Le riforme che (forse) non avremo mai di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 7 dicembre 2015 Un governo che in Italia provi a fare certe riforme si espone a un rischio quasi sicuro: quello di perdere le elezioni. Da noi assai più che altrove dato il tipo di compenetrazione tutta particolare che si è stabilita tra lo Stato e la società. Il governo Renzi mi pare esserne consapevole, e infatti si regola di conseguenza. Quando dico certe riforme intendo quelle che dovrebbero cercare di cambiare il modo d’essere e/o di funzionare di alcuni ambiti e di alcune legislazioni che rappresentano vere e proprie criticità in cui ci dibattiamo da decenni, ma che sono sempre lì come altrettante insuperabili colonne d’Ercole della nostra vita collettiva, o che lo stanno ormai diventando. Penso ad esempio all’organizzazione e al funzionamento della pubblica amministrazione e alla sua super-blindatura costituita dal contratto del pubblico impiego; penso alla fitta rete di tutele legislative di cui godono i gruppi più vari (farmacisti, tassisti, notai, ordini professionali di ogni genere, ma anche aziende e rami di attività economica), all’organizzazione della magistratura e della giustizia, alla legislazione sugli appalti e sulla spesa pubblica che con i mostruosi percorsi a ostacoli che prevede sembra fatta apposta per conferire un enorme potere di blocco e di ricatto alla burocrazia e alla politica; penso al sistema fisiologico e diffuso dappertutto degli sperperi più incredibili. Ma penso anche a riforme meno clamorosamente urgenti ma assolutamente necessarie, quali per esempio quella dei programmi scolastici, fermi a una stagione ideologica ormai tramontata, ovvero alla riforma altrettanto urgente negli studi universitari del sistema di laurea del tre+due, rivelatosi una vera catastrofe. Come si vede, si tratta di riforme che però presentano elettoralmente uno o l’altro di questi due gravi aspetti negativi: o colpiscono nel proprio personale interesse vasti gruppi di ceto medio, forti, oltre che della loro quota di voti, di ramificate influenze sociali e di una conseguente capacità di ritorsione e di boicottaggio; ovvero di riforme che spaccano ideologicamente l’opinione pubblica. O che fanno talvolta le due cose insieme. Appare del tutto logico, quindi, che in vari decenni nessun esponente politico si sia voluto bruciare cimentandosi con esse. Pur essendo tutti perfettamente consapevoli che proprio tali riforme sono quelle che davvero servirebbero per rimettere in moto l’Italia su basi nuove, che solo tali riforme farebbero voltare davvero pagina al Paese. Anche Renzi, ahimè, a dispetto del suo empito attivistico-oratorio-riformistico, sembra intenzionato a tenersi lontano dalle materie elettoralmente scottanti. Basta considerare le principali misure finora adottate o messe in cantiere dal suo governo. Escludendo evidentemente le misure che in realtà costituiscono esborso di quattrini e/o agevolazioni economiche di varia entità e destinazione (bonus, abolizione delle tasse sulla casa e dell’Imu agricola, sblocco dei cantieri fermi, eccetera), sono tre le riforme propriamente dette, avviate o compiute dal governo attuale: il Jobs act, la riforma del Senato, la riforma della legge elettorale. Quanto al primo provvedimento, esso innova sì ma non colpisce alcun interesse costituito, dal momento che o migliora le condizioni contrattuali già in vigore o si applica a contratti di lavoro che vedono la luce solo dopo la sua entrata in vigore. La riforma del Senato, dal canto suo, ha aperto sì un contenzioso violentissimo, ma tutto interno al ceto politico: la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica, infatti, è largamente indifferente o vede con favore la fine del bicameralismo. Lo stesso, o quasi, può dirsi della progettata riforma della legge elettorale: se ne appassionano moltissimo i parlamentari (che a ragione vi vedono scritto il loro destino) ma sì e no un paio di milioni di elettori politicizzati; a tutti gli altri essa interessa poco o nulla. In complesso, insomma, si tratta di riforme che pur oggettivamente importanti, tuttavia si presentano come elettoralmente innocue o destinate quasi sicuramente a favorire la linea governativa. È così che dopo circa due anni l’Italia renziana appare ancora, per gran parte, l’Italia corporativa, taglieggiatrice e classista di sempre, con il suo Stato burocratico, anchilosato e intellettualmente torpido. L’Italia incapace di smantellare strutture soffocanti, di abolire leggi inutili o nocive, di cancellare privilegi, di immettere un largo e spregiudicato soffio rinnovatore nel suo vecchio, troppo vecchio, organismo. E ciò accade, paradossalmente, proprio quando essa è guidata dal gruppo dirigente più giovane e apparentemente dinamico della sua storia. Il quale, però, sembra diventato tanto cautamente accorto oggi, nel gestire il potere, quanto fu invece coraggiosamente audace a suo tempo allorché si trattò di conquistarlo. Le nostre paure vecchie e nuove al tempo della crisi di Maurizio Fiasco Il Sole 24 Ore, 7 dicembre 2015 Alla ricerca di una chiave esplicativa, sempre evocata per un tema caldo qual è la criminalità, ci si chiede come la lunga crisi economica e il clima di minaccia terroristica sull’Europa condizionino l’agire dei delinquenti. Accade che un fenomeno proteiforme e non nitido, qual è appunto l’insieme delle violazioni delle norme penali, sia fatto oggetto di giudizi sommari d’insieme: fondati su "eziologie" ingenue (e spesso banali). Anche le congiunture di economia, finanza, salute e occupazione sono disinvoltamente richiamate quando intervengono "variabili" di contesto di gran rilievo: gli attentati in altri Paesi, le tensioni geopolitiche, "ondate" immigratorie e di rifugiati. Insomma, le attese frustrate di reddito da imprese, la disoccupazione, l’estendersi dei disagi da reddito privato insufficiente, la dilatazione della povertà confluiscono - nella loro interazione simbolica - in una preoccupazione sociale di insicurezza, nelle strade, nelle abitazioni e nelle botteghe. Facile tracciare un legame lineare di causa ed effetto tra lo scenario di contesto e l’insicurezza urbana per la criminalità. Sono interrogativi da non scartare. Perché, a ben osservare, un parziale cambiamento morfologico della criminalità constatata è documentato. Nelle strade la rafforzata visibilità "fisica" di agenti e militari in divisa influisce nel determinare il calo statistico dei casi di furti d’auto, scippi e rapine (queste ultime risultano di un decimo meno frequenti che nel 2013). Tale fattore è invece trascurabile per i borseggi (che infatti aumentano di numero, +8%), e per i furti negli appartamenti e nelle botteghe (saldo attivo per un paio di punti). Si tratta di delitti non appariscenti, commessi con modalità soft, in silenzio. Diversa è l’interpretazione da formulare per le estorsioni denunciate (più 19,4 punti): senza un reclamo attivo della vittima non se ne saprebbe nulla. La relazione con il servizio di polizia è fondamentale affinché la parte offesa permetta di contrastare sia l’imposizione di una mancia "obbligata" in un parcheggio sia il ricatto malavitoso rivolto alle aziende locali. Paradossalmente questo dato può significare invece un rafforzato controllo sociale e una certa efficacia repressiva. In prevalenza, infatti, le denunce per estorsione sono corredate dall’indicazione del presunto autore del reato. Tra tutte le informazioni statistiche a disposizione, quella che si allontana di meno dai fenomeni reali riguarda il numero di omicidi. Il margine dei casi non registrati nei rapporti di polizia è molto ridotto. Anche se bastano pochi eventi sfuggiti alla constatazione (cioè all’azione penale) per costruire un problema molto grave. Qui l’allarme si concentra su una tipologia che non accenna a declinare in modo netto: gli omicidi nei contesti familiari o le violenze estreme consumate dal partner maschile in una coppia. Le immagini che si fissano nell’opinione pubblica contribuiscono talvolta a un pervasivo sentimento d’insicurezza (anche per il rinforzo arrecato da trasmissioni televisive seriali). Gli autori di reati si muovono nei vari territori provinciali, alla costante ricerca dei bersagli dove la remuneratività del bottino trova un punto di equilibrio con la difficoltà di compiere il reato stesso. Quantunque in gran parte spontaneo, infatti, il fenomeno criminale possiede una sua razionalità: se il rischio di subire la repressione, o la fatica per mettere a segno un colpo sono superiori alla "ricompensa", in genere l’autore desiste o rinvia. Di qui, va sottolineato, l’importanza della "prevenzione situazionale", ovvero della metodologia per elevare le difficoltà di compimento dei reati anche con una gestione attenta dell’impresa e dell’abitazione domestica. Quel che invece le statistiche non documentano se non in minima parte è la frequenza dei veri danni collaterali della perdurante stagnazione economica. Proprio nelle fasi recessive, la letteratura criminologica indica l’inflazione (silenziosa) di reati contro l’impresa e di reati di tipo economico (corporate fraud, bancarotte, truffe, fallimenti provocati ad arte, vessazioni finanziarie o creditizie) come un tratto ricorrente. Esiste (ripetiamo, scarsamente documentata) una devianza dall’alto (facile il riferimento al caso Volkswagen), che Edwin Sutherland analizzò negli anni della Grande Crisi negli Stati Uniti, consegnandoci quel capolavoro della letteratura criminologica che è White Collar Crime. Senza riforma e formazione l’anticorruzione rimane sulla carta di Gaetano Scognamiglio Il Sole 24 Ore, 7 dicembre 2015 Qual è l’efficacia concreta della normativa anticorruzione? Una domanda per molti versi simile se la sono posta qualche giorno fa sul versante privato autorevoli rappresentanti delle istituzioni e professionisti di fama, in una tavola rotonda su "La nuova compliance aziendale, costo o valore?" che ha affrontato criticamente gli effetti collaterali e negativi del Dlgs 231/2001 sulle imprese. Analoghe verifiche è opportuno fare sugli effetti della normativa anticorruzione per le Pa, nelle quali è sensazione diffusa che le nuove regole rappresentino un ulteriore - ennesimo - adempimento, i cui costi nascosti nelle pieghe dei bilanci considerato che la legge prevede che l’applicazione avvenga senza nuovi oneri. Che le nuove regole abbiano prodotto principalmente carta è affermato con chiarezza dall’Anac, che nell’aggiornamento del piano triennale anticorruzione traccia un quadro realistico di una situazione in cui "la qualità dei piani triennali di prevenzione della corruzione delle (1911) amministrazioni prese in esame è generalmente insoddisfacente". Si è verificato quello che molti temevano dall’applicazione di una legge approvata, al pari di altre, da un legislatore troppo spesso preoccupato di placare gli umori dell’opinione pubblica con nuove regole spesso ridondanti, nella fattispecie con l’aggravante di norme uguali per la grande amministrazione come per il Comune da 100 abitanti. Questa incapacità di prevedere adempimenti proporzionali alle dimensioni dei destinatari si è riflessa, come riconosce l’Anac, nella "conseguenza che le strategie di prevenzione della corruzione si sono trasformate in mero adempimento". Il che è evidente nella carenza dell’analisi del contesto esterno e interno, non adeguata secondo l’Anac, rispettivamente nel 96,5% e nel 73,9% dei casi. Carenza che denota l’impossibilità per la stragrande maggioranza degli enti di approntare piani triennali personalizzati, utilizzando invece piani preconfezionati o semplicemente copiati dal vicino, nel "sostanziale disinteresse degli organi di indirizzo". Alcuni di questi problemi potranno essere risolti con la delega prevista dalla legge 124/2015 per semplificare le norme anticorruzione. Rimangono da risolvere tre aspetti: 1) nemmeno il più illuminato dei legislatori potrà rendere vivente la migliore norma anticorruzione in mancanza di un processo culturale di accompagnamento e quindi di una formazione personalizzata; 2) la complessità della normativa impone che a livello operativo siano ingegnerizzate le procedure attuative, collegando le azioni del responsabile anticorruzione a quelle dei referenti e monitorando le azioni; 3) va superata la clausola di invarianza finanziaria che, dettata da ovvie esigenze di contenimento della spesa pubblica, nasconde però una grande ipocrisia. Come i compliance plans hanno un costo nel privato, così evidentemente lo hanno anche nel pubblico. Se si crede veramente alla necessità di diffondere una cultura e una pratica di prevenzione della corruzione, bisogna fornire nel futuro in modo chiaro e trasparente i mezzi per farvi fronte e non affidarsi all’italianissima soluzione di arrangiarsi. Magistrati, è caos sui pensionamenti Silvia Barocci Il Messaggero, 7 dicembre 2015 Il rischio, più concreto che mai, è di innescare un effetto domino che nel giro di poco tempo vanificherà la riforma Renzi sul taglio dell’età pensionabile dei magistrati da 75 a 70 anni. Un altro ricorso al Capo dello Stato, il quinto, ha infatti ottenuto un parere favorevole del Consiglio di Stato: Carminantonio Esposito, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli, ha incassato da Palazzo Spada la sospensione del suo collocamento a riposo dal primo di gennaio prossimo. Stessa motivazione fotocopia già firmata per altri quattro magistrati, tra i quali l’ex segretario dell’Anm Mario Cicala. La decisione ha creato sconcerto e irritazione al Csm e al Ministero della Giustizia, ora alle prese con la non facile (e non breve) partita delle impugnazioni e dei controricorsi. Ma ha anche rinfocolato polemiche e sospetti tra gli stessi consiglieri di stato, gli unici di fatto esclusi dalla mini proroga sull’abbassamento dell’età pensionabile concessa ai magistrati ordinari e a quelli contabili. Chi aveva lanciato l’allarme per il rischio che l’alto numero di pensionamenti avrebbe inceppato la giustizia amministrativa era stato l’ultimo presidente del Consiglio di Stato, Giorgio Giovannini, dimessosi per protesta lo scorso settembre, con tre mesi di anticipo. Da allora il suo posto è vacante. Sarà una coincidenza, ma la corsa allo scranno più alto di palazzo Spada sembra essersi aperta improvvisamente. La richiesta ufficiale da Palazzo Chigi di una rosa di cinque nomi tra i quali il governo sceglierà il futuro presidente è infatti arrivata all’indomani del controverso parere sui pensionamenti dei magistrati. La rosa dei cinque, che rompe la prassi secondo cui il presidente viene scelto tra il più anziano in carica, sarà stilata tra un paio di settimane e dovrebbe comprendere, in ordine di anzianità, Stefano Baccarini, Sergio Santoro, Alessandro Pajno, Raffaele Carboni e Filippo Patroni Griffi. Il provvedimento. La decisione di sospendere il pensionamento delle cinque toghe viene motivata, testualmente, dalla seconda sezione del Consiglio di Stato con la necessità che il ministero della Giustizia e il Csm forniscano la documentazione necessaria per valutare "l’incidenza sulla funzionalità dell’ufficio ricoperto". Ma, a ben vedere, altre sezioni del Consiglio di Stato - in particolare la IV e la VI - non hanno mai preso in considerazione simili argomentazioni e hanno sempre rigettato analoghi ricorsi proposti da magistrati, professori universitari o avvocati dello Stato. Di qui il malumore di molti consiglieri rispetto al parere che porta la firma del presidente della seconda sezione, Sergio Santoro. Lui, già capo dell’Autorità di vigilanza sugli appalti, poi inglobata dall’Anac di Raffaele Cantone, interpellato in proposito si limita a dire: "dal momento che per la copertura dei posti vacanti trascorrono mediamente otto mesi, il ministero dovrà spiegarci se la mancanza di un titolare pone un problema di funzionalità dell’ufficio". Al ministero della Giustizia non la vedono affatto così e, tra le varie ipotesi, stanno valutando anche il ricorso in Cassazione per avvenuta disapplicazione della legge. Il Csm, nel plenum di mercoledì, delibererà la trasposizione dei reclami in sede giurisdizionale, dinanzi al Tar. Ma i tempi non saranno brevi. Nel frattempo si rischia il caos. Gabrielli: "Terrorismo minaccia globale. L’8 dicembre al top per rischi sicurezza" Il Sole 24 Ore, 7 dicembre 2015 La minaccia terroristica sul Giubileo è "globale, indiscriminata e indistinta". Non usa mezzi termini, il prefetto di Roma Franco Gabrielli. Intervistato a "In 1/2h" su Raitre precisa: "Sono sereno per un verso, preoccupato per l’altro, ma da un punto di vista etimologico, nel senso che ce ne siamo occupati prima. Ci siamo preparati, abbiamo fatto i compiti a casa, la differenza poi la fa il campo". L’8 dicembre rischi al top per sicurezza. Dal punto di vista della pianificazione dell’Anno Santo, sottolinea Gabrielli, "abbiamo ipotizzato 20 tipi di eventi problematici" con una presenza di persone variabile da 30mila a 300mila. "Quello dell’8 dicembre (quando con l’apertura della Porta Santa si inaugurerà l’Anno Santo, ndr) è nel nostro ranking al numero 2, mentre dal punto di vista della sicurezza è il top", al livello 4, ribadisce il prefetto. In campo già da oggi ci sono dunque 2.250 militari, che si aggiungono al migliaio di addetti alle forze dell’ordine normalmente impegnati a Roma. In caso di minaccia immediata tandem Alfano-Gabrielli. Il prefetto chiarisce la catena di comando in caso di attentati nella Capitale: "Il commissario straordinario di Roma Tronca ha la responsabilità dell’amministrazione della città fino a elezioni e con la sicurezza non ha nulla a che vedere. Palazzo Chigi e il Viminale hanno sul territorio un terminale che è il prefetto". Quindi "in prima battuta tutte le decisioni sia di anti terrorismo che di protezione civile fanno capo al prefetto, se la situazione assume un profilo particolare di pericolosità tutto viene assunto al Viminale". E se ci fosse la necessità di ordinare un’evacuazione? "Nella fase decisiva sul territorio sta al prefetto", puntualizza Gabrielli". Negli ospedali 300 posti letto "preservati" per crisi. La Capitale, insomma, è pronta. "Tutti e 12 i pronto soccorsi previsti sono operativi per l’8 dicembre, negli sono stati riservati 300 posti letto per situazioni di crisi, e sono state allertate anche le strutture sanitarie e ospedaliere militari", assicura Gabrielli. Che rimarca però l’esigenza di una collaborazione strettissima con i cittadini: su migliaia di moduli distribuiti dal 1° novembre dalle forze dell’ordine (in alberghi, navi e treni) per coinvolgere la cittadinanza e sapere dove i turisti alloggiano ("Una criticità di Roma è l’abusivismo alloggiativo", nota il prefetto) "solo in 53 hanno risposto: questo dà il senso del problema". Tenuità del fatto: le soluzioni della Cassazione per applicare il nuovo istituto di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 7 dicembre 2015 L’articolo 1, comma 1, lettera m), della legge 28 aprile 2014 n. 67 ha conferito delega al Governo per "escludere la punibilità di condotte sanzionate con la sola pena pecuniaria o con pene detentive non superiori nel massimo a cinque anni, quando risulti la particolare tenuità dell’offesa e la non abitualità del comportamento, senza pregiudizio per l’esercizio dell’azione civile per il risarcimento del danno e adeguando la relativa normativa processuale penale". La delega, dopo il prescritto passaggio alle Camere, è stata esercitata con il decreto legislativo 16 marzo 2015 n. 28. La norma sulla tenuità del fatto - La norma fondamentale è quella contenuta nell’articolo 131-bis del Cp, introdotto con il decreto legislativo n. 28 del 2015, che in ossequio alle indicazioni di delega, configura la possibilità di definire il procedimento con la declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto relativamente ai reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla pena detentiva, avendo riguardo all’offesa cagionata [che deve essere di "particolare tenuità" e va desunta dalle modalità della condotta e dall’esiguità del danno o del pericolo] e al comportamento tenuto [che non deve risultare "abituale"]. I punti principali della normativa - In questa sede si affrontano le principali questioni su cui già è intervenuta la giurisprudenza di legittimità, le cui indicazioni possono costituire guida e indirizzo per l’applicazione dell’innovativo istituto. Per inquadrare il tema, è utile qui riportare la normativa principale di riferimento. L’istituto della particolare tenuità del fatto trova la sua disciplina sostanziale nell’articolo 131-bis del Cp, laddove il relativo apprezzamento è correlato all’offesa [che deve essere di "particolare tenuità" e va desunta dalle modalità della condotta e dall’esiguità del danno o del pericolo] e al comportamento [che non deve risultare "abituale"]. Dal punto di vista procedurale, l’articolo 131-bis del Cp è la norma di riferimento allorquando la decisione liberatoria intervenga dopo l’esercizio dell’azione penale. Non a caso la norma trova la sua collocazione in apertura del titolo V del Libro I del codice penale, subito prima degli articoli concernenti l’esercizio del potere discrezionale del giudice nell’applicazione della pena. In realtà, la causa di non punibilità può essere applicata anche durante la fase delle indagini. Anzi, l’utilizzo dell’istituto in tale fase soddisfa al meglio l’esigenza di alleggerimento del carico giudiziario [si veda la relazione di accompagnamento]. Nell’articolo 411 del Cpp, infatti, nel nuovo comma 1-bis, è contenuta la disciplina dell’archiviazione "per la particolare tenuità del fatto", la cui peculiarità, come si vedrà, è rappresentata dall’interlocuzione dell’indagato e della persona offesa che possono censurare nel merito la richiesta di archiviazione. L’interlocuzione non è invece espressamente prevista dopo l’esercizio dell’azione penale, né in sede di udienza preliminare, né in sede dibattimentale, giacché in tali fasi è già aliunde garantito il contraddittorio pieno. Anche nel caso in cui la decisione intervenga prima dell’esercizio dell’azione penale, con l’archiviazione, i presupposti sostanziali di applicazione sono rinvenibili nell’articolo 131-bis del Cp, che quindi è la norma fondamentale che fonda i presupposti e i limiti dell’istituto, quale che sia la fase procedimentale. Non punibilità e offensività del fatto - In premessa, vale piuttosto osservare [in tal senso, è molto chiara anche la relazione di accompagnamento] che l’applicabilità dell’istituto presuppone pur sempre e necessariamente un fatto "non inoffensivo". Il giudizio sull’irrilevanza del fatto pretende, infatti, che sia risolta positivamente la valutazione sulla sussistenza, nella fattispecie esami­nata, di una condotta ascrivibile in una fattispecie criminosa, perfetta in tutti i suoi elementi costituti­vi, oggettivi e soggettivi, e concretamente punibile; in particolare, per essere rimasta esclusa l’applicabi­lità della disciplina del reato impossibile (articolo 49 del Cp), per inidoneità assoluta della condotta a ledere l’interesse tutelato dalla norma. Detto altrimenti, l’istituto dell’irrilevanza per particolare tenuità presuppone un fatto tipico, costitutivo di reato e offensivo dell’interesse tutelato, ma da ritenere non punibile in ragione dei principi generalissimi di proporzione e di economia processuale che stanno alla base del decreto legislativo. Ciò è reso palese dalla formulazione letterale della norma, laddove si richiama l’offensività del fatto [che quindi non può essere ricondotto all’articolo 49 del Cp ], ricollegandosi la punibilità [solo] alla modestia dell’offesa ["di particolare tenuità"]. Questa conclusione è confermata dal fatto che anche l’archiviazione per la riconosciuta particolare tenuità del fatto produce conseguenze giuridiche sfavorevoli, come attestato dalla prevista iscrizione del relativo provvedimento nel casellario giudiziale (articolo 3, comma 1, lettera f), del Dpr 14 novembre 2002 n. 313); con effetti principalmente ai fini dell’apprezzamento dell’"abitualità" ostativa all’applicazione del nuovo istituto. Inoltre, è proprio per le medesime ragioni che è stata introdotta una interlocuzione con l’indagato, nel caso in cui il pubblico ministero intenda richiedere l’archiviazione per la particolare tenuità del fatto, così da consentirgli, mediante l’opposizione, di far valere le ragioni che dovrebbero piuttosto condurre a una decisione liberatoria nel merito. Il principio della "offensività" necessaria del fatto ritenuto "lieve" è pacifico e non controvertibile. È allora utile richiamare, a conforto, una recente sentenza della Cassazione, sezione III, 7 luglio 2015, n. 38364, Di Salvia, che affrontando la questione della "offensività" in concreto della condotta di coltivazione di piante da sostanza stupefacente, ha affermato che, [solo] dopo il vaglio positivo della "offensività" della condotta incriminata, è possibile porsi in presenza di un fatto di coltivazione "modesto" la questione della possibile applicabilità dell’istituto di cui all’articolo 131-bis del Cp, in presenza ovviamente dei relativi presupposti. I rapporti con la particolare tenuità davanti al giudice di pace. Sempre in premessa, va altresì ricordato che l’istituto della "esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto" rappresenta l’estensione al processo ordinario dell’istituto, tipico del procedimento penale davanti al giudice di pace, della particolare tenuità del fatto, quale causa di improcedibilità disciplinata dall’ articolo 34 del decreto legislativo 28 agosto 2000 n. 274. Istituto, peraltro, già conosciuto nel processo penale minorile, laddove è prevista la sentenza di non luogo procedere per irrilevanza del fatto, correlata alla tenuità del fatto e alla occasionalità del comportamento (articolo 27 del Dpr 22 settembre 1988 n. 448). In proposito, la giurisprudenza, proprio prendendo atto della specificità della disciplina configurata nel procedimento penale davanti al giudice di pace, ha espressamente escluso che, in tale sede, possa trovare applicazione la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto, proprio perché prevista esclusivamente per il procedimento davanti al giudice ordinario (sezione IV, 14 luglio 2015, n. 31920, Marzola ). A supporto si valorizza il rilievo obiettivo che si tratta di istituti diversi, disciplinati in maniera non coincidente. Del resto, ciò è stato frutto di una scelta del legislatore, risultando dalla Relazione di accompagnamento al decreto legislativo n. 28 del 2015 che non sono state accolte le sollecitazioni in tal senso della Commissione giustizia della Camera dei deputati sul rilievo che l’invocata attività di coordinamento sarebbe stata estranea alle indicazioni della legge delega. Nel processo davanti al giudice di pace, come è noto, viene attribuito al giudice il potere-dovere di chiude­re il procedimento, sia prima che dopo l’esercizio dell’azione penale, quando il fatto incriminato risulti di particolare tenuità, rispetto all’interesse tutelato, e tale per l’effetto da non giustificare l’esercizio o la prosecuzione dell’azione penale. L’apprezzamento della particolare tenuità deve essere operato