Lettera aperta di un ergastolano a Roberto Saviano di Carmelo Musumeci carmelomusumeci.com, 6 dicembre 2015 "Ho saputo che un altro detenuto s’è suicidato impiccandosi alle sbarre della sua cella. Ed ho pensato che quando sei circondato dalle tenebre, basta dare una spinta allo sgabello, una volta sola, per vedere un po’ di luce. Forse per questo è difficile non approfittarne". Ciao Roberto, un amico, membro di uno dei tavoli degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale in corso in questo periodo, mi ha mandato un tuo articolo dal titolo "Saviano: dentro Poggioreale. Se questo è un carcere" e mi ha dato l’idea di scriverti per chiederti di darmi una mano a fare conoscere le nostre "Patrie Galere", che i nostri governanti mal governano, perché tu hai più voce e luce di noi. Prima di leggere l’articolo sinceramente ho pensato "Non gli scrivo, figurati se risponde ad un ergastolano, condannato pure per mafia". Poi leggendoti ho iniziato a meditare di provarci. Quando ho finito ho pensato: "Peccato che Roberto non sia un detenuto, perché con la sua intelligenza e coscienza sociale ci avrebbe potuto dare una mano a portare la legalità e l’umanità in questo inferno dantesco". Scusa, stavo dimenticando di presentarmi: mi chiamo Carmelo, sono attivo in rete, con un proprio sito personale curato da volontari. Sono dentro da più di ventiquattro anni e in tutti questi anni mi sono sempre impegnato per la legalità costituzionale in carcere, perché tutti abbiano un fine pena e per cercare di essere anche la voce degli altri compagni ergastolani, facendomi spesso promotore di diverse, pacifiche e costruttive, iniziative per l’abolizione dell’ergastolo. Una volta avevo letto in un articolo pubblicato su "La Repubblica" che anche tu eri favorevole all’abolizione della "Pena di Morte Viva" - come chiamo io la pena dell’ergastolo - o "Pena di Morte Nascosta", come la chiama Papa Francesco. Roberto, sarebbe importante se potessi tornare sull’argomento. In particolar modo su alcuni ergastolani arrestati giovanissimi, a diciotto, diciannove, venti anni, che hanno passato più anni della loro vita dentro che fuori. Molti di questi ragazzi sono stati usati, consumati e mangiati due volte, prima dai notabili del territorio di dove sono nati e cresciuti e poi dallo Stato centrale. A qualcuno di loro è stata messa in mano una pistola e, forse per paura o per cultura deviata, non hanno saputo dire di no. Una volta dentro il carcere, sono stati sfruttati dai politici di destra, centro, sinistra e dalla lobby dell’antimafia. I primi per scopi e consensi elettorali, i secondi per motivi finanziari e mediatici. Molti di questi giovani ergastolani sono nati già colpevoli e sfigati, sono stati usati come carne da cannone da tutti e molti di loro non si sono potuti permettere l’avvocato Buongiorno. Roberto, io mi chiedo sempre più spesso: perché non dare una seconda possibilità a questi uomini entrati ragazzi, educandoli ad uscire dalla cultura criminale, offrendo loro l’alternativa di una cultura civile, dando loro un fine pena? Una pena senza perdono, senza speranza, senza un fine, una pena disumana come il carcere a vita senza possibilità di liberazione, non potrà mai rieducare nessuno. Se vuoi veramente punire un criminale, perdonalo o dagli una speranza. Se invece lo vuoi fare sentire innocente tienilo dentro e butta via la chiave. Roberto, lo so che hai tanti nemici, ma se decidi di lottare contro l’esistenza della "Pena di Morte Viva" in Italia, ti avverto, ne avrai ancora di più perché lo Stato perderebbe il suo nemico su cui scaricare tutte le colpe e la mafia perderebbe i suoi affiliati perché, con la speranza di rifarsi una vita, molti uscirebbero dalle loro organizzazioni. Un sorriso fra le sbarre. Giornata del Volontariato. Mattarella "muri indeboliscono il Paese" di Marco Tarquinio Avvenire, 6 dicembre 2015 Un Paese impaurito, un Paese dove si costruiscono muri, un Paese dove si allentano i legami sociali è un Paese più debole". Al contrario, un Paese "unito" e "solidale" è un Paese "più forte" e "in grado di affrontare le sfide del nostro tempo". Come ad esempio i flussi migratori - "dovuti alle guerre e alle persecuzioni, alle privazioni nei Paesi del Medio Oriente e dell’Africa"- che "ci richiedono, senza rinunciare alla sicurezza, un di più di accoglienza e di disponibilità". Sergio Mattarella parla di fronte a una platea di volontari. L’occasione è l’odierna Giornata internazionale del Volontariato, la festa di oltre "6,5 milioni di italiani". Un milione i giovani, sottolinea la Fondazione Volontariato e Partecipazione. Con addosso le proprie divise, di volontario in Protezione civile o Croce Rossa, o vestiti in abiti civili, una rappresentanza "dell’Italia migliore" è stata accolta stamattina al Quirinale, alla presenza della presidente della Camera, Laura Boldrini, del ministro del lavoro Giuliano Poletti. Tra di loro c’è chi si occupa dei poveri, dei detenuti, ma anche della tutela dei beni culturali. E poi c’è Marta Bernardini, 27 anni, che si è trasferita a Lampedusa. "Qui si è alla frontiera - racconta - le persone che arrivano non sono solo immagini alla televisione, ma persone vere, che mettono in discussione la nostra umanità. Non possiamo continuare a contare i morti, vorremmo parlare di corridoi umanitari e del rispetto delle leggi che tutelano chi fugge dalla violenza". "I problemi che abbiamo di fronte - ha osservato Mattarella parlando ai volontari - sono gravi e numerosi e il vostro contributo è necessario". C’è la povertà da "debellare, perché non è degna di un paese civile"; ci sono i "flussi migratori" che "richiedono un di più di accoglienza e di disponibilità", "periferie urbane ed esistenziali da risanare", la tutela dell’ambiente. "Sono certo che non vi tirerete indietro": "in questo periodo in cui la paura aumenta, in cui cresce la tentazione di chiudersi nei propri steccati", "è necessario rafforzare la solidarietà e la coesione di cui voi tutti siete testimoni e portatori". Ma soprattutto, ha sottolineato il Capo dello Stato, "non rinunciate a pensare in grande. Costruire una società più equa e solidale è possibile. È un obiettivo che si può raggiungere compiutamente con buona politica e buona amministrazione. Da parte delle istituzioni, del mondo politico occorre che venga ascoltata la vostra voce, che venga prestata attenzione ai vostri suggerimenti, in linea con la necessaria apertura alla società civile". Quella dei volontari è infatti un’energia "osmotica e dialogante", "una grande risorsa per il nostro Paese", Perché - ha puntualizzato Mattarella - lo Stato da solo non basta". E allora ai "valori senza confini" del volontariato che sono "solidarietà, gratuità, generosità, impegno" si aggiunge "sacrificio". Subito il richiamo alla dottoressa volontaria in Kenya, Rita Fossaceca, rimasta uccisa. "Il suo sacrificio - ha detto Mattarella, chiedendo un minuto di silenzio - è l’ultimo di una lunga serie che ha riguardato volontari e cooperanti italiani nel mondo". Il Sottosegretario alla Giustizia Ferri "il volontariato risorsa imprescindibile per le carceri" Ansa, 6 dicembre 2015 "Nella giornata internazionale per il volontariato rivolgo il mio pensiero e ringraziamento più sincero alle migliaia di persone che ogni giorno svolgono attività a titolo gratuito all’interno degli istituti penitenziari, contribuendo a migliorare la qualità dei servizi, portando un significativo supporto ai detenuti, ascoltando i loro problemi e dando sostegno morale e psicologico". Lo ha detto il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri in occasione della celebrazione della Giornata internazionale del Volontariato, istituita dalle Nazioni Unite per sottolineare l’importanza del lavoro svolto dalle migliaia di volontarie e volontari in tutto il mondo. "Il Governo e il Ministero della Giustizia- ha aggiunto- stanno portando avanti una vera rivoluzione culturale sul concetto di detenzione, finalizzata, nel rispetto del principio della certezza della pena, ad una maggiore umanizzazione e al perseguimento degli obiettivi di rieducazione e reinserimento contenuti anche nella nostra Costituzione e, in questo senso, l’attività di questi volontari costituisce un concreto punto di riferimento per la buona riuscita del nostro progetto". Carceri e violenza. L’ex ministro Flick: "Costituzione affievolita dietro le sbarre" di Dino Martirano Corriere della Sera, 6 dicembre 2015 "Voltaire diceva che "le carceri sono il termometro di un Paese...". E così, adesso, noi potremmo anche concludere di avere la febbre a 40...". Il professor Giovanni Maria Flick - ex Guardasigilli ed ex presidente della Corte costituzionale - non ha più cariche istituzionali ma, da studioso, si è immerso ancora una volta nel mondo delle prigioni italiane che, a suo parere, "nell’era del terrorismo globalizzato e della "tolleranza zero" sta facendo molti passi indietro". Così davanti alla vicenda del carcere di Parma - un detenuto marocchino ha registrato le frasi choc di agenti, medici e infermieri in cui si afferma, oltre fare l’elogio della violenza, che "se la Costituzione entrasse davvero nelle celle, allora il carcere andrebbe chiuso" - Flick dice di essere "estremamente preoccupato". Perché l’episodio "rischia di essere la pietra tombale per i buoni propositi che pure animano molte persone che lavorano per il carcere". Da ministro, Flick nominò al vertice del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria prima Michele Coiro e poi Alessandro Margara che, con il loro impegno quotidiano hanno interpretato il massimo dell’attaccamento ai principi costituzionali della pari dignità sociale (articolo 3 della Carta) e della funzione rieducativa della pena e del rispetto della dignità del detenuto (articolo 27). Purtroppo, argomenta Flick sulla scia delle condanne inflitte all’Italia dalla Corte per i diritti dell’uomo di Strasburgo e delle osservazioni della Consulta, "c’è una fetta di popolazione, quella dei più deboli, per la quale questi articoli della Costituzione hanno impatto affievolito". Con la paura, dunque, torna anche la convinzione dilagante che "i problemi della sicurezza si risolvano mettendo più "diversi" in galera e poi buttando via la chiave": "Ma non è così", insiste Flick che mette in guardia - anche nel suo saggio Elogio della dignità della Libreria Editrice Vaticana - contro gli effetti ancor più pericolosi di "un carcere ridotto a discarica sociale". "Se verranno confermate le registrazioni fatte dal detenuto di Parma", conclude il presidente emerito della Corte costituzionale, "se ne deduce che le tre emergenze del carcere emerse fin dall’Unità d’Italia - violenza, centralizzazione burocratica e chiusura verso l’esterno - non sono state debellate". Eppure da Bollate ad Opera, da Rebibbia a Sollicciano si moltiplicano gli sforzi di chi crede nella "finalità rieducativa della pena". Ma ora, osserva Flick, "l’emergenza terrorismo rischia di farci fare passi indietro". In corteo a Napoli le parrocchie dell’anticamorra di Adriana Pollice Il Manifesto, 6 dicembre 2015 Non mille ma più del triplo hanno manifestato ieri dalla Sanità a piazza Plebiscito contro "le camorre" per chiedere lavoro, istruzione, sanità. "Un popolo in cammino per la giustizia sociale contro le camorre" era scritto sullo striscione che apriva la manifestazione organizzata ieri a Napoli dalle parrocchie della Sanità, di Forcella e dei quartieri della periferia partenopea. Tra le tremila persone scese in strada c’erano tanti studenti, tra di loro il gruppo dell’associazione "Tutti a scuola" che si batte per assicurare il diritto alla studio dei ragazzi disabili. C’erano realtà di movimento, rappresentanti della Cgil e della Fiom, politici in ordine sparso (presenti quando la campagna elettorale lo richiede): senza simboli, però, perché ieri in corteo c’era il popolo. "Vogliamo vedere in strada la Napoli "per bene" - dichiara padre Alex Zanotelli - quella spesso indifferente alla Napoli "per male", siamo una società sola e dobbiamo prenderci cura gli uni degli altri. Quello che succede alla Sanità o a Forcella riguarda tutti". Nel fiume di partecipanti, ragazzini con le magliette di altri ragazzini, poco più grandi, uccisi dalla camorra come effetti collaterali della guerra per la supremazia nello spaccio, suore domenicane e salesiane, l’imam Abdullah Cozzolino, i precari del progetto Bros, tutti insieme fino a piazza Plebiscito sulle note della colonna sonora dei Modena City Ramblers del film I cento passi. Volti di gente normale, quella che viene accusata di essere a favore dei clan, di essere geneticamente predisposta a delinquere, di non avere il coraggio di prendere posizione. Nei giorni scorsi si sono riuniti per stilare un documento: scuola, sicurezza e lavoro, i tre punti fondamentali su cui aspettano una risposta dal governo. "Abbiamo scelto di parlare di camorre e non di camorra, perché sono tante a Napoli - è scritto nel testo -. Stanno nell’intreccio tra camorra, politica corrotta e imprenditoria collusa, tengono in scacco la nostra città frenandone lo sviluppo economico, strozzandone le prospettive di crescita e avvelenando le nostre terre. Alla nostra città non servono interventi spot, serve un piano strutturale di recupero nei quartieri, servono massicci investimenti per le politiche sociali e uno studio approfondito sulla situazione del disagio minorile". Una bomba sociale, così defiscono la situazione a Napoli: "Le ultime generazioni di ragazzini, gli stessi che non frequentano le scuole e passano le giornate abbandonati per le