Se il carcere cancella la nostra Costituzione di Adriano Prosperi La Repubblica, 5 dicembre 2015 "Voi qui non applicate la Costituzione". Così ha detto un detenuto delle carceri italiane. Si chiama Rachid Assarag. Non importa perché si trovi in carcere. Basti solo sapere che ha registrato, con molte altre cose, questo breve dialogo. Un dialogo con un graduato (un brigadiere) delle forze della polizia carceraria. Gli ha chiesto: "Brigadiere, perché non hai fermato il tuo collega che mi stava picchiando?". Gli è stato risposto: "In questo carcere la Costituzione non c’entra niente". E anche: "Se la Costituzione fosse applicata alla lettera questo carcere sarebbe chiuso da vent’anni". La cosa stupefacente non è che un detenuto sia stato picchiato. Né che ci siano state quella domanda e quella risposta. La cosa fra tutte più singolare è proprio il nostro stupore. Davvero riusciamo a stupirci? Davvero non sapevamo che ci sono dei luoghi dove la Costituzione non vale? E non sapevamo forse che fra quei luoghi ci sono proprio quelli che si richiamano alla Giustizia? Gli uomini che picchiano ne recano il nome sulla loro divisa. Il loro ministero di riferimento è quello che si chiamava di Grazia e Giustizia. La Grazia se n’è uscita alla chetichella. Ma la parola Giustizia è ancora lì. Non solo: quei luoghi sono governati in nome della Costituzione. La Costituzione è come un cielo che ci copre tutti. Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me, diceva Kant. La Costituzione nasce dalla volontà di sostituire all’illusoria volta di un cielo che, come diceva una canzone di Jacques Brel, "n’existe pas", la protezione effettiva di un orizzonte comune, quella di princìpi e regole validi dovunque si estendano i confini dello Stato sovrano. È la coscienza di essere coperti da questo cielo che ci fa muovere negli spazi della vita quotidiana. Ma ora, questo scambio di parole affiora in superficie dal fondo di un carcere e ci sbatte in faccia una verità che abbiamo finto ostinatamente di non conoscere: nelle nostre carceri la Costituzione non esiste. Ma davvero si può dare uno spazio pubblico, addirittura un luogo della giustizia dove la Costituzione non vale? Quando questo accade, è come se sulle mura della casa comune si aprisse una crepa. La crepa, trascurata, si allarga. Come in un celebre racconto di E. A. Poe, minaccia la rovina finale dell’edificio. Sottrarre una parte dello Stato alle regole costituzionali è un reato. La legge deve punirlo. Ma quando nella comune coscienza si installa la certezza che esiste uno spazio - quello carcerario - dove la Costituzione non vale, quando lo si sa e lo si dice apertamente in difesa di una pratica di vessazioni e torture nelle nostre piccole Guantánamo, allora vuol dire che la crepa sta intaccando le fondamenta. Quel brigadiere ha detto che se la Costituzione valesse in quei luoghi, le carceri sarebbero state chiuse da tempo. Con quel brigadiere siamo in disaccordo totale per le cose che non ha fatto: doveva impedire che il detenuto venisse picchiato e non lo ha fatto. Ma siamo d’accordo con lui su quello che ha detto. Se la Costituzione è in vigore, quelle carceri debbono essere chiuse. Dovevano esserlo da decenni. È un ritardo da colmare. Rachid Assarag, quali che siano le sue colpe, resterà nella storia italiana per aver smascherato una lunga, non più tollerabile ipocrisia collettiva. Botte in carcere, indaga il ministero di Maria Novella De Luca La Repubblica, 5 dicembre 2015 Orlando invia gli ispettori negli istituti coinvolti dalle registrazioni del detenuto ora ricoverato a Torino. Manconi: "Abusi anche a Napoli". Il Sindacato: "Tutto da verificare, Polizia penitenziaria è istituzione sana". Le registrazioni di Rachid Assarag sono diventate un caso. Quelle voci che testimoniano botte e sevizie ai detenuti in diverse carceri italiane, violenze definite addirittura "educative" dagli agenti di custodia, hanno spinto ieri il ministro della Giustizia Andrea Orlando a chiedere al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) di inviare gli ispettori nei diversi istituti di pena dove gli abusi sarebbero avvenuti. Gli audio raccolti di nascosto da Rachid Assarag, detenuto marocchino condannato per stupro, che ha registrato decine di