avendo riguardo "congiuntamente" all’esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato per l’interesse tutelato dalla norma, all’"occasionalità" della condotta incriminata e al grado della colpevolezza, dovendosi comunque considerare la posizione della persona sotto­posta a indagini o dell’imputato, sotto il profilo del possibile pregiudizio che dall’ulteriore corso del procedimento gliene può derivare, con specifico riguardo alle sue esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute. Si tratta di istituto, quindi, diverso e non coordinato con quello di cui all’articolo 131-bis del Cp, difettando qualsivoglia indicazione normativa che legittimi l’applicabilità di quest’ultimo davanti al giudice di pace. E ciò tacendo delle significative differenze che caratterizzano la disciplina dei due istituti, che riguardano, in primo luogo, la differente valenza della "occasionalità" della condotta, considerata dall’articolo 34 citato, rispetto alla "non abitualità" del comportamento di cui all’articolo 131-bis del Cp; e, in secondo luogo, il diverso ruolo di interlocuzione attribuito alle parti, laddove, in particolare, nel procedimento ex articolo 34 citato, dopo l’esercizio dell’azione penale, l’opposizione della persona offesa (e/o dell’imputato) impedisce di pronunciare la sentenza di non doversi procedere, mentre l’istituto previsto dall’articolo 131-bis del Cp, invece, non prevede alcun vincolo procedurale conseguente al dissenso delle parti; salvo che nella particolare ipotesi di cui all’articolo 469 del Cpp, dove l’opposizione del pubblico ministero o dell’imputato (ma non della persona offesa, che va solo sentita, se compare) impedisce che il processo possa essere definito in sede predibattimentale. La Cassazione, nella citata sentenza Marzola, pur escludendo l’applicabilità del nuovo istituto davanti al giudice di pace, osserva che, per converso, l’irrilevanza del fatto ex articolo 34 può dover essere applicata anche dal giudice ordinario, giacché tale disposizione si applica non solo davanti al giudice di pace, ma anche davanti al giudice diverso da quello di pace nei casi di cui all’articolo 63 del decreto legislativo n. 274 del 2000 (si veda sezione IV, 1° marzo 2006, Crosio). Soglie alcolemiche: per determinare il loro superamento validi anche i centesimi di litro di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 7 dicembre 2015 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 14 ottobre 2015 n. 41225. Ai fini dell’apprezzamento del superamento delle diverse soglie alcolemiche rilevanti per l’integrazione delle diverse ipotesi previste rispettivamente nelle lettere a), b) e c) dell’articolo 186 del codice della strada rilevano anche i centesimi di litro e non solo i decimi di litro: pertanto, la constatazione di un tasso alcolemico pari a 1,56 grammi/litro integra l’ipotesi più grave di cui alla lettera c): tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi/litro. Lo hanno ribadito i giudici penali della Suprema corte con la sentenza n. 41225 del 2015. La fattispecie contravvenzionale - Si tratta di un’affermazione pacifica nella giurisprudenza di legittimità. Il legislatore, nel costruire la fattispecie contravvenzionale prevista dall’articolo 186 del codice della strada (decreto legislativo 30 aprile 1992 n. 285), con la novella riformatrice di cui al decreto legge 7 agosto 2007 n. 117, convertito dalla legge 2 ottobre 2007 n. 160, ha inteso introdurre un differenziato trattamento sanzionatorio a seconda del valore del tasso alcolemico riscontrato e ciò ha fatto attraverso la costruzione di tre distinte fattispecie (previste rispettivamente dalle lettere a), b) e c) del comma 2 del citato articolo 186 ; di cui la prima ora depenalizzata), rispetto alle quali l’indicazione delle singole soglie alcolemiche con riferimento a una sola cifra decimale non significa affatto l’irrilevanza della seconda (vale a dire dei centesimi di grammo/litro). Una interpretazione in linea con la norma - Una diversa interpretazione sarebbe infatti contraddittoria rispetto alla intenzione del legislatore, sottesa all’intervento riformatore, di arginare il fenomeno della guida in stato di alterazione correlata all’assunzione smodata di alcolici, e finirebbe, in modo altrettanto contraddittorio, con l’innalzare i valori soglia di un decimo di grammo/litro per ciascuna delle fattispecie incriminatrici di cui alle lettere a), b) e c) (si vedano, tra le altre, sezione IV, 16 ottobre 2013, Ferrari; sezione IV, 4 marzo 2010, Proc. Rep. Trib. Pordenone in proc. Saccon, che, quindi, accogliendo il ricorso del pubblico ministero, ha annullato la decisione con la quale il giudice aveva invece sostenuto l’irrilevanza dei centesimi di litro e, per l’effetto, aveva ritenuto che il valore alcolemico di 1,51 grammi/litro non avesse superato la soglia di 1,5 grammi/litro stabilita per la configurabilità della fattispecie incriminatrice più grave di cui alla lettera c), dell’articolo 186; anche sezione IV, 7 luglio 2010, Fioretto). Del resto, a conforto di tale interpretazione vale l’ulteriore rilievo che, all’atto dell’adozione della normativa de qua gli strumenti di misurazione esprimevano indicazioni in termini di centesimi di grammo, onde non vi è alcun dato razionale che possa indurre a ritenere che il legislatore, attraverso la sola indicazione della seconda cifra decimale, abbia voluto approssimare ai soli decimi di grammo/litro le indicazioni che gli strumenti di misurazione esprimono in centesimi (sezione IV, 14 ottobre 2010, Proc. Rep. Trib. Asti in proc. Vacanio, che, quindi, in una fattispecie in cui le misurazioni erano state di 0,81 e di 0,89 grammo/litro, superiori alla misura limite di 0,8 grammo/litro, ha ritenuto che correttamente era stata contestata l’ipotesi incriminatrice di cui alla lettera b) dell’articolo 186 del codice della strada, e non quella di cui alla lettera a) impropriamente ravvisata dal giudice). La causa d’esonero scatta se il medico allega le linee guida che ha seguito di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 7 dicembre 2015 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 9 ottobre 2015 n. 40708. In tema di responsabilità medica, ai fini dell’applicazione della causa di esonero da responsabilità prevista dall’articolo 3 della legge 8 novembre 2012 n. 189, il medico che sostenga di avere rispettato le regole di diligenza e i protocolli ufficiali deve allegare le linee guida alle quali egli ha conformato la propria condotta, ai fini della verifica della loro correttezza e scientificità. Lo ha chiarito la Cassazione con la sentenza n. 40708 depositata lo scorso 9 ottobre dai giudici della quarta sezione penale. Infatti, soltanto nel caso di linee guida conformi alle regole della miglior scienza medica è possibile utilizzare le medesime come parametro per l’accertamento dei profili di colpa ravvisabili nella condotta del medico e attraverso le indicazioni dalle stesse fornite sarà possibile per il giudicante valutare la conformità a esse della condotta del medico al fine di escludere profili di colpa. La responsabilità professionale del medico - Come è noto, in tema di responsabilità professionale del medico, la nuova normativa introdotta dall’articolo 3 della legge 8 novembre 2012 n. 189, secondo cui "l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve", ha parzialmente decriminalizzato le fattispecie incriminatrici colpose di cui agli articoli 589 e 590 del Cp, con conseguente applicazione dell’articolo 2 del Cp. In caso di colpa lieve - L’innovazione esclude, infatti, la rilevanza penale delle condotte connotate da colpa lieve, che si collochino all’interno dell’area segnata da linee guida o da virtuose pratiche mediche, purché esse siano accreditate dalla comunità scientifica. Sul punto qui la Cassazione precisa che il medico che voglia invocare la disciplina di favore ha l’onere di allegare le linee guida che assume avere ispirato il proprio comportamento professionale. E ciò al fine di consentire al giudice di verificare: a) la correttezza e l’accreditamento presso la comunità scientifica delle pratiche mediche indicate dalla difesa; b) l’effettiva conformità a esse della condotta tenuta dal medico nel caso in esame (in termini, sezione IV, 18 dicembre 2014, Pulcini, nonché sezione IV, 8 ottobre 2013, Fiorito e altro). Appropriazione indebita a carico del cointestatario di un c/c bancario Il Sole 24 Ore, 7 dicembre 2015 Reati contro il patrimonio - Appropriazione indebita - Contratti bancari - Deposito bancario in conto corrente cointestato a più soggetti - Causa di non punibilità ex art. 649 c.p. - Non punibilità di taluni reati commessi a danno dei congiunti - Applicabilità. Nei casi di non punibilità di taluni reati commessi in danno di congiunti e regolati dall’art. 649 cod. pen. rientra certamente quello di appropriazione indebita. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 7 ottobre 2014 n. 41829. Reati contro il patrimonio - Appropriazione indebita - Cointestatario di conto corrente bancario - Facoltà ad operare separatamente - Disposizione senza consenso in proprio favore di somme eccedenti la quota parte - Configurabilità del reato di appropriazione. È configurabile il reato di appropriazione indebita a carico del cointestatario di un conto corrente bancario il quale, pur se facoltizzato a compiere operazioni separatamente, disponga in proprio favore, senza il consenso espresso o tacito degli altri cointestatari, della somma in deposito in misura eccedente la quota parte da considerarsi di sua pertinenza. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 17 settembre 2014 n. 38045. Reati contro il patrimonio - Appropriazione indebita - Contratti bancari - Deposito bancario in conto corrente cointestato a più soggetti - Realizzazione dell’intero credito da parte di uno dei cointestatari - Appropriazione indebita - Configurabilità - Sussistenza. È configurabile il reato di appropriazione indebita a carico del cointestatario di un conto corrente bancario il quale, pur se facoltizzato a compiere operazioni separatamente, disponga in proprio favore, senza il consenso espresso o tacito degli altri cointestatari, della somma in deposito in misura eccedente la quota parte da considerarsi di sua pertinenza, in base al criterio stabilito dagli artt. 1298 e 1854 cod. civ., secondo cui le parti di ciascun concreditore solidale si presumono, fino a prova contraria, uguali. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 30 aprile 2010 n. 16655. Banche - Reati contro il patrimonio - Appropriazione indebita - Conto corrente bancario - Realizzazione dell’intero credito da parte del creditore solidale - Mutamento del titolo del possesso in titolo di proprietà dell’intera somma - Delitto di appropriazione indebita - Sussistenza. Commette il reato di appropriazione indebita il cointestatario di conto corrente bancario, il quale realizzi l’intero credito e si dichiari proprietario esclusivo dello stesso. Il mutamento del titolo, in base al quale il soggetto possiede la parte di danaro che non è sua, integra l’ipotesi della "interversio possessionis", che costituisce il presupposto del reato di appropriazione indebita. infatti, se la solidarietà attiva consente la realizzazione dello intero credito da parte di un solo creditore, questi tuttavia non acquista anche la proprietà delle quote altrui, che egli possiede e detiene in funzione del regolamento successivo del rapporto interno che, in base alla disciplina civilistica dell’obbligazione solidale attiva vista all’interno dei creditori, lo obbliga a non disporre per se della parte della somma ad altri spettante. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 13 agosto 1982 n. 7751. L’Unione delle Camere Penali interviene sull’ennesima denuncia di violenze in carcere camerepenali.it, 7 dicembre 2015 L’Unione delle Camere Penali Italiane interviene sull’ennesima denuncia di violenze in carcere. Diabolico pensare di lasciare ancora più soli i detenuti con i colloqui a mezzo video. La Magistratura di Sorveglianza si riappropri del suo importantissimo ruolo. L’articolo pubblicato dal quotidiano "La Repubblica", nel quale si racconta la vicenda di un detenuto marocchino che ha subito reiterate violenze in carcere ad opera di agenti della Polizia Penitenziaria, merita una riflessione approfondita sul sistema penitenziario italiano. Valutazioni che, ci auguriamo, vogliano fare anche i politici e la stessa magistratura, da tempo lontana e indifferente all’esecuzione della pena. Riteniamo, per pregresse esperienze, che sia possibile che gli agenti, nel picchiare il detenuto, abbiano effettivamente pronunciato le frasi registrate "Questo carcere è fuorilegge, dovrebbe essere chiuso da 20 anni, se fosse applicata la Costituzione". Le percosse in alcuni carceri fanno parte del comune bagaglio di conoscenza di tutti noi. Solo i Radicali, alcune associazioni e l’Avvocatura, da sempre cercano, con i mezzi a loro disposizione, di opporsi a questa inaudita violenza, proponendo riforme che consentano una maggiore trasparenza e un reale controllo su quanto avviene dentro quelle mura impenetrabili, non solo da un punto di vista fisico. Se quelle voci appartengono effettivamente ad agenti di polizia penitenziaria sarà accertato anche dall’indagine che lo stesso Ministro Orlando ha sollecitato, ma l’aver acceso nuovamente i riflettori sull’ennesima aggressione in carcere potrà servire, speriamo, a comprendere perché nel nostro Ordinamento Penitenziario, da 40 anni, è scritto che "Il Magistrato di Sorveglianza vigila sull’organizzazione degli istituti di prevenzione e di pena e prospetta al Ministro le esigenze dei vari servizi, con particolare riguardo all’attuazione del trattamento rieducativo. Esercita altresì, la vigilanza diretta ad assicurare che l’esecuzione della custodia degli imputati sia attuata in conformità delle leggi e dei regolamenti". Lontanissima da questo principio di civiltà giuridica è l’attuale realizzazione della teleconferenza, con la quale il Magistrato di Sorveglianza, seduto nel suo ufficio, ascolta e vede il detenuto, attraverso uno schermo, mentre questi è in una stanzetta del carcere. La solitudine della cella diviene la solitudine dinanzi al video e l’unica compagnia è quella degli agenti di polizia penitenziaria che hanno scortato il detenuto al "presunto" colloquio e lo porteranno poi via. L’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali Italiane, nelle sue costanti visite agli istituti di pena, ha potuto accertare che la presenza dei Magistrati di Sorveglianza nelle carceri è rarissima e quanto stabilito dall’Ordinamento Penitenziario è, nella maggior parte dei casi, tradito, in nome di una presunta efficienza nel leggere fascicoli e documenti. Il carcere deve essere sempre più trasparente, con una Magistratura di Sorveglianza che si riappropri del suo ruolo, indicato chiaramente dalla Legge, che non ha voluto burocrati, ma uomini di diritto che "sorveglino", nel bene e nel male, l’esecuzione della pena. Se ne gioveranno tutti, non solo i detenuti, ma la stessa Amministrazione Penitenziaria che potrà vedere valorizzato il suo impegno ed anche l’opinione pubblica - almeno quella orientata verso il rispetto dei principi costituzionali - che non si dovrà vergognare delle sue carceri. La Giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane L’Osservatorio Carcere Ucpi "Dispensare la speranza" non dev’essere solo un motto di don Marco Pozza (Cappellano della Casa di Reclusione di Padova) Il Mattino di Padova, 7 dicembre 2015 A stupirmi è lo stupore di chi ancora si stupisce delle nefandezze perpetrate nelle patrie galere. Dopo la tortura - reato con il quale l’Europa ha sanzionato l’Italia per il trattamento inumano che riserva ai detenuti - cosa potrà ancora sorprendere? Oltre la violazione della dignità, rimane solo la morte, la violazione stessa della vita. Quelle morti che, dentro le carceri, rimangono sovente dei pensieri in sospeso, dei conti-che-non-tornano. Sembra un paradosso: nella patria del diritto, il trattamento dell’umano pare essere una cosa che va davvero storta, foresta alla grammatica più elementare. Perché di basi elementari si tratta, quelle che quando mancano partoriscono affermazioni dislessiche: "Le botte? Con questi metodi noi abbiamo ottenuto risultati straordinari". Non un insulto al buon senso, bensì all’intelligenza umana. Quelle intercettate dal detenuto e pubblicate da Repubblica, sono parole che tratteggiano una realtà che è sotto gli occhi di tutti: il carcere, luogo ideato per essere laboratorio di ricostruzione, il più delle volte si mostra luogo di decostruzione di quei brandelli d’umano ch’erano rimasti ancora in vita. Rimettere mano a una strada slabbrata non è mai affare semplice, eppure tentare si deve, è necessario: nonostante tutto, in condizioni quasi impossibili, al limite della sopportazione. Chi decide di investire la sua vita in quella terra-di-mezzo che è una galera, sa che non si tratta di fare il sacrista in un convento di novizie. Per questo il senso dell’umano dovrebbe eccellere, il rispetto della Costituzione fondare uno stile, l’uomo essere una scommessa non solo da correre ma che, addirittura, si può portare a casa. Gli agenti di polizia, spesso, lavorano in condizioni pietose: non sono gli unici, però, a farlo. Nemmeno i volontari trovano sempre giornate d’oro per ricostruire l’umano, a volte anche a causa di un’ostilità voluta, sponsorizzata. L’inadeguatezza delle condizioni, però, non giustifica l’inadempienza dello stile. Di una maleducazione del pensiero, delle gesta, dell’umanità. Il tradimento stesso della propria presenza: Despondere spem munus nostrum ("Dispensare la speranza è la nostra missione") è il motto che campeggia sotto lo stemma della Polizia Penitenziaria. L’esatto contrario del diffondere la speranza con la violenza. Arrendersi, dunque? Neanche se ci ammazzano: nel nome dell’onestà che "non tutti sono così". Sono proprio quelli-rimasti-umani a firmare la condanna dei loro colleghi: con la disapprovazione quando capitano certi eventi, con l’amarezza di vedere denigrato un corpo di polizia, con la constatazione che il gustoso, alla lunga, varrà più del disgustoso. Lo leggo nei loro occhi, negli occhi dei miei agenti-angeli, nelle parole di chi, pur con la divisa, rimane uomo appieno. Anche con la forza della denuncia di chi, magari dopo anni di fatica e di cicatrici, sa leggere l’angelico anche quand’è nascosto sotto la pelle dell’animalesco. Ciò che manca in chi manganella è, forse, proprio questa sfumatura: la consapevolezza d’essere, sotto-sotto, un uomo come loro, né migliore, né peggiore. Magari con l’aggiunta di un pizzico di cultura. Cultura in senso classico: il coltivare, l’annaffiare, l’irrigare. L’aratro, ma anche l’ago e il filo. Queste intercettazioni non rendono onore al carcere. Non rendono onore, soprattutto, a chi le ha firmate. Hanno tradito, per prima cosa, la fedeltà a ciò che hanno professato: alla speranza, alla divisa, alla loro intelligenza. Quale credibilità potranno ancora avere agli occhi di chi in essi s’imbatte? Gente in-credibile, non più credibile, da riderci in faccia quando ci passi accanto, magari compatendoli per l’insoddisfazione di una professione che non li soddisfa, che non li soddisfa più, che non li ha mai soddisfatti. Forse a qualcuno sfugge che i poveri hanno tanta memoria: non tanto di vendetta, ma memoria d’attendere quando la storia decreterà chi ha vinto e chi ha perso. Come quella volta a Robben Island, pieno Sud-Africa: hanno tenuto prigioniero un uomo-nero per trent’anni, perché era da rieducare. Dopo trent’anni si sono accorti che, dal carcere, era stato lui a rieducare la società. Logica, certe volte, non sussiste. Di una cosa sono certo: domattina, a certi agenti-uomini stringerò la mano con un affetto doppiamente umano. Leggendo quelle intercettazioni mi sono reso ancor più conto che rimanere uomo, in certi ambienti, è saper vedere le rose a dicembre, il grano a Natale. L’umano, nonostante l’imbecille. L’isolamento forzato delle detenute nel carcere di Vigevano di Camilla Baresani Io Donna, 7 dicembre 2015 Mi è capitato più volte di entrare in una prigione per parlare di libri e di scrittura con i detenuti. L’esperienza più intensa l’ho provata nella sezione femminile di "alta sicurezza" del carcere di Vigevano, dove le detenute hanno letto le storie che scrivo in questa rubrica, e che sono raccolte nel libro "Vini, amori". Sono donne dalle fisionomie così lontane dalla teoria lombrosiana sul delinquente con la faccia sghemba, che viene spontaneo chiedersi cosa mai possano aver fatto di male. Possibile che ragazze così carine, madri di famiglia dall’aspetto dolente e anziane dall’aria protettiva abbiano commesso reati gravi? Le donne con cui ho parlato sono sorelle, figlie, madri, mogli di camorristi, ‘ndranghetisti, mafiosi, o trafficanti di droga. Li hanno protetti, non hanno sentito o visto. Alcune hanno contribuito ai crimini famigliari. Nella maggior parte dei casi la loro vita ha iniziato a deragliare già nella culla: se nasci in certe famiglie, se vivi in certe zone, non c’è modo di essere diversa; e se anche sfuggi, se cerchi di ricrearti una vita in un’altra città, ci sarà sempre un parente che viene a chiederti aiuto, ospitalità, magari anche una firma e l’intestazione di un conto corrente. Queste donne hanno figli che non possono far crescere, oppure sono finite in carcere prima di averne, e sperano di essere ancora fertili quando torneranno in libertà. Alcune di loro leggono, altre scrivono lettere, magari fanno ginnastica e si tengono in ordine. Molte sono piene di rancore per i processi eterni, perché si sentono incastrate ingiustamente, perché non capiscono o non hanno avuto scelta. Amerebbero bere vino, ma non è concesso, eppure tra le tante cose che possono imparare, per quando torneranno libere, ci sono i vari dignitosissimi mestieri del vino. Ma in carcere è considerato pericoloso come una droga, o forse troppo buono per meritarlo. È alle detenute di Vigevano che penso sorseggiando il vino prodotto a Gorgona, l’isola-carcere. Con storie così tragiche e commoventi, solo un po’ di ebbrezza può aiutare a immaginare per loro un futuro diverso da quello già tracciato. Marche: non più affollate ma sempre molto precarie le carceri marchigiane Corriere Adriatico, 7 dicembre 2015 Sette istituti carcerari con una capienza regolamentare di 853 posti, 869 detenuti effettivi di cui 20 donne, 330 stranieri, 126 in attesa di primo giudizio e 105 condannati sì ma non in via definitiva. Sono i numeri della situazione marchigiana emersi nel corso del convegno organizzato da Antigone e Aiga che si è svolto ieri mattina a Fermo, nella splendida cornice offerta dalla Sala degli Artisti. Tra i relatori il presidente degli Ordine degli avvocati di Fermo Francesca Palma, Lina Caraceni, professore aggregato di diritto penitenziario nell’Università di Macerata e l’avvocato Samuele Animali, presidente di Antigone Marche. Tra il pubblico anche il sindaco Paolo Calcinaro e l’assessore allo sport Alberto Scarfini, entrambi anche avvocati. "La situazione carceraria delle Marche - ha spiegato Animali - rispecchia quella nazionale. La fase in cui il problema acuto era il sovraffollamento è stata superata perché il numero di persone ristrette all’interno degli istituti è diminuito fino quasi, e sottolineo quasi, alla capienza regolamentare. Questo non significa tuttavia che i motivi per cui l’Italia era stata condannata per detenzione disumana siano stati superati perché le condizioni delle carceri rimangono comunque precarie sia per l’inadeguatezza delle strutture sia per il fatto che non sempre è possibile attivare tutte quelle risorse necessarie al trattamento dei detenuti". Le Marche hanno un circuito tendenzialmente completo per le specifiche modalità di detenzione: ci sono posti per i 41 bis, per i sex offender, il femminile. Tuttavia, come ha segnalato Animali, permangono diversi problemi strutturali. Ad esempio il carcere di Camerino si trova nel centro cittadino con una serie di problematiche di tipo logistico. Come pure Fermo, dove il carcere non ha spazi che possono consentire di fare delle attività lavorative. Animali, nel corso della sua relazione, ha evidenziato tre aspetti prioritari su cui ragionare. Primo, il carcere deve essere luogo di responsabilizzazione intesa in due modi: da una parte la presa d’atto del motivo per cui si è finiti dentro e quindi delle proprie responsabilità e dall’altra la necessità di diventare, per il futuro, una persona responsabile. "Troppe spesso ora il carcere - ha detto il presidente di Antigone - è una struttura deresponsabilizzante, si registra la infantilizzazione dell’adulto, quasi una regressione che serve sì come forma di controllo e contenimento ma che certamente non aiuta a cogliere le finalità rieducative". Il secondo aspetto è quello relativo agli spazi. "Gli edifici - ha affermato Animali, sono sì da rinnovare ma le carceri non vanno costruite fuori dalle comunità". È venuto facile, facile fare l’esempio del Barcaglione, ad Ancona, che si trova fuori dal centro ma non ci sono collegamenti. Per i familiari e gli avvocati tocca sempre organizzarsi in auto ma anche per gli stessi detenuti, che qui sono a fine pena o con pene molto brevi, diventa impossibile allontanarsi magari utilizzando i permessi, visto che non ci sono gli autobus. "Fuori città - ha sintetizzato il presidente di Antigone - ci si mettono due cose: le discariche e i cimiteri. Non le carceri". Il terzo e ultimo aspetto è quello della salute. Anche per i detenuti, infatti è previsto il rispetto dei Lea "ma in carcere c’è un enorme, ma non sappiamo bene i numeri che non ci sono mai stati forniti, abuso di psicofarmaci e antinfiammatori". Secondo Antigone, comunque, l’unica prospettiva che c’è per evitare la recidiva è quella di favorire le misure penali alternative al carcere. "In questo momento c’è una grossa pressione sulle misure alternative per quanto riguarda un reato in particolare: la guida in stato di ebbrezza. Lì i lavori di pubblica utilità sono molto sviluppati e molti enti, nelle Marche, sono convenzionati. Per gli altri reati servono delle riforme a livello legislativo". Riflettori accesi anche sulla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, voluta per legge senza tuttavia costruire una alternativa pronta. Nelle Marche l’unica Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza) prevista a Fossombrone è ancora in via di completamento mentre sempre nel Nord delle Marche è nata una Rems gestita però dal privato creando una condizione su cui la professoressa Caraceni ha posto dubbi di costituzionalità. Infine un passaggio polemico sulla legge regionale 28/2008 che prevede il sistema regionale integrato degli interventi a favore dei soggetti adulti e minorenni sottoposti a provvedimenti dell’Autorità giudiziaria ed a favore degli ex detenuti. "Quest’anno la legge è stata finanziata con 0 euro. Il problema è capire che quello che non spendo qui lo spendo poi, purtroppo, per la recidiva". Firenze: Opg; tre pazienti trasferiti, avviato il processo che porterà