strade, rischiano di diventare una vera e propria "riserva" per i clan che offrono forme di guadagno facile e immediato, rispetto a una città che non offre prospettive lavorative a più del 50% dei suoi giovani. Le prospettive, al di fuori del lavoro precario o nero, sono quasi inesistenti". Chiedono più sicurezza e controllo del territorio, due misure che da sole però non servono, senza un piano di investimenti per la crescita dell’occupazione a partire da bonifiche ambientali e rigenerazione urbana, accanto a misure di contrasto alle povertà. In piazza Dante, dove il corteo si è formato, c’erano i banchetti della campagna regionale per il reddito minimo garantito. Chiedono anche scuole aperte tutto il giorno e fondi per il diritto allo studio: dopo oltre dieci anni di governi di vari colori che hanno cancellato il tempo pieno al Sud, per continuare a sostenerlo al Centro-nord, gli effetti sono adesso evidenti a tutti e uno studente napoletano su quattro evade l’obbligo scolastico. Il documento è stato consegnato al prefetto da Giovanni Catena, il 29enne ferito per errore il 14 novembre da un proiettile vagante durante un agguato in piazza Sanità. Il raid scattò per uccidere il boss Piero Esposito, Giovanni, che nel week end lavora nel pub in piazza, era uscito a gettare la spazzatura e venne colpito. Nella stessa piazza all’alba del sei settembre venne ucciso il diciassettenne Genny Cesarano. I killer spararono a un gruppo di ragazzi, un colpo ferì Genny al torace. "Noi cittadini siamo soli e dobbiamo combattere - ha raccontato Giovanni Catena -. Potevo fare la fine del mio amico Genny, invece per fortuna sono ancora qui e quello che voglio chiedere è lavoro. Per noi non c’è nulla, solo mille lavoretti per cercare di far campare la famiglia". Alla manifestazione c’era anche la mamma di Ciro Esposito, il ragazzo morto dopo essere stato ferito da Daniele De Santis, prima della finale di Coppa Italia del 2014. "Il fatto nuovo di questa manifestazione è l’amicizia sociale che si è creata tra realtà diverse - racconta il parroco della Sanità, don Antonio Loffredo -. Il corteo non riguarda specificamente Genny Cesarano anche se, naturalmente, si attende che i responsabili siano assicurati alla giustizia. Ma è sintetizzata dalle richieste che rivolgiamo al governo su lavoro, scuola e sicurezza. Sulle nostre proposte in tema di lavoro serviranno tavoli di approfondimento, per intervenire su questi problemi occorre l’impegno del governo". Uno degli striscioni più grandi era dedicato al diciassettenne ucciso a settembre: "Verità e giustizia per Genny e per tutte le vittime innocenti". Il padre, presente al corteo, ha sottolineato: "Diciamo basta alla mattanza, andiamo nelle scuole a parlare con i nostri bambini, quello che vogliamo è giustizia sociale". Polemico con l’esecutivo il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, intervenuto alla manifestazione: "Il governo non fa nulla, e con il poco che fa ci mette solo in difficoltà. Il futuro ce lo costruiamo da soli ed è nelle nostre mani, se qualcuno pensa che la capitale morale del paese sia altrove dico che Napoli sta scrivendo pagine serie". Giustizia ingiusta: niente domiciliari, manca il braccialetto di Filippo Facci Libero, 6 dicembre 2015 C’è un tizio che dopo quattro anni di galera non può andare agli arresti domiciliari - che gli erano stati concessi a condizione che portasse i braccialetti elettronici - perché il tribunale di Milano ha finito i braccialetti elettronici. Il personaggio è quasi noto, perciò se ne parla e ne scriviamo, ma il problema riguarda da tempo un sacco di detenuti anche meno noti, e da anni, perciò accettiamo volentieri il ragionier Pierangelo Daccò come pretesto. Lui è conosciuto in primo luogo perché "amico" dell’ex presidente della Regione Roberto Formigoni e perché al centro di due indagini milanesi (il crac del San Raffaele e i fondi neri della Maugeri) per le quali è l’unico finito in carcere - attenzione - preventivo, alias custodia cautelare. È dentro dal tardo novembre 2011 ma non ha ancora una condanna definitiva, un classico italiano. Sequenza: 10 anni per il crac del San Raffaele (2012) poi ridotti a 9 in appello (2013) poi la Cassazione che annulla parte della sentenza (2014) perché in contraddizione con due co imputati assolti per la stessa accusa, ma il nuovo appello (2015) conferma la condanna e a metà di questo mese si ri-attende la Cassazione, chissà. La milionesima istanza di scarcerazione dei difensori Massimo Krogh e Paolo Veneziani - per una persona, ripetiamo, in custodia cautelare da 4 anni - era finalmente stata accolta dalla Corte di appello di Milano, dopo parere favorevole - mai senza - anche della Procura: arresti domiciliari ma monitorati attimo per attimo col braccialetto elettronico. Che poi è una cavigliera: si applica appunto alla caviglia, ed composto da una centralina installata nell’abitazione in cui deve essere scontata la condanna; un device riceve il segnale dalla cavigliera e lancia un allarme in caso di manomissioni o allontanamento non previsto del detenuto. Dettaglio: non c’è. L’aggeggio non c’è, la disponibilità è terminata e c’è una specie di lista d’attesa, a Milano come altrove. A Napoli, i penalisti hanno annunciato un pacchetto di scioperi ad hoc. In effetti c’è da immaginarsi come debba sentirsi una persona che aspetti la liberazione da quattro anni - istanza dopo istanza, rifiuto dopo rifiuto - sinché gli giunga finalmente la sospiratissima concessione dei domiciliari: lui che prepara le sue cose, avverte a casa, anzi no, il braccialetto non c’è. È un discreto schifo, ma non è che non si sapesse che la telenovela dei braccialetti è in replica da anni, hi Italia questi apparecchi esisterebbero - in teoria - dalla fine degli anni Novanta a imitazione di quanto in altri Paesi è prassi consolidata: e non servono tanto a far circolare liberamente chi l’indossa, ma a tenerlo detenuto in casa propria senza l’angoscia reciproca (e costosa) dei controlli. In Italia questi aggeggi hanno incontrato un problema in primo luogo culturale: certa demagogia sicuritaria ha sempre teso a considerarli una diminuito rispetto al carcere che invece è concepito come una punizione o un impedimento fisico a delinquere, diversamente da come dice la Costituzione. Dopo l’ex Guardasigilli Angelino Alfano, alla fine del 2011, era tornata alla carica anche la ministra della Giustizia Paola Severino nel cercare di scongiurare il sovraffollamento delle carceri. Tra mille disguidi e resistenze, i braccialetti hanno incominciato a essere usati abbondantemente solo a margine del decreto svuota-carceri del 2013, ma i numeri sui braccialetti restano piuttosto confusi: qualcuno sostiene che siano tecnologicamente già obsoleti, altri -Telecom - che i software sono stati aggiornati. Di certo, ogni tanto, i braccialetti finiscono. Telecom assicura che siano circa 2.000 (per un costo annuo di 5.500 euro l’uno, fanno in tutto circa 11 milioni) ma sul numero di quelli effettivamente disponibili c’è un certo mistero. Si sa che ricapita spesso la vergognosa telenovela: un giudice dispone i domiciliari condizionati al controllo elettronico ma poi ci si accorge che il controllo elettronico non si può fare, e dietrofront, prego, torni o resti dentro. Praticamente si è creato uno nuovo status giuridico non previsto da nessuna carta: ossia il carcerato in attesa di braccialetto, con cioè l’aggravio di sapere che resterà in galera pur avendo diritto a uscire. A gestire i braccialetti è Telecom, che non di rado risponde - direttamente ai legali - come già fece nel gennaio scorso a Palermo: "Vi informiamo che la richiesta potrà essere evasa solo a fronte del recupero per fine misura di un dispositivo in esercizio. Resta inteso che tutte e richieste saranno evase in funzione dell’ordine cronologico dì arrivo a codesta centrale operativa". Una comunicazione formale. Per un detenuto, una formale pugnalata. Magistratura, sorpasso delle donne. Le toghe rosa più dei colleghi maschi di Dino Martirano Corriere della Sera, 6 dicembre 2015 Su un totale di 9.098 magistrati, le donne sono 4.553 mentre gli uomini non superano quota 4.545. Poche però quelle che riescono a raggiungere incarichi di vertice. Il sorpasso era nell’aria da tempo e ora è ufficiale anche per le statistiche del ministero della Giustizia: le donne magistrato in servizio hanno superato nell’organico i colleghi maschi anche se nelle posizioni di dirigente degli uffici giudiziari le toghe rosa rappresentano sempre il fanalino di coda. Su un totale di 9.098 magistrati, le donne sono 4.553 mentre gli uomini non superano quota 4.545. Lo scarto è minimo ma da tempo, in occasione dei concorsi d’ingresso in magistratura, le toghe rosa dimostrano una netta propensione a superare gli esami rispetto ai candidati maschi. Tuttavia, tra i giudici sono ancora poche le donne con la toga che accedono agli incarichi di vertice: nei ruoli direttivi ci sono infatti 187 uomini e solo 50 donne. Lo scarto è ancora più evidente nella magistratura requirente: tra i pubblici ministeri che hanno il grado di capo dell’ufficio figurano 152 uomini e soltanto 23 donne. Ma una donna primo presidente di Cassazione. Mai finora una donna ha ricoperto il ruolo di primo presidente della Cassazione o di procuratore generale presso la Suprema corte e anche alla Direzione nazionale antimafia le donne si contano sulle dita di una mano.. Tra i togati del Consiglio superiore della magistratura, poi, c’è una sola donna: Maria Rosaria San Giorgio. "C’è una sorta di autoesclusione da parte delle donne magistrato che presentano un numero inferiore di domande per accedere a posizioni di vertice - dice Isabella Ginefra, presidente della commissione Pari opportunità dell’Associazione nazionale magistrati - anche perché è difficile che una donna chieda di andare in una ufficio che dista 200 chilometri dalla città di residenza". Nuove regole che non le favoriscono. E il futuro delle donne magistrato che ambiscono a dirigere un ufficio riserva anche regole più stringenti per le promozioni. "Il nuovo Testo unico sulla dirigenza varato dal Csm - spiega Ginefra - non migliorerà la situazione anzi per certi versi sarà ancora più difficile per una donna arrivare a un incarico direttivo. Le nuove regole infatti prevedono il possesso di titoli, quali l’aver partecipato ai consigli giudiziari o aver ricevuto deleghe da parte del capo dell’ufficio" che di regola è un uomo. "Le donne magistrato - conclude Ginefra - solitamente dedicano tutto il loro tempo all’esercizio delle funzioni. Con una produttività altissima". Sardegna: liberi di leggere, "libri in sospeso" per i detenuti delle carceri sarde sardiniapost.it, 6 dicembre 2015 Si chiama "Liberi di leggere" l’iniziativa pensata da un libraio romano per le biblioteche carcerarie italiane: fino a Natale si potranno acquistare nelle librerie che aderiscono al progetto testi che verranno poi consegnati ai detenuti di tutto il paese. Sardegna compresa: il carcere di Uta, quello di Oristano e quello di Tempio Pausania riceveranno nelle prossime settimane le donazioni raccolte all’interno della campagna. "La formula è la stessa del caffè sospeso, quello che al bar si lascia pagato per chi si trova in difficoltà - ci spiega l’ideatore dell’iniziativa, Massimiliano Timpano - noi abbiamo pensato al libro sospeso. Basta cercare le librerie che hanno appoggiato la campagna e scegliere uno o più libri che andranno poi in un centro di raccolta: da qui i volumi si spediranno alle biblioteche carcerarie. In Sardegna hanno aderito a "Liberi di leggere" la libreria Murru di via Machiavelli e il Punto Einaudi di via Petrarca, entrambe a Cagliari". Entusiasta del progetto Giancarlo Murru: "Abbiamo avuto un buon riscontro dai clienti che hanno deciso di comprare libri per i carcerati. Finora abbiamo raccolto titoli molto diversi tra loro: qualcuno ha scelto Erri De Luca, un altro Patrick O Brian, c’è Valerio Massimo Manfredi, l’ultimo di Emiliano Fittipaldi sulla corruzione nella Chiesa romana, altri sono andati sui classici della letteratura italiana come "Il Gattopardo". L’iniziativa proseguirà anche nelle prossime settimane: c’è tempo ancora fino a Natale per mandare un dono ai detenuti delle carceri italiane. Volterra (Pi): apre la "Residenza" erede dell’Opg di Montelupo, arrivati i primi pazienti gonews.it, 6 dicembre 2015 Volterra, storicamente un caposaldo nel trattamento dei pazienti con disturbi mentali, divenuta nell’ultimo ventennio del secolo scorso l’icona di una psichiatria manicomiale che finiva, ritrova, per volontà dell’Amministrazione comunale, un ruolo centrale con la richiesta alla regione di poter accogliere l’eredità di Montelupo Fiorentino divenendo, di fatto, un punto di riferimento per la Toscana e l’Umbria. Ha ufficialmente iniziato la sua attività dal mese di dicembre la Rems, Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza di Volterra, la struttura sanitaria destinata ad ospitare pazienti affetti da disturbi mentali autori di reato e provenienti dall’OPG di Montelupo Fiorentino e che potrà così essere definitivamente chiuso. Sono, infatti, arrivati i primi tre pazienti. "Ringrazio l’assessore Saccardi - spiega il sindaco Marco Buselli - per avere accolto la nostra richiesta. Un progetto che ha fallito in altri nove territori della regione ed è quindi per noi motivo di orgoglio esserci candidati ed aver avuto la possibilità di essere scelti. Un grazie particolare a tutti coloro che si sono impegnati per la realizzazione dell’opera in tempi così brevi. Il prossimo 21 dicembre in Consiglio