conversazioni con le guardie che lo picchiavano in cella, hanno fatto tornare in primo piano il dramma della violenza nelle carceri. Rachid Assarag, detenuto dal 2009, ha già cambiato undici istituti di pena. Dopo aver subito le prime violenze nel penitenziario di Parma ("fui picchiato da quattro agenti con la stampella a cui mi appoggiavo per camminare") Rachid prova a denunciare l’accaduto. Ma la risposta è il silenzio. Così trasferito di prigione in prigione, Rachid inizia a registrare di nascosto ogni abuso che lo riguarda. Gli audio, resi pubblici dall’associazione "A buon diritto", di cui è presidente Luigi Manconi e pubblicati ieri da Repubblica, sono agghiaccianti. "Brigadiere - chiede Rachid - perché non hai fermato l’agente che mi picchiava?". "Fermarlo? No, io vengo e ti do altre botte", la risposta. E poi: "Il detenuto - afferma il cosiddetto "brigadiere" nella prigione di Prato - quando esce da qui è più delinquente di prima, perché è l’istituzione carcere che non funziona". Ma c’è di peggio. Come quando lo stesso interlocutore afferma che per i detenuti le botte sono "educative" e, accusato dall’abile Rachid di non rispettare la Costituzione, risponde: "Se la Costituzione fosse applicata alla lettera questo carcere sarebbe chiuso da vent’anni. Qui tutto è illegale...". Commenta Fabio Anselmo, legale di Assarag. "I fatti sono gravissimi. In alcuni casi di parla anche delle morti dei detenuti. Rachid sa di aver sbagliato, ma si chiede perché il carcere debba infliggergli anche una ulteriore pena. Le sue registrazioni comunque sono già state ammesse da due giudici a Firenze e a Parma". Scettico invece sulle prove degli abusi subiti da Rachid, Donato Capece, segretario del Sappe, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria. "Non so come sia possibile che un detenuto tenga con sé un registratore. Sarà necessario verificare tutto, ma deve essere chiaro che la polizia penitenziaria è una istituzione sana". Conferma al contrario il racconto del detenuto marocchino Francesco Maisto, presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna. "Sapevamo delle sue denunce, informammo il sostituto procuratore di Parma che si attivò. E in quel carcere, allora, il clima era sicuramente di intimidazione". Avverte Luigi Manconi: "Il caso di Rachid non è isolato. Noi continuiamo a ricevere segnalazioni di violenze e abusi. E tra queste le più preoccupanti arrivano da Poggioreale, dove in due padiglioni già noti, Milano e Napoli, sembra che accadono fatti su cui si dovrebbe indagare". Intanto Rachid ormai in sedia a rotelle, dopo aver perso 18 kg per lo sciopero della fame iniziato un mese fa, è stato ricoverato nel Centro clinico del carcere di Torino. "Picchiato in cella, ecco i nastri". Roma chiede accertamenti. Salvini: vada nel suo Paese di Antonella Mollica Corriere Fiorentino, 5 dicembre 2015 "Brigadiere lui mi ha picchiato, perché non l’hai fermato?". "Fermarlo? Chi, a lui? No, io vengo e te ne do altre, ma siccome te le sta dando lui, non c’è bisogno che ti picchio anche io". A registrare la conversazione dentro la cella è un detenuto marocchino di 40 anni sulla sedia a rotelle che sta scontando una pena di 9 anni e 4 mesi per violenza sessuale. Rachid Assarag, attualmente recluso a Biella, nel novembre 2013 era a Prato. "Io voglio essere educato da voi. Ma se mi picchiate che educazione è questa?. L’educazione non è con il bastone... ragiona Rachid. Devo uscire da qui più cattivo di prima? Dopo tutta questa violenza chi esce da qui poi torna". Nel corso degli anni ha girato undici carceri diverse e in ogni sezione, con un registratore nascosto che gli portava la moglie durante i colloqui, ha captato le conversazioni con gli agenti penitenziari e poi, difeso dall’avvocato Fabio Anselmo di Ferrara - lo stesso che assiste la famiglia di Riccardo Magherini, l’ex calciatore morto a San Frediano nel marzo 2014 durante un fermo - ha presentato una sfilza di denunce in varie città. Il 4 novembre 2014 Assarag, interrogato in carcere dal pm di Prato Lorenzo Gestri, racconta di quando gli agenti si sono accorti del registratore all’altezza del petto. "Quando gli ho detto che era l’unico modo per dimostrare le condotte illecite hanno iniziato a picchiarmi a mani nude e con