alla chiusura La Nazione, 7 dicembre 2015 Qualcosa si muove, anche se con 7 mesi di ritardo. I primi tre pazienti internati a Montelupo Fiorentino hanno lasciato l’Opg per arrivare alla residenza per l’esecuzione di misure di sicurezza di Volterra. Che, di fatto, raccoglierà l’eredità montelupina. La Rems ha ufficialmente iniziato la sua attività da dicembre ed è destinata a ospitare pazienti affetti da disturbi mentali autori di reato provenienti proprio dall’Opg di viale Umberto I che potrà così essere definitivamente chiuso. Volterra, sottolinea l’amministrazione, è "storicamente un caposaldo nel trattamento dei pazienti con disturbi mentali, divenuta nell’ultimo ventennio del secolo scorso l’icona di una psichiatria manicomiale che finiva e che ora ritrova, per volontà del Comune, un ruolo centrale diventando un punto di riferimento per Toscana e Umbria". "Ringrazio l’assessore Saccardi - spiega il sindaco di Volterra Marco Buselli - per avere accolto la nostra richiesta. Un progetto che ha fallito in altri nove territori della regione ed è quindi per noi motivo di orgoglio esserci candidati ed aver avuto la possibilità di essere scelti. Un grazie particolare a tutti coloro che si sono impegnati per la realizzazione dell’opera in tempi così brevi. Il 21 dicembre in consiglio comunale, insieme all’azienda sanitaria e alle forze dell’ordine, spiegheremo ai cittadini quali saranno le sfide progettuali che la nostra città si avvia ad affrontare con la Rems". La chiusura dell’Opg di Montelupo, insieme a quella degli altri cinque ospedali giudiziari psichiatrici, dopo oltre un secolo di attività come luogo di cura, ma soprattutto di custodia, rappresenta una svolta epocale nel trattamento di questo tipo di pazienti che possono così usufruire di progetti terapeutici individualizzati ed effettuati in ambiente sanitario. "L’apertura della Rems di Volterra - spiega il direttore Alberto Sbrana - rappresenta la chiusura di un cerchio che si è aperto nel 1978 con l’approvazione della Legge Basaglia che, prevedendo il superamento degli ospedali psichiatrici, aveva lasciato aperti gli Opg con standard assistenziali del tutto inadeguati e uno stile più di custodia che terapeutico". La Rems si avvale di psicologi, psichiatri, infermieri, oss, educatori, assistenti sociali, tecnici della riabilitazione, in un approccio multidisciplinare integrato comune a tutti e servizi territoriali di salute mentale. La sorveglianza da parte della polizia penitenziaria è esclusivamente perimetrale. Milano: ex detenuti al servizio della città con Tecno-Emergency La Presse, 7 dicembre 2015 Problemi con il lettore dvd? Il computer si è rotto? Per la ricerca di un elettricista da oggi, a Milano, basterà chiamare il numero verde diffuso dal Comune, 800-808288, e avere una struttura mobile che in poche ore possa riparare il guasto. La novità si chiama Tecno-Emergency, ed è un furgone altamente attrezzato per attività di riparazione e manutenzione di dispositivi audio-video, luci, pc e supporti tecnici di vario genere, interamente gestito da un team di tecnici professionisti della cooperativa sociale Estia che, in collaborazione con il Comune di Milano e la casa di reclusione di Bollate, ha attivato questo servizio allo scopo di creare opportunità di integrazione per detenuti ed ex detenuti e contribuire così al loro percorso di recupero sociale e lavorativo. I tecnici professionisti presenti all’interno della struttura mobile, infatti, sono ex detenuti che hanno seguito specifici corsi di formazione e sono in grado di effettuare a domicilio guasti di tipo tecnico ed elettrico. Nel caso di interventi più complessi, invece, i dispositivi saranno trasportati dal furgone all’interno del laboratorio sito nel carcere di Bollate dove i detenuti provvederanno alla riparazione. Possono usufruire degli interventi, oltre ai privati, anche i Consigli di zona, destinatari di alcuni interventi in via sperimentale, associazioni no profit e aziende. "In città c’è un nuovo servizio per i cittadini che è anche un ottimo strumento di inclusione sociale - ha commentato, in una nota, l’assessora alle Politiche per il lavoro e lo sviluppo economico, Cristina Tajani. L’amministrazione comunale ha contribuito con 200mila euro a questo progetto in cui crediamo fortemente, perché permette agli ex detenuti di superare il disagio economico e sociale di cui spesso sono vittime fuori dalle carceri e allo stesso tempo aiuta i detenuti nel loro percorso di reinserimento lavorativo". Milano: da cancelliera a poetessa in carcere, l’Ambrogino d’oro a Maddalena Capalbi Adnkronos, 7 dicembre 2015 Da cancelliera alla procura di Milano, vero e proprio braccio destro di magistrati illustri, a poetessa, in privato, ma anche e a lungo in carcere come volontaria. Si chiama Maddalena Capalbi, per tutti "Madda" e domani riceverà dal sindaco di Milano Giuliano Pisapia la più importante benemerenza civica ambrosiana, l’Ambrogino d’oro. A nemmeno ventiquattro ore dalla cerimonia Maddalena è emozionatissima: "mamma mia, speriamo che non mi chiedano niente" dice al telefono con l’Adnkronos. Nella cittadella giudiziaria milanese tutti, giudici, avvocati, magistrati, giornalisti, conoscevano Maddalena. Romana d’origine, con un accento che i tanti anni trascorsi a Milano non le hanno mai tolto del tutto, e con quello spirito di chi non si fa mai abbattere dalle avversità ma le affronta con concretezza e forza, è sempre stato impossibile non notarla. Intanto per quella chioma di ricci rossi che le circondano due occhi azzurri vivaci e un sorriso sempre pronto a lasciarsi andare ad una sana risata. Risoluta, appassionata del suo lavoro, ha collaborato ad inchieste importanti condotte da magistrati del calibro di Giuliano Turone, Francesco Di Maggio, il dottor "sottile", alias Piercamillo Davigo all’epoca di Mani Pulite. E poi l’ex procuratore capo, Edmondo Bruti Liberati. Sempre in ufficio, la raggiungevano le sue figlie, all’epoca piccole, Veronica e Mirta. Ed è in ufficio che, divorziata da tempo, ha conosciuto quello che da anni è suo marito: Paolo Barbieri, un giornalista dal carattere a volte un po’ ombroso ma che ha ceduto alla vitalità contagiosa di Madda. Proprio lui, racconta oggi Maddalena, l’ha incoraggiata a scrivere. "La passione per la scrittura - dice - l’ho sempre avuta, fin da ragazza. Scrivevo di nascosto perché in collegio me lo proibivano. Raccoglievo quello che erano le mie emozioni in quaderni dimenticati per anni. Poi Paolo (grande lettore, ndr) ha scoperto in un cassetto alcuni miei appunti adolescenziali e mi ha spronato a proseguire quello che per lui era un talento" Ad oggi Maddalena ha pubblicato diversi volumi di poesie: "Fluttuazioni", "Olio", "Arivojo tutto", "Testa rasata" tra gli altri. Ma Maddalena non è donna che tiene per se nulla, neanche una dote così bella. Così, prima ancora di andare in pensione, ha cominciato a condividere il suo talento con altri. Altri difficili in questo caso, detenuti. Prima ad Opera poi nel carcere di Bollate dove coordina un laboratorio di poesia unico nel suo genere in Italia, aperto a uomini e donne. Da allora sono passati dieci anni. Ai corsi di Maddalena, su 1.200 detenuti, partecipano ogni anno più di una ventina tra uomini, ragazzi, stranieri, donne. "Non è sempre facile - racconta Maddalena - anche perché per diversi dei miei ragazzi è difficile lasciarsi andare a parlare di se in un luogo dove, come in tutti i penitenziari, vige soprattutto la regola del machismo. Ma poi c’è chi inizia a studiare, chi si avvicina al laboratorio per curiosità e si lascia trasportare. Pian piano vengono conquistati, cominciano ad avere fiducia. Si parla, si legge, cerchiamo (sono in tre, ndr) di insegnare loro la tecnica base della scrittura poetica. Così poco alla volta gli allievi cominciano a consegnare i loro pensieri che con il tempo si sviluppano in pensieri poetici". Maddalena racconta con orgoglio casi di ragazzi eccezionali che hanno avuto risultati brillanti: "qualcuno addirittura si è innamorato di Montale". Madda sa quello che fa e non ha "pretese di recupero rispetto a chi ha davanti. L’importante per me è aiutare queste persone a raggiungere il loro intimo per capire che esiste un altro tipo di linguaggio, che non è quello della strada che conoscono loro, e un altro tipo di vita. Con il tempo il pensiero si modifica. Sono coraggiosi sai? E generosi anche. E sono io a volte a doverli ringraziare per la loro capacità di riuscire a parlare del loro lato oscuro, nel senso di buio, non di brutto". "Di solito - rimarca - emergono persone fragili, deboli che non puoi non accarezzare, verbalmente è chiaro, o anche con uno sguardo, per il coraggio e l’impegno che mettono, soprattutto gli stranieri che hanno anche problemi di linguaggio" per ricostruirsi come persone migliori. Ogni fine anno il gruppo di Maddalena realizza un’antologia con i versi migliori prodotti durante il corso. E da due anni "collaboriamo con il Teatro Carcano e "Arte in Tasca". Maddalena è una volontaria "pura". E domani Milano le renderà omaggio. Milano: Casa di reclusione di Opera, si condividono esperienze con i francobolli Ristretti Orizzonti, 7 dicembre 2015 Nella Casa di reclusione di Opera, dove da un anno e mezzo nella Sezione A.S. 1, è attivo un Gruppo filatelico, "è stato fatto un lavoro straordinario". Lo ha ammesso Pietro La Bruna, direttore di Filatelia di Poste Italiane nel corso della visita della Mostra filatelica allestita all’interno del carcere, prevalentemente con collezioni realizzate da reclusi. "In carcere - ha ricordato uno dei componenti del Gruppo filatelia - ci sono tante attività, mai, però, erano entrati i francobolli. Inizialmente non sapevamo neppure cosa fosse un francobollo, a parte quelli che usiamo per comunicare con chi si trova oltre le mura, all’esterno". Di conseguenza "pensavamo a un’attività banale, senza significato". Invece "si è dimostrata interessante a livello cognitivo e ci siamo accorti come i francobolli racchiudono tanti saperi." "Francamente non sapevamo cosa c’era dietro un francobollo". Per questo "il collezionismo filatelico è e resta un importante e diffuso momento di svago, ma anche un mezzo per acquisire esperienze". "In cella - è stato fatto notare - abbiamo molto tempo per leggere, imparare, quello che ci manca e ci pesa è la mancanza di comunicare" quello che andiamo apprendendo. Con le due collezioni che abbiamo realizzato, quella intitolata "Oltre le dure sbarre nel variopinto giardino filatelico con le ali leggere della poesia" e quella inerente al tema religioso "siamo riusciti a comunicare". Riferendosi all’attività filatelica, Matteo Nicolò Boe, uno dei reclusi, offre questa testimonianza affidata qualche tempo fa al periodico specializzato L’Arte del francobollo": "l’esperienza acquista nel quarto di secolo trascorso in carcere mi permette di saper interpretare discretamente la realtà oggettiva di questo particolare mondo. Nel corso degli anni ho frequentato alcuni corsi, di ceramica, sartoria e poi carta pesta. Di tanti altri sono venuto a conoscenza. Quasi tutti vertevano su consueti temi, alcuni inerenti alla tradizione maschile, altri ad una terra di mezzo e altri ancora di dominio femminile a cui il contesto artistico di attività manuali e intellettuali espunge quella stigma di scolari pregiudizi maschilisti. Siccome esiste sempre una prima volta, che allarga il nostro orizzonte, ecco apparire un ‘corso’ di filatelia. Stupore e scetticismo! I soliti pregiudizi dai quali nessuno di noi è immune, se non altro per pigrizia mentale, lo inserivano fatalmente nella mia obsoleta logica categoriale e più precisamente, in una sorta di limbo, come trastullo preadolescenziale e di irriducibili Peter Pan, ostinatamente refrattari ad una partecipazione attiva alle ruvide dinamiche politico-sociali del nostro tempo. Gradualmente l’iniziale scetticismo si è sciolto in interesse. È il piacere atavico della narrazione, l’inebriante gusto del sapere, l’intrigante viaggio nello scibile umano, l’egoistico desiderio dell’affermazione di sé nel canovaccio dialettico della società, perché senza conoscenza non vi è identità". Nell’ambito del Gruppo filatelico ha preso forma anche l’immagine, firmata da Matteo Nicolò Boe, diventata francobollo da 95 centesimi "Filatelia nelle carceri". "Un esito senza precedenti - ha detto Pietro La Bruna - probabilmente neppure all’estero ci sono stati francobolli disegnati direttamente all’interno di un carcere, da un recluso". E "questo - ha proseguito - non lo considero un punto di arrivo, ma una tappa". Non a caso a breve "introdurremo un approccio simile a Paliano, in provincia di Frosinone". Riferendosi all’esposizione allestita qualche mese va alle Poste centrali di Milano-Cordusio, La Bruna ha ammesso che "ha lasciato un segno", assicurando al tempo stesso che Luisa Todini, presidente di Poste Italiane, "segue da vicino" questa iniziativa. A parere di Paolo Pizzuto, funzionario giuridico pedagogico all’interno della Casa di reclusione, il "francobollo costituisce una inesauribile miniera di percorsi di conoscenza. Nel piccolo - ha soggiunto - ci sta l’immenso". Parole di compiacimento per l’iniziativa sono state espresse anche dal direttore del carcere, Giacinto Siciliano. Palermo: l’arcivescovo Corrado Lorefice all’Ucciardone, applausi e lacrime fra i detenuti di Salvo Palazzolo e Giorgio Ruta La Repubblica, 7 dicembre 2015 Il primo appuntamento di Corrado Lorefice nella fortezza borbonica di Palermo. Un centinaio di detenuti alla messa. Anche don Paolo Turturro, il parroco condannato per pedofilia, che