comunale, insieme all’azienda sanitarie e alle forze dell’ordine, spiegare ai cittadini quali saranno le sfide progettuali che la nostra città si avvia ad affrontare con la Rems. Le nuove sfide e le nuove opportunità di lavoro per i nostri giovani passano anche da qui, dalla capacità della nostra città di saper interpretare una vocazione che è nel suo Dna". La chiusura dell’OPG di Montelupo, insieme a quella degli altri cinque ospedali giudiziari psichiatrici, dopo oltre un secolo di attività come luogo di cura, ma soprattutto di custodia, rappresenta una svolta epocale nel trattamento di questo tipo di pazienti che possono così usufruire di progetti terapeutici individualizzati ed effettuati in ambiente sanitario. "L’apertura della Rems di Volterra - spiega il direttore Alberto Sbrana - rappresenta la chiusura di un cerchio che si è aperto nel 1978 con l’approvazione della Legge Basaglia che, prevedendo il superamento degli ospedali psichiatrici, aveva lasciato aperti gli OPG con standard assistenziali del tutto inadeguati e uno stile più di custodia che terapeutico". La Rems, collegata in rete con tutte le strutture sanitarie, si avvale di psicologi, psichiatri, infermieri, OSS, educatori, assistenti sociali, tecnici della riabilitazione, in un approccio multidisciplinare integrato comune a tutti e servizi territoriali di salute mentale e si pone in diretta continuità con la Comunità Morel 3 (sempre a Volterra) che ospita pazienti in "licenza finale esperimento" o comunque alla fine della misura di sicurezza. Taranto: Osapp; in carcere situazione critica, sos al Prefetto Umberto Guidato tarantosera.it, 6 dicembre 2015 La denuncia del sindacato della Polizia penitenziaria Osapp. "Questa Segreteria Provinciale non può non sentire le lamentele e il malessere che i Poliziotti mi vengono a riferire. Perciò con questa lettere chiedo anche a Voi di non far finta che tutto vada bene". È quanto scrive, in una lettera indirizzata tra gli altri a sindaco e prefetto, il segretario del sindacato Osapp, Angelo Palazzo, in merito alle condizioni del carcere di Taranto. "Nella struttura jonica autoparco obsoleto, di cui alcuni pochi mezzi marcianti, dove a volte non rispettano gli standard di sicurezza, perché vengono utilizzati senza le dovute manutenzioni ordinarie e straordinarie, segnalate più volte dagli Autisti che nell’utilizzo del mezzo riscontrano. Per non parlare dei sistemi di comunicazione non funzionanti, quali radio dap net. localizzatori e video sorveglianza istallati sui mezzi. Stessa situazione si verifica su tutto il territorio regionale, che come Componente Regionale Commissione Automezzi, mi vengono segnalati dai colleghi di tutti gli Istituti Pugliesi. Queste anomalie devono far riflettere perché viene meno lo standard di sicurezza, sia per i poliziotti, detenuti trasportati e gli stessi cittadini che potrebbero essere coinvolti. Faccio alcuni esempi: lo scoppio di un pneumatico, un mezzo che non si riesce a fermare durante la marcia, la visibilità negli orari notturni causa la scarsa luminosità dei fari, ecc. In aggiunta anche la situazione del servizio di Istituto in particolare nei reparti detentivi non è rosea, per il semplice fatto che i poliziotti sono costretti a turni massacranti su tre quadranti (8 ore) che non rispecchia l’Accordo Quadro Nazionale, in aggiunta costretti al controllo di due e tre posti detentivi. Con la presente chiedo l’invio di mezzi di tutte le tipologie in tutti gli Istituti Pugliesi, in aggiunta per la Casa Circondariale di Taranto, l’invio di uomini, magari anche tramite un interpello Straordinario Nazionale. Per quanto riguarda gli automezzi chiedo al Presidente Regionale di Commissione Automezzi di effettuare una verifica e chiedere l’invio di un Ispezione Ministeriale di esperti in materia di meccanica, carrozzeria ecc. cosa che questa Segreteria Provinciale sia per gli automezzi che per l’invio di uomini, chiede al signor Provveditore Regionale, al Capo del Personale, al Ministro della Giustizia. Per tutto questo chiedo al Signor Prefetto di Taranto un incontro urgente". Palermo: inaugurata una ludoteca all’interno del carcere dell’Ucciardone Giornale di Sicilia, 6 dicembre 2015 È stata inaugurata stamattina la nuova ludoteca all’interno dell’istituto penitenziario dell’Ucciardone, sorta nei locali in cui si svolgono i colloqui fra i detenuti e i loro familiari. La struttura, realizzata grazie al contributo del Rotary Club, servirà come spazio neutro in cui i papà detenuti potranno incontrare i loro figli e mogli durante i colloqui settimanali. "Un ambiente che si avvicina il più possibile a un contesto di normalità", ha spiegato il direttore dell’istituto penitenziario, Rita Barbera, "Il progetto, portato avanti grazie all’impegno del Rotary, servirà a curare un aspetto importante della vita dei nostri detenuti, cioè la genitorialità, la loro paternità, rispettandola soprattutto nei riguardi dei loro bambini". Volterra (Pi): "Cene Galeotte" compie 10 anni, a tavola in 13mila dentro il carcere quinewsvolterra.it, 6 dicembre 2015 Spegne le sue prime dieci candeline una delle iniziative benefiche più conosciute ed attese a livello nazionale, un appuntamento unico che vede nel carcere di Volterra, detenuti e chef professionisti lavorare fianco a fianco per regalare al pubblico un ciclo di serate dalla fortissima valenza sociale. Sono le Cene Galeotte che vedranno quest’anno realizzate sei cene in programma dal 18 dicembre al 16 agosto nella Casa di Reclusione di Volterra. Un successo crescente dimostrato dai numeri, con oltre 1.200 partecipanti la scorsa edizione e più di 13mila visitatori che dalla "prima" del 2005 hanno varcato le porte del carcere, vivendo in prima persona un progetto-modello votato al recupero sociale dei detenuti coinvolti. Un evento dall’anima anche benefica, con il ricavato (35 euro a persona) come sempre devoluto ai progetti umanitari sostenuti dalla Fondazione Il Cuore si scioglie Onlus, che dal 2000 vede impegnata Unicoop Firenze assieme al mondo del volontariato laico e cattolico. Si rinnova dunque la possibilità di un’esperienza irripetibile per i visitatori, ma anche un momento vissuto con grandissimo coinvolgimento da parte dei detenuti, che grazie al percorso formativo in sala e cucina vanno acquisendo un bagaglio professionale che in ben sedici casi si è tradotto in vero impiego presso ristoranti locali, secondo l’art. 21 che regolamenta il lavoro al di fuori del carcere. Nuovi chef coinvolti nel progetto, nuove emozionanti serate, ma formula vincente che resta invariata. La Fortezza Medicea che ospita la Casa di Reclusione aprirà alle ore 19,30 le porte per l’aperitivo, servito nel cortile interno sotto le antiche mura: a seguire la cena (ore 20.30), nella vecchia cappella dell’Istituto trasformata per l’occasione in sala ristorante con tanto di candele, camerieri/sommelier in divisa e, nel piatto, i menu preparati dai carcerati con l’aiuto - a titolo assolutamente gratuito - di chef professionisti. Il tutto accompagnato dai vini offerti da grandi aziende italiane. Le Cene Galeotte sono possibili grazie all’intervento di Unicoop Firenze, che oltre a fornire le materie prime necessarie alla realizzazione dei piatti assume i detenuti retribuendoli regolarmente. Il progetto è realizzato con la collaborazione del Ministero della Giustizia, la direzione della Casa di Reclusione di Volterra, la supervisione artistica del giornalista e critico enogastronomico Leonardo Romanelli, che provvede ad individuare gli chef coinvolti nell’evento, e il supporto comunicativo di Studio Umami. Un ruolo fondamentale è inoltre ricoperto dalla Fisar-Delegazione Storica di Volterra, partner storico del progetto. Per prenotazioni tel. 055.2345040. Milano: regali di Natale ad alto valore sociale al "Consorzio VialedeiMille" mi-lorenteggio.com, 6 dicembre 2015 Nella sede dell’Acceleratore Impresa Ristretta del Comune di Milano prende vita uno spazio espositivo di beni e servizi realizzati dai detenuti. Natale è alle porte ed è tempo di idee originali per i consueti regali. Per chi cerca doni fuori dal comune l’indirizzo giusto è viale dei Mille 1, già sede dell’Acceleratore Impresa Ristretta del Comune di Milano, che da pochi giorni ospita le iniziative del "Consorzio VialedeiMille", nato dall’incontro delle esperienze di cinque cooperative sociali (Alice, Estia, Opera in Fiore, Zerografica e Bee4) che operano negli istituti di pena milanesi. In questo spazio espositivo sono in vendita beni e servizi realizzati dai detenuti. Qui si possono acquistare prodotti di qualità ad alto valore sociale, come ad esempio gustosi dolci, capi d’abbigliamento, accessori in cachemire e giocattoli in legno per bambini, realizzati da persone che imparano un mestiere e acquisiscono nuove competenze che gli permetteranno, una volta usciti dal carcere, di ricominciare la loro vita, uscendo dall’isolamento e da una condizione di disagio economico e sociale. "Il Consorzio VialedeiMille nasce grazie all’esperienza pluriennale dell’Acceleratore di Impresa Ristretta - spiega l’assessore alle Politiche per il lavoro e Sviluppo economico Cristina Tajani - un progetto in cui l’Amministrazione comunale ha investito negli ultimi tre anni più di un milione e 700mila euro, oltre alla messa a disposizione dello spazio in viale dei Mille. Lo scopo del consorzio è quello di creare sinergie per favorire opportunità di lavoro per le cooperative carcerarie e incoraggiare l’incontro tra il tessuto territoriale e i detenuti, favorendo il loro percorso di reinserimento sociale proprio a partire dal lavoro". Nel mese di dicembre lo spazio sarà aperto tutti i giorni dalle 10 alle 12.30 e dalle 14 alle 19.30. Bari: "Made in carcere" nei negozi baresi per sostenere progetti di welfare puglianews24.eu, 6 dicembre 2015 Questa mattina a Palazzo di città il sindaco Antonio Decaro ha presentato il progetto Made in carcere per Bari per Bene. L’iniziativa, promossa dall’amministrazione comunale con la collaborazione di Luciana delle Donne, ideatrice di Made in Carcere, si pone sulla scia delle attività legate al progetto Bari per bene che dallo scorso febbraio sta coinvolgendo, uno ad uno tutti i quartieri di Bari. Nello specifico il Comune di Bari attraverso gli assessorati al Commercio, allo Sport e al Welfare ha coinvolto le attività commerciali baresi per creare una sorta di "patto di cittadinanza" che promuova il senso civico e i valori della solidarietà attraverso una campagna di sensibilizzazione che intende sostenere e contribuire a progetti sociali della nostra città e dell’associazione stessa Made in carcere. A partire da oggi, 5 dicembre, saranno allestiti dei Temporary corner firmati Made in Carcere e Bari per Bene in diversi negozi della città. All’interno dei corner saranno venduti articoli prodotti dalle detenute degli istituti penitenziari di Lecce e Trani firmati Bari per Bene: accessori utili per lo sport e per la vita di tutti i giorni, come ad esempio coprisella delle biciclette, fasce scaldacollo, portacellulare, sacche, borse e altro. Acquistando uno di questi articoli si potrà fare due importanti buone azioni: sostenere il progetto Made in Carcere, che da anni lavora con le detenute, dando loro la possibilità di imparare un nuovo mestiere e di riscattarsi socialmente attraverso l’ideazione e la produzione di opere sartoriali, e sostenere un progetto sociale per la nostra città dedicato alle forme di contrasto alla violenza sulle donne. Un contratto di sponsorizzazione tra Made in Carcere e l’assessorato al Welfare del Comune di Bari permetterà di devolvere parte dei ricavati delle vendite ad un progetto che sarà realizzato nei prossimi mesi a Bari. "Con il progetto Bari per bene abbiamo stretto un patto con tutti i cittadini per prenderci cura della nostra città - dichiara il sindaco Antonio Decaro. Questo significa avere rispetto dei luoghi e delle persone collaborando con tutti i soggetti a diverso titolo coinvolti, pubblici e privati. Voglio ringraziare i responsabili di Made in Carcere che hanno sposato sin dall’inizio il progetto Bari per bene e i commercianti della città che ancora una volta si sono dimostrati attenti alle tematiche civiche e sociali e hanno risposto con grande partecipazione alla nostra chiamata. Siamo sicuri che anche i cittadini non faranno mancare il loro sostegno a questa attività e che il marchio Bari per bene porterà tanti risultati positivi in termini di risorse economiche ma soprattutto di energie umane ai progetti di solidarietà sociale che vogliamo attivare. Il connubio tra il mondo e i soggetti economici della città e il mondo del "no profit" sia uno dei migliori esempi di collaborazione civica che questa città sta esprimendo". Alla conferenza stampa hanno partecipato Luciana delle Donne, gli assessori coinvolti Bottalico, Palone e Petruzzelli e i responsabili delle attività commerciali aderenti all’iniziativa. I negozi coinvolti sono: I Fanizzi: via Piccinni, 35, Fiore di Maggio: via A. Gimma, 82, Sorrisi: via Papa Giovanni XXIII, 117, Cicli Mannarini: via Capruzzi, 13, 36metriquardi: via Putignani, 83. Bologna: i detenuti preparano il pranzo di Natale, sotto la guida dello chef Gadignani bolognatoday.it, 6 dicembre 2015 Da un corso di formazione all’interno del carcere minorile fino alla possibilità di preparare e servire un pranzo sotto la guida di Mirko Gadignani, famoso chef che segue anche l’alimentazione dei giocatori del Bologna Fc. Da un corso di formazione all’interno del carcere minorile fino alla possibilità di preparare e servire un pranzo sotto la