calci. Fui costretto a rimanere prono, sentivo sopra di me che montavano gli agenti e mi scalciavano. L’aggressione terminò perché i responsabili si resero conto di cosa era successo. Sentii quelli che mi avevano colpito dire tra loro che avevo delle forbici non consentite. Fu redatto un verbale di sequestro che io rifiutai di firmare: quelle forbicine non le avevo io". Nei giorni successivi Rachid ha forti dolori alla mandibola e al dente, viene portato in una clinica dove gli fanno una radiografia, il giorno dopo finisce invece nel reparto di oculistica a Careggi per un occhio insanguinato. Nel dicembre 2014 Rachid è a Sollicciano. Questa volta è un agente che denunciare Rachid di averlo colpito con una testata al volto e minacciato: "Levati dai coglioni, altrimenti ti taglio la gola", gli avrebbe detto. Su quell’episodio accaduto nella cella 19 della tredicesima sezione anche Rachid querela: "Sono stato aggredito dall’agente che mi fa fatto sbattere la testa al muro, prendendomi a pugni", il tutto fuori dal raggio della telecamera di sorveglianza. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha chiesto al capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di fare tutti gli accertamenti anche mandando gli ispettori. In attesa che le indagini facciano il loro corso Matteo Salvini, leader della Lega Nord, liquida così la vicenda in un tweet: "Immigrato, 9 anni per violenza sessuale, denuncia umiliazioni da Polizia Penitenziaria. Vai in carcere al tuo Paese, saremo tutti più felici!". Su un nastro le violenze nel carcere di Parma di Eleonora Martini Il Manifesto, 5 dicembre 2015 Un detenuto registra gli agenti. Il Guardasigilli Orlando chiede al Dap di inviare gli ispettori. Nella sede dei Radicali Italiani presentato il film di Costanza Quatriglio "87 ore: gli ultimi giorni di Francesco Mastrogiovanni". "Brigadiere, perché non hai fermato il tuo collega che mi stava picchiando?". "Fermarlo? Chi, a lui? No, io vengo e te ne do altre, ma siccome te le sta dando lui, non c’è bisogno che ti picchio anch’io". Come padrini e padroni, non come servitori dello Stato. "Abbiamo saputo del caso del detenuto straniero che denunciava violenze nel carcere di Parma, nel 2009. Ci informò il giudice di sorveglianza di Reggio Emilia - riferisce Francesco Maisto, presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna - Informammo subito il sostituto procuratore di Parma che si attivò". Dunque, tutti sapevano ciò che accadeva nel penitenziario parmense dove, spiega ancora Maisto, "proprio per questo in quegli anni si sono succeduti vari direttori". Nell’ottobre scorso, dopo la denuncia di un altro detenuto, questa volta italiano, la procura ha aperto un’inchiesta e 8 persone sono finite sul registro degli indagati. Eppure la voce del ministero di Giustizia si è sentita solo ieri, dopo la pubblicazione delle registrazioni-choc delle voci di alcuni agenti penitenziari, che rivendicano violenze e "botte", effettuate dal detenuto Rachid Assarag nel penitenziario parmense e in altri degli 11 diversi carceri in cui è stato recluso dal 2009 al 2015. Il Guardasigilli Andrea Orlando ha chiesto al Dap di "assicurare l’opportuna collaborazione agli accertamenti in corso da parte dell’autorità giudiziaria e di fornire elementi di valutazione su quanto sarebbe avvenuto nel carcere di Parma, anche all’esito di un’eventuale attività ispettiva". Gli ispettori però al momento non si muovono. "Se la Costituzione fosse applicata alla lettera questo carcere sarebbe chiuso da vent’anni", ammette candidamente un agente registrato. Ma il Sappe - che come tutti i sindacati penitenziari ha contribuito a bloccare in parlamento l’introduzione del reato di tortura nell’ordinamento italiano - parla di "accuse generiche da verificare" e mette in dubbio che "un detenuto che sta scontando una pena a 9 anni e 4 mesi di reclusione per violenza sessuale possa tenere con sé un registratore". Assarag invece è in sciopero della fame contro i continui trasferimenti punitivi e ha già perso 18 chili. Però non è certo una novità e non vale solo per il carcere di Parma: Marco Pannella e Rita Bernardini lo denunciano da anni, anche se per i Radicali la violazione dei diritti umani e la tortura perpetrata in cella da alcune "mele marce" è solo una parte dell’illegalità del nostro sistema penale che mette fuori legge l’intero Stato italiano. Ieri sera, per esempio, nella sede di via di Torre Argentina, i Radicali italiani hanno presentato il film di Costanza Quatriglio "87 ore: gli ultimi giorni di Francesco Mastrogiovanni" che racconta - anche attraverso le immagini originali delle telecamere interne - i quattro giorni di agonia del maestro elementare di Castelnuovo Cilento sottoposto a Tso nel 2009, sedato e legato a un letto fino alla morte, nel reparto psichiatrico dell’ospedale Vallo della Lucania. Santi Consolo (Dap): fatti gravissimi, se accertati assumerò i doverosi provvedimenti di Liana Milella La Repubblica, 5 dicembre 2015 "Se veri, sono fatti gravi. Qualora dovesse esserne accertata la fondatezza, assumerò i doverosi provvedimenti". Se ne fa garante Santi Consolo, il magistrato che dal 19 dicembre 2014 è al vertice delle carceri italiane. Ha già mandato gli ispettori? "Ho disposto un’ispezione in tutti gli istituti dov’è stato il detenuto. Gli episodi descritti da Repubblica non hanno riferimenti cronologici precisi e sembrano richiamare fatti lontani nel tempo di cui aveva già parlato l’Espresso più di un anno fa". Ciò aggrava la questione perché vuol dire che non avete ancora fatto niente. "Già l’anno scorso il Dap ha fatto un’ispezione nel carcere di Parma. Dall’inizio del 2015, proprio io, attraverso l’ufficio che segue le indagini disciplinari, ho chiesto alla procura di Parma notizie sui presunti pestaggi, ovviamente nel rispetto del segreto investigativo. L’indagine è complessa, perché necessita di verifiche sull’autenticità delle registrazioni, sulle date, sugli autori". Quindi, nonostante la denuncia di Rachid sia di vecchia data, il Dap non conosce ancora i nomi dei carcerieri picchiatori? "Intanto è tutto da verificare che si possa usare un’espressione del genere. Sia il Dap che la nostra polizia per il tramite dei sindacati, chiede all’autorità giudiziaria massima e immediata chiarezza". Scusi Consolo, c’è una denuncia di fatti gravi. I pm indagano. Ma il suo ufficio aspetta i magistrati o si muove per conto suo per evitare che episodi gravissimi si ripetano? "Questi fatti sono risalenti nel tempo. Le nostre attività non possono interferire con quelle dei magistrati e per intervenire disciplinarmente dobbiamo essere certi delle responsabilità". Non è preoccupato che casi simili macchino tutto il suo lavoro? "Certo che sono preoccupato. Oggi la Polizia penitenziaria si distingue per la diligenza e l’impegno nel garantire il benessere dei detenuti, assicurando al 95 per cento di loro una permanenza fuori dalle celle e prevedendo i rischi di radicalizzazione. Per questo, se si dovessero accertare delle responsabilità, saremo i primi a sanzionarle". Da spacciatore a educatore: la parabola di Abdel, che ha preferito la legalità alla cocaina di Mariano Maugeri Il Sole 24 Ore, 5 dicembre 2015 La burocrazia se la cava con una sigla: msna. Potrebbe essere una parola araba, in realtà è l’acronimo di minori stranieri non accompagnati. Quei ragazzini che incroci ai semafori di tutta Italia o nelle stazioni ferroviarie. Cenciosi, soli, puzzolenti, con la mano destra lurida e perennemente tesa alla ricerca di qualche spicciolo. Ragazzini abbandonati alle gang di malavitosi stranieri o delle mafie, che in virtù della minore età li reclutano per lo spaccio di droghe pesanti o altri lavoretti sporchi. Abdel Fattah Zaami, marocchino di Oued Zem, una zona desertica a 200 chilometri a Sud di Marrakesh, era uno di loro. A 13 anni si intrufola in una carovana di migranti che risale l’Europa dall’Andalusia attraverso Gibilterra. Abdel ha sette fratelli e genitori che faticano a sopravvivere. Racconta la sua vita da adolescente come se parlasse di un’altra persona: "Un tredicenne in Marocco è un uomo a tutti gli effetti". La sua missione è quella di raggiungere a Milano uno dei suoi fratelli. Lì dovrà darsi da fare per mandare un pò di soldi a casa. Nella zona periferica tra Baggio, Quarto Oggiaro e il parco delle Cave di lavori per un ragazzino immigrato non ce ne sono. Abdel ha due occhi neri che sprizzano intelligenza. I capi dello spaccio ci mettono pochissimo a farne un pusher. Un mestiere