poi si confessa con l’arcivescovo. Il piazzale dell’Ucciardone è stracolmo di detenuti, si alzano in piedi quando arriva il nuovo arcivescovo di Palermo. Lui saluta sorridente, stringe mani. Corrado Lorefice spiazza tutti. Anche i suoi collaboratori: "Facciamo una cosa - dice prima di iniziare l’omelia - così siamo più liberi e più contenti", e si toglie la mitra, il copricapo dei vescovi. Don Corrado spiazza e conquista anche i detenuti dell’Ucciardone, saranno un centinaio quelli a messa, celebrata nel grande atrio da dove si accede alle sezioni. Quello stesso piazzale che nella Pasqua del 1984 fu disertato dai boss detenuti per la messa dell’allora cardinale Pappalardo. "Vi racconto una storia - dice il nuovo arcivescovo di Palermo - quando si diventa preti, la prima messa la vai celebrare nella tua parrocchia, a casa tua. Io, ieri, sono stato ordinato vescovo e oggi sono qui". Come, dire, questa è la mia casa. Si commuove. E i detenuti delle ultime file si alzano in piedi per applaudire. Poi, anche tutti gli altri si alzano. E l’applauso sembra non terminare. Don Corrado cita il passo del Vangelo di Matteo che dice: "Ero in carcere e mi avete visitato". Ripete: "Il signore Gesù vi vuole bene. È questo l’annuncio che vi porto. Io vi voglio bene, perché nessuno di voi è cattivo. Siete qui per la durezza della vita delle nostre città". Ad ascoltarlo ci sono gli ergastolani, poi giovani e meno giovani che stanno scontando condanne per rapina, per spaccio. Distanti dagli altri detenuti ci sono i condannati per pedofilia, fra loro anche don Paolo Turturro, che fino a qualche anno fa era il parroco di Santa Lucia, la chiesa che sorge di fronte all’Ucciardone. Più in là, altri detenuti condannati per omicidio, c’è Antonino Speziale, il giovane che uccise l’ispettore Filippo Raciti durante il derby Catania-Palermo. Sono i detenuti a leggere le letture. E poi la preghiera dei fedeli. La messa è animata dai volontari del Rinnovamento dello Spirito, che fanno parte della comunità dell’Amen. In prima fila, il sindaco Leoluca Orlando, il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Maurizio Veneziano, la direttrice dell’istituto Rita Barbera, il presidente del tribunale di sorveglianza Giancarlo Trizzino, il comandante e il vice comandante della polizia penitenziaria Michelangelo Aiello e Maria Teresa Gallo. Anche all’offertorio sono i detenuti ad andare in corteo all’altare. Don Corrado ringrazia tutti, abbraccia un giovane migrante pure lui ospite dell’Ucciardone. Per tutti ha una parola di speranza. "Che possiate vedere la bellezza che illumina la nostra vita. Tutti abbiamo bisogno di luce. E il Vangelo è la bella notizia": Fa una pausa, sorride e dice: "Voi lo sapete cos’è una bella notizia, vero? Ad esempio, il ministero scrive al direttore per dirle: devi liberare tutti, subito. Ecco, questa è una bella notizia". E scoppia una grande risata. Don Lorefice è già di casa all’Ucciardone. I detenuti fanno a gara per stringergli la mano. Il cappellano, fra Carmelo, gli dice: "L’aspettiamo ancora, nella nostra vita di ogni giorno". Anche Rita Barbera lo invita a tornare. E lui non se lo fa ripetere: "Mi sento davvero a casa qui, tornerò di certo". Prima di andare via, un lungo incontro con don Paolo Turturro, che l’arcivescovo confessa. Oggi pomeriggio, don Lorefice andrà a visitare alcuni monasteri di clausura. Brindisi: una "capa calda" all’Istituto Alberghiero di Fasano fasanolive.com, 7 dicembre 2015 La compagnia di Carlo Formigoni ha messo in scena per i ragazzi dell’istituto un testo sorprendente liberamente ispirato alla vita di alcuni giovani carcerati. Un testo dal forte impatto emotivo e dall’alto tasso di empatia. Che è riuscito a catturare l’attenzione dei giovani spettatori, attraverso molti sorrisi strappati, nonostante la crudezza e la drammaticità della storia, vera, narrata. Ieri mattina, presso l’Auditorioum dell’Itec "G. Salvemini", la Compagnia di Carlo Formigoni ha messo in scena l’atto unico dal titolo "Capa Calda", nell’ambito del progetto voluto dall’Istituto Alberghiero che vede coinvolti gli studenti e il teatro. La storia è quella reale di uno dei tanti giovani detenuti, dalla vita di strada alla prigione, fino al riscatto parziale, grazie alla passione per il teatro e per la scrittura. Il racconto così simile a molti sfortunati ragazzi ha talmente colpito il regista Carlo Formigoni che ne ha voluto fare una sua personale trasposizione teatrale. Un racconto drammatico nella sua semplice verità: le amicizie sbagliate, il primo furtarello, poi la prigione, prima in un centro per minori, poi la seconda volta in un carcere vero e proprio. Qui il protagonista conosce il "caporalato" degli adulti che vogliono farne un personale schiavetto e l’orgoglio di farsi rispettare. Una vita destinata alla discesa inevitabile negli abissi dell’Inferno della malavita, che, inaspettatamente, trova la sua svolta nell’arte: il teatro e la scrittura, appunto. Platea assorta durante l’efficace rappresentazione dei quattro attori: Giovanni Calella nei panni del protagonista, Angelica Schiavone in quelli della madre, Dario Lacitignola e Salvatore Laghezza in quelli dei due amici balordi. Le musiche originali sono state composte dallo stesso Calella, che le ha eseguite dal vivo con una tastiera. Al termine la compagnia è stata salutata da un caloroso applauso cui è seguito un breve dibattito. Milano: "prima" della Scala anche a San Vittore, Pisapia manda saluto Ansa, 7 dicembre 2015 Il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, ha voluto mandare un saluto ai detenuti e al personale di San Vittore che domani vedrà in diretta la prima della Scala, che quest’anno inaugura la stagione con Giovanna d’Arco. Una prima alternativa (in realtà sono 19 i luoghi della città dove si potrà vedere, inclusi il refettorio ambrosiano, l’ottagono di Galleria Vittorio Emanuele e il carcere di Bollate) che ormai è diventata tradizione. Negli anni scorsi sono andati l’allora ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri (a cui telefonò il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano) e Umberto Veronesi. Domani il parterre - a parte i carcerati - sarà soprattutto di imprenditori perché uno degli obiettivi dell’associazione Quartieri tranquilli, che organizza questa prima, è quello di rendere sempre più forte il legame fra la città attiva e il carcere, dove c’è bisogno di tute, sapone, dentifrici e soprattutto lavoro per i detenuti, a partire da quelli che nei sei mesi di Expo sono stati occupati all’esposizione universale. Ci sarà Giovanni Canzio, presidente della Corte d’appello di Milano, ci sarà la scenografa premio Oscar Franca Squarciapino e ci saranno industriali come Franco Cologni. C’è anche chi ha già iniziato a dare una mano come Ilaria Giulini, moglie del presidente del Cagliari, che ha regalato tute della squadra. "Il nostro Teatro più prestigioso, il simbolo della cultura ambrosiana nel mondo - ha scritto Pisapia nel suo messaggio, ha saputo in questi ultimi anni diventare la festa di una città intera. Le note di Giovanna D’Arco risuonano nei quartieri, nelle piazze, in tante sale sparse nella città. E un gruppo di persone intelligenti e caparbie è riuscita nel miracolo di aprire le vostre porte e di coinvolgere anche voi in questa giornata importante per tutta Milano". "Sapete quanto io creda nell’apertura di quelle porte - ha aggiunto. Nella necessità che il carcere sia luogo di crescita, non di afflizione. Nell’importanza che il percorso di detenzione sia solo un breve sentiero destinato a sfociare in una strada migliore. Per questo stasera, mentre devo fare gli onori di casa, il mio pensiero riconoscente va a voi e alla forza della speranza che emana da questa serata". Libri: "Rovigo, 3 gennaio 1982, cronaca e memoria di una tragedia possibile" di Lauretta Vignaga rovigooggi.it, 7 dicembre 2015 Caterina Zanirato ha scritto con Leonardo Raito il libro "Rovigo, 3 gennaio 1982; cronaca e memoria di una tragedia possibile", con una serie di interviste a persone coinvolte in maniera diretta nell’attentato: guardie carcerarie e polizia, persone e famiglie che abitavano in via Mazzini, amministratori locali, dirigenti della Questura e della Prefettura. La presentazione il 19 dicembre in Accademia dei Concordi. Anni di piombo e assalto al carcere, una storia vera. È il 3 gennaio 1982. Prime ore del pomeriggio di una fredda domenica d’inverno. Poca gente in giro e tra i pochi un pensionato, Angelo Furlan, che porta fuori il suo cane. Si trova a camminare lungo via Mazzini, quando il boato di un’esplosione squarcia il muro del carcere che dà sulla strada. Angelo Furlan viene colpito a morte, unica vittima polesana delle Brigate Rosse in quelli che furono gli anni di piombo. A quasi 34 anni di distanza da quella morte assurda, esce il libro di Leonardo Raito, storico, e Caterina Zanirato, giornalista, "Rovigo, 3 gennaio 1982, cronaca e memoria di una tragedia possibile", che ricostruisce atmosfere e memorie di un evento su cui è calato l’oblio. Unica testimonianza la lapide marmorea applicata al muro fatto saltare dalle Brigate rosse. La presentazione sarà il 19 dicembre in Accademia dei Concordi in un appuntamento moderato dalla scrittrice e giornalista Mimosa Martini, della redazione del Tg5 di Mediaset. Dottor Raito, il suo libro riaccende i riflettori su fatti gravissimi della storia italiana, forse mai sviscerati del tutto nelle complicità e coinvolgimenti. "In effetti, anche eventi accaduti di recente hanno dimostrato che cellule brigatiste sono ancora presenti in Europa. Di questo si è parlato anche nel convegno tenuto a Cento, provincia di Ferrara, nel 2008, con il coordinamento del Comune e dell’Università di Ferrara, sul rapimento e uccisione di Aldo Moro, presenti magistrati e politici di allora. Sono emersi collegamenti internazionali tra brigatisti italiani e tedeschi e francesi con grossi trasferimenti di armi dall’Europa dell’Est in occidente. Tante le cose non ancora chiarite sul terrorismo di sinistra e sulla copertura dei servizi segreti. A oltre 30 anni di distanza i fatti di Rovigo sono abbastanza delineati anche come responsabilità politica e carceraria in relazione alla presenza di tre detenute terroriste nel carcere cittadino". Rovigo, piccola città di provincia, mai coinvolta direttamente nell’eversione che seminava terrore. Come veniva percepito il fenomeno Brigare rosse? "Da quello che è emerso, c’era la percezione del pericolo perché la nostra città si trovava quasi in mezzo a due città, Bologna e Padova, pesantemente coinvolte dai movimenti eversivi. Rovigo era terreno di passaggio tra l’estremismo rosso dell’Emilia e l’Università di Padova dove, il professor Toni Negri insegnava filosofia e più tardi partecipò alla fondazione di ‘Potere operaio, facendo molti proseliti tra gli studenti. A Rovigo si percepiva la difficoltà del momento e la presenza di nuclei legati all’estremismo di destra ma nessuno sospettava che si sarebbe arrivati all’attentato". C’è un riferimento tra quella pagina di storia che ha insanguinato l’Italia e la politica degli anni più recenti? "Gli omicidi di Biagi e D’Antona confermano una connessione tra le Br e i gruppi eversivi più recenti che hanno tentato di riproporre la lotta armata colpendo il mondo del lavoro e chi ha cercato di riformarlo. Forti le analogie con il vecchio terrorismo che va sempre contro le novità. Quello che oggi è diverso è il clima internazionale che non include più la lotta antimperialistica, perché non esiste più la contrapposizione dei blocchi est e ovest. La strategia del terrore a Rovigo venne messa in atto dai Comitati per la liberazione dei prigionieri politici (Colp), elementi provenienti da Prima Linea in fase di riorganizzazione dopo che qualcuno aveva cominciato a "parlare" con la polizia". Qual era il suo proposito quando ha accettato questa collaborazione? "Il mio intento era dipingere l’affresco di un tempo che non è stato nemmeno tramandato nei ricordi. Io sono nata in quel periodo storico e ho sempre avuto la curiosità di capire com’ erano quegli anni. Altri periodi storici si studiano sui libri di scuola; di questo e di cosa ha significato per l’Italia si sa pochissimo". E per Rovigo, piccola città di provincia, che cosa ha rappresentato l’attentato al carcere? Quali le sensazioni, le paure vissute? "In città la politica era vissuta con grande partecipazione sia a destra che a sinistra. C’erano luoghi frequentati solo da simpatizzanti della destra o della sinistra. Le idee politiche e la partecipazione attiva erano convinte e diffuse e non mancavano gli scontri personali anche pesanti. I giovani discutevano di filosofia e manifestavano apertamente il loro credo politico. Quale intervista si è rivelata più significativa ? "Tutte sono state importanti: da quella dell’anziano a quella del poliziotto, del magistrato e del sindaco dell’epoca, che era Mario Bortolami. Tutte hanno concorso a completare il quadro perché hanno coinvolto persone con ruoli ed estrazione sociale diversi". Se fosse successo oggi, cosa sarebbe stato diverso? "Se fosse successo oggi le direttive del Ministero non avrebbero permesso che quattro brigatiste rosse fossero ospitate in un carcere fatiscente. Ci sarebbe stata maggior consapevolezza del pericolo e maggiore informazione. Ma tutto questo era tenuto nascosto da Questura e Prefettura e la gente era relativamente tranquilla. Successo il fatto, si è diffuso l’allarme e per alcuni mesi la gente ha avuto la consapevolezza di essere entrata nella storia. Poi, tutto è tornato come prima. Nelle persone