guida di Mirko Gadignani, famoso chef che segue anche l’alimentazione dei giocatori del Bologna Fc: una decina di ragazzi dell’Istituto penale per i minorenni di Bologna durante il tradizionale pranzo in occasione delle festività natalizie. La Garante regionale delle persone private della libertà personale, Desi Bruno racconta del corso di formazione del Fomal all’interno della struttura e sarà tra gli invitati dell’evento promosso dalla direzione dell’Istituto e dal Fomal, l’ente che realizza percorsi formativi legati alla ristorazione all’interno del Pratello: la struttura, riferisce la Garante, alla data di ieri ospitava 24 ragazzi, per la quasi totalità stranieri (2 soli italiani) e maggiorenni (solo 4 i minorenni). "I percorsi formativi mirati, consentendo ai giovani detenuti di acquisire una specifica professionalità, sono una risorsa fondamentale- commenta la figura di garanzia dell’Assemblea legislativa - che, una volta terminata la detenzione, può permettergli di accedere al mercato del lavoro, come già si verificato per alcuni, proprio nel settore della ristorazione". Tra i presenti, accolti dal direttore dell’Istituto Alfonso Paggiarino, oltre a rappresentanti delle Fondazioni Carisbo e Delmonte - finanziatrici del progetto - anche il magistrato di sorveglianza presso il tribunale per i minorenni di Bologna, Luigi Martello, la dirigente del Centro giustizia minorile per l’Emilia-Romagna e Marche, Silvia Mei; la dirigente del centro di prima accoglienza e della comunità pubblica per i minori, Immacolata Pisano, la responsabile del servizio sociale per i minorenni, Teresa Sirimarco, Giovanni Schiavone, dirigente dell’Ufficio scolastico V ambito territoriale di Bologna, Valeria Bonora, direttore dell’area ricerca e sviluppo di Fomal e Paola Mambelli, dirigente istituto alberghiero Ipssar di Castel San Pietro. Alessandria: "Giù le mani dalle donne", racconti dal carcere e colletta per i detenuti di Gilia Boggian alessandrianews.it, 6 dicembre 2015 Un progetto biennale promosso dallo Zonta International nell’ambito della campagna "Zonta Says No" contro la violenza sulle donne. Questo anno realizzazione di un libro "Giù le mani dalle donne, voci dal carcere" che raccoglie alcuni pensieri dei detenuti e che il 10 dicembre chiuderà il ciclo di appuntamenti con una colletta alla casa di reclusione di San Michele "Giù le mani dalle donne" nasce con l’intento di coinvolgere gli uomini nei luoghi in cui si pratica lo sport per sconfiggere una volta l’idea che la violenza sulle donne sia un problema di genere. E la campagna contro la violenza sulle donne portata avanti da Zonta nella campagna "Zonta Says No" questo anno ha portato alla realizzazione di un libro, "Giù le mani dalle donne, Voci dal carcere" realizzato con il concorso del Ministero di Grazia e Giustizia e l’associazione "Ovale oltre le sbarre" e che raccoglie le riflessioni sul tema della violenza nei confronti delle donne dagli Istituti penitenziari di Alessandria, Fossano, Novara, Torino, Verbania e Vercelli. L’eccezionalità di una squadra di rugby nata dietro le sbarre e militante nel campionato nazionale ha portato nel 2012 "Giù le mani dalle donne" all’interno del carcere Le Vallette di Torino. Da questo contatto è nato l’iniziativa del "minuto di silenzio" in tutte le carceri italiane: il coinvolgimento dei Club Zonta in tutta Italia per un evento non solo di Area, ma di Zonta Italia che si rinnova ogni anno. Le squadre di rugby composte da carcerati sono diventate due (Torino e Frosinone) e il coinvolgimento si è ampliato con una partecipazione diretta, su base volontaria, dei detenuti invitati ad esprimersi sul tema della violenza sulle donne. Ad Alessandria, come sempre, si è andati oltre: la Presidente del biennio 2012-2014 dello Zonta Club Alessandria Oria Trifoglio, accompagnata dalla Past Governor del Distretto 30 di Zonta International Nadia Biancato, ha visitato personalmente la Casa di reclusione di San Michele e la Casa circondariale don Soria in centro città, avendo colloqui diretti con i carcerati, raccogliendo direttamente i loro contributi poi stampati nel libro. Il volume ha in copertina una frase di una celebre canzone di Ligabue, gentilmente concessa: "le donne lo sanno che niente è perduto" e i pensieri raccolti rappresentano un esempio, una presenza di coscienza, una speranza che nasce in un luogo in cui con l’educazione si può trovare riscatto al debito con la società. Perché "gli uomini veri amano le donne", "i veri uomini rispettano le donne e usano le mani per accogliere, per proteggere". Sono alcune frasi semplici che dicono tutto. Un attivismo di 16 giorni che si conclude il 10 dicembre con una visita al carcere di San Michele nella Giornata Nazionale dei Diritti Umani. "Proprio per questa occasione di visita in carcere - sottolineano Maria Teresa Gotta, assessore comunale alle Politiche di Genere, e Marzia Maso, presidente della Consulta Pari Opportunità - come Assessorato alle Politiche di Genere e Consulta comunale alle Pari Opportunità intendiamo lanciare, insieme a Zonta, una colletta per portare generi di necessità per i detenuti del carcere di San Michele. Nel ringraziare molto il Direttore Internazionale Zonta International 2014-2016, Nadia Biancato, con le Responsabili e Presidenti di Zonta Club Alessandria Anna Girello e Oria Trifoglio, insieme al Direttore della Casa di Reclusione di Alessandria Elena Lombardi Vallauri, al Capo Area Educativa della Casa di Reclusione Manuela Allegra, e al Comandante Polizia Penitenziaria della Casa di Reclusione di Alessandria Felice De Chiara, per l’ideazione, la realizzazione e il sostegno fattivo di questa esperienza - concludono Maria Teresa Gotta e Marzia Maso - riteniamo che sia importante favorire la promozione di gesti come questo: un modo pratico, oltre che simbolico, per testimoniare i valori sanciti dalla Carta Universale dei Diritti Umani. Un gesto eloquente in un particolare momento storico, quale quello attuale, in cui l’ascolto può essere di grande sostegno per tutti noi". Una colletta (alla quale è possibile contribuire fino al giorno 9 dicembre, presso l’Urp - Ufficio Relazioni con il Pubblico del Comune di Alessandria con i seguenti orari: lunedì, mercoledì e venerdì dalle 8.30 alle 12.30 e martedì e giovedì dalle 8.30 alle 15.30) per raccogliere generi di prima necessità per la cura della persona, come dentifricio, asciugamani. Ma anche maglioni, pantaloni e calze. Milano: alla Casa di reclusione di Opera (Mi) si condividono esperienze con i francobolli Ristretti Orizzonti, 6 dicembre 2015 Nella Casa di reclusione di Opera, dove da un anno e mezzo nella Sezione A.S. 1, è attivo un Gruppo filatelico, "è stato fatto un lavoro straordinario". Lo ha ammesso Pietro La Bruna, direttore di Filatelia di Poste Italiane nel corso della visita della Mostra filatelica allestita all’interno del carcere, prevalentemente con collezioni realizzate da reclusi. "In carcere - ha ricordato uno dei componenti del Gruppo filatelia - ci sono tante attività, mai, però, erano entrati i francobolli. Inizialmente non sapevamo neppure cosa fosse un francobollo, a parte quelli che usiamo per comunicare con chi si trova oltre le mura, all’esterno". Di conseguenza "pensavamo a un’attività banale, senza significato". Invece "si è dimostrata interessante a livello cognitivo e ci siamo accorti come i francobolli racchiudono tanti saperi". "Francamente non sapevamo cosa c’era dietro un francobollo". Per questo "il collezionismo filatelico è e resta un importante e diffuso momento di svago, ma anche un mezzo per acquisire esperienze". "In cella - è stato fatto notare - abbiamo molto tempo per leggere, imparare, quello che ci manca e ci pesa è la mancanza di comunicare" quello che andiamo apprendendo. Con le due collezioni che abbiamo realizzato, quella intitolata "Oltre le dure sbarre nel variopinto giardino filatelico con le ali leggere della poesia" e quella inerente al tema religioso "siamo riusciti a comunicare". Riferendosi all’attività filatelica, Matteo Nicolò Boe, uno dei reclusi, offre questa testimonianza affidata qualche tempo fa al periodico specializzato L’Arte del francobollo" : "l’esperienza acquista nel quarto di secolo trascorso in carcere mi permette di saper interpretare discretamente la realtà oggettiva di questo particolare mondo. Nel corso degli anni ho frequentato alcuni corsi, di ceramica, sartoria e poi carta pesta. Di tanti altri sono venuto a conoscenza. Quasi tutti vertevano su consueti temi, alcuni inerenti alla tradizione maschile, altri ad una terra di mezzo e altri ancora di dominio femminile a cui il contesto artistico di attività manuali e intellettuali espunge quella stigma di scolari pregiudizi maschilisti. Siccome esiste sempre una prima volta, che allarga il nostro orizzonte, ecco apparire un corso di filatelia. Stupore e scetticismo! I soliti pregiudizi dai quali nessuno di noi è immune, se non altro per pigrizia mentale, lo inserivano fatalmente nella mia obsoleta logica categoriale e più precisamente, in una sorta di limbo, come trastullo preadolescenziale e di irriducibili Peter Pan, ostinatamente refrattari ad una partecipazione attiva alle ruvide dinamiche politico-sociali del nostro tempo. Gradualmente l’iniziale scetticismo si è sciolto in interesse. È il piacere atavico della narrazione, l’inebriante gusto del sapere, l’intrigante viaggio nello scibile umano, l’egoistico desiderio dell’affermazione di sé nel canovaccio dialettico della società, perché senza conoscenza non vi è identità". Nell’ambito del Gruppo filatelico ha preso forma anche l’immagine, firmata da Matteo Nicolò Boe, diventata francobollo da 95 centesimi "Filatelia nelle carceri". "Un esito senza precedenti - ha detto Pietro La Bruna - probabilmente neppure all’estero ci sono stati francobolli disegnati direttamente all’interno di un carcere, da un recluso". E "questo - ha proseguito - non lo considero un punto di arrivo, ma una tappa". Non a caso a breve "introdurremo un approccio simile a Paliano, in provincia di Frosinone". Riferendosi all’esposizione allestita qualche mese va alle Poste centrali di Milano - Cordusio La Bruna ha ammesso che "ha lasciato un segno", assicurando al tempo stesso che Luisa Todini, presidente di Poste Italiane, "segue da vicino" questa iniziativa. A parere di Paolo Pizzuto, funzionario giuridico pedagogico all’interno della Casa di reclusione, il "francobollo costituisce una inesauribile miniera di percorsi di conoscenza. Nel piccolo - ha soggiunto - ci sta l’immenso". Parole di compiacimento per l’iniziativa sono state espresse anche dal direttore del carcere, Giacinto Fortunato. Cagliari: i faticosi primi passi della biblioteca del nuovo carcere di Uta di Francesca Mulas sardiniapost.it, 6 dicembre 2015 C’è anche il sottofondo musicale nella biblioteca del carcere di Uta: grandi tavoli e sedie comode per i detenuti che scelgono di passare un po’ di tempo sui libri anche tra le sbarre. Eppure la struttura non funziona come dovrebbe: le donne non possono accedervi, l’apertura è limitata a poche ore alla settimana e l’ingresso non è facile per tutti. Una bella differenza tra quanto succedeva un anno fa nel carcere di Buoncammino e quanto succede oggi a Uta: lì anche settanta carcerati per volta stavano in sala studio, qui appena venti. Lì si mandavano avanti progetti di animazione alla lettura, qui le attività procedono a rilento. Eppure c’è chi si impegna nonostante mille difficoltà per garantire studio e libri in carcere. Germana Trincas, insegnante cagliaritana, dedica una buona parte del suo tempo libero come volontaria alla Caritas: insieme alle colleghe Laura Perdixi e Alessandra Pisano si occupa di gestire la biblioteca di Uta, tre turni di apertura alla settimana (il lunedì pomeriggio, il mercoledì mattina e pomeriggio per un totale di sei ore), e poi ci sono la catalogazione e il prestito da seguire. Ogni carcerato può portare con sé in cella due libri al mese o può passare due ore in sala studio ogni venti, venticinque giorni. Un momento di evasione, almeno mentale, dalla routine carceraria: molti studiano, approfondiscono, si informano, in tanti scelgono semplicemente di leggere storie. Un’esigenza, quella dei libri, raccontata da Rinaldo Schirru, ex detenuto che in carcere ha passato ben 32 anni della sua vita e tra le sbarre ha imparato il piacere della lettura e della poesia. "In biblioteca arrivano detenuti diversi che scelgono soprattutto narrativa, spesso storie di carcere o scritte da ex carcerati - sottolinea Trincas - piacciono molto i grandi romanzieri russi e i classici della letteratura di tutti i tempi ma anche gli scrittori contemporanei. In tanti preferiscono i testi su animali, piante, la cura dell’orto e della campagna, la geografia". Accanto alle tre volontarie della Caritas lavora anche Dante Lancioni, ergastolano: anche lui si occupa di catalogazione e prestito. E di lavoro ce n’è tanto: a Uta, oltre ai libri di Buoncammino, sono arrivati pure quelli donati da Iglesias, struttura penitenziaria che a febbraio di quest’anno ha chiuso i battenti; ci sono dunque ancora seimila volumi da classificare, altri ne arriveranno grazie all’iniziativa nazionale Liberi di leggere che promuove il libro sospeso per le carceri italiane. La speranza tra i detenuti è che riprendano presto i progetti di animazione alla lettura già sperimentati a Buoncammino, dove per due anni i volontari dell’associazione Tusitala hanno portato attività legate ai libri. "Insieme a un gruppo di detenuti abbiamo scelto autori e argomenti da approfondire - ci racconta