, 2 in Campania e 1 nel Lazio). "Indispensabile la nomina del Commissario per fare applicare la legge 81 nella sua interezza". È partito lo scorso 30 novembre dal Friuli Venezia Giulia il tour promosso dal comitato nazionale StopOpg per fare il punto sulle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems), le strutture previste dalla legge 9/2012 per offrire una soluzione alternativa rispetto agli Ospedali Psichiatrici Giudiziari OPG. Quattro le strutture già visitate dalla delegazione del Comitato: una in Friuli Venezia Giulia, (Aas 5 di Pordenone), due in Campania (a Mondragone e a Roccaromana, Asl di Caserta) e una nel Lazio (a Pontecorvo, Asl di Frosinone). A fine dicembre il viaggio toccherà Aurisina, a gennaio le Rems in Emilia Romagna e poi le altre, ma il Comitato ha voluto già tracciare un primo bilancio di quanto emerso nel corso delle prime quattro tappe del tour. Del resto, sono molte le carenze segnalate dal Comitato, che già a partire da questo primo bilancio lancia un appello al Governo e ai ministeri competenti per intervenire subito a risolvere le criticità rilevate. "Dalle prime visite - spiega infatti il Comitato - emerge indispensabile la nomina del Commissario come persona con compiti di coordinamento e di intervento puntuale su Regioni, Asl, magistratura, per fare applicare la legge 81 nella sua interezza e non solo per la chiusura degli Opg". Insomma, una riforma vera e non di facciata. Per il Comitato è inoltre necessario "organizzare un rapporto chiaro tra Regioni/Asl/Dsm e la magistratura in fase di cognizione per l’applicazione delle 81/14 (evitare detenzioni) e con la magistratura di sorveglianza per le dimissioni e per favorire il lavoro sanitario riabilitativo degli operatori nelle Rems". Al ministero della Salute si chiede di avviare con urgenza un monitoraggio da parte del Ministero della Salute sui Ptri (Progetti Terapeutico Riabilitativi Individuali). Ed è "indispensabile, prima dell’apertura delle Rems definitive, una puntuale lettura dei processi che si sono avviate con le Rems transitorie, onde non perpetuare errori e sprecare risorse, invece preziose per i Dipartimenti di salute mentale". Ma cosa ha visto il Comitato StopOpg nelle quattro Rems visitate per avere già da subito individuato la necessità di una azione incisiva per aggiustare il tiro? Ecco il Report elaborato dal Comitato sulle prime quattro tappe del tour. Gli internati. Nelle quattro Rems visitate sono internati complessivamente 42 persone (2 uomini a Maniago, 8 uomini a Mondragone, 17 uomini e 3 donne a Roccaromana, 12 donne a Pontecorvo). Molte provengono dalla libertà e non dagli Opg, e spesso sono stati inviati con misura di sicurezza provvisoria, a testimonianza che la Magistratura di cognizione non sta applicando la legge 81/2014 laddove prevede la misura detentiva in Rems come extrema ratio. Solo con alcune delle persone internate è stato possibile parlare (anche per il poco tempo a disposizione), tuttavia sono state fatte alcune video-interviste (che saranno proposte anche per le prossime visite). I progetti terapeutico riabilitativi individuali (d’ora in poi Ptri) presentati dai servizi di salute mentale del territorio (finalizzati alle dimissioni come prevede la legge) risultano pochissimi. Un unico mandato, la notevoli differenze tra le Rems. Anche ad un primo impatto appaiono evidenti notevoli differenze tra le Rems: in relazione alle soluzioni architettonico/strutturali (es. presenza o meno di recinzioni, blindature, telecamere, dimensioni della stanze, ecc.), all’ubicazione (es. lontane o vicine ai centri abitati), all’organizzazione degli spazi e del lavoro, al rapporto con la magistratura, al rapporto con i servizi territoriali di salute mentale. Pur essendo le Rems, per mandato istituzionale, strutture detentive, si è evidenziato che le modalità con le quali le singole Regioni, le Asl, la Magistratura e quindi gli operatori sanitari hanno interpretato tale mandato è differente: prevalendo in alcune il tratto custodiale in altre quello sanitario e riabilitativo. Alcune Rems portano i segni visibili del mandato custodiale. Come nel caso della struttura, pur colorata, di Pontecorvo: vi si accede attraverso un ingresso vigilato da un addetto alla sicurezza, con una porta metal detector, le finestre hanno sbarre, le porte delle stanze da letto delle internate hanno l’oblo per guardare all’interno, sono chiuse di notte e non apribili dall’interno, qui c’è un bel giardino, rovinato però da una impressionante recinzione carceraria. Peraltro anche alle finestre di Maniago vi sono sbarre e la terrazza è anch’essa rovinata da una recinzione di vetro blindato (anche se qui tutte le porte sono aperte). Invece niente sbarre a Mondragone e a Roccaromana, qui le porte sono aperte, resta chiuso il cancello verso l’esterno. Particolarmente povera e spoglia la Rems di Roccaromana (problema sottolineato anche dagli operatori). Rappresenta una grave difficoltà per gli operatori, ma tanto più per i familiari, la dislocazione della Rems di Roccaromana lontana dai maggiori centri abitati e addirittura fuori dal circuito dei mezzi pubblici. In tutte le Rems funziona un sistema di video sorveglianza per gli spazi esterni e i corridoi interni della struttura. A Pontecorvo un vigilante 24 ore su 24 controlla il monitor. A Maniago e a Mondragone i posti di Rems sono inseriti in strutture residenziali e diurne del Dsm, già preesistenti, dove le persone internate si mescolano e si integrano con le altre persone ed attività proprie di quel servizio, usano gli stessi luoghi, fanno le stesse attività, si rivolgono agli stessi operatori; ed escono, pur accompagnati, dalla struttura. A Mondragone e a Maniago gli operatori non portano il camice. I rapporti con la magistratura. Differenze significative tra le Rems sono emerse poi in relazione al rapporto con la magistratura: più facile (funzionale a far prevalere la funzione sanitaria su quella custodiale) quando è consuetudine un rapporto ordinario tra Dsm e magistratura. Contano soprattutto i differenti atteggiamenti dei responsabili della Regione (e di Asl e Dsm) con la magistratura, sia sull’applicazione del regolamento penitenziario (più o meno rigida), che rispetto alla capacità di orientare/condizionare (ovviamente in ragione delle competenze sanitarie) le decisioni della magistratura anche circa le misure di sicurezza da adottare. In ogni caso il comportamento dei magistrati appare molto dissimile e condiziona pesantemente le attività terapeutico riabilitative: alcuni pretendono la richiesta puntuale (ad esempio per compiere attività esterne alla Rems), volta per volta, in riferimento ad attività sanitario/riabilitative anche abituali, altri danno un permesso cumulativo per quelle attività una volta che è stato presentato il Ptri da parte dei responsabili della Rems. Quello che drammaticamente emerge uguale in tutte le Rems è l’invio da parte della magistratura di un grande numero di persone dalla libertà (e molte con misure di sicurezza provvisorie) in palese inosservanza della legge 81/14; il che determina il rallentamento nella chiusura degli Opg e rischia di "gonfiare" impropriamente la necessità di posti di Rems. Le Rems e i Servizi di salute mentale. Il rapporto con i servizi di salute mentale del territorio viene definito da tutti presente ma non facile: a quanto ci è stato detto, vi è la necessità continua, da parte degli operatori Rems, di sollecitare e attivare l’intervento, tranne che per Maniago che si fa carico solo delle persone del proprio territorio. Così esiste un grave ritardo, in primis rispetto al rispetto dei termini di legge dei 45 giorni dopo l’ammissione nella Rems, per la formulazione dei Ptri fatti dai servizi territoriali e finalizzati ad alternative alla misura detentiva. Su questo, ad esempio, appare grave il ritardo della Regione Lazio che solo nei giorni scorsi è intervenuta in maniera perentoria nei confronti dei Dsm per la formulazione dei Ptri. Il confronto con gli operatori. In primo luogo, e questa è la osservazione più importante, è stato raccontato da alcuni operatori come il mandato custodiale della Rems infici il rapporto terapeutico. Poi è stato segnalato il rischio di riprodurre "luoghi di scarico" delle persone che nessuno vuole. Si evidenzia, in particolare relativamente alle persone che provengono dalla libertà, come il non essere informate di dove vengono portate e dei motivi dell’assegnazione in una struttura detentiva determini a volte particolari difficoltà, quando non acting out. Anche gli operatori più prudenti individuano nella loro esperienza nella Rems un numero limitato di persone con difficoltà tali da non essere "dimissibili"; per la maggior parte dicono invece che trattasi di pazienti con le caratteristiche dei pazienti che afferiscono nei servizi del Dsm. La domanda quindi: perché costruire strutture speciali, che portano via un numero ingente di risorse e rischiano di essere momento di risucchio per tutto il Dsm verso logiche custodiali e stili operativi che si è voluto superare con la chiusura dei manicomi. Le prime riflessioni. Anche dalle prime visite emerge indispensabile la nomina del Commissario come persona con compiti di coordinamento e di intervento puntuale su Regioni, Asl, magistratura, per fare applicare la legge 81 nella sua interezza e non solo per la chiusura degli Opg. Appare obbligatorio ed urgente il monitoraggio da parte del Ministero della Salute dei Ptri formulati dai servizi di salute mentale territoriali (verificare se sono presentati e se corrispondono al mandato legislativo di trovare soluzioni alternative al ricovero in Rems). È necessario organizzare un rapporto chiaro tra Regioni/Asl(Dsm con la magistratura in fase di cognizione per l’applicazione delle 81/14 (evitare detenzioni) e con la magistratura di sorveglianza per le dimissioni e per favorire il lavoro sanitario riabilitativo degli operatori nelle Rems. È indispensabile, prima dell’apertura Rems definitive una puntuale lettura dei processi che si sono avviate con le Rems transitorie, onde non perpetuare errori e sprecare risorse, invece preziose per i Dipartimenti di salute mentale. In attesa della risposta del Csm le toghe decideranno pure sulla loro pensione di Tommaso Montesano Libero, 8 dicembre 2015 Il Consiglio di Stato blocca l’uscita dal lavoro per gli over 70. Restano al loro posto tre giudici della Cassazione. Dalle toghe uno schiaffo a Matteo Renzi. Sono cinque i magistrati che si sono visti accogliere dal Consiglio di Stato, in via cautelare, il ricorso contro il pensionamento anticipato, previsto dalla riforma del 2014 sugli uffici giudiziari. Adesso la norma che abbassa l’età pensionabile delle toghe da 75 a 70 anni è a rischio. Soprattutto se altri magistrati, da qui al 31 dicembre, dovessero seguire l’esempio dei colleghi. Così nel rapporto tra politica e giustizia il piatto della bilancia, che il governo aveva cercato di portare dalla sua parte agendo sulla leva del pensionamento, pende di nuovo dalla parte dei magistrati, che in nome del "prevedibile disagio organizzativo e funzionale" che, a detta dei giudici amministrativi, si determinerebbe dall’abbandono di molti di loro, tornano