intervistate ho riscontrato interesse e voglia di ricordare. La ricostruzione dei fatti, offerta dal libro, è importante perché priva della parte romanzata presente nella versione cinematografica". I nostri populisti e il vento d’Oltralpe di Stefano Folli La Repubblica, 7 dicembre 2015 Le conseguenze, in Italia come in Europa, saranno profonde: il Fn primo partito è destinato a innescare processi di imitazione ancora più vistosi di quelli visti fino a ieri. Al di là dell’ovvia esultanza di Matteo Salvini, quali saranno i riflessi in Italia della trionfale avanzata del Front National in Francia? È ancora presto per dirlo. Ma è evidente che la storia europea ha fatto un salto che riguarda tutti. Di certo il leader leghista semplifica un po’ troppo, se ritiene che la messe di voti d’Oltralpe si riverserà in moto automatico sulla sua lista, rafforzandone l’egemonia rispetto ai residui del partito berlusconiano. Le conseguenze, in Italia come altrove, saranno più ampie e profonde. Qualche tempo fa Marine Le Pen irrobustì i suoi argomenti propagandistici con ripetuti attacchi alla Germania. Lo fece nel momento in cui Angela Merkel apriva le frontiere ai profughi dal Medio Oriente, un gesto che le avrebbe attirato dure critiche anche in patria. La leader del Fn ha incarnato da quel momento, in forma nitida, la seconda delle due destre in cui si divide l’Europa. Non più, o almeno non in modo prevalente, il rifiuto della moneta unica, visto che su questo punto i lepenisti hanno molto annacquato le loro posizioni, bensì la destra che vuole chiudere le frontiere, la destra anti-Schengen e anti-immigrazione che declina in forme populiste la sua rabbia contro l’Unione europea e i poteri tecnocratici in essa incarnati. Come è evidente, il sangue sparso a Parigi dal terrorismo islamista ha soffiato nelle vele della Le Pen, anzi delle due Le Pen, ma il fenomeno esisteva da tempo, ben ramificato e legato a un istinto di difesa identitaria, nazionalista, contro le angosce prodotte dal mondo globalizzato. Da oggi il dato che caratterizza la Francia è questa forma di populismo integrale ormai vincente sul campo, mai così forte da quando esiste una comunità europea. E il Fn primo partito è destinato a innescare processi di imitazione ancora più vistosi di quanto non siano stati fino a ieri, specie nei Paesi dove il populismo è già consolidato. Da noi la Lega ex-secessionista e oggi iper-nazionalista tenderà a replicare passo dopo passo la lezione francese, ma il problema sarà tutto di Berlusconi: davvero anche Forza Italia, partito aderente ai Popolari europei, intende trasformarsi nella sezione italiana del lepenismo? Davvero Berlusconi stesso, che di recente ha tentato di riavvicinarsi alla Merkel, si farà risucchiare in una linea anti-tedesca il cui unico beneficiario sarebbe Salvini? Ma c’è di più. Se la caratteristica di fondo del Front è un populismo che si nutre di tutte le paure collettive - dal terrorismo all’invasione musulmana, dalla crisi economica all’ostilità verso l’Europa, in Italia è ben vivo un movimento, i Cinque Stelle, che esprime già tali inquietudini, in una forma in grado di attirare elettori da destra e da sinistra. Se si sommano i consensi potenziali di Salvini e del M5S, in base ai maggiori sondaggi, otteniamo un dato del 40 per cento, forse oltre. Più di quanto ha raccolto Marine Le Pen ieri sera. E i Cinque Stelle sanno incanalare le frustrazioni popolari più di quanto riesca a Salvini, pur essendo privi di una leadership strutturata e definita sul piano politico. La manifestazione ieri davanti a Montecitorio, in difesa dei risparmiatori che hanno perso i risparmi nel buco nero delle quattro banche salvate dal governo Renzi, rappresenta un formidabile richiamo in vista delle amministrative. È vero, mancano circa sei mesi a quell’appuntamento, ma l’effetto trascinamento del voto francese potrebbe essere irresistibile. Poi sappiamo che il voto nelle città non chiama in causa la sorte del governo, come avverte il premier. Di fatto però potrebbe indebolirlo parecchio, come è indebolito e quasi tramortito Hollande in Francia. Questo è il punto preoccupante per Renzi. Il Fn ha drenato grandi quantità di voti tradizionali della sinistra, fino a renderla irriconoscibile. Il rischio esiste anche in Italia e bisogna capire se il populismo morbido del presidente del Consiglio è la migliore barriera contro il populismo duro dei lepenisti nostrani. In Gran Bretagna il laburista Benn ha scelto un’altra strada: parole ferme e atti di guerra contro la minaccia del Daesh. L’opposto del centrosinistra italiano. Ma questa è un’altra storia. Ho una visione da incubo per il 2017: Trump, Le Pen e Putin presidenti... di Gideon Rachman (Traduzione Marco Mariani) Il Sole 24 Ore, 7 dicembre 2015 Ho una visione da incubo per l’anno 2017: Trump presidente, Le Pen presidente, Putin presidente. Come la maggior parte degli incubi, anche questo probabilmente non si avvererà. Tuttavia, il fatto stesso che Donald Trump e Marine Le Pen stiano andando forte nella corsa per le elezioni presidenziali americane e francesi dice qualcosa di inquietante sullo stato di salute della democrazia liberale in Occidente. In tempi di confusione e paura, gli elettori sembrano subire la tentazione di affidarsi a leader dalla forte impronta nazionalistica, le versioni occidentali di Vladimir Putin. Recentemente a Washington, ho trovato che buona parte degli analisti politici più influenti non dà credito all’idea che Trump possa aggiudicarsi la nomination repubblicana, per non parlare della presidenza. Sono rimasto colpito dalla loro autocompiacenza. In realtà, se Trump fosse un candidato normale, dovrebbe essere considerato favorito per la nomination. È, infatti, in testa nei sondaggi negli Stati che saranno decisivi per la fase iniziale delle primarie come Iowa, New Hampshire e Carolina del Sud. Le sue indegne affermazioni nei confronti di messicani, musulmani, disabili e donne non ne hanno intaccato la popolarità. Molti democratici ridacchiano al pensiero che i repubblicani siano abbastanza folli da designare Trump perché verrebbe certamente sconfitto da Hillary Clinton alle elezioni presidenziali. Tuttavia, un tale esito non può essere dato per scontato. I più recenti sondaggi nazionali sulla sfida Trump-Clinton danno il repubblicano vincente con uno scarto di cinque punti. Alcuni dei discorsi di Trump sono così sfacciatamente razzisti da fare apparire la stessa Le Pen come una moderata. La leader dell’estrema destra francese sta ora cercando con grande attenzione di ammorbidire la propria immagine in vista della corsa alla presidenza nel 2017. Già prima degli attacchi terroristici a Parigi, quasi tutti i sondaggi la accreditavano come "qualificata" per il secondo turno delle presidenziali. Questo mese il Fronte Nazionale potrebbe compiere un significativo passo in avanti vincendo le elezioni regionali, un risultato che lo farà apparire ancora più credibile come potenziale partito di governo. Il fenomeno dell’ascesa degli estremismi politici non è circoscritto agli Usa e alla Francia. I partiti ultra-nazionalisti sono in crescita in Scozia e in Catalogna, al punto che minacciano la sopravvivenza del Regno Unito e della Spagna come Stati nazione. Una sensazione di crisi si sta diffondendo in Germania nella prospettiva che quest’anno arrivi oltre un milione di rifugiati, e potrebbe innescare una reazione contro il governo della cancelliera Angela Merkel. Sotto la spinta della recessione e delle crisi del debito nel Sud Europa, i partiti alle ali estreme del sistema politico sono già entrati al governo in Grecia e in Portogallo. Che cosa sta, dunque, avvenendo nel mondo politico occidentale? L’evoluzione generale in corso evidenzia una perdita di fiducia nelle élite politiche tradizionali, unita alla ricerca di alternative radicali. Dietro questo fenomeno, a mio avviso, ci sono quattro tendenze di ampia portata: l’aumento dell’insicurezza economica; la reazione contro l’immigrazione; la paura del terrorismo; infine, il declino dei media tradizionali. Gli Stati Uniti hanno vissuto numerosi decenni di retribuzioni reali in declino o comunque immobili per la maggior parte degli americani. In molti Paesi europei, inclusa la Francia, i tassi di disoccupazione a doppia cifra sono diventati la norma. La crisi finanziaria del 2008 ha generato come conseguenza una persistente perdita di fiducia nelle capacità delle classi dirigenti, oltre che nell’equità e nella stabilità dei sistemi economici occidentali. L’insicurezza economica si è, poi, sposata con un senso di instabilità sociale collegato alla crescita dell’immigrazione. L’afflusso di ispanici negli Stati Uniti e di musulmani nell’Europa occidentale pone i Trump e le Le Pen nelle condizioni di poter sostenere che le elite inefficienti hanno lasciato emergere fondamentali cambiamenti sociali senza consultare la gente comune. Trump ha invocato la deportazione dagli USA di 11 milioni di immigrati clandestini e la Le Pen una volta ha paragonato i musulmani che pregano nelle strade di Francia all’occupazione nazista del Paese. L’ex presidente Nicolas Sarkozy, probabile antagonista della stessa Le Pen alle presidenziali del 2017, si è associato all’attacco contro il "multiculturalismo". Questo tipo di retorica sull’immigrazione musulmana e sul tradimento delle classi dirigenti sta ora diventando un luogo comune anche in Germania. In seguito agli attacchi di Parigi, la paura del terrorismo si sta saldando con l’ostilità nei confronti degli immigrati. L’onda d’urto che si è propagata dalla capitale francese è stata avvertita al di là dell’Atlantico, dove Trump, insieme a buona parte dei repubblicani, è stato rapido nel pronunciare il suo proclama: accogliere gli immigrati farebbe aumentare il rischio di un attacco terroristico. Un tema comune ai populisti, ai nazionalisti e agli estremisti di tutto il mondo occidentale è la convinzione che i media più influenti sull’opinione pubblica stiano oscurando il dibattito e siano controllati da elite inaffidabili. I candidati repubblicani hanno imparato che prendersela con i giornalisti è una via facile per strappare un applauso. In Francia e in Germania sta diventando sempre più popolare l’idea che i mezzi di comunicazione bugiardi e campioni del politically correct abbiano soffocato la discussione sull’immigrazione. Nel frattempo, la diffusione dei social media ha permesso la fioritura di narrazioni alternative. Gli americani disposti a credere che il presidente Barack Obama sia un musulmano trovano persone che hanno la loro stessa opinione sui siti internet e nella cassa di risonanza delle radio di informazione e dibattito. Le suggestioni di tono cospirativo stanno impazzando sui social media di tutta Europa. C’è un detto famoso del senatore americano Daniel Moynihan scomparso nel 2003: "Ognuno ha diritto alle proprie opinioni, ma non ai propri fatti". Nell’era dei social media non rappresenta più una verità. Per i simpatizzanti di Trump, Le Pen e Putin nulla può essere etichettato come "vero". Nell’attuale contesto di insicurezza economica, sociale e fisica, l’estremismo è libero di prosperare. Renzi: "Non rincorro bombe di altri, sulla crescita sfideremo Bruxelles" di Maria Teresa Meli Corriere della Sera, 7 dicembre 2015 Francia, Germania e Gran Bretagna si stanno muovendo sul fronte della guerra all’Isis. Noi siamo l’unico grande Paese europeo fermo, presidente Renzi qual è la strategia? "La posizione dell’Italia è chiara e solida. Noi dobbiamo annientare i terroristi, non accontentare i commentatori. E la cosa di cui non abbiamo bisogno è un moltiplicarsi di reazioni spot senza sguardo strategico. Tutto possiamo permetterci tranne che una Libia bis". Non teme che così l’Italia rischia di avere un ruolo marginale nella partita libica? "Se protagonismo significa giocare a rincorrere i bombardamenti altrui, le dico: no grazie. Abbiamo già dato. L’Italia ha utilizzato questa strategia in Libia nel 2011: alla fine cedemmo a malincuore alla posizione di Sarkozy. Quattro anni di guerra civile in Libia dimostrano che non fu una scelta felice. E che oggi c’è bisogno di una strategia diversa". E noi restiamo fermi... "No, siamo ovunque. L’Italia è una forza militare impressionante. Guidiamo la missione in Libano, siamo in Afghanistan, in Kosovo, in Somalia, in Iraq. Il consigliere militare di Ban Ki- moon per la Libia è il generale Serra, uno dei nostri uomini migliori. Abbiamo più truppe all’estero di tutti gli altri, dopo gli americani e come i francesi. I tedeschi hanno deciso di aumentare i loro contingenti dopo Parigi, ma ancora non arrivano al nostro livello di impegno. E ciò che loro hanno deciso nel dicembre 2015, noi facciamo dal settembre 2014. Sono fiero e orgoglioso dei nostri militari. Ma proprio perché ne stimo la professionalità dico che la guerra è una cosa drammaticamente seria: te la puoi permettere se hai chiaro il dopo. Quando diventi presidente del Consiglio ti guida la responsabilità, non la smania". Intanto, però, Hollande interviene, e lei no. "Ho grande rispetto, stima e amicizia personale per François Hollande. È un uomo molto intelligente, la sua reazione è legittima e comprensibile. Ma lui sta guidando una Francia ferita, che ha bisogno di dare risposte a cominciare dal piano interno. Noi vogliamo allargare la riflessione, lottando contro il terrorismo e domandandoci quale sia il ruolo dell’Europa oggi. Doveroso intensificare la lotta a Daesh, discutiamo del come. E non dimentichiamo che gli attentati sono stati ideati nelle periferie delle città europee: occorre una