infame che Abdel interpreta a modo suo. Se i suoi clienti tossicodipendenti non possono pagare la coca, lui non gliela nega. E nove volte su dieci recupera i crediti con gli interessi. Per questo i suoi amici gli affibbiano il soprannome di "scanner umano". I guadagni marciano di pari passo con la sua reputazione. Dopo un anno di spaccio si mette in tasca 9 mila euro al mese. Lo arrestano due volte, ma i caramba sono costretti a rilasciarlo. Ormai parla milanese, Abdel. Nella mala di Quarto Oggiaro è temuto e additato a esempio. Al terzo arresto però scatta il cumulo. Sei anni di carcere, abbassati poi a 2 anni e mezzo. Per Abdul si spalancano le porte del Beccaria, il carcere minorile di Milano. Abdel è troppo furbo per non capire che le regole da quel momento non si possono violare. Tutto fila liscio finché non arriva il trasferimento ad Airola, il carcere minorile di Benevento. "Una specie di Cayenna rispetto al Beccaria" racconta. A comandare sono i minorenni affiliati ai clan della camorra, in guerra tra loro anche dietro le sbarre. Nel carcere minorile, nell’unica ora di svago, i reclusi hanno a disposizione solo un calcetto e un tavolo da ping pong. Ma i capi dei due clan monopolizzano entrambi. Nel Bronx di Milano Abdel ha imparato a farsi rispettare. Sfida Ciro, uno dei discendenti del clan Giuliano di Forcella, a Napoli, e gli dice che tutti devono poter giocare, con turni e regole condivise, perché al Beccaria si fa così. Ciro gli sferra un cazzotto. E Abdel reagisce spaccandogli la racchetta da ping pong sulla fronte. Sei punti di sutura sulla testa di Ciro chiudono le ostilità. Il minorenne marocchino incassa i complimenti dei secondini che per paura o pigrizia non contrastavano la prepotenza dei piccoli camorristi. Non dura. Abdel viene trasferito a Nisida, il carcere minorile di Napoli, e lì conosce Lassad, un ragazzo tunisino responsabile della cooperativa sociale Dedalus di Napoli creata da Andrea Morniroli, uno psicologo piemontese di Ivrea che da trent’anni tira le fila del privato sociale a Napoli. Fuori dal carcere di Nisida, il giorno in cui finisce di scontare la condanna, Abdel trova ad aspettarlo Lassad e un altro volontario. "Mi accolsero come se fossi stato un loro fratello, un gesto che non scorderò mai". La cooperativa Dedalus assegna ad Abdel una casa famiglia, un luogo protetto dove riassaporare la libertà appena riconquistata. Lassad, un ex impresario edile diventato "un cittadino-povero che si batte per i diritti dei migranti", diventa uno dei suoi amici più fidati. Inizia un percorso che porterà Abdel prima a conseguire un diploma di scuola media superiore e poi a conquistare il ruolo di socio della cooperativa Dedalus. Un gruppo di 47 persone, di cui 15 ex migranti, che a Napoli strappa dalla strada un centinaio di msna all’anno, minorenni cui assicurano un letto, tre pasti caldi al giorno, un corso di italiano e, spessissimo, un posto di lavoro. La scuola no, perché la legge italiana - come sempre lungimirante - offre una sola chance: lo scambio tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro. Gli Einstein, semmai ci fossero, a noi non interessano. Onoreficenze Andrea Morniroli e Lassad non ne hanno mai ricevute. Peggio: la Regione Campania gli deve dei soldi dal 2007. A ripagarli, per fortuna, sono le traiettorie umane come quelle di Abdel. A trent’anni lo scanner umano è uno degli educatori più apprezzati di questa coop sostenuta dalla Fondazione con il Sud presieduta da Carlo Borgomeo. Tra i compiti di Abdel c’è quello di girare le scuole per raccontare ai ragazzi la sua parabola umana: da reietto spacciatore a maestro di vita. La soddisfazione più grande? Ricevere l’invito ogni Natale dai direttori delle carceri minorili di Airola e Nisida. L’esordio di fronte ai ragazzini incarcerati, molti dei quali immigrati, è sempre lo stesso: "Mai cedere allo sconforto: a 15 anni ero in gattabuia come voi". Impasse Consulta, i timori del Colle di Lina Palmerini Il Sole 24 Ore, 5 dicembre 2015 Tutto fermo fino al 14 dicembre ma in questo lasso di tempo il Quirinale non starà a guardare. Già nei giorni scorsi molti sono stati i colloqui con esponenti dei partiti e soprattutto con i presidenti delle Camere con cui c’è stato un fitto scambio. E