padroni del loro destino. Con "sconcerto" del Guardasigilli, Andrea Orlando. Il Consiglio superiore della magistratura, il cui plenum all’inzio di dicembre aveva deliberato il pensionamento di 84 tra sostituti procuratori e giudici (nella lista ci sono, tra gli altri, Raffaele Guariniello, Ferdinando Pomarici e Marcello Maddalena), è nel panico. Per Giovanni Legnini, vicepresidente di Palazzo dei Marescialli, c’è il rischio che il "ricambio dei vertici negli uffici giudiziari" finisca nel "caos". Quel caos che lo stesso Legnini aveva ipotizzato appena messo piede al Csm, nel settembre 2014. Troppi, 483 tra uffici direttivi (284) e semi-direttivi (199), i magistrati da sostituire per raggiunti limiti di età (70 anni) a partire dall’1 gennaio 2016. Così il governo, lo scorso luglio, ci ha messo una pezza, confermando la scadenza del 31 dicembre 2015 come ultimo giorno di lavoro solo per le toghe che entro quel giorno avrebbero compiuto il settantaduesimo anno di età. Per tutti gli altri il termine ultimo per il trattenimento in servizio scadrà il 31 dicembre del prossimo anno. Fatto sta che tra gli 84 magistrati costretti comunque a lasciare la toga all’inizio del 2016, più di qualcuno non intende rassegnarsi alla pensione. Così è partito il ricorso straordinario al presidente della Repubblica, che a sua volta ha girato la pratica, come prescrive la legge, al Consiglio di Stato. I primi ad agire sono stati tre componenti della sezione tributaria della Corte di Cassazione: Mario Cicala - ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati - Antonio Merone e Antonino De Blasi. Pochi giorni fa dalla seconda sezione consultiva di Palazzo Spada è arrivato il semaforo verde, con tanto di sospensione della delibera del plenum del Csm che stabiliva il pensionamento delle tre toghe. II ministero della Giustizia e Palazzo dei Marescialli, hanno stabilito i giudici amministrativi, dovranno fornire la documentazione al fine di valutare l’"incidenza" che avrà sulla "funzionalità" degli uffici il pensionamento dei magistrati. Tenendo conto sia "del tempo necessario per la nuova copertura dell’incarico" (in media, ha denunciato lo stesso Legnini, ci vogliono 383 giorni per una nomina), sia del danno "organizzativo e funzionale" che potrebbe derivare all’ufficio dall’avvicendamento. A Cicala, Merone e Di Blasi si sono aggiunti altri due colleghi. L’ultimo è stato Carmine Antonio Esposito, presidente del tribunale di Sorveglianza di Napoli. Anche loro hanno incassato, dal Consiglio di Stato, la sospensione cautelare del loro collocamento a riposo. A via Arenula e al Csm temono che in nome della "legittima aspettativa a rimanere in servizio" riconosciuta da Palazzo Spada ci sia un effetto domino che costringa il ministero e l’organo di autogoverno della magistratura a fare i conti con impugnazioni, ricorsi e controricorsi tali da paralizzare il turn over negli uffici giudiziari. Il ministero della Giustizia pensa di ricorrere in Cassazione, mentre domani il Csm deciderà il da farsi. E sabato si riunirà il comitato direttivo centrale dell’Anm. Messa in discussione questa lotta alla mafia di Carlo Valentini Italia Oggi, 8 dicembre 2015 Leonardo Sciascia nel 1987, con un fondo sul Corriere della Sera ("I professionisti dell’antimafia"), lanciò il sasso nello stagno della questione mafiosa. Per la prima volta ci si interrogò sul rischio che taluni anticorpi contro la mafia anziché assalirla finissero per alimentarsi con essa. Dopo quasi trent’anni quei nodi sembrano venire al pettine. Sarà bene sgombrare il campo da qualsiasi equivoco: il malaffare va debellato senza pietà. Non solo perché la gente ha diritto di vivere in uno stato di diritto ma anche perché, senza lo stato di diritto, non vi è progresso economico e la mancanza di investimenti nazionali e internazionali al Sud è in gran parte determinata dalla diffusa presenza criminale. Ben venga, quindi, il lavoro degli investigatori, col sequestro dei beni, la coraggiosa attività di associazioni, la sensibilizzazione nelle scuole e nelle parrocchie, le leggi che tolgono agibilità ai malviventi. Ma perché il fronte dell’antimafia sta scricchiolando? Arrivano distinguo, polemiche, accuse. Si è verificata addirittura una spaccatura all’interno di Libera, con Franco La Torre, figlio di Pio, il parlamentare comunista assassinato da Cosa Nostra, espulso da don Luigi Ciotti per avere sostenuto che l’associazione non ha compreso che la mafia è cambiata e che don Ciotti "è un personaggio paternalistico con tratti autoritari". Dal canto suo Claudio Fava (il padre fu assassinato dalla mafia nel 1984), parlamentare di Sinistra Italiana, sostiene che "occorre intervenire su chi ha costruito carriere all’ombra di una lotta alla mafia soltanto presunta, su chi ha trasformato questo impegno in una risorsa di potere personale, di vanità, di esibizione". E che dire di Pino Maniaci, direttore di Telejato, coraggiosa tv di Partinico, più volte minacciato, picchiato, vittima di intimidazioni che afferma: "In Sicilia l’antimafia dovrebbe guardarsi dentro, allo specchio, perché ormai è diventata una holding, buona per fare affari, per avere contributi". Quanto sta avvenendo sull’antimafia è la punta di un iceberg: in Italia ci sono troppi intrecci e interscambi tra impegno e carriera in politica e impegno e carriera nella magistratura, nelle prefetture, negli organi amministrativi dello Stato. Arresti mortali. "A Magherini tirarono anche calci" di Riccardo Chiari Il Manifesto, 8 dicembre 2015 Udienza drammatica al processo per la morte del quarantenne fiorentino durante le "procedure di fermo" da parte di quattro carabinieri, accusati di omicidio colposo e in un caso di percosse. La testimonianza della giovane Sara Cassai: "Lui aveva gli occhi della paura, quando era in terra lo hanno anche scalciato". "Salì sulla mia macchina, forse scambiandola per un taxi, gridando "Vai vai non ho fatto niente". Era stravolto, aveva degli occhi enormi. Mi ha dato l’impressione che avesse una paura enorme. Ecco, aveva gli occhi della paura". Sara Cassai sta raccontando in aula d’udienza le ultime ore di Riccardo Magherini. Di una vita spezzata in una freddissima notte invernale, durante le "procedure di fermo" operate da quattro carabinieri nel pieno centro di Firenze. I militari dell’Arma sono imputati di concorso in omicidio colposo, e in un caso di percosse per aver preso a calci un uomo già steso a terra, schiacciato al suolo con la forza, non certo in grado di nuocere. E la giovane testimone Cassai, con coraggio civile, per più di due ore risponde alle domande di pubblica accusa, difesa e parti civili. Ricordando anche di quando, alle 5.30 del mattino, i carabinieri la chiamarono per il verbale di sommarie informazioni. "Mi dissero che ci sarebbe stata una direttissima perché Riccardo aveva rubato un cellulare. Non mi dissero che era già morto. Una volta in caserma dichiarai: "Quando era in terra gli hanno tirato dei calci". A quel punto il carabiniere che stava verbalizzando mi chiese: "Signorina, ma lo vuole scrivere dei calci?". E io: "Certo". E lui: "Non lo so, il verbale è suo"". Quella notte Sara Cassai stava tornando a casa sul suo Doblò bianco, dopo aver lavorato fino alla chiusura alla libreria caffè La Cité, in Borgo San Frediano. Vide il quarantenne Magherini inginocchiato in strada, in camicia, che gridava. Poi lui entrò in macchina, forse scambiandola per un taxi. Ma appena lei gli chiese di scendere, "per favore", Magherini obbedì, uscendo dall’auto. Quando arrivarono i carabinieri per fermare Magherini, Sara Cassai si era riparata dietro la sua macchina. Ora ricorda: "Ero rimasta impressionata dalla sua forza e da come, nella prima parte dell’intervento, i carabinieri avevano svolto il loro compito. Erano stati bravi, dissi in caserma quando mi convocarono. Vista la forza che aveva lui, pensai che magari gli avrebbero tirato un destro per fermarlo". Ma quando Magherini era a terra, la ragazza aveva sentito un suo amico che diceva "i calci no". E lei ha confermato in aula di aver visto "movimenti tali da farmi ritenere che i carabinieri stessero tirando calci". Nel mentre Magherini, dopo aver gridato e gridato e gridato, bloccato prono sul selciato gelido aveva iniziato ad ansimare. Poi era rimasto immobile. "Si capiva che stava male - ha ricordato la ragazza in aula - e uno dei presenti aveva chiesto: "Ma respira?". Un carabiniere gli aveva risposto di sì". Per certo, quando arrivarono tre volontari della Croce rossa - due di loro sono imputati al processo, accusati di non aver valutato tempestivamente le condizioni del fermato, tanto da non chiedere subito di togliere le manette a Magherini - questi ultimi constatarono, nonostante gli sforzi per rianimarlo, che Riccardo Magherini era morto. "Il giorno dopo - ha concluso Sara Cassai - raccontai al babbo di Magherini come si erano svolti i fatti. Gli dissi che suo figlio aveva una forza incredibile, e che i carabinieri non riuscivano a contenerlo. E che quando lo avevano messo a terra gli avevano tirato dei calci". Stalking: la paura non esclude lo svago di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 8 dicembre 2015 Corte di cassazione - Sezione V - Sentenza 7 dicembre 2015 n. 48332. La presenza di un grave stato di ansia e di paura non esclude che la vittima dello stalking possa continuare a frequentare la discoteca, la spiaggia o, addirittura il bar gestito dal suo persecutore. La Cassazione, con la sentenza 48332 depositata ieri, respinge il ricorso di uno stalker che negava di aver violato la sfera privata dell’ex che intendeva "riconquistare", perché le molestie contestate erano avvenute sempre in locali pubblici, compreso il suo. La Suprema corte torna così sul reato di atti persecutori, previsto dall’articolo 612-bis del Codice penale, e sui requisiti necessari a configurarlo. Nella decisione adottata dai giudici pesa soprattutto l’abitualità del comportamento minaccioso dell’imputato, che inviava alla donna messaggi oltraggiosi, avvalendosi di tutti i mezzi di comunicazione: dalla chat al cellulare. L’uomo non perdeva occasione per perseguitare la ragazza con la quale aveva avuto un breve relazione neppure quando la incontrava nei luoghi ricreativi frequentati da entrambi. Una libertà di movimento che, secondo la difesa dello stalker, era in contrasto con lo stato di ansia e di paura che la vittima dovrebbe provare. Di parere diverso la Cassazione, secondo la quale, malgrado un perdurante timore il perseguitato può continuare a frequentare i posti di svago. La decisione della Suprema corte è coerente con la linea abbracciata dai giudici di legittimità, sempre più propensi a riconoscere lo stalking anche in assenza di tutti gli elementi che lo contraddistinguono. Per configurare il reato non è, infatti, necessario un grave stato di ansia o di paura o il fondato timore per l’incolumità propria, di amici e familiari: né è fondamentale che la vittima alteri le sue abitudini di vita. Per condannare basta anche solo uno di questi elementi e non serve neppure che lo stalker sia un "maniaco" seriale ma sono sufficienti due soli episodi di molestia (sentenza 14212 del 2015. Recentemente i giudici hanno messo al