Carlo Birocchi dell’associazione, che ha lavorato insieme a Dario Cosseddu, Luisanna Pani, Raffaele Cattedra e Rosi Giua - e così abbiamo letto Alda Merini, Nasim Hikmet, Dylan Thomas, Dino Campana. Abbiamo inoltre organizzato incontri sulle tradizioni sarde e mediterranee. I detenuti hanno letto e studiato con noi e messo in piedi delle performance a cui partecipavano anche quaranta persone: una bellissima esperienza che sarebbe bello proseguire. Per ora però questioni logistiche e organizzative non ci hanno permesso di riproporla a Uta, speriamo che si possa continuare perché crediamo che la lettura e la cultura in generale possano essere un ottimo strumento di crescita per chi è costretto a vivere in carcere". Salerno: compagnia di magistrati-attori recitano per i detenuti di Ferruccio Fabrizio La Città di Salerno, 6 dicembre 2015 Ieri al carcere di Fuorni in scena la compagnia "Luna Nuova". Martone: "È un segnale di umanità". Entri un po’ di luce, dietro le quinte dei condannati. Il teatro è uguale per tutti, magistrati e detenuti. Stefano Martone, figlio del giudice Luigi e da due anni direttore del carcere di Salerno, lo ha capito da un pezzo. E ha firmato la seconda edizione dell’evento. "Ditegli sempre di si", commedia di Eduardo, andrà in scena questa mattina alle 10 nel penitenziario di Fuorni con la compagnia amatoriale "Luna Nuova" nata a Milano e formata da 19 persone. Tra cui giudici e avvocati. Spettacolo a cui prenderanno parte un centinaio di rappresentanti dei 450 reclusi per reati comuni e di alta pericolosità. Maschi e femmine. Tutti insieme davanti alla rappresentazione della vita. Da Milano a Salerno, scenderanno uomini di corte (d’Appello) con una sacco pieno di costumi, senza scorta. "Questa compagnia fa un’eccezione per me, non fanno mai trasferte e per questo il presidente dell’Humanitas Roberto Schiavone si è preso cura dell’ospitalità e ha organizzato un servizio navetta che li prenderà tutti alla stazione", sottolinea Martone, che sull’iniziativa ha le idee chiare. "Non è solo intrattenimento ma un dono ai detenuti della direzione per uscire dai luoghi comuni e chiarire che siamo tutti legati da un profondo senso di umanità al di là dei ruoli legali o illegali. Loro conoscono i magistrati solo per le condanne non per le assoluzioni, dobbiamo dare un punto di vista diverso, anche quelli che condannano hanno la loro dose di umanità". Progetto a costo zero, a meno che non si consideri il budget di un missionario: "Si deve ringraziare il personale penitenziario" sottolinea Martone che nei giorni scorsi ha regalato ai detenuti il coro del San Carlo e i corsi dell’Aia, l’Associazione italiana arbitri. Tra gli arbitri di legge oggi sarà sul palco Raffaele Martorelli, 68 anni napoletano, magistrato a Milano, firmò la sentenza di condanna dei dirigenti Pirelli, tra cui il fratello dell’oncologo Umberto Veronesi, per la morte da amianto alla Bicocca di una ventina di operai di Milano. Oscar Magi, campano, togato da 38 anni, ha già portato in scena "Paolo Borsellino. Essendo Stato". Regista e giudice scomodo: suo il verdetto con il quale condannò i tre manager Google a sei mesi di reclusione (pena sospesa) per violazione della privacy, oltre che presidente del collegio che ha condannato Berlusconi sul caso Unipol. Maria Ocello, 69 anni, siciliana si occupo’ e archiviò una denuncia contro Beppe Grillo, nella veste di comico, per vilipendio alle Forze armate. Chiuso il sipario, i detenuti approdati al quarto anno della scuola alberghiera "Virtuoso" guidata da Gianfranco Casaburi, offriranno il buffet a loro e a tutte le autorità presenti, dal presidente della Corte d’Appello Matteo Casale al pm Corrado Lembo, dal vice procuratore generale Aldo De Chiara al sindaco Enzo Napoli. Avranno una divisa e un piccolo sogno. Che un giorno accada tutto alla luce del sole. Catanzaro: ieri la presentazione del libro "Oltre le sbarre", di Dario Esposito di Pietro Mosella soveratiamo.com, 6 dicembre 2015 Il "dentro e fuori" dalle carceri, un mondo magari poco conosciuto che però racchiude tante storie di vita. È stato presentato ieri pomeriggio alla libreria "Non ci resta che leggere" di Soverato (Cz), il libro "Oltre le sbarre" - le carceri italiane viste da un giovane agente penitenziario - di Dario Esposito, agente di Polizia penitenziaria di Sant’Andrea sullo Ionio. L’evento è stato organizzato dall’Osservatorio "Falcone-Borsellino-Scopelliti" di Carlo Mellea e dalle titolari della libreria stessa, Maria Grazia Posca ed Eleonora Fossella. Presenti al tavolo dei relatori l’editore, Michele Falco, la Direttrice della Casa Circondariale di Siano, dott.ssa Angela Paravati e lo stesso Mellea. L’incontro è stato moderato dal giornalista del "Quotidiano del Sud", Dario Macrì che, in apertura, dopo i ringraziamenti di rito, ha sottolineato che il libro tratta un tema di estrema attualità, ovvero la vita nelle carceri che gran parte di noi non conosce. "Leggendo questo libro - ancora Macrì - si nota anche la perfezione dei meccanismi del carcere in merito al funzionamento dello stesso ed i ritmi che all’interno, tutti necessariamente devono tenere per allinearsi ai regolamenti". Carlo Mellea, presidente dell’Osservatorio, ha ricordato che questa è la quarta iniziativa nel 2015, le altre sono state svolte nelle scuole, "ma anche i cittadini - ha affermato - devono abituarsi a partecipare alle iniziative sulla legalità perché è un fattore fondamentale della vita sociale. Mi complimento con la casa editrice che ha badato ai contenuti ed ha sposato per intero questo progetto con questo giovane autore". Dopo aver ricordato gli appuntamenti in cantiere per l’anno nuovo dell’Osservatorio, Mellea ha concluso ringraziando anche l’avv. Rosa Piperata "che mi ha dato un input - ha detto - per la presentazione di questo libro". Michele Falco, editore dell’opera, nel suo intervento, ha sottolineato l’importanza di promuovere la cultura e di rivolgersi non solo alla storia locale Oltre le sbarre 2ma di portare le proprie iniziative in Italia "perché la nostra - ha specificato - è una casa editrice italiana. Siamo fieri di essere calabresi e di avere la nostra sede a Cosenza ma è giusto radicarsi nella nazione. In un momento di difficoltà - ancora Falco - investire su un autore esordiente è un’azione di grande coraggio che fonda le proprie ragioni su dei concetti concreti. Il tema delle carceri in Italia è di grande delicatezza, intorno al carcere c’è anche uno stato di civiltà, il titolo "Oltre le sbarre" è indicativo. Il libro manifesta una grande capacità narrativa che entra nelle pieghe di quanto poc’anzi detto, perché l’autore Dario Esposito è un agente di Polizia penitenziaria. A questo libro, all’autore ed alla casa editrice, sono capitate cose eccezionali, in quanto a Dario Esposito, ad esempio, Il venerdì di Repubblica ha dedicato una pagina, e farà anche un’intervista su Radio1". Falco ha anche ringraziato tutte le componenti che hanno contribuito alla realizzazione di questo libro che, ha detto, "sta camminando molto bene". L’autore, il giovane agente di Polizia Penitenziaria, Dario Esposito, chiamato in causa da Macrì, ha dapprima ringraziato tutte la parti che hanno contribuito all’organizzazione della serata, ed anche la presenza della Direttrice del Casa Circondariale di Siano, dott.ssa Paravati e l’avv. Rosa Piperata. Oltre le sbarre 3"Ho iniziato a pensare a questo libro lo scorso anno, - ha affermato l’autore - facendomi una domanda: che caratteristiche bisogna avere per scrivere un libro? Bisogna avere qualcosa da raccontare e da trasmettere, andando, in questo caso, dentro e fuori dal carcere per il mio lavoro, quindi c’è qualcosa da trasmettere. Ci sono ritmi serrati e quando questi si vanno a scontrare con il lavoro umano e non con dei numeri ci sono doti umane che vengono fuori. Avere a che fare con le persone - ha proseguito - richiede la caratteristica della pazienza, della serenità. Non è ammissibile in carcere venir meno ai propri doveri e, nel mio caso, anche al ruolo istituzionale." Esposito, nel corso della sua vita lavorativa, ha avuto esperienze nelle case circondariali a Pavia, a Catanzaro e adesso a Vibo Valentia; l’autore ha ricordato alcuni passi del libro insieme al giornalista Macrì, affrontando poi il tema dell’importanza della funzione rieducativa affidata dalla legge. "Il libro secondo me - ancora l’autore - si barcamena tra due aspetti: il momento della riflessione e il momento dell’azione. L’esperienza avuta quando ero in servizio al carcere minorile di Catanzaro, ad esempio, la ricordo con piacere, nel periodo in cui ero lì, c’erano tante attività che coinvolgevano i ragazzi. Spero che questo libro possa dare un messaggio che vada oltre la Polizia penitenziaria ed oltre le carceri. Non è facile esporsi soprattutto per uno che fa il mio lavoro." Anche la dott.ssa Paravati, chiamata in causa dal moderatore, ha parlato del "carcere come una struttura complessa, una sorta di puzzle dove devono incastrarsi le varie parti, ed è un lavoro di squadra, dove ci sono figure professionali di valore. Quando presi servizio in carcere - ha ricordato - con i suoi ritmi vidi un mondo che sembra ovattato. Il carcere non si conosce perché si pensa solo ad un luogo negativo e quindi non cerchi un approccio. Il merito dell’autore è stato quello di far parlare del carcere in maniera oggettiva, serena, vera, reale, perché alla fine l’interesse di tutti è che tornino fuori in maniera positiva. È un dentro e fuori che alla fine ti accompagna comunque. La Polizia penitenziaria - ha proseguito - ritengo abbia un obiettivo difficile da raggiungere, quello di far cambiare le persone; spesso in effetti nelle nostre carceri ci sono soggetti che magari non dovrebbero starci e adesso che le comunità terapeutiche non hanno la possibilità di accogliere tutti i soggetti che ne hanno bisogno ci troviamo a dover affrontare delle situazioni delicate nelle nostre carceri". Il dialogo con l’autore è proseguito e ci sono stati anche diversi interventi del pubblico presente. Cie di Ponte Galeria, "le tante ragioni per volerlo chiuso" articolo21.org, 6 dicembre 2015 "Il 3 dicembre, una delegazione della Campagna LasciateCIEntrare è entrata nel Cie di Ponte Galeria, grazie alla possibilità venutasi a creare con l’ingresso dell’europarlamentare Elly Schlein (S&D) del deputato Stefano Fassina (SI) dell’assistente dell’europarlamentare Barbara Spinelli, Daniela Padoan". Lo scrivono in una nota Gabriella Guido e Stefano Galieni, rispettivamente portavoce e ufficio stampa della campagna LasciateCIEntrare. "Si è avuta l’opportunità di restare nel centro per quasi l’intera giornata, visitando con meticolosità tanto il settore maschile che quello femminile. Una visita precedente, sempre della Campagna, si era già svolta il 30 novembre scorso. E pur apprezzando la disponibilità a garantire l’ingresso nel Centro, ci sembra opportuno segnalare alcuni elementi di estrema gravità. Le condizioni del centro (mancanza di riscaldamento e in alcuni settori di acqua calda, wc alla turca rotti, perdite di acqua anche nei locali mensa, sporcizia e cedimenti strutturali, assenza di adeguate forniture igieniche e di vestiario) sono assolutamente inadeguate a garantire la dignità delle persone trattenute. La direzione ha dichiarato di aver lungamente chiesto un intervento mai effettuato che comunque porterebbe a dover temporaneamente diminuire il numero di persone trattenibili nel centro, oggi quasi al limite della capienza (196 persone sui 250 considerati tetto massimo). L’altissimo numero di ragazze prevalentemente nigeriane, colpite subito dopo l’ingresso in Italia da provvedimento di respingimento cd. differito e decreto di trattenimento e ristrette al CIE dove, finalmente rese edotte della possibilità di richiedere asilo, hanno tutte inoltrato richiesta di protezione internazionale. In questi giorni le donne sono la maggioranza fra i trattenuti (105 rispetto ai 91 uomini). Queste donne, come tutti i richiedenti protezione, se il loro trattenimento è stato convalidato (come avviene quasi sempre) dal tribunale ordinario, restano rinchiuse nel Cie fino al momento della convocazione in Commissione per l’intervista ed alla successiva decisione. Nei casi in cui il tribunale non convalida il trattenimento, a detta del direttore del cento il 90%, i richiedenti protezione vengono liberati e tradotti in un Centro di Accoglienza Straordinaria, in attesa della decisione della Commissione territoriale. Nei casi in cui il trattenimento venga convalidato o prorogato (tutti quelli nei quali ci siamo imbattuti) la privazione della liberà può durare - a causa delle recenti modifiche introdotte con l’art. 6 del decreto legislativo 142/2015 - fino 12 mesi, in attesa dapprima della decisione della Commissione e poi, qualora la decisione sia negativa, dell’esito del ricorso avverso il diniego. Di fatto il CIE di Roma risente dell’effetto "hotspot" per cui diviene il luogo dove rinchiudere in attesa di rimpatrio le persone che, appena approdate dopo essere state salvate in mare anche da navi di soccorso "indipendenti" come quelle di Msf, sono state evidentemente registrate, subito dopo la fotosegnalazione, come "Cat 2" (ingresso irregolare) secondo quanto indicato nella "Road Map Italiana" del 28 settembre 2015 a firma del Ministro dell’Interno (che non ha alcun valore di legge né dovrebbe poter incidere sui diritti inviolabili degli stranieri in ragione della riserva di legge posta dall’art. 10 comma 2 costituzione). In sintesi, appena approdati i profughi vengono divisi (presumibilmente in base alla nazionalità, atteso che non viene fornita loro alcuna informativa sulla possibilità di chiedere protezione) tra "irregolari" e "ricollocabili" ovvero potenziali richiedenti asilo. Agli irregolari viene prontamente notificato un decreto di respingimento con ordine di lasciare il territorio e fare rientro nel proprio paese entro sette giorni via Fiumicino, e a molti di loro viene anche notificato il decreto di trattenimento sulla base del quale vengono condotti (spesso senza soluzione di continuità) nel Cie di Roma. Solo qui resi, edotti della possibilità di chiedere protezione messi nelle condizioni di manifestare tale volontà, presentano apposita istanza che comporterà, come detto, specifica ed ulteriore convalida del trattenimento che potrà protrarsi nella peggiore delle ipotesi fino ad un anno, diversamente da quanto accade per gli altri trattenuti per i quali i termini massimo di trattenimento scadono al novantesimo giorno. È da segnalare a tale proposito che nei decreti viene indicato come presupposto del trattenimento la pretestuosità della domanda di protezione in quanto presentata dopo il decreto di respingimento quando invece di fatto è stato impedito (anche a causa della mancata ed idonea informativa legale) ai profughi appena approdati di chiedere asilo prima del respingimento. Si tratta di una truccata gara contro il tempo: la pubblica amministrazione notifica immediatamente il respingimento ai profughi di modo da poter indicare come pretestuosa al domanda di protezione fatta dopo e quindi di poter avvalorare il trattenimento fino a 12 mesi e l’eventuale rimpatrio. Questa operazione non solo è illegittima perché contraria alla normativa in materia di protezione e asilo e posta in violazione di diritti fondamentali della persona, ma è inutilmente costosa. Trattenimenti, udienze, gratuiti patrocini, trasferimenti, scorte, rimpatri, procedimenti giudiziari e amministrativi, costano allo stato italiano molti più soldi della semplice accoglienza dei richiedenti asilo. Anche alla luce dell’incontro con personale della questura, permane forte il dubbio che ad intervenire almeno in un caso di rimpatrio, quello del 17 settembre verso Lagos, con un volo charter che si è fermato per varie tappe europee, siano stati presenti funzionari di FRONTEX. Un elemento su cui è necessario un chiarimento da parte delle autorità interessate. Un altro elemento problematico è legato alla presenza di funzionari dei consolati che debbono svolgere il proprio mandato di riconoscimento dei trattenuti e di rilascio di documento di viaggio Alcuni paesi non rispondono a tale richiesta, altri identificano i propri connazionali ma non forniscono poi il nulla osta necessario al rimpatrio, altri ancora effettuano identificazioni sommarie che comportano il rischio -già presentatosi con una presunta minorenne nigeriana - di identificazioni (e conseguenti provvedimenti di rimpatrio) di massa e quindi potenzialmente fallaci, poste anche ai danni di persone ad alto indice di vulnerabilità e dunque potenzialmente inespellibili. Per quanto riguarda le ragazze nigeriane - la cui età copre generalmente un range che va dai 18 ai 25 anni, anche se molte sembrano minorenni - oltre ad essere quasi sempre vittime di violenze atroci subite in Libia, raccontano frammenti di storie e portano avanti richieste (come quella di acquistare un modesto cellulare per poter utilizzare la scheda SIM di un unico gestore, con numero italiano e contatti già definiti) che sembrano palesi indizi di tratta finalizzata allo sfruttamento per motivi sessuali. Fra gli uomini, invece, coloro che hanno ricevuto il decreto di respingimento sono decisamente in percentuale inferiore: quasi tutti sono stati colpiti da decreto di trattenimento in seguito a decreto di espulsione. Molti di loro si trovano in Italia da alcuni anni ed erano già titolari di permesso di soggiorno poi venuto a scadere. Continua ad esserci l’afflusso di ex detenuti, non congruamente identificati o privi comunque del nulla osta necessario rilasciato dalle autorità del Paese d’origine per il rimpatrio forzato. Persone che ormai con frequenza vengono tradotte nel CIE, liberate dopo la convalida o la proroga del trattenimento e poi nuovamente fermate e trattenute, a dimostrare di come occorra un cambiamento strutturale della legge. Gli uomini presenti al momento della visita sono per lo più provenienti da paesi del Maghreb e dall’Africa Sub- Sahariana, meno gli asiatici e gli europei, la loro età media è più alta rispetto alle donne. Abbiamo incontrato fra gli altri gli uomini fermati nel Centro di Accoglienza Baobab il 24 novembre scorso, sono in 11, ognuno con una propria storia particolare. Fra questi un ragazzo della Guinea Bissau, che parla unicamente mandinga e si dichiara ed appare visibilmente minorenne. Nel suo caso l’esame rx del polso si è rivelato una volta di più invasivo e totalmente fallace ai fini dell’accertamento dell’età. L’inattendibilità degli esami radiologici risulta evidente dalla lettura della relazione resa dal Prof. Ernesto Tomei (Radiologo - Professore Associato, Dipartimento di Scienze Radiologiche Università di Roma "La Sapienza" sentito in qualità di massimo esperto in materia anche nella seduta della Bicamerale Infanzia del 25 ottobre 2010) a tenore della quale: L’atlante dell’età ossea di Greulich e Pyle, è il più comunemente usato per la pratica clinica. Il test di Tanner e Whitehouse appare per alcune aspetti più dettagliato ma è meno usato perché considerato più farraginoso. Entrambi si basano sulla radiografia mano/polso (……) In riferimento alla situazione Italiana ed Europea bisogna considerare che la presenza di immigrati di diversa provenienza rende comunque problematico l’uso di questi atlanti. È stato anche proposto di vietarli per legge. Una ricerca su più popolazioni appare complessa e potrà tuttavia essere programmata solo successivamente ad uno studio della popolazione presente in Italia". Peraltro già il 9 luglio 2007 era stata emanata una circolare del Ministro dell’Interno, che introduceva nuovi criteri per accertare le generalità in caso di d’età incerta, ed imponeva la presunzione di minore età nel caso di dubbio, proprio per evitare il rischio di adottare erroneamente provvedimenti gravemente lesivi dei diritti dei minori, quali l’espulsione, il respingimento o il trattenimento, anche in considerazione del margine di errore fino a due anni dell’esame tramite misurazione del polso. Il superamento di tale modalità di accertamento dell’età è stato raccomandato da tutte le ong competenti nonché dal Parlamento Europeo (risoluzione 12 settembre 2013) Erano presenti poi uomini fermati in seguito ad accertamenti anti terrorismo (in moschea o ai danni di uomini "barbuti") estranei a qualsiasi attività terroristica ma privi di permesso di soggiorno. Abbiamo avuto conferma che una parte dell’assistenza sanitaria ai trattenuti verrà garantita da ora in poi, attraverso prestazioni dirette della Asl Rmd. Il protocollo firmato nello stesso giorno della nostra visita prevede che tale collaborazione riguarderà esclusivamente le visite all’arrivo, finalizzate a alla presa in carico o meno dei singoli nel CIE e le analisi nel corso della detenzione: i detenuti non dovranno più essere portati all’esterno per le analisi in quanto la ASL ha un proprio laboratorio che potrà occuparsi di analizzare i prelievi che saranno svolti internamente dal personale medico del CIE e che saranno poi inviati alla ASL. L’assistenza medica dentro al CIE rimane invece totalmente ed unicamente responsabilità dell’ente gestore con il proprio personale medico-infiermieristico rispetto alla quale molti detenuti han lamentato l’insufficienza e inadeguatezza. Abbiamo avuto modo di incontrare, tanto nel settore femminile che in quello maschile, numerosi e comprovati casi di vulnerabilità che necessitano di urgentissimo intervento. Stati depressivi o di frustrazione, determinate anche dall’assoluta inadeguatezza dei luoghi a garantire la dignità dei trattenuti, dall’assenza di prospettive future, stanchezza, stato di abbandono e inattività, condizioni tutte in grado di generare fenomeni di autolesionismo e tendenze al suicidio. Più di una delle persone con le quali abbiamo interloquito ci ha manifestato di non poter sopportare un eventuale rimpatrio forzato, per le conseguenze drammatiche e fatali che questo comporterebbe. Un’attenta analisi merita la questione dell’accesso alla difesa. Molte delle persone incontrate hanno avuto unicamente un avvocato d’ufficio del quale riferiscono di ignorare anche il nome (peraltro in molti dei fogli consegnati ai trattenuti nello spazio bianco in cui dovrebbe essere segnato il nome dell’avvocato designato per la convalida, appare la scritta "ufficio" al posto delle generalità del difensore.) Altro problema serio deriva dal fatto che molte persone, soprattutto le ragazze nigeriane, si sono ritrovate quasi tutte come avvocato assegnato il medesimo difensore, peraltro avvertito quasi contestualmente all’ente gestore dell’invio dei fermati nel Cie Sempre in base alle testimonianze raccolte, il legale in questione è presente all’atto della convalida (il "gettone" di udienza con il gratuito patrocinio garantisce un introito di 120 euro per ogni singola udienza) ma poi non si impegna con il medesimo zelo nelle fasi successive di eventuali ricorsi avverso il rifiuto di protezione da parte della Commissione, fasi per le quali non risulta esistere alcuna automaticità di accesso al gratuito patrocinio. Comunque la sola presenza delle associazioni di tutela - che operano soprattutto con le donne - e dei legali che ormai gravitano stabilmente intorno al centro risulta insufficiente per garantire quel diritto alla difesa fondamentale per chi al momento è privato della libertà personale ma poi potrebbe anche essere oggetto di rimpatrio forzato. Emma Bonino: "bombardare l’Isis non serve, bene se non partecipiamo" intervista di Antonella Rampino La Stampa, 6 dicembre 2015 Emma Bonino, in questa terza guerra mondiale a pezzi perché l’Occidente va in ordine sparso, incapace di una comune e dunque efficace strategia? "Non solo l’Occidente, tutti sono in ordine sparso, per divergenti analisi ed interessi contrapposti. Questa è anzitutto una guerra intra-sunnita. Isis, come già Al Qaeda, nasce dall’ideologia wahabita. L’Occidente ha alleanze storiche con quell’area del Golfo, ma pare che neppure i tremila morti delle Twin Towers abbiano insegnato qualcosa... La Turchia fa la sua partita, la Russia gioca spregiudicatamente per tornare sulla scena internazionale, e solo ora sembra preoccuparsi dei foreign fighters che la Turchia ha lasciato passare in Siria e che possono tornare nei Paesi di influenza russa. I comuni denominatori sono pochi...". La Gran Bretagna bombarderà Isis, come già fa la Francia, la Germania ha intensificato l’impegno pur senza arrivare al livello combat... basta bombardare lo Stato islamico per sconfiggerlo? E, in questo quadro europeo, la posizione italiana non rischia di essere inadeguata? "Mi pare siano tutti inadeguati, sia quelli che bombardano spinti da emozioni e reazioni reali con un occhio alle scadenze elettorali come la Francia, o al referendum su Brexit, per mostrare agli europei che si è indispensabili come nel caso della Gran Bretagna. Si bombarda, ma pubblicamente poi si dice che bombardare non basta, mentre è sempre più chiaro che non vi sono più molti obiettivi da colpire dall’alto, senza una guida che venga dai famosi "boots on the ground", le truppe di terra. Prova ne sia l’appello che in questo senso ieri ha fatto ai Paesi arabi John Kerry. E mentre noi bombardiamo, tutta la stampa araba ripete ogni giorno più volte al giorno, sul Al Jazeera, Al Arabya e via cantando, che si tratta di attacchi "occidentali" al mondo arabo. Di questo devono essersi resi conto gli inglesi, che oltre ad aumentare la spesa per la difesa hanno anche dato più fondi alla Bbc in lingua araba. La battaglia che dobbiamo condurre è anzitutto culturale, si dice. Appunto. Dobbiamo pensare a medio-lungo termine, e cominciare a mettere il dito nelle contraddizioni". Sia più precisa. "Anzitutto dobbiamo renderci conto che non ci sono soluzioni miracolose, ma solo parziali e complesse. La prima cosa è chiamare alle proprie responsabilità i sunniti, le monarchie del Golfo e la Fratellanza Musulmana che si stanno combattendo. Poi dobbiamo cominciare ad occuparci di rafforzare la nostra sicurezza. Pochi giorni fa il coordinatore Ue dell’antiterrorismo, Gilles de Kerchove, ha implorato per un’unificazione delle intelligence. Inutilmente. Non vogliamo un’intelligence comune, non vogliamo una politica estera e una politica di difesa comune. Siamo solo disposti a mandare dei Tornado... E intanto continuiamo a passare da un’emergenza all’altra, mettiamo un cerotto e ci dimentichiamo dei migranti, come fossero scomparsi, senza alcuna visione non dico di lungo ma nemmeno di medio termine. Politiche fragili. Adesso per esempio siamo concentrati sulla Siria, dimenticandoci dello Yemen e della Libia, e non rafforzando come dovremmo Tunisia, Marocco e Giordania, paesi a rischio baratro. Dovremmo fare quello che può e deve fare l’Europa, a prescindere da Stati Uniti, Russia o chiunque altro". E l’Italia, che non bombarda? "L’Italia fa bene a non precipitarsi in automatismi militari che rischiano di essere controproducenti e che nessuno dichiara efficaci, dato anche che è presente in altri scenari, dall’Afghanistan al Libano. Ma questo non la esime dall’impegnarsi per pretendere