una sintonia profonda nelle valutazioni sull’impasse del Parlamento per l’elezione dei giudici della Consulta. Tre sono ancora da eleggere ed è proprio il numero che fa la differenza perché se non saranno rimpiazzati - e in fretta - la Corte costituzionale potrebbe rischiare un blocco, una paralisi. Un rischio enorme per la tenuta istituzionale di un Paese dove la Consulta rappresenta uno dei massimi organi di garanzia e funzionamento dello Stato. Tutto questo ha in mente il capo dello Stato. Che ha guardato con preoccupazione - e alla fine anche con sconcerto - quello che succedeva nelle ultime votazioni. Tutte risolte con una fumata nera. Un niente di fatto allarmante anche per il momento in cui si è verificato. Dal Colle ci si aspettava, infatti, uno scatto di unità e di senso si responsabilità. Non solo perché un organo dello Stato rischia l’impasse ma soprattutto come segnale politico da dare al Paese. Una responsabilità doverosa all’indomani dei gravissimi attentati di Parigi e di un allarme terrorismo che richiederebbe un "comportamento" parlamentare adeguato alle necessità dello Stato. E dunque ora che sono passate queste ultime votazioni, e si è arrivati alla ventinovesima, l’attesa è che alla ripresa del 14 dicembre si riesca a uscire dalla paralisi. In ambienti parlamentari si ragiona sulla possibilità e sul rischio che il capo dello Stato eserciti l’arma finale, quella dello scioglimento delle Camere. Ma, a oggi, appare ancora come una misura estrema. Al Quirinale si preferisce non ragionare su uno scenario che sarebbe davvero un giudizio inappellabile sulla mancanza di ruolo e di responsabilità del Parlamento e si lavora - invece - affinché le soluzioni possano essere trovate. Le risposte sono nelle mani dei partiti, è vero. E dei gruppi parlamentari. Ma, come accadde per la riforma del Senato, al Colle non è mai sfuggita la vigilanza ed è sempre stato dato ascolto e anche un contributo alla mediazione. Questa volta, sull’impasse Consulta, il capo dello Stato ha osservato, ascoltato, parlato con i due presidenti delle Camere. E dopo l’ennesimo fallimento, ora si lascia trapelare un allarme. Qualcosa di più che una preoccupazione soprattutto per la sottovalutazione che alcuni parlamentari stanno dando di una vicenda che invece riguarda nel profondo le funzioni di uno Stato, l’equilibrio tra i poteri. Insomma, non si può giocare con ricatti e risentimenti una partita così delicata sulle istituzioni. E nei dieci giorni che mancano alla ripresa delle votazioni, al Quirinale si intensificherà l’opera di moral suasion per evitare l’arma finale. I paradossi dell’antimafia che giudica la sua immagine allo specchio di Salvatore Merlo Il Foglio, 5 dicembre 2015 La battaglia a Palermo e il tentativo acrobatico della commissione di separare l’antimafia buona da quella cattiva. Formalizzata nel 1963 e costituita tra mille difficoltà, scetticismi e torbide resistenze in un periodo storico in cui in Italia si maneggiava davvero e senza cautela il famoso "la mafia non esiste", la Commissione parlamentare antimafia, composta da venticinque deputati e venticinque senatori, e presieduta in questa legislatura da Rosy Bindi, adesso intende distribuire a mezzadria torti e ragioni, separare l’antimafia buona da quella cattiva, distinguere insomma la nuova inquietante antropologia degli antimafiosi-mafiosi, rivelata dalle indagini giudiziarie a Caltanissetta e a Palermo, da quella dei veri antimafiosi, vorrebbe distribuire patenti di autenticità. Dal caso Saguto fino all’affaire della Confindustria siciliana. Ma non solo. E già nell’immagine dell’antimafia che indaga l’antimafia, in quello che anche Claudio Fava definisce "un paradosso" (seppure, dice il vicepresidente della Commissione, "apparente"), è in una certa misura contenuta la sensazione di un ossimoro, d’un groviglio, forse del solito pasticcio italiano che si consuma in un’istituzione pubblica, parlamentare, dunque politica, talvolta (e spesso non a torto) sospettata d’essere asilo del più cinico professionismo antimafioso, strumento di ripicche, serbatoio propellente per carriere all’interno dei partiti, una carambola di potere capace, in questa legislatura, ed è solo un esempio, d’imbarcarsi nell’acrobatica operazione di