bando anche gli sguardi se questi sono tanto minacciosi da spaventare il destinatario (sentenza 5664 del 2015). Nella stessa decisione però la Cassazione ha affermato anche un principio garantista per il persecutore, sostenendo che il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla vittima non può essere generico. Per la Cassazione se si sceglie la via dell’interdizione da alcuni luoghi questi vanno individuati con precisione. È però preferibile avvertire il molestatore che deve tenersi lontano dalla persona offesa: anche quando la incontra per caso. Principio del quale non ha fatto tesoro l’imputato della vicenda esaminata nella sentenza di ieri. Va accertato se la malattia di massa costituisce un reato di Giampiero Falasca Il Sole 24 Ore, 8 dicembre 2015 La lotta contro gli scioperi selvaggi attuati a colpi di falsi certificati medici segna un punto importante, grazie alla sentenza 48328/2015 della Corte di cassazione. Secondo la pronuncia, non è possibile escludere la commissione di reati per il semplice fatto che l’assenza collettiva dal lavoro per malattia è giustificata da certificati medici: se esiste il fondato sospetto che l’azione di protesta sia stata attuata con metodi illeciti, è necessario che si svolga il processo penale, in modo da svolgere tutti gli accertamenti necessari a valutare l’attendibilità delle fonti di prova. Mediante tale ragionamento la Corte ha annullato con rinvio la decisione con cui il giudice dell’udienza preliminare del tribunale di Forlì aveva dichiarato il non luogo a procedere nei confronti di oltre 30 dipendenti di un’azienda di trasporti, che sono stati accusati di truffa e interruzione di pubblico servizio per essersi assentati tutti insieme dal lavoro in due giorni consecutivi, e che hanno giustificato la propria assenza mediante la presentazione di appositi certificati medici. Il giudice dell’udienza preliminare ha escluso il rinvio a giudizio di questi lavoratori (ad eccezione di due di loro), in quanto - a suo dire - pur apparendo verosimile che nelle giornate in questione vi fosse stata una forma illegittima di astensione dal lavoro, non sarebbe stato possibile effettuare accertamenti specifici circa la falsità dei certificati medici presentati per giustificare l’assenza e, quindi, non sarebbe stato possibile provare la commissione dei reati ipotizzati. La Corte di cassazione ha ritenuto lacunoso questo ragionamento sotto un duplice profilo. Da un lato, la Corte ritiene che il Gup abbia violato il principio (di matrice giurisprudenziale) secondo il quale la decisione di non rinviare a giudizio l’imputato si deve fondare solo sull’inadeguatezza e contraddittorietà degli elementi probatori a sostenere l’accusa, mentre non può fondarsi sulla base di una valutazione di merito sulle fonti di prova. Il Gup, avendo espresso delle valutazioni circa la veridicità della malattia, avrebbe violato tale principio, formulando delle considerazioni merito che potevano trovare posto solo nel corso del dibattimento. Da un altro lato, la suprema corte rileva che il Gup non ha fornito adeguata e sufficiente motivazione delle ragioni per cui sarebbe stato impossibile verificare la falsità delle malattie attestate dai certificati medici presentati dai lavoratori. Tale ragionamento, osserva la sentenza, è smentito anche dal fatto che per due dei lavoratori imputati è stato disposto il rinvio a giudizio, in quanto avrebbero sollecitato i loro colleghi a partecipare alla protesta mediante la presentazione di falsi certificati. Il rinvio a giudizio di questi due lavoratori, conclude la Corte, conferma che è possibile verificare l’effettiva sussistenza delle malattie denunciate, mediante accertamenti specifici. C’è da sperare che questo approccio di maggior rigore possa aiutare a prevenire queste forme di protesta che, ciclicamente, tornano agli onori della cronaca, soprattutto in occasione delle festività. Alcol e guida, la revoca della patente decorre dal giorno del reato di Alessio Totaro Il Sole 24 Ore, 8 dicembre 2015 I tre anni che chi subisce la revoca della patente per alcol o droga deve attendere prima di poter fare gli esami per ottenerne un’altra vanno contati a partire dal giorno in cui è stato commesso il reato. Dunque, sbaglia il ministero delle Infrastrutture, che fa partire il conteggio dalla data in cui la sentenza di condanna è passata in giudicato. Lo ritiene il Tar del Veneto, con la sentenza n. 156 del 9 marzo 2015. L’incertezza riguarda il comma 3-ter dell’articolo 219 del Codice della strada, che a luglio 2010 ha inasprito le sanzioni su alcol e droga alla guida, prevedendo tra l’altro che a seguito della revoca della patente si possa ottenere una nuova licenza solo dopo tre anni dall’"accertamento del reato". Un’espressione tutta da interpretare. Il Tar del Veneto ritiene che il termine iniziale è il giorno in cui è stato posto in essere il comportamento che ha portato alla sanzione. Sulla questione è intervenuto anche il ministero delle Infrastrutture e dei trasporti. La nota ministeriale n. 15040/2014 ha precisato che la data di accertamento del reato va intesa quale data di passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna. Evidentemente, però, la nota non tiene conto dello stato della giustizia penale italiana, che richiede in media cinque anni per giungere ad una decisione passata in giudicato. Ed è proprio su tale argomento che poggia la decisione del Tar Veneto, che ha rilevato come il termine iniziale va individuato nella data in cui il reato è stato commesso poiché, al contrario, la durata della sanzione risulterebbe di volta in volta soggetta ai tempi della giustizia penale. Motivazione che appare condivisibile e lineare in quanto, diversamente interpretando la norma, la sanzione avrebbe di fatto una durata diversa a seconda che il procedimento penale venga incardinato in un Tribunale virtuoso piuttosto che in un altro ben più lento o a seconda che l’imputato decida di impugnare o no le decisioni di primo e secondo grado. La class action si gioca nel merito di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 8 dicembre 2015 Ordinanza Corte d’appello di Torino n. 2468 del 17 novembre 2015. Non si può dichiarare inammissibile una class action sulla base di una perizia di parte prodotta in breve tempo dall’azienda contro cui l’azione viene intrapresa: questo è un giudizio di merito che va discusso durante il procedimento che seguirà la dichiarazione di ammissibilità. Piuttosto, bisogna limitarsi a verificare se l’altra perizia di parte, quella prodotta dai consumatori, si basi su metodologie legittime. È questo il punto di diritto fondamentale nell’ordinanza 2468/2015 con cui, il 17 novembre, la Corte d’appello di Torino ha ammesso la class action per pratiche commerciali ingannevoli e comunque scorrette promossa da Altroconsumo contro Fca, per la differenza tra i consumi dichiarati e quelli effettivi della Fiat Panda 1.2 a benzina (potenza di 51 kiloWatt, cioè 69 cavalli). Ma ci sono anche interessanti considerazioni di fatto sulla scarsa attendibilità del sistema di omologazione dei veicoli, sottolineata dallo scandalo Volkswagen. Tutto comunque verte sui test, che dovrebbero essere alla base di buona parte del contenzioso tra consumatori e costruttori di veicoli. Un contenzioso molto spesso frenato proprio dalla necessità di portare al giudice perizie costose e dal rischio che risultanze di queste ultime si prestino a molteplici interpretazioni. Un modo per aggirare il problema potrebbe essere proprio la class action (i costi della perizia vengono ripartiti tra più persone), che però spesso viene dichiarata inammissibile. Così era successo anche con quella promossa da Altroconsumo, di cui il Tribunale di Torino aveva affermato la manifesta infondatezza il 3 luglio. Una decisione che conferma le difficoltà incontrate dalla class action in Italia: erano state previste nel 2011, quando è stata introdotta nel Codice del consumo con l’articolo 140-bis, e la giurisprudenza di questi anni le ha forse addirittura amplificate. In sostanza, si è teso a interpretare in maniera rigida l’omogeneità dei diritti dei consumatori coinvolti. Altri problemi sono stati sollevati in relazione alla validità formale del mandato conferito alle associazioni dei consumatori. Non di rado i giudizi d’appello si rivelano più favorevoli, ma già il fatto che si debbano superare due gradi di giudizio solo per ottenere l’ammissibilità è un disincentivo. Nel caso di Torino, il Tribunale aveva bocciato le tesi di Altroconsumo perché le modalità dei test sarebbero dettati da rigorose normative comunitarie, che non lascerebbero spazio a discrepanze tra diverse misurazioni. Così si sarebbe dovuto dimostrare che i test erano stati truccati dal costruttore e, dato che i loro risultati sono vistati da un funzionario pubblico, presentare querela di falso. La Corte ha però chiarito che il funzionario può solo attestare i risultati del test cui ha assistito, non può sapere se il costruttore lo ha organizzato in modo da falsarlo. Né si può chiedere ai consumatori di indicare in cosa consisterebbe il trucco, essendo loro "estranei all’organizzazione del costruttore". Il trucco emergerà eventualmente nella causa di merito. In fase di valutazione dell’ammissibilità, invece, conta innanzitutto accertare che i test svolti per dimostrare la pratica ingannevole siano stati eseguiti da un ente accreditato e seguendo i metodi previsti dalle normative tecniche. Idem per la perizia pro veritate che Fca ha commissionato alla Dekra Testing and Certification per confutare le rilevazioni effettuate da Altroconsumo (si veda la scheda a sinistra). La Corte riconduce le differenze tra le due perizie alle tolleranze insite nei metodi previsti dalle norme. Di più: proprio le differenze possono essere indice di un trucco e starà alla discussione sul merito verificare. Fca aveva anche eccepito che le sue campagne commerciali sulla Panda non facevano perno sui consumi contenuti. I giudici di appello rispondono che si tratta pur sempre di utilitarie, la cui clientela è sensibile ai consumi. Nuoro: violenza contro le donne, una lezione con i carcerati di Kety Sanna La Nuova Sardegna, 8 dicembre 2015 Le quinte dell’Ipsia, dell’Iti e dell’Ipss a confronto con i detenuti di Badu e Carros Presentato il cortometraggio "Silenzio assordante" realizzato nel penitenziario. Un nuovo confronto tra gli studenti dell’Ipsia, dell’Iti e dell’Ipss di Nuoro e i detenuti del carcere di Badu e carros. In occasione della giornata contro la violenza sulle donne è stata rinnovata la visita nel penitenziario barbaricino: un momento di "normalità" per i carcerati che hanno avuto la possibilità di parlare con gli studenti delle quinte e le insegnanti Vittoriana Dessì e Carla Chessa, e approfondire con loro un tema di attualità toccante e coinvolgente qual è quello del femminicidio. Insieme hanno potuto vedere il cortometraggio realizzato all’interno dell’istituto di pena dagli stessi detenuti. Un progetto nato dall’idea dei carcerati che hanno espresso il desiderio di poter contribuire nel loro piccolo e nei limiti legati alla loro condizione detentiva, di inviare un appello agli uomini che si rendono autori di