risposta anche in casa nostra. Ecco perché servono scuole e teatri, non solo bombe e missili. È per questo che per ogni euro speso in sicurezza l’Italia investirà un euro in cultura". Comincia l’Anno Santo, aumentano i rischi di un attentato? "I rischi ci sono sempre. Non facciamo allarmismi e non sottovalutiamo niente. Speriamo di replicare il successo Expo". Il "rosso" Corbyn dice no all’intervento, come lei, mentre i blairiani sono a favore, non la imbarazza? "Blair passerà alla storia come un gigante, non solo nel Regno Unito. Ma questo non significa che le abbia azzeccate tutte. Credo che sull’Iraq siano stati compiuti errori, possiamo dirlo o è lesa maestà? Detto questo davanti a Daesh e tutte le forme di terrorismo noi siamo pronti, anche militarmente. Se ci sarà una strategia chiara ci saremo. Ma perché questo accada adesso è cruciale un accordo a Vienna sulla Siria e uno a Roma sulla Libia: ci stiamo lavorando. Fa meno notizia di un bombardamento, ma è più utile per sradicare il terrorismo". Lei ha deciso di stanziare 500 milioni per le periferie, ma molti sindaci dicono che sono pochi. "Non sono pochi. E si sommano ai milioni liberati dal patto di Stabilità, agli investimenti sulle scuole e sugli impianti sportivi. Non servono miliardi per combattere il degrado ma cittadini consapevoli e progetti fatti bene, all’insegna di quell’arte del "rammendo" di cui parla Renzo Piano. Piccoli interventi ma fatti bene possono cancellare il degrado e restituire un senso di comunità. Parola di (ex) sindaco". Non crede di aver deluso le imprese spostando le risorse stabilite per taglio all’Ires al bonus per i giovani? "No. Abbiamo eliminato l’Irap costo del lavoro, l’Irap agricola, l’Imu. Abbiamo ridotto in modo strutturale la pressione fiscale sulle imprese e continueremo a farlo. Chi vorrà investire in azienda - anziché mettersi i soldi in tasca - avrà incentivi a cominciare dal superammortamento. E i consumi sono tornati a crescere da quando abbiamo rimesso nelle tasche degli italiani 10 miliardi con gli 80 euro. Nessuno aveva mai fatto così tanto in così poco tempo. Le aziende lo sanno. Si può sempre fare meglio, ma dato il quadro di bilancio - dal prossimo anno il debito finalmente scenderà e questo è un bene per i nostri figli - non possiamo fare di più. Adesso la sfida è soprattutto sui consumi. Gli italiani sono delle formichine e hanno un risparmio privato tra i più alti al mondo. Se smettiamo di piangerci addosso e creiamo un clima che incoraggi a rimettere in circolo i denari, allora l’Italia tornerà locomotiva d’Europa. Il salto di qualità lo faremo quando si smuoverà l’immenso moloch del risparmio privato. E, in misura minore, gli investimenti pubblici". L’Istat ha rivisto in meglio le stime del Pil che aveva dato l’altro giorno. Ma comunque di uno 0,8 si tratta, cambierà qualcosa nella legge di Stabilità o gli interventi previsti sono sufficienti? "Non cambia niente. Fino a un anno fa dicevano che avremmo fatto la fine della Grecia e oggi la musica è diversa. In un anno recuperiamo trecentomila posti di lavoro col Jobs act, i mutui crescono del 94%, il Pil torna positivo dopo tre anni. Certo, il quadro internazionale non ci aiuta, ma l’Italia è forte. E se riparte la scintilla che viene solo dai cittadini, dai consumatori, dagli imprenditori, allora altro che Grecia: faremo meglio della Germania". Il Censis ci descrive come un Paese in letargo... "Quella del letargo è una immagine che non mi convince. Chi sta tenendo in piedi l’Italia è gente che non dorme. Gente che crede nel merito. Che rischia tutti i giorni". State preparando un decreto che esclude dall’applicazione del Jobs act il pubblico impiego. Perché questa disparità di trattamento tra pubblico e privato? "Se sei dipendente pubblico significa che hai vinto un concorso. Non è che se cambia sindaco allora quello ti licenzia. Mi accontenterei di licenziare quelli che truffano, che rubano, che sono assenteisti. Senza che qualche giudice del lavoro li reintegri. Ma nel pubblico è impossibile che, cambiando maggioranza politica, si possa licenziare: sarebbe discriminatorio. In ogni caso le norme sul pubblico impiego saranno interessanti e per certi aspetti rivoluzionarie". Nonostante gli interventi di Draghi, le cose non sembrano funzionare soprattutto nel nostro Paese, si aspettava di più dalla Bce? "Draghi sta facendo un lavoro straordinario e chi lo critica non si rende conto che occorre del tempo per gli effetti del Quantitative easing. Per il momento la ripresa si deve principalmente a fattori interni. Quello che serve oggi è una discussione sulla politica economica europea, con la Commissione. Noi abbiamo ottenuto la flessibilità e la stiamo anche utilizzando. Ma la vera domanda da farci è: la linea economica tenuta fino ad oggi è sufficiente a restituire crescita all’Europa? Per me no, c’è bisogno di cambiare rotta. Questa è la sfida a Bruxelles. Difficilissima ma vale la pena farsi sentire. Siamo l’Italia, noi!". Si è aperta una grande polemica per il salvataggio di quattro banche. "Se il governo non fosse intervenuto queste banche avrebbero chiuso, i dipendenti sarebbero andati a casa e i correntisti non si sarebbero salvati. Rivendico con orgoglio l’azione del governo per salvare le banche, i lavoratori e i correntisti senza usare denaro pubblico. La vicenda subordinati non è facile, ma cercheremo di aiutare queste persone. Che però non sono truffate: hanno siglato contratti regolari, sia chiaro. Quello che è successo a certe banche è il frutto di venti anni di scelte discutibili. In passato i governi hanno deciso di non intervenire per il consolidamento del sistema bancario: credo sia stato un errore. La Merkel ha messo 247 miliardi per salvare il sistema del credito tedesco (che ancora oggi è peggio del nostro), ma chi ci ha preceduto a Palazzo Chigi ha pensato di rinviare i problemi. Adesso i nodi sono al pettine. Noi non ci tiriamo indietro di fronte alle responsabilità. Abbiamo sistemato le popolari, tra mille polemiche. E dopo Natale vogliamo consolidare le banche del credito cooperativo, facendone uno dei gruppi bancari più solidi sul modello del Crédit Agricole". Il Pd sembra in grande affanno, basti pensare a come si divide a Milano tra Sala e Balzani. "Il sindaco di Milano lo scelgono i milanesi, non i rignanesi. Saranno delle primarie bellissime, che vinca il migliore. Tutto il resto è dietrologia, noia, autoreferenzialità. I candidati parlino con i cittadini e chi è più convincente sarà il candidato". Intanto la prossima settimana ci sarà la Leopolda, non è in contraddizione con la mobilitazione dei banchetti Pd? "Nessuna contraddizione, anzi: iniziative complementari. La Leopolda è uno straordinario incubatore di talenti e di idee. Chi ironizza sulla classe dirigente uscita dalla Leopolda dovrebbe verificare i risultati. Un anno fa Jobs act, legge elettorale, riforma costituzionale, riforma della Pubblica amministrazione, buona scuola, riduzione delle tasse sembravano sogni impossibili da raggiungere. A distanza di 12 mesi per noi parlano i risultati. La generazione Leopolda adesso è al potere: dobbiamo dimostrare di cambiare la politica senza permettere alla politica di cambiare noi. Sono stato a Rignano, nel mio paese, per il banchetto del Pd. Mi fa piacere che alla fine, ritrovandosi con gli amici di sempre, ti rendi conto che alla fine dei conti non siamo cambiati, che noi siamo sempre noi, persone semplici, chiamate per un po’ a servire il Paese e poi pronte a tornare al proprio ruolo. Nei fatti la Leopolda ha rivoluzionato il sistema politico". In momenti come questi in cui per forza è molto impegnato sul fronte del governo, non pensa che il doppio incarico sia un errore? "No. Ovunque il capo del principale partito è anche leader del governo". Le Amministrative non si profilano vittoriose per il Pd, per questo dite già che non sono un test per il governo? "È banalmente una questione di serietà. Se eleggi un sindaco che c’entra il governo? Le Comunali scelgono i primi cittadini, non i primi ministri. E comunque da qui alle Amministrative ci sono 6 mesi: con tutto il rispetto, noi nel frattempo vogliamo governare". È una domanda posta un po’ in anticipo ma da tempo se la fanno tutti o quasi: cambierà l’Italicum? "Credo proprio di no". Libia: firmato l’accordo tra i due governi paralleli, ma l’anarchia regna sovrana di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 7 dicembre 2015 Il vice presidente del Congresso Nazionale Generale (Gnc) di Tripoli, Awad Abdul Saddeq, ha firmato con il deputato di Bengasi al parlamentino di Tobruk, Ibrahim Amash, un documento di intesa per la costituzione di un governo di unità nazionale. Nonostante nuovi, ma confusi, segnali di dialogo, il caos politico resta sovrano e apre la strada all’infiltrazione dei jihadisti di Isis da Siria e Iraq. Sembra un accordo zoppo quello firmato ieri a Tunisi tra alcuni esponenti delle fazioni che fanno capo al governo di Tripoli e altre a quello di Tobruk. A prima vista la notizia comparsa sul sito di informazioni Libya Herald parrebbe buona: il vice presidente del Congresso Nazionale Generale (Gnc) di Tripoli, Awad Abdul Saddeq, ha firmato con il deputato di Bengasi al parlamentino di Tobruk, Ibrahim Amash, un documento di intesa per la costituzione di un governo di unità nazionale. Vi si prospetta la creazione di un comitato di dieci persone (cinque deputati di ognuna delle due parti) che entro due settimane dovrebbero scegliere il premier e due vice-presidenti. E ciò in parallelo all’opera di mediazione per una coalizione unitaria voluta dall’Onu già quasi un anno fa e iniziata dall’ex inviato speciale del Palazzo di Vetro, il diplomatico spagnolo Bernardino Leon (dimesso il 16 novembre), e adesso proseguita dal tedesco Martin Kobler. "Noi vorremmo creare il nostro governo in modo autonomo, senza interferenze esterne", dicono i sostenitori dell’iniziativa. Ieri Kobler si è affrettato a plaudire alla cosa. Ma è il classico buon viso a cattivo gioco. Nessuno controlla nessuno. Il problema è infatti che ormai in Libia nessuno controlla nessuno. L’anarchia regna sovrana e qualsiasi parvenza di autorità centrale, o parziale che sia, viene metodicamente messa in dubbio dalla miriade di tribù, milizie e centri di potere locali in lotta tra loro. Mentre dunque a Tunisi avvenivano gli incontri tra fazioni frondiste dei due parlamenti, lo stesso Kobler vedeva il presidente del governo di Tobruk, Ageela Salah Gwaider, il quale pare fosse ignaro dell’iniziativa parallela dei suoi compagni di cordata. Una possibile spiegazione è che ormai larga parte dei libici rifiuta la legittimità dei due parlamenti rivali e i loro membri cercano dunque in modo autonomo di ricostruirsi un futuro politico. Si spiegano così anche le recenti aperture di alcune fazioni di Tobruk nei confronti di Seif Al Islam, il figlio più politico di Gheddafi oggi imprigionato a Zintan. Una mossa che vede l’opposizione di Tripoli, ma anche di ampi settori delle milizie legate a Tobruk. Libia: mistero sull’esecuzione di due detenuti uccisi nel carcere di al Maraj Nova, 7 dicembre 2015 È mistero sulle dinamiche della morte di due detenuti del carcere libico di al Maraj, vicino Bengasi. uccisi in seguito a un’esecuzione avvenuta con due colpi di arma da fuoco alla nuca. L’episodio è stato denunciato dall’organizzazione per i diritti umani libica "Vittime" che ha denunciato il ritrovamento dei due cadaveri in una strada nei dintorni del carcere. I corpi presenterebbero degli evidenti segni di tortura. Per l’Ong l’uccisione è stata eseguita da un’organizzazione locale che sostiene di combattere il terrorismo per conto del ministero dell’Interno di Tobruk. I due detenuti erano accusati di aver ucciso un ex procuratore generale di Derna. Belgio: Messa di Natale trasmessa in diretta da un carcere Radio Vaticana, 7 dicembre 2015 Per la prima volta, il prossimo 25 dicembre, la Messa di Natale sarà trasmessa, in diretta ed in eurovisione, da un carcere: quello di Marche, in Belgio. Lo rende noto Cathobe, l’agenzia informativa dei vescovi cattolici del Paese. L’organizzazione tecnica dell’evento sarà resa possibile grazie all’emittente Rtbf, (Radio Televisione belga francofona) che invierà il segnale in diretta anche in Africa. Per permettere di posizionare le telecamere, la celebrazione si terrà nella palestra del carcere, dove verrà allestito anche il presepe. Dare più umanità al carcere, per vivere la misericordia. L’obiettivo, spiega padre Fernand Stréber, cappellano del centro di reclusione, è quello di far sì che "in prigione ci sia più umanità possibile, fattore indispensabile affinché i detenuti possano reinserirsi" nella società. "Essi sono in carcere per scontare una pena - spiega il cappellano - non per subire umiliazioni. Ed autorizzando le telecamere per la Messa di Natale si dà, all’edificio carcerario, una dimensione umana". La celebrazione sarà animata da una piccola corale formata da alcuni detenuti, mentre due di essi suoneranno, rispettivamente, la chitarra ed il flauto. "Questo - aggiunge padre Stréber - è davvero un bel modo di vivere la misericordia", proprio durante il Giubileo straordinario indetto dal Papa. Necessaria autorizzazione per riprendere i detenuti. La diretta televisiva sarà introdotta da un breve filmato descrittivo del carcere, affinché i telespettatori possano comprendere al meglio la particolarità del luogo in cui verrà celebrato il Santo Natale. Infine, una specifica liberatoria verrà sottoscritta dai detenuti che parteciperanno alla Messa, così da permettere le riprese televisive.