compilare quella famosa lista di "impresentabili" con la quale è stato condizionato il dibattito pubblico a due giorni dal voto per le regionali di maggio 2015. E da cinquantadue anni la Commissione audisce, ascolta, rileva, compila faldoni che potrebbero riempire parecchie stanze fino al soffitto, in un impasto imprendibile di ambizioni e di buone intenzioni, di strumentalità e di onesta passione, gli stessi inafferrabili ingredienti di cui è composta tutta l’antimafia, civile, politica e associativa - come ha rivelato la magistratura - quella stessa antimafia che la Commissione ora vorrebbe indagare e passare ai raggi X, distribuendo patenti. Ma si può indagare su se stessi? Può l’antimafia giudicare la sua immagine riflessa allo specchio? Un anno fa, il prefetto Giuseppe Caruso, oggi in pensione, ma allora direttore dell’Agenzia dei beni confiscati alla mafia, si presentò di fronte alla Commissione presieduta da Rosy Bindi. E con ritmo algebrico, Caruso, un vecchio uomo di carriera, iniziò a raccontare una serie di fatti di cui era a conoscenza, e di altri che invece sospettava soltanto, e che pure gli sembravano anomali. Fece il nome del giudice Silvana Saguto, poi dell’avvocato Cappellano Seminara, e insomma di tutti gli attori e le comparse di quella squallida commedia palermitana che adesso tutti conoscono per via delle indagini della procura di Caltanissetta. E più Caruso parlava più andava dipingendosi, di fronte alla Commissione antimafia e alla sua presidente Bindi, il quadro inquietante di un’antimafia che specula, di un’antimafia ladra, di un’antimafia che occhieggia al malaffare. Ma più Caruso parlava, più Bindi s’irrigidiva, si spazientiva, fino a interromperlo bruscamente. Lo stenografico della seduta è di una esemplare chiarezza narrativa: Caruso fa un nome, e Bindi respinge la "delegittimazione". Caruso accenna a un collegamento familistico, e Bindi liquida "l’accusa generalizzata al sistema". Compito statutario della Commissione antimafia è "verificare l’adeguatezza delle strutture preposte alla prevenzione e al contrasto dei fenomeni criminali nonché al controllo del territorio anche consultando le associazioni, a carattere nazionale o locale, che più significativamente operano nel settore del contrasto alle attività delle organizzazioni criminali di tipo mafioso". E insomma il compito della Commissione sarebbe stato quello di ascoltare Caruso, e poi di verificare tutte le circostanze e i dubbi che il prefetto stava sollevando. Al contrario, alla Commissione, e alla sua presidente, è venuto naturale, istintivo, d’immaginare che quelle perplessità fossero propedeutiche alla delegittimazione di personaggi molto esposti nel contrasto alla criminalità organizzata, quasi una bestemmia rivolta a una élite impegnata in un’attività sacrale e dunque non criticabile, che è il modo in cui l’antimafia - e dunque anche la Commissione antimafia - percepisce se stessa, al punto da essere stata individuata dalla mafia, cioè dal nemico, come un formidabile guscio nel quale ripararsi. Adesso la Commissione immagina di poter distribuire attestati di purezza antimafiosa. Ma come? Come con Caruso? Come si può giudicare, onestamente, la propria immagine riflessa da uno specchio? Lo strano Paese dove i giudici dettano legge di Bruno Vespa Il Gazzettino, 5 dicembre 2015 Lo scandaloso rifiuto del Parlamento di eleggere dopo trenta sedute comuni i tre giudici costituzionali necessari al completamento della Corte è frutto di un cocktail perverso che mescola la frustrazione di deputati e senatori all’impotenza e alla frammentazione dei partiti. Dalla fondazione della Repubblica, la gerarchia dei poteri costituzionali vede nell’ordine il legislativo, l’esecutivo e il giudiziario. Il quarto potere - non codificato - sarebbe quello della stampa che dovrebbe vigilare sul corretto funzionamento dei primi tre. La prevalenza esasperata delle Camere sul governo, frutto di una scelta influenzata dal ventennio fascista, rallenta da quasi settant’anni ogni processo decisionale. A noi il nuovo Senato fatto di consiglieri regionali non piace affatto. Ma turiamoci il naso, se serve a dimezzare i tempi di approvazione di una legge. Questo riguarda la costituzione formale. Ma c’è una novità anche in quella