queste forme di violenza. Così, con il contributo delle associazioni femminili attive della città, l’Unione delle Camere Penali - "Osservatorio carcere" e con l’educatore di strada del Comune, Pietro Era, responsabile della compagnia teatrale Nuova Jobia di Badu e Carros, è stato costituito all’interno del carcere un gruppo di approfondimento che ha prodotto lo spot "Silenzio assordante": una riflessione attorno agli aspetti più rilevanti della violenza di genere, sull’immagine fornita dai mass media della donna, sul rapporto tra uomo e donna scegliendo, come messaggio da inviare, quello del rispetto della donna, del rifiuto del silenzio rispetto alla violenza subita. E proprio partendo dalla visione del filmato è nato il dibattito tra detenuti e studenti. "Un’esperienza toccante - ha detto Rita, allieva dell’Ipsia - che mi ha lasciato un segno profondo. La sensazione di stare all’interno di quelle mura mi resterà impressa per sempre, così come il rumore delle porte che si chiudevano ad ogni nostro passaggio. Poi il senso di isolamento che ho provato non potendo avere a portata di mano il telefonino. Insopportabile per me che non riesco a staccarmene neppure per un attimo - ha aggiunto con un sorriso la studentessa - Non nego poi che, dopo aver visto lo slogan e sentito parlare quei giovani mi sono resa conto che nonostante abbiano commesso reati la pensano proprio come noi. La violenza sulle donne è uno dei reati più gravi che si possano commettere. E pensare che proprio da loro sia partito un messaggio così profondo mi ha meravigliata non poco. Hanno offerto i loro volti e i loro pensieri per onorare la figura della donna in ogni aspetto. Uno di loro - ha aggiunto Rita - ha ringraziato la madre dei suoi figli per averli cresciuti nonostante la sua assenza". Per Lorenzo, invece, quella era la seconda visita in carcere: "Ma era come fosse la prima - ha detto - Stesse emozioni, stesse sensazioni. Questa volta però ci hanno fatto parlare con i detenuti della sezione di massima sicurezza e sono stati loro a rompere il ghiaccio. Hanno lanciato un appello che ora voglio fare mio: dobbiamo riflettere e cercare di educare i nostri figli al rispetto di chi ci ama e dell’altro". Ancora una prova costruttiva per Rita, Lorenzo, Barbara, Mariella e gli altri compagni di classe che, grazie alla preside Innocenza Giannasi e alla collaborazione con la direttrice del carcere Carla Ciavarella, hanno avuto la possibilità di confrontarsi con un mondo solo apparentemente lontano. Per loro la visita in carcere ha significato il rifiuto dell’emarginazione e dell’isolamento, principi fondamentali del regime di massima sicurezza. Parma: i detenuti ergastolani preparano le ostie per il Giubileo di Cristina Mazzi Redattore Sociale, 8 dicembre 2015 Undici ergastolani del carcere di Parma hanno realizzato le ostie che, dopo la benedizione del Vescovo, saranno distribuite durante la messa del 13 dicembre. Il garante Cavalieri: "L’obiettivo è migliorare le condizioni di vita del carcere". Hanno preparato il corpo di Cristo con il desiderio di chiedere perdono per i peccati commessi. In occasione dell’apertura del Giubileo, indetto da Papa Francesco per il giorno 13 dicembre, i detenuti dell’Istituto penitenziario di Parma si sono rimboccati le maniche e hanno preparato le ostie e il pane eucaristico da donare ai fedeli durante la messa. Domenica prossima, il 13 dicembre, sarà il Vescovo, al termine della processione che si terrà al Duomo della città emiliana, a consacrare le ostie realizzate da chi le sue giornate le passa recluso in cella. A chiedere redenzione dei peccati sono gli uomini della sezione alta sicurezza 1, il braccio di massima sicurezza del carcere di Parma. Uomini con una detenzione di più di vent’anni alle spalle, che si sono impegnati nel lavoro e nello studio di una professione. Gli 11 ergastolani che hanno partecipano all’iniziativa sono entrati in carcere negli anni 90 e sono usciti dalla cella (quasi perpetua) una volta a settimana per preparare le ostie, dopo aver frequentato corsi in tema di alimentazione alla scuola Forma Futuro della città. "Ho proposto questa iniziativa al Cappellano di Parma con l’obiettivo di migliorare le condizioni di vita del carcere - spiega Roberto Cavalieri, garante dei diritti dei detenuti del carcere -. La preparazione è avvenuta nella massima sicurezza e ha favorito il recupero dei detenuti. Il compito di questa istituzione è riaccompagnare e rieducare, non punire". Per i detenuti il mercoledì è il giorno del forno: preparano pane, focacce, pizze, che poi vengono consegnate alla mensa di Padre Lino. "Padre Lino in carcere veniva spesso a portare cibo, oggetti e conforto - dice il Vescovo di Parma, Enrico Solmi. Ed ora sono i suoi figli a ricevere dal carcere, questo rappresenta un segno di unità e continuità". Sempre allo scopo di aiutare i detenuti e porre rimedio alla situazione difficile del carcere, questa settimana il Vescovo ha inaugurato la nuova area all’interno della struttura carceraria parmigiana dedicata ai colloqui: due gazebo all’aria aperta dove tutti i detenuti potranno incontrare i loro familiari negli orari e giorni previsti dal regolamento dell’Istituto. "Oltre all’iniziativa delle ostie vogliamo proporre l’attivazione di un corso di pasticceria per i detenuti e altri percorsi con finalità educative" afferma Cavalieri. I detenuti lavorano gratis e dietro le sbarre ma questi progetti "facilitano il loro recupero e sono totalmente conciliabili con la sicurezza di tutti" conclude Carlo Berdini, direttore del carcere. Roma: i detenuti-attori di Rebibbia in scena al teatro Argentina La Repubblica, 8 dicembre 2015 Pablo Heras-Casado oggi e domani dirige il coro e l’orchestra di Santa Cecilia in un programma dal grande fascino musicale sul palco del Parco della Musica. L’ironia, condita di onomatopee secondo il gusto della sorpresa che spesso informa le Sinfonie di Haydn, troverà nella n. 83 "La gallina", uno degli esempi più riusciti. Alessio Allegrini, primo corno solista dell’orchestra, sarà invece impegnato nel Concerto n. 4 K 495 di Mozart, l’ultimo della serie di concerti dedicati allo strumento e di tutti il più impegnativo dal punto di vista tecnico. Nella seconda parte del programma, invece, l’Ottava Sinfonia di Antonin Dvoák. Parco della Musica, viale Pietro de Coubertin 30, stasera ore 20.30 domani ore 19.30, infotel: 064553050 Ancora una serata ricca di appuntamenti per "Più libri più liberi", la fiera della piccola e media editoria in corso al Palazzo dei Congressi. Tra le presentazioni di oggi, per gli "Incontri con l’Espresso" Ascanio Celestini farà il punto a "Un anno di Mafia Capitale" (ore 18, sala diamante), mentre a Claudio Caligari e al suo film postumo "Non essere cattivo" è dedicato l’appuntamento delle 19, in cui interverranno Giordano Meacci e Francesca Serafini. Sempre alle 19, anche la presentazione insieme agli autori di "Dark Soul. Viaggio nel mondo invisibile", libro scritto da Giancarlo De Cataldo, Francesca Marchi e Luca Saraceni. Palazzo dei Congressi, Piazza John Fitzgerald Kennedy 1, stasera fino alle ore 20, infotel: 06 95222150 Stasera sul palcoscenico del Teatro Argentina torna la Compagnia del carcere romano di Rebibbia con un nuovo spettacolo, "Fitzcarraldo": per drammaturgia e regia di Laura Andreini Salerno e Valentina Esposito. I detenuti-attori lasciano il teatro del penitenziario per raccontare in scena l’epopea dell’avventuriero irlandese Brian Sweeny Fitzgerald, detto Fitzcarraldo, vissuto tra fine dell’800 e i primi del 900, che perseguì il folle progetto di costruire un teatro dell’Opera in mezzo alla foresta amazzonica. Spinto da questo irrinunciabile sogno, il temerario imprenditore ingaggia un equipaggio di squattrinati marinai alla ventura. Teatro Argentina, Largo di Torre Argentina 52, stasera ore 21, ingresso libero su prenotazione obbligatoria alla mail laribalta@tiscali.it, infotel: 069079216 e 0690169196. Un contenitore senza definizione in cui sono racchiusi corpi e musica, una scatola nera che accoglie in sé tutte le sfaccettature primordiali ed istintive dell’uomo, dove tra i chiaroscuri della luce tutto è concesso e non vi sono limiti. Nasce così lo spettacolo di danza in scena stasera al Teatro Vascello. Il titolo "#Black", "nero" rimanda al colore dell’ambiguità, che nelle coreografie di Michele Pogliani, Lorenzo Schiavo ed Eleonora Frascati, i 14 danzatori in scena interpretano come la completa assenza di luce, ma anche la combinazione di tutti i colori dello spettro luminoso. Teatro Vascello, via Giacinto Carini 78, stasera alle ore 21, infotel: 06 5881021 e 06 5898031. Iosonouncane, classe 1983, è un musicista nato in Sardegna. Inizia a suonare nella band Adharma, ma trasferitosi a Bologna, dove tuttora è di base, dà vita al progetto musicale con cui pubblica, nell’ottobre 2010, il suo disco d’esordio "La macarena su Roma". Stasera sarà sul palco del Monk per presentare il lavoro condotto in studio con Bruno Germano, che ha portato alla produzione di "Die", il nuovo album nominato tra i cinque candidati "Miglior Album dell’Anno" al Premio Tenco 2015. Monk club, via Giuseppe Mirri 35, stasera ore 22.30, infotel: 06 64850987. Ogni lunedì si rinnova l’appuntamento fisso dedicato ai musicisti di qualsiasi estrazione e ai ballerini di lindy hop. Il salotto del bistrot "Na cosetta", animato da musicisti e lindy hoppers, si trasforma in un grande laboratorio dove il jazz - suonato e raccontato - riscopre una delle sue declinazioni più antiche: la danza. "Open Swing Lab" è infatti più di una jam session, si tratta di una vera e propria scuola di musica a palco aperto. ‘Na Cosetta, via Ettore Giovenale 54, stasera alle ore 22, infotel: 06 45598326 La Killer band affonda le proprie radici nel rock e nel blues più sanguigni. Gran parte del repertorio è basata su composizioni originali in bilico tra tradizione e ricerca dell’originalità. Canzoni, come quelle dell’ultimo disco "Push the button", che parlano di storie comuni i cui personaggi, immaginari o a volte reali, raccontano le loro vicende, i modi di essere, i sentimenti o ancora le proprie fantasie o fantasticherie. Il live show, in programma stasera al Big Mama di Trastevere, si completa con alcune rivisitazioni di brani di Jimi Hendrix, punto di riferimento imprescindibile per la musica moderna. Big Mama, vicolo San Francesco a Ripa 18, stasera alle ore 22.30, infotel: 06 5812551 I Teenage Riot, in concerto stasera al music club Le Mura, nascono nel 2010. L’essenzialità? del trio - Cristiano Metrangolo alla chitarra, Stefano Greco al basso e Ilario Surano alla batteria - conferisce la liberta? di muoversi tra la frenesia post punk e il noise d’oltreoceano, abbracciando atmosfere post rock schizofreniche. Le Mura music bar, via di Porta Labicana 24, stasera alle ore 22.30, infotel: 0664011757. Cuneo: cosa vuol dire essere padre? Lo spettacolo dei detenuti del carcere di Saluzzo targatocn.it, 8 dicembre 2015 Nell’ambito degli eventi della XXII edizione della Mostra del Libro di Cavallermaggiore, Voci Erranti porta in scena Amunì, spettacolo che nasce con i detenuti del Carcere di Saluzzo nel 2013. "Amunì" è frutto della riflessione dei detenuti