un’intelligence europea, per ottenere di più sulla politica dell’immigrazione, invece di limitarsi a partecipare ai dibattiti su Schengen sì o no, e sulle frontiere esterne della Ue. Ci accorgiamo che tutto questo ha anche l’effetto di alimentare i nazionalismi? Ci accorgiamo che sta montando l’impulso a tornare alle frontiere nazionali? Faccio notare che i confini esterni dell’area Schengen sono pari a 9 mila chilometri, quelli della sola frontiera franco-tedesca ne valgono tremila. Tornando all’Italia, per quanto riguarda la Libia, dove inviterei a non sottovalutare il livello di penetrazione dell’Isis, davvero dobbiamo precipitarci a sostenere l’accordo Leon ora passato nelle mani di Kobler? Non dovremmo invece dire che la base di quell’accordo è troppo limitata perché possa tenere, quand’anche venisse varato?" Islam, attentati e dibattiti a scuola: servono idee, non il silenzio di Mara Gergolet Corriere della Sera, 6 dicembre 2015 I ragazzi hanno una forza, uno slancio assoluto e non intaccato verso la vita, che gli adulti hanno perso. E allora, parlare in classe, venire contestati, sentirsi dire con tono perentorio "se voglio sapere dei musulmani chiedo ai musulmani" o anche "la verità è scritta nel Corano", colpisce come una lama e quasi ferisce (l’amor proprio, almeno). Però in qualche modo apre gli occhi sulla necessità di non passare tutto sotto silenzio. Perché il voler evitare per gentilezza ed educazione lo scontro non è che ipocrisia. Mentre noi e voi tacciamo, o ci limitiamo a liquidare con superiorità chi pronuncia frasi razziste, in classe o negli uffici una tensione che nasce da un confronto inespresso e trattenuto, con i musulmani, o comunità diverse, c’è già. La nostra relazione con i musulmani in Italia va affrontata con consapevolezza. La consapevolezza del nostro pregiudizio, innanzitutto. Un ragazzo religioso musulmano, magari con barbetta, che cerca lavoro, parte con ogni probabilità svantaggiato rispetto a un coetaneo italiano. E probabilmente vive su di sé ogni giorno qualche piccolo episodio d’incomprensione. Come sanno tutti quelli che fanno parte di una minoranza, l’incontro con l’altro è mediato dal pregiudizio, e inevitabilmente anche dall’ignoranza. Sta a noi prenderne poco a poco coscienza e ascoltare, ma sta anche alla minoranza, più che denunciare, farsi conoscere e compiere qualche passo nei confronti dell’altro. Va però rafforzata anche un’altra consapevolezza: ci sono valori di fronte ai quali non dovremmo essere disposti a indietreggiare di un millimetro. E tra questi, la certezza che il sapere è storico, empirico, non rivelato. Che si può discutere di tutto. A lungo in Italia si è preferito evitare il dibattito sull’Islam, o di quello che è il punto critico: dov’è che fa attrito con le nostre società, e dov’è che si crea il cortocircuito? (Finendo per regalare un incredibile vantaggio ai populisti: di appropriarsi dell’esperienza comune che il problema in effetti esiste). Buttarsi in quest’arena non è elegante, si finisce quasi inevitabilmente colpiti da schizzi di fango. Ma se uno crede che il nostro destino non sia l’Eurabia, se pensa che le nostre società con l’arrivo dei migranti cambieranno per forza, ma che non saremo ricacciati tutti indietro nel Medioevo tra i crociati e gli elfi e i barbari in Jeep, forse si dovrebbe cominciare a scontrarci sulle idee. Il fatto che siamo così in ritardo, non vuol dire che non sia urgente. Stoltenberg: "la Nato è pronta ad aiutare la Libia" di Lucía Abellán, Andrea Bonanni e Stephan Israel La Repubblica, 6 dicembre 2015 Parla il segretario generale dell’Alleanza: "Serve una strategia flessibile che si basi sull’aiuto alle forze locali". La nato è pronta a intervenire in Libia, se si formerà un governo di unità nazionale e se chiederà assistenza per ricostruire le proprie capacità di difesa. Lo spiega in questa intervista il segretario generale dell’Alleanza, Jens Stoltenberg. Che illustra anche la nuova strategia "flessibile" nella lotta globale al terrorismo, dove non conta tanto mostrare la bandiera quanto aiutare le forze locali. Perché, spiega, in questa guerra "la maggior parte delle vittime sono musulmane e sono musulmani anche la maggioranza di quelli che si battono contro l’Is. Alla fin fine noi non possiamo combattere al posto loro". L’Occidente affronta una guerra in Siria e a una guerra contro il terrorismo in Europa. Perché la Nato non è coinvolta? "Tutti gli alleati Nato partecipano alla coalizione contro l’Is e la Nato ha un ruolo decisivo nella lotta al terrorismo. In Afghanistan stiamo conducendo la più grande operazione nella storia dell’Alleanza e il motivo che ci ha portato in quel paese è la lotta al terrorismo. Oltre a questo, siamo impegnati a rafforzare le capacità di difesa autonoma dei paesi della regione. Facciamo assistenza e addestramento militare, li aiutiamo con l’intelligence e con le forza speciali. La Nato, ovviamente, deve essere pronta a schierare forze armate. Ma è anche estremamente importante riuscire a esportare stabilità senza dover mandare le nostre truppe". Ma in tutte queste operazioni la bandiera della Nato non si vede. Dopo gli attentati di Parigi il presidente Hollande ha fatto appello alla solidarietà dell’Ue, non dell’Alleanza. Come mai? "L’importante è che tutti gli alleati Nato siano coinvolti nella lotta al terrorismo in modi diversi. In Afghanistan l’operazione militare è targata Nato. In Giordania, Tunisia e Irak la Nato svolge un’azione di assistenza e addestramento. In Turchia la Nato è presente con i Patriot. Quello che conta è che l’Alleanza e i suoi membri partecipino alla lotta contro l’Is secondo varie modalità, e che la coalizione sia guidata dal nostro alleato più potente, gli Usa. Non è un problema se la coalizione non è targata Nato, rientra nella flessibilità che dimostriamo nella lotta all’Is". Eppure adesso le minacce alla sicurezza sono ben più gravi rispetto al 2011, quando la Nato intervenne in Libia senza problemi. Oggi che cosa è cambiato? "Ma la Nato è impegnata. Con assistenza e addestramento in Giordania, Iraq e Tunisia. In Turchia siamo in procinto di schierare maggiori risorse. Continuiamo ad essere presenti in Afghanistan. E in Libia ci teniamo pronti ad assistere un governo nazionale, se ce ne farà richiesta. Non stiamo discutendo di una nuova grande operazione militare in Libia, e del resto non mi sentirei di raccomandarlo. Ma se si formerà un governo di unità nazionale, siamo pronti ad aiutarli fornendo assistenza. Tutti questi sforzi hanno il medesimo obiettivo, ma secondo modalità diverse, perché si affrontano problematiche diverse". Quanto alla Turchia, ho l’impressione che le dichiarazioni di solidarietà ad Ankara dopo l’incidente siano state molto caute. La Turchia è un partner problematico, come può la Nato aiutarla? "La Turchia vive una situazione difficilissima essendo confinante con l’Irak e la Siria. È l’alleato più colpito dalla crisi in Medio oriente. Ha accolto più di due milioni di profughi. Ogni nazione ha il diritto di difendere e proteggere la propria integrità territoriale, incluso lo spazio aereo. La Nato li aita a rafforzare le proprie difese aeree, (con la partecipazione di Spagna, Germania, Regno Unito e altri alleati). Siamo militarmente presenti in Turchia e lungo il confine siriano ben da prima che l’aereo russo fosse abbattuto. Entro Natale decideremo su un ulteriore pacchetto di misure di assistenza. La Nato continuerà ad essere presente nel Paese". Crede che abbattere l’aereo russo sia stata una mossa giusta? Non c’è un rischio di escalation? "L’importante è come arrivare a una de-escalation e a creare meccanismi che evitino incidenti del genere in futuro. Abbiamo discusso con i ministri degli esteri questa settimana per migliorare le linee di comunicazione militari, le procedure, i sistemi di riduzione dei rischi di conflitto, in modo da evitare il verificarsi di incidenti simili in Turchia, ma ovviamente anche in altre aree. Assistiamo a un significativo potenziamento dell’apparato militare da parte dei russi, dall’estremo Nord al Mediterraneo. L’intento è evitare che gli incidenti, in caso di verifichino, sfuggano al controllo". Truppe turche in Iraq minacciano l’unità e Teheran di Chiara Cruciati Il Manifesto, 6 dicembre 2015 Medio Oriente. I peshmerga fanno arrivare carri armati e soldati turchi alle porte di Mosul: "Solo per addestramento". Ma si parla già di operazioni via terra sulla seconda città irachena. Nato e Turchia sfidano così Iran e Russia. Ormai non si tratta più di mere provocazioni. Ora è guerra aperta: tra Erbil e Baghdad a parlare sono le armi che non risuonano più solo a Kirkuk, dove da settimane milizie sciite e peshmerga si contendono le ricchezze petrolifere della zona. Nel mirino c’è Mosul, seconda città irachena, roccaforte sunnita e centro economico del paese. Per settimane i peshmerga hanno ripetuto di non voler prendere parte alla liberazione della città se non in sostegno all’esercito iracheno. A quanto pare non è così: dopo aver circondato Mosul da Sinjar, a ovest, e da Erbil, a est, i kurdi iracheni hanno aperto le porte alle truppe di terra turche. Centocinquanta soldati, trenta carri armati, artiglieria pesante: sono arrivati per aiutare a liberare Mosul dall’Isis, ha detto ieri il colonnello kurdo Nahram al-Dosoki all’agenzia Al-Araby al-Jadeed. Il premier al-Abadi ne ha chiesto l’immediato ritiro: "Sappiamo che le forze turche sono entrate in Iraq, presumibilmente per addestrare gruppi di irachene, senza l’autorizzazione delle autorità federali. Una violazione grave della sovranità irachena". Secondo quanto riportato dai peshmerga, i turchi (gli stessi che abbattono jet stranieri se violano il proprio spazio aereo, ma non disdegnano di inviare le proprie truppe nei paesi vicini) si sarebbero posizionati a Bashiqa, area di confine tra la regione autonoma kurda e il territorio controllato dallo Stato Islamico, nella notte tra giovedì e venerdì. Venti km da Mosul: proprio qui due settimane fa il generale Afandi, ex ministro dei Peshmerga, assicurava al manifesto di non avere alcun interesse per Mosul. Su queste terre, ripete Erbil, i turchi addestreranno i kurdi a seguito di un accordo siglato un mese fa, la stessa giustificazione data dal premier turco Davutoglu: "Il campo di Bashiqa è una struttura di addestramento per sostenere le forze locali contro il terrorismo. Non stiamo preparando operazioni di terra e siamo pronti a supportare anche l’esercito e la polizia iracheni". Quell’accordo però non si limitava all’addestramento: secondo il quotidiano turco Hurriyet, prevede anche la creazione di una base militare turca nella zona. Baghdad è furiosa: l’ingresso dell’esercito turco è minaccia all’unità di un paese che si sta già sfaldando. La presenza turca in Iraq non è una novità: dalla fine di luglio Ankara bombarda le montagne di Qandil, a nord, per stanare i combattenti del Pkk. Al-Abadi protestò subito, nel totale disinteresse della comunità internazionale che ha dato man forte al sultanotto Erdogan. Stavolta però l’interventismo turco non va ad ampliare solo le distanze tra Erbil e Baghdad: è l’ennesima sfida lanciata da Erdogan e dalla Nato all’asse Mosca-Teheran. L’Iran ha i piedi in Iraq da tempo e non intende arretrare. Basti pensare alle parole di al-Abadi, pochi giorni fa, a seguito dell’annuncio del Pentagono dell’invio di unità speciali per operazioni dirette: l’Iraq non ha fatto richiesta a nessun paese di mandare truppe di terra e misure simili saranno considerate "atto ostile". C’è bisogno di armi e munizioni, di jet e denaro, ma non di soldati stranieri. Eppure soldati stranieri nel paese ci sono già: l’Iran mantiene da mesi una presenza costante, le Guardie Rivoluzionarie, che non solo gestiscono le milizie sciite ma prendono attivamente parte agli scontri con l’Isis. E a Kirkuk a confrontarsi non sono peshmerga e truppe governative irachene, ma peshmerga e milizie sciite, strettamente collegate a Teheran e ingestibili da Baghdad. È chiaro che l’Iran non può tollerare l’intervento congiunto turco-kurdo a Mosul, città di estrema importanza strategica e simbolica. Non è tollerabile neppure per la Russia, ai ferri corti con Ankara: Mosca ha creato un centro di coordinamento militare con siriani, iraniani e iracheni a Baghdad, con cui gestisce informazioni di intelligence e coordina le operazioni sui campi di battaglia siriano e iracheno. Il presidente Putin vuole gestire la lotta all’Isis anche in Iraq, come lo vuole Teheran: mantenere il controllo sullo Stato satellite iracheno significa garantire continuità territoriale all’asse sciita, dall’Iran alla Siria al Mediterraneo e al Libano. Una visione che si scontra con gli interessi del presidente kurdo Barzani, che approfitta palesemente dell’avanzata di Daesh per allargare i confini del Kurdistan iracheno e tagliare l’agognato traguardo dell’indipendenza. Per farlo passa per ogni possibile alleato, dagli europei agli statunitensi che hanno fornito fin da subito armi e munizioni ai peshmerga. Ma soprattutto fa leva sui buoni rapporti che ha intessuto con la Turchia: Erbil, considerata da Ankara l’anti-Pkk e l’anti-Rojava, è lo strumento turco per impedire le spinte indipendentiste kurde in Medio Oriente e lo Stato cuscinetto con l’Iran e l’Iraq in mano sciita. Arabia Saudita: presto 52 esecuzioni, Riad assume altri boia Ugo De Giovannangeli L’Unità, 6 dicembre 2015 Re Salman ha ratificato le condanne a morte. La denuncia di Amnesty: "Ondata senza precedenti". Hanno assunto altri "boia di Stato" per sbrigare il lavoro. Perché nel regno