sul tema della paternità, sul senso di essere contemporaneamente figli e padri, padri assenti e figli difficili, figli cresciuti senza padri non perché orfani, quanto privi di padri autorevoli, portatori di valori e testimoni delle responsabilità della vita. Ora questi figli vivono nell’attesa del ritorno alla libertà e nel frattempo, diventati loro stessi genitori, attendono il ritorno del padre proprio come Telemaco fece con Ulisse. "Amunì" è la storia di undici fratelli che attraverso i giochi e i ricordi dell’infanzia ritornano a loro volta bambini. "Che cosa vuol dire essere padre? Chi me lo può insegnare? C’è un altro Padre? Cosa sarebbe cambiato nella mia vita se papà fosse stato presente?". Pensieri di vite recluse, dubbi abitati dai sensi di colpa e responsabilità mancate, nostalgie di infanzie negate che prendono forma sul palcoscenico in un contesto di festa dal sapore amaro dell’"assenza". Lo spettacolo, scritto e diretto da Grazia Isoardi, con le coreografie di Marco Mucaria, viene replicato in esterna con un gruppo integrato di attori: detenuti che godono di permessi premio ed ex detenuti, per una continuità di progetto tra dentro e fuori, oltre ad alcuni attori di Voci Erranti. Costo dei biglietti: Intero € 8 Ridotto studenti e soci associazione € 5 Non viene effettuata prevendita Per informazioni: info@vocierranti.org. Lecce: scoperti mentre cercano di cedere eroina e hashish ai parenti detenuti lecceprima.it, 8 dicembre 2015 Tre denunce e un fermo a carico dei responsabili. Gli agenti di polizia penitenziaria hanno deferito, fra gli altri, un minorenne che aveva nascosto un involucro con hashish in bocca per darlo al padre. Svolte anche diverse perquisizioni in auto e abitazioni a caccia di altra sostanza stupefacente. Stavano cercando di far entrare piccole dosi di stupefacenti in carcere. Più persone sono finite nei guai negli ultimi giorni. A scoprire gli episodi, gli agenti di polizia penitenziaria di Lecce di servizio nel carcere di Borgo San Nicola. Non è la prima volta che si verificano casi del genere. Il tentativo avviene invariabilmente in occasione dei contatti tra i detenuti e i familiari a colloquio. Il primo caso risale alla mattina del 5 dicembre. I baschi azzurri hanno denunciato il 17enne C.G. e suo padre, R.G., detenuto. Sono stati colti in flagranza. Il ragazzo aveva nascosto in bocca un piccolo involucro contenente hashish. Con una mossa fulminea l’ha estratto e trasferito al padre, che ha cercato di nasconderlo allo stesso modo. Il passaggio non è però sfuggito e per i due sono iniziati i guai. Oggi il secondo e ultimo episodio. Il personale in servizio di vigilanza presso l’Unità operativa colloqui ha bloccato A.C. e S.R., rispettivamente fratello e convivente del detenuto M.C.. Durante il colloquio il primo ha consegnato un involucro celato negli abiti al familiare. Questi, ha prvoato a nasconderlo fra le parti intime, ma le sostanze, una dose di hashish e un’altra di eroina, sono stato in seguito recuperate grazie a una perquisizione. In questo caso, per la donna è scattata la denuncia, mentre per il fratello del recluso il fermo. In entrambi i casi, le operazioni sono state svolte anche perquisizioni alle auto utilizzate dai familiari per recarsi presso l’istituto di pena, e nel secondo anche nell’abitazione di un familiare, tutte però con esito negativo. Le tre dosi sono state sequestrate. Velletri (Rm): stand dell’associazione Vol.A.Re. con oggetti natalizi realizzati dai detenuti Dire, 8 dicembre 2015 Sabato 5 dicembre è stato allestito uno stand speciale all’interno del Mercatino di Velletri: l’associazione Vol.A.Re, infatti, ha deciso di mettere in piedi "Voci di Lazzaria", uno stand frutto di un progetto promosso dall’associazione stessa in sinergia con la Casa Circondariale di Velletri Lazzaria e con il partenariato della Caritas Diocesana di Velletri-Segni, che ha permesso e permetterà, nei prossimi giorni, di mettere in vendita oggetti natalizi prodotti all’interno della Casa Circondariale Lazzaria. Gli oggetti sono stati realizzati da 20 detenuti che hanno preso parte al progetto "laboratorio artigianale", ideato e portato avanti con dedizione dai volontari dell’Associazione. "Questa iniziativa - scrive l’On. Ileana Piazzoni, che ieri pomeriggio ha fatto visita allo stand - pone al centro dell’attenzione la necessità di parlare di carceri e delle condizioni di chi vive quotidianamente la detenzione all’interno delle stesse. C’è un forte bisogno di sottolineare l’aspetto educativo e riabilitativo che la pena detentiva dovrebbe svolgere nel nostro ordinamento, nel pieno rispetto dei diritti sanciti dalla Costituzione. Quanto portato avanti dall’Associazione Vol.A.Re. si pone proprio in questa direzione. È stato un piacere - conclude la Deputata del Partito Democratico - poter dare il mio contributo. Colgo anzi l’occasione per invitare tutti ad acquistare questi graziosi oggetti, poiché oltre a compiere un gesto di solidarietà e sostegno, si avrà l’occasione di acquistare degli utili e originali regali natalizi". Il mercatino di Natale è stato allestito in piazza Mazzini a Velletri e sarà possibile acquistare gli oggetti in esposizione allo stand "Voci di Lazzaria" dalle ore 16:00 alle ore 21:00, da oggi all’8 dicembre, dall’11 al 13 dicembre e dal 18 al 20 dicembre. "Il populismo penale", le urne elettorali della società del controllo di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 8 dicembre 2015 "Il populismo penale", un libro collettivo curato sa Stefano Anastasia. Un fenomeno che coinvolge l’insieme delle democrazie liberali. Il populismo penale è una malattia delle democrazie contemporanee. "Fino a qualche decennio fa infatti si parlava di populismo in riferimento a realtà politiche marginali dell’America Latina o dell’Africa, in un modo che lasciasse intendere che fosse una prerogativa delle società premoderne o comunque poco evolute". Questo brano è tratto dal saggio di Manuel Anselmi, che si legge in apertura del bel libro scritto a sei mani da Stefano Anastasia, Manuel Anselmi e Daniela Falcinelli, Populismo penale: una prospettiva italiana (Cedam). Negli ultimi decenni del secolo scorso, su scala globale quasi tutti i Paesi, anche quelli meno sospettabili di derive autoritarie, sono stati attraversati da questo virus contagioso e mortale. Scrive Anastasia a conclusione del suo saggio e a chiusura dell’intero volume: "Nello sgretolamento del modello sociale protettivo, che era stato del welfare europeo della seconda metà del Novecento, il linguaggio della colpa e della pena, le istituzioni penitenziarie e quelle del controllo sociale coattivo sono tornate in auge a compensare il disorientamento della civiltà post-moderna e la fragilità delle sue istituzioni". Il libro mette in ordine tutti i grandi campi semantici e tutte le complicazioni teoriche che il populismo porta con sé. Non da nulla per scontato e parte dalla questione politica complessa del populismo, come viene giustamente definita, per giungere, attraverso una disamina concettuale degli aspetti generali del populismo penale, a raccontare la deriva emozionale ed etica del diritto penale, i rischi connessi in termini di riduzione degli spazi di welfare e la compressione dei diritti di coloro che sfortunatamente incrociano la macchina infernale della giustizia criminale. Massimo Pavarini, di recente scomparso, in modo plastico raffigurava quello che era il populismo penale: se tutte le persone incarcerate in giro per il mondo si tenessero per mano riuscirebbero a circondare il pianeta all’altezza dell’equatore. "Ogni pena che non derivi dall’assoluta necessità" scriveva Montesquieu "è tirannica". Nel libro di Stefano Anastasia, Manuel Anselmi e Daniela Falcinelli, con attenzione profonda ai cambiamenti di piano, viene elaborata una mappa concettuale e storica del populismo, come teoria e strategia politica, all’interno della quale viene identificato lo spazio del populismo penale. La legge della repressione. In questo percorso c’è il caso italiano la cui storia procede di pari passo alla fine dei partiti di massa e alla dismissione della loro funzione pedagogica. I partiti della seconda repubblica rincorrono l’opinione pubblica e non si preoccupano di orientare il loro corpo sociale, se ancora ne hanno uno. È nella seconda repubblica che la deriva populista e giustizialista (termini che indicano processi diversi ma che rimandano allo stesso campo semantico) trova terreno fertile. "Sotto la coltre del conflitto politica-giustizia - scrive Anastasia nel saggio conclusivo del volume - messo in scena ai piani alti del sistema istituzionale, si consumava quindi uno spostamento di fuoco delle politiche penali e di sicurezza verso il controllo e la repressione della marginalità sociale". Si pensi alle leggi su droga, immigrazione e recidiva che sono universalmente note con i nomi dei proponenti: Fini, Giovanardi, Bossi, ancora Fini, Cirielli. La "nomizzazione" delle leggi penali è una delle manifestazioni più evidenti del populismo penale che vive di ricerca spasmodica e permanente di consenso elettorale. Dare il proprio nome a una legge significa volerne capitalizzare i frutti. "Il diritto penale è diritto simbolico per eccellenza" (sempre Anastasia), anche quando decide di non intervenire e lasciare impunite talune pratiche. L’assenza del crimine di tortura nel codice penale italiano, nonostante gli obblighi di natura costituzionale (articolo 13), è da leggersi come una lacuna evidentemente voluta e simbolica. Tale assenza è il simbolo dei limiti imposti al potere punitivo dello Stato che non deve dirigersi contro i custodi della sovranità e della sicurezza. Lo Stato sovrano moribondo ha bisogno di quel residuo di sovranità che il diritto penale gli concede. "Io che l’ho visto, vi racconto il business dei profughi a Milano" di Ugo Savoia linkiesta.it, 8 dicembre 2015 Parla Faustino Boioli, medico, assessore al Comune negli anni 90, ora alla guida di una Onlus che offre assistenza medica gratuita ai clandestini: "Tra chi scappa dalle guerre si nasconde chiunque. Il terzo settore ci campa e le organizzazioni islamiche...". Il 16 ottobre 2013 era un mercoledì e il termometro a Milano segnava 15 gradi (la minima aveva raggiunto i meno 8 nella notte), appena un paio di tacche sotto quella che viene considerata la media stagionale. Mentre alla Triennale veniva inaugurata la mostra sui primi cento numeri della Lettura, inserto domenicale del Corriere della Sera, nel piccolo Comune di Sedriano succedeva qualcosa a suo modo di storico: per la prima volta in Lombardia veniva sciolto un consiglio comunale a causa di accertate infiltrazioni mafiose. Ma non erano queste cose ad attirare l’attenzione dei milanesi. Chi si fosse trovato a passare dalla Stazione Centrale, non avrebbe potuto fare a meno di notare uomini, giovani donne e bambini appena sbarcati da un treno proveniente dalla Sicilia. Erano circa 150, forse 200 non di più, evidentemente stranieri (mediorientali? magrebini?) e se ne stavano lì nel mezzanino ad aspettare che qualcuno dicesse loro che cosa dovevano fare. Milano guardava in faccia per la prima volta le persone scappate dalle guerre e dalle cosiddette primavere arabe e quel manipolo di persone silenziose rappresentava il primo refolo di una tempesta che avrebbe portato qui almeno 85 mila rifugiati a vario titolo negli ultimi due anni. Fino ad allora il problema era stato gestito senza particolari problemi, anche per l’esiguità dei numeri. Ma quel giorno cambiò tutto, non solo perché il Comune fu costretto ad organizzare improvvisati punti di raccolta in cui offrire cibo e assistenza sanitaria - venne lanciato un appello alla cittadinanza perché contribuisse come poteva, in particolare con vestiti usati e coperte , ma anche perché fu subito chiaro che stava cominciando una vera emergenza. E che il governo avrebbe pagato chiunque si fosse offerto per aiutare a gestirla. La diaria, garantita dalla prefettura, era (ed è) di 35 euro al giorno per ogni profugo. "Sì, quella fu una svolta. Perché prendeva corpo anche qui il business della gestione dei rifugiati. Lo stesso per intenderci che è emerso in dimensione ben più ampia dall’inchiesta Mafia capitale", dice Faustino Boioli, un signore milanese nato nel 1940 che nella vita è stato tante cose: medico, consigliere comunale prima per il Pci poi per il Pds, assessore tra il 1985 e il 90, primario di Radiologia al Fatebenefratelli, associato dal 1999 alla sezione italiana di Medecins du Monde (organizzazione "cugina" di Medici Senza Frontiere), fondatore con un gruppo di colleghi dell’associazione Medici Volontari Italiani, onlus che offre assistenza medica gratuita a clandestini, esclusi o autoesclusi dalle cure mediche, e gestisce un poliambulatorio in via Padova. Quei rifugiati erano arrivati qui dalla Siria o dalla Tunisia grazie a qualcuno che aveva gestito i loro flussi dai Paesi d’origine facendosi pagare, come è noto, migliaia di dollari o di euro a persona. Erano vestiti abbastanza bene e molti di loro, specie i siriani, parlavano inglese. Erano arrivati a Catania e da lì, in treno, erano sbarcati a Milano per poi raggiungere altre destinazioni europee (Germania e Francia in particolare). Ma non fornivano documenti, non volevano essere registrati in alcun modo. "Fu subito chiaro - prosegue Boioli - che l’anonimato rappresentava una situazione pericolosa, perché in mezzo alle tante persone effettivamente fuggite dalla guerra, poteva nascondersi chiunque, terroristi compresi, o anche solo stuoli di furbi che pur non avendo lo status di profughi venivano trattati come tali. Con il passare dei mesi, l’aumento degli arrivi a Milano e in Lombardia ha raggiunto le dimensioni di business vero e proprio, soprattutto per piccoli alberghi e pensioncine che non navigavano in buone acque". "Fu subito chiaro - prosegue Boioli - che l’anonimato rappresentava una situazione pericolosa, perché in mezzo alle tante persone effettivamente fuggite dalla guerra, poteva nascondersi chiunque, terroristi compresi, o anche solo stuoli di furbi che pur non avendo lo status di profughi venivano trattati come tali". Basta far due calcoli. L’imponente numero delle persone da gestire fa sì che sia sufficiente offrire la propria disponibilità ad ospitarne una trentina a settimana per risanare il bilancio di un piccolo albergo o di una associazione assistenziale: 30 per 35 dà come risultato 1.050 euro al giorno. Facciamo che l’albergatore, o l’associazione, ne spendano 450 per garantire un letto e la prima colazione per tutto il gruppo (pranzo e cena vengono in genere forniti da altre organizzazioni): restano 600 euro al giorno, vale a dire 18 mila euro netti al mese. La permanenza media dei profughi è di circa 9 mesi, quindi basta moltiplicare per capire le dimensioni di un business che ha ampi margini di guadagno. "Ma non è soltanto questo il punto. La realtà è che più aumentavano i profughi mediorientali e più aumentava la presenza a Milano di Islamic Relief, ong inglese presente in tutta Europa per dare assistenza ai migranti di religione musulmane e per questo finanziata dalle istituzioni europee, nonostante si dica usi quei soldi per finanziare a sua volta Hamas e i Fratelli Musulmani". "Proprio alla luce di questa considerazioni, andrebbe chiarito che i profughi non sono da considerare tutti acriticamente dei santi - continua Boioli -. Gheddafi, per esempio, aveva svuotato le carceri libiche indirizzando i detenuti verso l’Italia. E io che sono un medico, non il confessore o l’amico di un rifugiato, sono disposto ad assisterlo a patto che rispetti le regole del nostro Paese, che non pretenda di essere trattato meglio dei cittadini italiani, magari giocando sui nostri sensi di colpa o sull’ingiustificato buonismo che ci caratterizza. Non dimentichiamo che molti di costoro sono in possesso di documenti rubati, cosa che rende impossibile la loro effettiva identificazione. Su questo bisogna essere inflessibili. La professionalità che noi mettiamo nell’assisterli o nel curarli non ha niente a che fare con il buonismo, che è tolleranza acritica di fenomeni e comportamenti che devono essere positivamente e qualche volta energicamente gestiti. La professionalità è la capacità di svolgere la propria attività con competenza ed efficacia: il cosiddetto buonismo è invece una fuga dalle proprie responsabilità in momenti critici, quando l’emotività prevale sulla razionalità". Marcia delle donne e degli uomini scalzi, seconda tappa il 12 dicembre di don Vinicio Albanesi e altri Il Manifesto, 8 dicembre 2015 Dopo la grande mobilitazione della Marcia degli uomini e delle donne scalze dell’11 settembre scorso, i promotori lanciamo l’invito per una giornata dedicata all’incontro con richiedenti asilo e migranti. Il 12 dicembre invitiamo tutti a mettersi in cammino per visitare i luoghi di accoglienza e di non-accoglienza in Italia. Decine sono i cittadini che lavorano o operano in questi luoghi, ma molti di più sono coloro che non li hanno mai visitati o che non ne conoscono nemmeno l’esistenza. Il tema dell’accoglienza è vissuto e discusso dalla maggior parte della nostra società solo virtualmente, attraverso rappresentazioni mediatiche, slogan e molti pregiudizi. È invece importante che la società civile e i rappresentati delle istituzioni conoscano di persona chi vive e come vive nei luoghi di accoglienza e ancora di più nei luoghi dove l’accoglienza non funziona o peggio non esiste. Ci sono in Italia esperienze virtuose di accoglienza, ma anche molte caratterizzate da inadeguatezza o dal mancato rispetto dei diritti delle persone. E vi sono anche luoghi in cui richiedenti asilo e migranti sono abbandonati a loro stessi vivendo in condizione al limite della dignità umana. Spesso profughi e migranti vivono in luoghi isolati dalla vita civile di piccole e grandi città. Queste distanze vanno percorse fisicamente, bisogna camminare verso questi luoghi e incontrare le storie di migrazione, di fuga e di accoglienza. Per aprire dialoghi reali tra corpi sociali che non possono rimanere estranei, se si crede nella costruzione di una società più giusta e degna. I promotori chiedono dunque a operatori, mediatori culturali, volontari di tutta Italia di invitare amici e conoscenti nei centri di accoglienza, nei Cara, nelle case dei progetti Sprar, negli accampamenti informali, negli alberghi dei cosiddetti centri d’accoglienza straordinari, nelle mense e in altri luoghi ancora. E chiedono a tutti i cittadini che non hanno mai visitato un luogo di accoglienza di dedicare la giornata del 12 dicembre a questi incontri, indicando la loro disponibilità a partecipare. Scopo degli incontri sarà la conoscenza, ma anche l’azione e la parola, per denunciare le ingiustizie e migliorare le condizioni dell’accoglienza, anche grazie al coinvolgimento di coloro che parteciperanno agli incontri stessi. Contemporaneamente sul sito donneuominiscalzi.blogspot.it, verranno raccolti i racconti dei partecipanti, che potranno così testimoniare ciò che hanno scoperto, capito o non capito durante gli incontri. I promotori sperano che le azioni e le parole che nasceranno dalla seconda tappa della marcia delle donne e degli uomini scalzi aiutino l’Italia ad affrontare con equità e giustizia la sfida dell’accoglienza, troppo spesso schiacciata tra indifferenza, isolamento, mala gestione o, peggio ancora, clientelismo. Perché dare asilo a chi scappa dalle guerre, significa ripudiare la guerra e costruire la pace. Dare rifugio a chi scappa dalle discriminazioni religiose, etniche o di genere, significa lottare per i diritti e le libertà di tutte e tutti. Dare accoglienza a chi fugge dalla povertà, significa non accettare le sempre crescenti disuguaglianze economiche e promuovere una maggiore redistribuzione delle ricchezze ed una vera uguaglianza sociale, civile ed economica. Aderiscono: don Vinicio Albanesi; Maurizio Ambrosini (docente di Sociologia delle migrazioni alla Statale di Milano); Remo Anzovino; Natalino Balasso; Don Albino Bizzotto; Don Luigi Ciotti; Ascanio Celestini; Loris De Filippi (MSF Italia); Gad Lerner; Luigi Manconi; Giulio Marcon; Filippo Miraglia (ARCI); Maso Notarianni; Costanza Quatriglio; Andrea Segre; Sergio Staino; Angela Terzani; Daniele Vicari; Francesco Vignarca (Rete Disarmo); Alex Zanotelli; Don Armando Zappolini. Migranti, chiude il Centro Baobab, che ha mobilitato Roma di Luca Monaco La Repubblica, 8 dicembre 2015 Ieri è stato chiuso il Baobab, il Centro per migranti a Roma. I volontari si sono rifiutati di allontanarsi e sono rimasti, per protesta, chiusi in un camper. Il Baobab in questi mesi, senza fondi e grazie alla sola solidarietà dei cittadini, ha accolto più 35mila migranti. Lacrime, applausi. Tanti abbracci. Una signora fa ancora in tempo a consegnare una busta con degli abiti puliti prima che i volontari girino per l’ultima volta la chiave nella toppa. Alle 14.13 di ieri il centro Baobab di Roma ha chiuso. Nessun migrante dormirà più nelle stanze di quel polo dell’accoglienza nato a fine maggio per l’iniziativa spontanea di un gruppo di giovani, che da allora ha ospitato 35mila persone. Una sentenza del Tar impone al Comune la restituzione dei locali ai proprietari delle mura entro il 30 aprile. All’esterno della palazzina in via Cupa, una lingua d’asfalto che incrocia la Tiburtina, resterà un camper, una postazione mobile per fornire le prime informazioni utili ai transitanti appena arrivati a Roma. In attesa che il Commissario del Campidoglio, Francesco Paolo Tronca, individui una nuova struttura dove far nascere un progetto stabile per l’accoglienza. Gli ultimi 25 migranti rimasti sono stati presi in carico ieri dal dipartimento alle politiche sociali del Campidoglio. Tra loro Kabanda, un ingegnere, laureato in Congo, arrivato a Roma per cercare lavoro con un regolare permesso di soggiorno e che di andar via dal Baobab per finire in uno dei centri aperti per l’emergenza freddo proprio non ne voleva sapere. Ha abbracciato i tanti volontari, cuochi, medici, avvocati e studenti che si sono presi in carico la gestione dell’immobile, punto di riferimento per i "transitanti" a Roma: in maggioranza giovani scappati dal Corno d’Africa e che puntano al Nord Europa. Per facilitare gli spostamenti e aiutare le donne sole con i bambini, i volontari hanno creato una rete che mette in collegamento Roma con Milano, Bolzano e Ventimiglia. Arrivi