delle decapitazioni le condanne a morte vengono sfornate senza soluzione di continuità. È l’Arabia Saudita, che ancora qualcuno in Occidente osa definire un regime arabo moderato. Nei mesi scorsi, a re Salman d’Arabia erano arrivate sollecitazioni, appelli, pressioni perché risparmiasse la vita al giovane Ali Mohammed al-Nimr, che un tribunale saudita aveva condannato ancora minorenne alla decapitazione, e alia croce-fissione in una pubblica piazza fin quando il suo corpo non fosse arrivato alla putrefazione. Oggi, Ali è chiuso in una cella di isolamento di un carcere di Riad in attesa di essere giustiziato. Re Salman non solo non si è mostrato "misericordioso" ma ha rilanciato, apprestandosi a ratificare altre cinquantadue condanne a morte. A denunciarlo è Amnesty International. Nulla sembra scalfire un Paese che ha il tragico primato dì essere quello con il più alto numero di esecuzioni nel mondo, seguito solo da Cina e Iran. Tra il 1985 e il giugno 2015 sono state uccise 2.208 persone. E negli ultimi mesi le esecuzioni sembrano essere aumentate, con un incremento del +47 per cento, 102 persone. "È una nuova ondata senza precedenti che costituisce una cupa pietra miliare delie autorità saudite", afferma Amnesty. Donne decapitate sulle strisce pedonali, giovani portati davanti ai boia di Stato perché omosessuali, poeti condannati a morte per "apostasia". Benvenuti nel regno dell’orrore. "Ha scritto poesie blasfeme": con questa motivazione il tribunale saudita di Abha ha condannato a morte, il 17 novembre scorso, lo scrittore e poeta palestinese Ashraf Fayadh 35 anni, innescando proteste e appelli di grazia, da Ramallah a New York, destinati al sovrano wahabita Salman. Per le Nazioni Unite la sentenza si basa su prove non credibili, e inoltre a Fayadh non è stato concesso un avvocato durante il processo, in aperta, violazione dei diritto internazionale. Tutto è iniziato il 6 agosto 2013 quando Fayadh, nato in Arabia da genitori palestinesi, viene arrestato dalla polizia religiosa dopo un diverbio con un altro artista: l’accusa è di aver pronunciato frasi contrarie alla morale e alla fede. Viene rilasciato su cauzione, ma ormai l’attenzione è tutta su di lui e il 1° gennaio 2014 viene nuovamente arrestato. L’accusa? Aver "promosso l’ateismo" nella raccolta di poesie "Instructions Within" del 2008. Non solo. Secondo i magistrati, avrebbe violato l’articolo 6 della Legge saudita contro il cybercrirne per aver scattato fotografie a donne col proprio cellulare e averle conservate, Il processo di primo grado si conclude con la condanna al carcere e a 800 frustate perché i giudici accolgono con favore il pentimento,, in merito all’accusa di apostasia (in tribunale Fayadh si è dichiarato musulmano). La Corte d’Appello ha ribaltato la sentenza, già di perse folle, e lo ha condannato a morte per aver messo in discussione la religione e aver promosso l’ateismo. Secondo Mona Kareem, poetessa e attivista per i diritti umani, che si è subito mobilitata per la sua liberazione, Fayadh non ha un avvocato perché, dal giorno del suo arresto, non ha più i documenti d’identità. Un processo farsa, quello che ha riguardato il poeta palestinese, cosi come lo è stato il processo di cui è stato vittima Ali Mohammed al-Nimr. Ali è.stato arrestato nel febbraio 2012, quando aveva 17 anni, ed è stato condannato a morte nel 2014 da un tribunale di sicurezza e lotta al terrorismo. I capi d’accusa della sua sentenza sono dodici e includono l’aver manifestato contro il governo, aver aggredito le forze di sicurezza, essere in possesso di una mitragliatrice e aver compiuto una rapina a mano armata. Un gruppo di esperti delle Nazioni Unite e il Parlamento europeo hanno chiesto all’Arabia Saudita di sospendete la condanna di al Nimr. Richiesta caduta nel vuoto. Amnesty ha diffuso il testo di una lettera scritta dalle madri di cinque attivisti sciiti condannati: non è sicuro che siano tra i prigionieri prossimi a essere giustiziati, ma il fatto che siano stati sottoposti a un controllo medico inaspettato ha convinto le famiglie dell’imminenza della decapitazione. Nel loro appello, indirizzato al re saudita Salman e al principe Mohammed, le donne chiedono il rilascio dei figli e un nuovo processo da condurre secondo gli standard internazionali e in presenza di osservatori indipendenti. "Le sentenze con cui sono stati condannati i nostri figli sono le prime del loro genere nella storia della giustizia saudita. Sono basate su confessioni estorte con la tortura e processi a cui non sono stati ammessi i legali della difesa. I giudici hanno mostrato dì essere dalla parte dell’accusa". Tra i cinque attivisti ci sono Ali ai Nimr, Abduilah al Zaher e Dawood Hussein al Marhoon che erano minorenni al momento dell’arresto. La Convenzione delll’Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza proibisce la pena di morte per persone minori di 18 anni. Di fronte a questo scempio di vite umane e di legalità, nessuno può chiudere gli occhi o chiamarsi fuori. "Paesi che hanno una lunga tradizione abolizionista, tra cui la stessa Italia - annota Amnesty - dovrebbero prendere atto che in Arabia Saudita c’è una situazione dei diritti umani molto grave, che riguarda anche ma non solo la pena di morte e cessare di considerare Riad unicamente come un importante alleato, un prezioso partner commerciale e un lucroso mercato per la vendita delle armi". Egitto: il Cairo guiderà l’antiterrorismo dell’Onu di Giuseppe Acconcia Il Manifesto, 6 dicembre 2015 Arrestato il giornalista di sinistra Ismail Alexandrani. Revocata pena di morte contro Badie. Attesi i risultati delle parlamentari, ma al-Sisi ha già vinto. L’Egitto guiderà la Commissione anti-terrorismo del Consiglio di sicurezza Onu. La Commissione è stata istituita nel 2001 in seguito agli attentati dell’11 settembre. È paradossale che un governo che manipola per convenienza politica la questione terrorismo venga scelto a guidare l’antiterrorismo così come il politico che più ha alimentato il terrorismo jihadista, Abdel Fattah al-Sisi sia considerato modello della stabilità in Medio oriente da molti governi. Non si ferma la repressione in Egitto. Il giornalista e ricercatore, Ismail Alexandrani, impegnato per anni al fianco del comunista Khaled Ali nel Centro per i diritti economici e sociali (Ecesr) del Cairo, più volte intervistato dal manifesto in merito alle questioni legate al terrorismo jihadista nella regione del Sinai, è stato arrestato all’aeroporto di Hurghada con le accuse di appartenere all’organizzazione fuori legge dei Fratelli musulmani e per diffusione di notizie false. Alexandrani aveva deciso di tornare in Egitto nonostante avesse ricevuto avvisi di un possibile arresto. Per questo aveva deciso di volare dall’aeroporto di Berlino verso Hurghada e non da quello di Istanbul direttamente al Cairo. Nelle ultime settimane Alexandrani aveva pubblicato articoli critici nei confronti di Abdel Fattah al-Sisi accusandolo di essere la principale causa della guerra nel Sinai. Per anni, l’analista si è occupato di legami tra sicurezza di Stato e jihadisti. Anche Human Rights Watch e la Ong italiana Cospe ne hanno chiesto il rilascio. Malek Adly, avvocato di Ecesr, ha ammesso che Alexandrani non ha garantiti i diritti basilari e che non è stato possibile per i suoi avvocati di visionare le prove a suo carico. Sono ormai centinaia i casi di violazioni della libertà di stampa e di parola nel paese con decine di giornalisti ed esperti costretti a lasciare l’Egitto in seguito al colpo di stato militare del 3 luglio 2013. Saranno annunciati nei prossimi giorni i risultati definitivi delle elezioni parlamentari in corso dallo scorso ottobre. Al primo turno, la lista elettorale di al-Sisi aveva ottenuto il 100% dei seggi disponibili. La Corte del Cairo ha revocato invece la condanna a morte contro la guida suprema dei Fratelli musulmani, Mohamed Badie, stabilendo che il processo è tutto da rifare. Egitto: detenuto morto dopo torture, arrestati altri 5 poliziotti a Luxor Aki, 6 dicembre 2015 Il procuratore capo di Luxor ha ordinato l’arresto di altri cinque poliziotti egiziani coinvolti nella morte di un detenuto dopo aver subito torture in carcere. Talaat Shabeeb, 45 anni, è morto il mese scorso mentre era in custodia della polizia. Era stato arrestato il 25 novembre per traffico di droga. Ieri la procura di Luxor aveva ordinato l’arresto di altri quattro poliziotti coinvolti nello stesso caso. Tutti e nove sono accusati di violenze che hanno portato alla morte. Gli arresti sono scattati dopo la diffusione di un referto medico che ha accertato la morte dell’uomo per fratture al collo e alla schiena. Il caso di Shabeeb ha avuto una forte eco sui social network dopo la diffusione di una foto che lo mostrava vittima di un pestaggio. Il sito di al-Ahram ha ricordato che centinaia di manifestanti sono scesi in strada a Luxor la scorsa settimana per protestare contro la sua morte e per chiedere le dimissioni del capo della polizia locale. Quello di Shabeeb è il terzo caso negli ultimi giorni che vede sul banco degli imputati la polizia egiziana per presunti abusi. L’ultimo episodio è avvenuto a Ismailiya, dove un poliziotto è stato arrestato per la morte di un detenuto per le torture subite dopo l’arresto. Il ministero dell’Interno egiziano ha liquidato le questioni come "incidenti isolati", respingendo le accuse di un uso sistematico della tortura da parte della polizia. Medio Oriente: 39 donne palestinesi nelle carceri israeliane, 7 sono minorenni Nova, 6 dicembre 2015 Il numero delle donne palestinesi detenute nelle carceri israeliane è salito a 39, delle quali 7 sono minorenni. Lo ha annunciato la Commissione palestinese per gli affari dei prigionieri all’agenzia di stampa palestinese "Maan", aggiungendo che 8 detenute sono state fermate a seguito di scontri con le forze israeliane. La Commissione ha invitato le organizzazioni dei diritti umani a intervenire per il rilascio dei prigionieri. Il Comitato ha anche reso noto che "i militari israeliani hanno fatto irruzione ieri nelle città di Hebron, Nablus, Tulkarem, Jenin e Bethlehem, e hanno arrestato 27 cittadini". Giustizia alla giapponese: colpevoli pure gli innocenti di Annalisa Chirico Il Giornale, 6 dicembre 2015 Secondo "L’Economist" nel Paese del Sol Levante condannato il 99,8% degli imputati. Anche a causa di confessioni estorte. "I did it even if I didn’t", mi dichiaro colpevole anche se sono innocente. "L’Economist punta i riflettori sul sistema penale giapponese, e lo scenario è da incubo. Nel 2014 l’89 per cento delle inchieste penali è sorretto dalla confessione del presunto autore del reato. In altre parole, nove volte su dieci l’indagato confessa. E nel 99,8 per cento dei casi il processo sancisce la sua colpevolezza definitiva. Indagine, confessione, condanna: è il rito nipponico in tre atti. Tutto filerebbe liscio se non fosse che, come facilmente prevedibile, le confessioni spesso sono false: le persone indagate si autoaccusano al solo scopo di far cessare un duro interrogatorio, ottenendo magari una pena più lieve. L’Italia non è certo estranea all’abuso della carcerazione preventiva come mezzo per estorcere confessioni: Tangentopoli è un caso di scuola. E la terra del Sol Levante sembra mutuare la cattiva lezione con esiti eclatanti: nove volte su dieci l’accusato confessa. Polizia e inquirenti possono prolungare lo stato di fermo, senza aver formulato un’imputazione, fino a 23 giorni. In teoria, l’accusato avrebbe il diritto di avvalersi del silenzio. Di fatto, il silenzio è considerato come un’ammissione di colpevolezza. "Talvolta chi conduce l’interrogatorio ti spinge il tavolo contro, ti calpesta i piedi e ti urla nelle orecchie", è il resoconto del settimanale britannico. I colloqui possono durare più di otto ore. Gli indagati sono privati del sonno e costretti in posture scomode. In pochi sopportano un trattamento simile. Dietro la parvenza di ordine e pulizia le celle nascondono una ridda di vessazioni volte a fiaccare mente e corpo. Le "regole draconiane" vietano ai detenuti di guardare negli occhi le guardie penitenziarie salvo esplicita autorizzazione. Dietro le sbarre vige il silenzio salvo brevi momenti della giornata in cui è consentito ai detenuti parlare tra loro. La lettura è ammessa di rado. "In cella puoi soltanto respirare", dichiara Toshio Oriyama che ha trascorso 22 anni in carcere per un omicidio al quale ancora oggi si dichiara estraneo. "Quando facevamo la doccia, vedevo le piaghe da decubito sulla schiena degli altri", racconta a proposito del divieto di stare in piedi in cella. Kazuo Ishikawa è trattenuto in stato di fermo per 30 giorni fin quando si decide a firmare una pseudoconfessione. Non sa leggere ma non può resistere oltre e firma, senza sapere che così ammetterà di aver assassinato un uomo e resterà in galera per i successivi 32 anni. Invece dopo 46 primavere nel braccio della morte, lo scorso anno Iwao Hakamada è rimesso in libertà. Il giudice ordina la scarcerazione dimostrando le forzature e gli abusi commessi dagli inquirenti al fine di "fabbricare" le prove contro di lui. Hakamada racconta di essere stato sottoposto a interrogatori quotidiani della durata di 11 ore per 23 giorni consecutivi, conditi da manganellate e punzecchiature per impedire il sonno. È uno scenario da incubo che però non sembra toccare la sensibilità della classe politica e dell’opinione pubblica giapponese. Le sentenze dei giudici sono la "voce del paradiso", e se nove volte su dieci l’indagato confessa è un successo della giustizia made in Japan.