e partenze venivano appuntati su un registro. A ogni nuovo ospite spettava il kit di benvenuto (abiti, sapone, fazzoletti, dentifricio e spazzolino) e quello di partenza: uno zaino con dentro acqua, biscotti e altre piccole cose utili per il viaggio. Un lavoro meticoloso, possibile grazie alle centinaia di persone che dallo scoppio dell’emergenza profughi intorno alla stazione Tiburtina (centinaia di uomini e donne a dormire per strada tra maggio e giugno), hanno tamponato un problema, coprendo anche i ritardi del Comune che ha allestito una tendopoli e annunciato (al momento solo quello) l’apertura di una struttura stabile. "Così la cittadinanza ha provato a dare un senso nuovo all’accoglienza - racconta Roberto Viviani, uno dei coordinatori del centro - questa chiusura è il preludio di un nuovo inizio". Ora si chiama "guerra" una cosa che poteva essere fermata di Adriano Sofri Il Foglio, 8 dicembre 2015 Quando le persone dotate di autorità ufficiale, o addirittura di governo, fanno le sceme, è perché sono sceme. Prendiamo alcune delle frasi più in voga nel dibattito su un affaruccio come una guerra mondiale. Per esempio: "Non si può intervenire se non si ha chiaro che cosa si farà dopo". La frase basta a eliminare dalla faccia della terra polizia, carabinieri, pompieri, protezione civile, medici del pronto soccorso, emigrati clandestini che si buttano nel fiume a salvare un cittadino italiano che sta annegando, e alcune altre categorie di persone di prima necessità. Stanno perfezionando la caccia agli ezidi, ce ne sono decine di migliaia in loro balìa sulle pendici del monte Sinjar: intervieni, anche se non hai "una strategia chiara per il dopo", o no? Per fortuna (tardi, e non abbastanza) gli aerei americani lo fecero, e poi i francesi, nell’estate del 2014. Kobane è occupata, gli ultimi resistenti curdi si battono eroicamente con armi impari: intervieni o no, anche se non c’è nessun programma chiaro per il dopo, e anzi tutto è confuso, i tuoi alleati turchi desiderando la sconfitta dei curdi e collaborando sotto sotto (nemmeno tanto) con l’Isis, eccetera? Per fortuna (tardi, e appena abbastanza) gli aerei americani lo fecero, e i curdi ripresero Kobane, cioè le sue ceneri. Il governo siriano di Bashar el Assad fa strage e storpia di torture i suoi sudditi nel 2011, nel 2012, nel 2013, nel 2014, nel 2015: intervieni, anche se eccetera? Non sono intervenuti, né americani, né europei, fino a far ammontare la cifra dei morti ammazzati (nella gran maggioranza dagli aerei e dai barili-bomba governativi) a quasi 25 mila. In effetti, non avevi una "strategia per il dopo". E tanto meno ce l’avevi, quanto più non intervenivi. E dal lato dei ribelli i fanatici e i terroristi prendevano com’era inevitabile sempre più il sopravvento sui democratici e i moderati e gli aspiranti a un regime normale. L’Isis cancellò spettacolarmente il confine fra Siria e Iraq, e sbandierò la sua conquista facendo andare su e giù attraverso la frontiera abolita i suoi seguaci entusiasti che suonavano il clacson in quell’anticipo di Califfato universale. Intervieni o no? E se intervieni devi continuare a rispettare la rispettiva sovranità territoriale di Siria e Iraq anche quando non esistono più e il tuo nemico va di là e di qua cento volte al giorno come l’accenditore e lo spegnitore del lampione sull’asteroide del piccolo principe? Meraviglioso: c’è voluto un anno e mezzo a far votare al Parlamento inglese l’autorizzazione a sconfinare in quella terra senza confine, e il Parlamento inglese resta in anticipo sugli altri. Potrei continuare a lungo, a proposito dei frutti temuti dell’interventismo messi a fronte di quelli avvenuti dell’omissione. Ma chiediamoci un momento, giusto il tempo di una digressione, perché mai "non avevamo una strategia per il dopo". Perché mai non sapevamo fare altro che proclamare l’intangibilità di stati il cui collasso era inevitabile, e non faceva che compiere a distanza di un secolo la dissoluzione di una fabbrica artificiosa e durata oltre le speranze, al costo che sappiamo? Non era abbastanza strategico immaginare per quella grande regione tormentata e tormentosa un disegno ovvio e grandioso come quello che qualcuno aveva saputo immaginare per l’Europa del Dopoguerra, uscita da orrori e tormenti ancora più rovinosi? Non era abbastanza strategico adoperarsi per stroncare una violenza oltraggiosa e insieme proporre ai popoli e ai loro faticosi rappresentanti un futuro di tolleranza, convivenza e comunanza di risorse? Utopia? Certo: non più di quanto fosse utopica l’idea di un’Europa oltre gli stati-nazione e le ideologie totalitarie del Novecento. Non bisognava provarci, almeno? Non bisognerebbe ancora? Fino a quel punto, si trattava non di subire e muovere guerra, ma di intervenire a difesa di moltitudini colpite con una ferocia genocida e terroristica, come deve intervenire una polizia, un reparto di pompieri, un plotone di difensori del patrimonio dell’umanità. E che dire di quella sapientia inertia in nome della "inadeguatezza di una strategia chiara" da parte di potenti e mezzi-potenti che ha fatto loro immaginare di essere soli al mondo, e li ha lasciati desolatamente spiazzati quando in quello che trattavano come un loro campetto da gioco, nel quale lasciare che si ammazzassero le molteplici bande concorrenti - e soprattutto che ammazzassero la gente - è arrivata la Russia e ha messo i piedi e le mani e tutto il resto nel piatto, ammonendo: ragazzini, lasciatemi lavorare! Gran bella strategia in mancanza di strategia, una coalizione universale sovieto-sciita. Per molto tempo - un tempo immemorabile, per chi lo viveva come un topo in trappola, sotto le bombe spietate del tiranno di Damasco e sotto i coltelli da macelleria della schiuma jihadista, o nelle tende degli accampamenti di sfortuna - qualche voce si è unita a quella dei topi e degli attendati e dei vescovi indigeni a chiedere soccorso. Quelle voci non erano solo di pianto e di umiliazione: erano lucide, vedevano attraverso le feritoie. Avevano una strategia. Sapevano che il mondo dell’omissione - chiamerò così l’occidente, per gli anni 2011- 2015 - si stava tirando addosso i milioni di fuggiaschi e gli attentati degli ubriachi di morte. Lo hanno detto. Io l’ho detto tante volte, sul giornale che mi ha generosamente ospitato e sul quale non scrivo più, e anche su questo giornale. Posso documentarlo, anno per anno, mese per mese. I potenti e i mezzi-potenti della terra, quelli della strategia, sono imbecilli, lo dico senza rancore, quasi con compassione, a vederli arrancare. A vederli costretti a chiamare guerra una cosa che poteva e doveva essere fermata come si ferma una sfida criminale. Qualcuno si trincera dietro l’islam, a sostenere che si tratta di altra cosa rispetto a ogni precedente storico, anche quelli atroci di Auschwitz e del gulag: certo che si tratta di altra cosa. È sempre un’altra cosa. Così, dopo aver lasciato la cosa crescere per cinque anni - ogni anno di queste violenze ne vale quattordici di quelli normali, il doppio di quelli dei nostri cani - ora si dividono fra chi si rassegna alla guerra, e chi vi si oppone: non a fare quello che si deve qui e oggi, in Iraq e in Siria (e in Libia e Yemen e Nigeria e Mali…) e nella Siria e nell’Iraq che l’Europa sta diventando, ma "alla guerra", o "alla pace", questione risolta una volta per tutte. (Per non parlare degli entusiasti della guerra, quelli che "andrei a combattere" - guarda che si può, eh? - e votavano contro l’invio di qualche istruttore e qualche fucile di seconda mano ai curdi). Si ammonisce: "Ma in Libia…". In Libia si intervenne quando Gheddafi era già spacciato, e avrebbe potuto forse durare alla maniera in cui è durato Bashar a Damasco. Si intervenne quando era in pericolo mortale Bengasi, e all’indomani non era detto che si dovesse lasciare il seguito alla guerra per bande. Oggi si dice "Ma in Libia…" per tenersi alla larga dalla Siria - un sesto anno… - come se la Siria corresse il rischio di essere resa "instabile". Il nostro presidente del Consiglio ha deciso di scommettere sul tenersi fuori - mezzo fuori mezzo dentro, cioè: se la va, viva il sacro egoismo, se la spacca, c’è sempre il tempo di prendere posizione. Il sacro egoismo europeo si è chiamato in casa i milioni di siriani e iracheni (hanno aspettato fin troppo), ha creduto di esorcizzare lo spontaneismo del terrore, ha comprato la complicità di Erdogan al prezzo del denaro e della propria connivenza, ha magnificato Putin, il lungo protettore dell’infamia di Bashar. Ora Renzi pronuncia la battuta su "noi, che non rincorriamo le bombe altrui", che suona come un’irrisione alla Francia colpita che chiede solidarietà. Dio ce la mandi buona. Agli altri, l’ha già mandata cattiva, cattivissima. Obama non cambia strategia: "Contro l’Isis lavoriamo con Ankara" di Luca Celada Il Manifesto, 8 dicembre 2015 Nessuna modifica alle linee guida contro il terrorismo jihadista. In piedi, dietro ad un podio posto al centro dello studio ovale, Obama si è rivolto alla nazione in un discorso "straordinario". Una scenografia progettata per proiettare soprattutto l’immagine di un comandante in capo "sul ponte di commando" dopo i caotici reportage che per una settimana dalla California hanno trasmesso la sensazione opposta. In un discorso moderato, specie alla luce dell’effetto francese sull’Europa, il presidente americano ha ribadito il conflitto con Isis ma ha nuovamente respinto la narrazione della guerra all’islam - i concetti di un Obama pensiero che sono tuttavia parsi logori, e un pallido riflesso del suo discorso al Cairo - sei anni e una vita fa. Obama ha parlato per poco meno di un quarto d’ora ufficializzando definitivamente la strage di San Bernardino come fatto di terrorismo islamico e ricordando che gli Stati uniti "sono in guerra coi terroristi sin dall’11 settembre 2001". Da allora, ha proseguito il presidente, intelligence e national security hanno "prevenuto e sventato innumerevoli complotti terroristi". Ma San Bernardino ha spiegato Obama, in quanto frutto di apparente "radicalizzazione volontaria", rientra in una tipologia più insidiosa, specie perché in questo caso ha adottato il mass shooting, le stragi di inermi che sono "troppo comuni nella nostra società". Il presidente ha quindi nuovamente polemizzato con la lobby delle armi: "quale possibile argomento potrebbe permettere ad un sospetto terrorista di acquistare un’arma semiautomatica?" si è chiesto, invocando ancora una volta una battaglia destinata probabilmente a rimanere invincibile. Accusato il colpo jihadista al cuore della America, Obama ha comunque ribadito che gli Stati uniti saranno in grado di sconfiggere il "cancro dell’estremismo". Il "piano" in quattro punti che ha poi esposto non contiene però sostanziali nuovi elementi strategici e rimane incentrato sui bombardamenti in Siria. Truppe americane non verranno nuovamente spedite al fronte, ha puntualizzato Obama, perché questo sarebbe un regalo ai nemici: possiamo vincere, ha concluso, senza "spedire una nuova generazione di americani a combattere e morire in terra straniera". Invece ha detto il presidente "il nostro esercito continuerà a dare caccia senza tregua a terroristi in qualunque paese essi si trovino" aggiungendo che i nuovi "contributi" di Francia, Inghilterra e Germania aiuteranno ad accelerare la distruzione di Isis. Con l’ausilio di forze speciali "continueremo inoltre ad addestrare decine di migliaia di truppe anti-Isis in Siria ed Iraq" ha detto ancora il presidente, ribadendo una componente finora del tutto fallimentare della politica americana. "Dopo gli attacchi di Parigi abbiamo intensificato le operazioni di intelligence e lavoriamo con la Turchia per sigillare il confine con la Siria", un riferimento che ribadisce l’appoggio incondizionato ad Ankara e risponde indirettamente alle accuse di collusione con l’Isis mosse dalla Russia. In questo elenco l’unico elemento con un nesso ipotetico ai fatti di San Bernardino è stato l’annuncio di un possibile giro di vite sul rilascio di visti come quello avuto da Tashfeen Malik per raggiungere il marito in California. Quasi esattamente 74 prima, all’indomani dell’attacco a Pearl Harbor Roosevelt annunciava col discorso del "giorno dell’infamia" l’entrata degli Usa i una guerra che spaccava il mondo in due. Il discorso di Obama è servito a ribadire ancora una volta l’intrattabile complessità dell’attuale scenario multipolare. È stato fin troppo facile insomma per i repubblicani schernire il presidente (e di riflesso la sua ex segretario di stato Hillary Clinton) come "inefficaci". I candidati a succedergli, che hanno nella psicosi e nello stesso Isis, il loro migliore alleato elettorale, hanno offerto prevedibili proclami di guerra totale e appelli all’autodifesa armata. Donald Trump si è concentrato sulla timidezza di Obama invocando una buona volta appunto la guerra ai musulmani. Rubio e Bush hanno chiesto l’invio immediato di truppe. Un barlume, forse involontario, di ragione lo ha espresso il libertarian Rand Paul quando ha detto: "dobbiamo smettere di armare e addestrare gli alleati di Al Qaeda e Isis". Nuova cultura e nuovo Stato, l’Isis teorizzato di Chiara Cruciati Il Manifesto, 8 dicembre 2015 In un documento redatto dal teorico di Daesh, si descrivono i passi per costruire un’entità statuale. Qua sta l’errore dell’Occidente: spacciare l’Isis per un fenomeno estemporaneo e irrazionale. Lo chiamano sedicente Stato Islamico, dignità statuale non gli va riconosciuta. Eppure al-Baghdadi ha aspirazioni che vanno oltre la mera occupazione di territori. L’errore dell’Occidente sta tutto qua: spacciarlo per un fenomeno estemporaneo, irrazionale. Nato nel 2006, ha approfittato di paesi compiacenti per proliferare. Strumento per destabilizzare il Medio Oriente, questo era l’Isis per i suoi sostenitori. Ma i suoi orizzonti sono più ampi: un progetto statuale, con confini definiti e successive relazioni esterne, una burocrazia interna, un’economia propria. Lo rivela un documento pubblicato dal The Guardian, "Principi nell’amministrazione dello Stato Islamico": il teorico Abu Abdullah al-Masri descrive per capitoli i passi per fondare lo Stato. Redatto tra luglio e ottobre 2014 e paragonato dall’ex generale Usa McChrystal alla teorizzazione maoista, analizza la storia del mondo arabo da Sykes-Picot, visto come mezzo di deprivazione dei sunniti. E ne individua la "soluzione": fondere nella cultura islamica stranieri che abbracciano il califfato e nativi, ripuliti dalla presenza degli infedeli. A seguire i bisogni tipici di ogni entità statuale: apertura di fabbriche, struttura militare, sfruttamento del petrolio, uso dei media, divisione del potere tra ministeri e enti locali. Ma soprattutto l’educazione: "Lo Stato richiede un sistema di vita islamico, una costituzione coranica e un sistema che lo implementi. Non si reprima il ruolo di capacità e qualifiche, l’addestramento dell’attuale generazione all’amministrazione dello Stato". Detenuti italiani all’estero: i "prigionieri del silenzio" di Dimitri Buffa L’Opinione, 8 dicembre 2015 Il recente caso del diplomatico italiano nelle Filippine, Daniele Bosio, liberato dopo false accuse di abuso di minori derivate da assurde pretese inquisitorie di una operatrice di Ong locali oltre un anno fa, riporta alla luce il caso dei reietti italiani all’estero. I detenuti di cui ci vergogniamo e che la Farnesina abbandona a se stessi. Peraltro come di fatto è successo anche con i marò. Li chiamano i "prigionieri del silenzio". Sono i 3.309 italiani detenuti all’estero. Ma dovrebbero chiamarli i "figli della colpa". Nessuno si occupa di loro. Spesso le ambasciate e la Farnesina li scaricano fin dal giorno dell’ingresso in carcere, le famiglie sono troppo distanti e gli avvocati difensori in loco sono spesso scelti dal Mae sulla base di vecchie convenzioni che risalgono in certi Paesi anche a trent’anni fa. Quasi tutti tra i praticoni del posto. Per non dire peggio. Perché nei Paesi del Terzo Mondo, Cuba, Medio Oriente, Sud America, Asia, non è raro per qualcuno di questi malcapitati sentirsi dire sin dal primo colloquio in carcere dal legale di fiducia che "bisogna ungere il giudice" con conseguenti richieste di soldi. I numeri sono pubblicati in tre tabelle contenute nell’annuario della Farnesina nelle pagine da 163 a 165. Solo 671 italiani stanno scontando una pena definitiva mentre oltre 2602 sono in attesa di giudizio. A volte per anni. Poi ci sono quelli che aspettano l’estradizione, circa 36. I reati che la fanno da padroni nelle statistiche sono quelli per droga, più del 75 per cento di tutti gli altri. Non pochi sono quelli che credono di andare a farsi qualche canna a basso prezzo in Paesi visti come faro della civiltà, specie a sinistra, vedi Cuba, ma che poi finiscono come Giulio Brusadelli, che si è fatto quasi un anno in carcere a L’Avana, il 2014, per pochi grammi di marijuana. O, come Lorenzo Bassano, colpevole di un’incoscienza che almeno il 50 per cento degli italiani compie in viaggio all’estero: dimenticarsi la droga nella giacca in albergo. Per la statistica, il Paese dove gli italiani sono di casa in galera in Europa, area Ue, è la Germania con 1229 casi. Segue la Spagna con 444 casi. Quasi tutti trafficanti di hashish e cocaina di medio o alto livello. In Francia i detenuti italiani sono 317 e in Belgio 243. Nel resto d’Europa, area Ue, i detenuti sono 347. Fuori dalla Ue ci sono circa 161 detenuti, 118 in Svizzera e 13 in Albania ma anche in Ucraina (uno) e a San Marino (due). Montenegro (uno), Macedonia (quattro), Norvegia (uno), Bosnia (due), Principato di Monaco (sei), Russia (uno), Moldavia (quattro), Turchia (tre) sono gli altri nomi che la statistica consegna al Mae. Poi ce ne sono 425 nelle due Americhe, la maggior parte negli States, sessantotto, o in Brasile (75). Altri 50 si trovano in Argentina. Poi 36 in Colombia, 9 in Messico, 20 in Ecuador, 9 in Bolivia, 56 in Perù e 36 in Venezuela. Tutti protagonisti di traffico medio-grande di cocaina. In Africa e Medio Oriente ci sono quelli che si trovano nelle condizioni più drammatiche: 21 in Marocco, 4 in Senegal, 7 in Tunisia, 7 negli Emirati arabi uniti. Poi Asia e Oceania: 25 in Australia, 15 in Cina e 12 in Tailandia, tanto per cominciare, senza dimenticare i sei detenuti in India, tra cui i nostri eroici e incolpevoli marò, capri espiatori di una contesa internazionale che si trascina ormai da oltre quattro anni. Da segnalare anche i singoli casi, tutti per droga, degli unici detenuti italiani in Pakistan e Malesia e dei due in Indonesia. In quei Paesi ci sta anche la pena di morte per traffico di droga e a volte il semplice possesso porta a pene che vanno dai vent’anni fino all’ergastolo. In teoria ciascuno dei 3.309 italiani che per un motivo o l’altro è stato incastrato dalla giustizia internazionale dovrebbe essere un caso diplomatico, ma l’Italia per consuetudine se ne disinteressa lasciandoli al proprio destino. D’altronde, se non simo riusciti a risolvere la questione dei fucilieri di marina figuriamoci che assistenza possono avere tutti gli altri. Tunisia: terrorismo, rischio di radicalizzazione nelle carceri Ansa, 8 dicembre 2015 Le numerose operazioni antiterrorismo delle forze dell’ordine tunisine, che hanno portato a centinaia di arresti nelle ultime settimane, stanno facendo venire a galla nel Paese un altro problema, il rischio del diffondersi dell’estremismo religioso tra i detenuti. A lanciare l’allarme è Olfa Ayari, presidente del Sindacato delle guardie carcerarie e degli Istituti di rieducazione, che in un’intervista alla tv ha spiegato che la nuova legge antiterrorismo non comprende norme speciali per quanto riguarda la collocazione in carcere dei detenuti arrestati per terrorismo, cosicché spesso essi vengono messi nelle stesse celle dei condannati per reati comuni. L’attività di proselitismo da parte di associazioni religiose estremiste, che avrebbe portato alla radicalizzazione di centinaia di detenuti tunisini, pronti una volta liberi a partire per i territori di combattimento del Jihad o a compiere attentati in patria, è già stata documentata in numerose carceri del Paese, specie tra il 2012 e il 2013. Anche il giornalista Jamel Arfaoui denuncia infiltrazioni nel sistema penitenziario e chiede al premier Habib Essid l’apertura di un’inchiesta su alcune irregolarità palesi verificatesi in passato anche a proposito di "evasioni facili" da parte di alcuni detenuti. "Dopo il recente attentato al bus delle guardie presidenziali a Tunisi - ha affermato il giornalista - un detenuto per reati comuni ha espresso la sua solidarietà alle vittime ed è stato violentemente picchiato da altri detenuti jihadisti in carcere per reati legati al terrorismo". Secondo Arfaoui, nel carcere di El Mornaguia i jihadisti dettano ormai legge. Olfa Ayari e Jamel Arfaoui hanno chiesto un intervento del presidente della Repubblica e del premier proponendo la messa in sicurezza degli istituti penitenziari e chiedendo l’isolamento per i detenuti legati a reati di terrorismo. Per sue denunce pubbliche Olfa Ayari è stata convocata dalla magistratura tunisina. Libia: processo a Saadi Gheddafi aggiornato a febbraio, accusato di omicidio di dissidenti Ansa, 8 dicembre 2015 La Corte d’assise di Tripoli ha aggiornato al 7 febbraio 2016 il processo a Saadi Gheddafi, il terzogenito dell’ex leader libico, detenuto nella prigione di al-Hadba con l’accusa di aver represso nel sangue i dissidenti del regime, prendendo parte attiva nelle uccisioni dei manifestanti nelle proteste di fine 2011, e di essere implicato nell’omicidio nel 2005 di un ex calciatore libico. Lo riferiscono i media libici. Tripoli lo accusa anche di presunta appropriazione indebita tramite la forza e l’intimidazione armata quando era a capo della Federazione libica di calcio. Rischia la pena di morte. Saadi, 42 anni, è comparso ieri, richiuso in una gabbia e vestito con l’uniforme blu dei detenuti davanti al giudice, che ha deciso di aggiornare il processo per ulteriori indagini. Fu estradato dal Niger nel marzo del 2014 e condotto in un penitenziario di Tripoli, dove si trovano anche altre figure di spicco del regime. Human Rights Watch che ha avuto con lui un incontro il 15 settembre scorso ha denunciato che il figlio del rais viene tenuto in isolamento in una cella senza finestre e sottoposto a violazioni dei suoi diritti legali.