materiale: la prevalenza del governo sul Parlamento. Forte di un gabinetto quasi monocolore e con un alleato (Alfano) che non può tirare la corda perché sa che non mancherebbero i rincalzi (Verdini), il presidente del Consiglio può portare avanti pressoché indisturbato la sua politica, avendo peraltro gli avversari più accesi all’interno del suo stesso partito: che fanno ogni giorno azioni di guerriglia, ma difficilmente vinceranno anche una sola battaglia importante (salvo, forse, quella che ha un po’ indebolito la riforma della scuola). La prevalenza di fatto del governo sul parlamento pone per la prima volta l’Italia all’altezza delle principali democrazie occidentali: né Merkel, né Cameron, né Hollande incontrano intralci sostanziali alla loro azione. È giusto che il presidente del Consiglio comandi: avrà il merito dei successi e non potrà invocare alibi per gli insuccessi. Ma se nella gerarchia costituzionale di fatto l’esecutivo ha superato il legislativo, il terzo potere - quello giudiziario - ha superato largamente gli altri due. Se non altro perché talvolta le sentenze arrivano dove il legislatore non è ancora arrivato o è arrivato in tutt’altra maniera. Il pensionamento dei magistrati a 70 anni invece che a 75 ha costretto il loro Consiglio superiore a sfornare col ritmo insonne di una acciaieria centinaia di nomine ai vertici di quasi tutti gli uffici giudiziari italiani. In questo Consiglio non siedono tutti fini giuristi: a parecchi validi elementi se ne affiancano di molto mediocri, siano essi togati che laici, siano essi mezze tacche della magistratura potentissime nelle loro correnti che avvocaticchi di provincia che approfittano del provvisorio potere per meschine vendette personali. Bravi o mediocri che siano, tutti i consiglieri hanno una sola stella polare: la lottizzazione. Una lottizzazione così sfrenata, ostentata, saccente che mai è stata nemmeno immaginata nei settant’anni di vita della Rai repubblicana, che pure fu descritta come la sentina d’ogni compromesso. Al valido concorrente non sufficientemente protetto che lamenta l’esclusione da un posto ragionevolmente dovuto, i colleghi rispondono: hai ragione, ma abbiamo dovuto cedere il tuo incarico di presidente del tribunale di… perché la corrente di… in cambio ci dà la procura generale di… Così avviene ogni giorno. E alla sera, quando escono dal palazzo dei Marescialli, i signori del Csm si rallegrano non perché hanno promosso il migliore, ma perché il mercato dello scambio è avvenuto senza incidenti. E questo svilisce innanzitutto i tanti Magistrati con la maiuscola di cui è piena l’Italia. Matteo Renzi s’illude di riformare l’Italia, ma fino a quando non riformerà un siffatto Csm - un unicum nel mondo - non diventeremo mai l’agognato paese normale. Rachid Assarag, le botte in carcere, la nostra libertà di Maurizio Crippa Il Foglio, 5 dicembre 2015 Sparare al ladro sul tuo pianerottolo, anche sì. Proporre che un aspirante terrorista, che traffica sul web con istruzioni per attentati e inni al jihad finisca in carcere preventivamente, senza aspettare che passi ai fatti, pure sì. Ma poi, nelle carceri italiane, accade questo: "Brigadiere, perché non hai fermato il tuo collega che mi stava picchiando?". "Fermarlo? Chi, a lui? No, io vengo e te ne do altre, ma siccome te le sta dando lui, non c’è bisogno che ti picchio anch’io". E ancora, altre botte: "Voi qui non applicate la Costituzione". "Se la Costituzione fosse applicata alla lettera questo carcere sarebbe chiuso da vent’anni. In questo carcere la Costituzione non c’entra niente". Rachid Assarag è un detenuto marocchino di quarant’anni, sconta una pena di quasi dieci, ha girato undici diverse galere italiane. Botte e ancora botte, e giustificazioni che sono peggio delle botte. Ma lui ha iniziato a registrare tutto. Quelle sono alcune delle frasi sbobinate. E anche questa: "Il detenuto esce dal carcere più delinquente di prima… non perché piglia gli schiaffi, ma perché è proprio il carcere che non funziona". Luigi Manconi da mesi va girando l’Italia con un libro che si intitola "Abolire il carcere - Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini". Giorni fa ha denunciato le condizioni di salute di Rachid Assarag, che ora è in carcere a Lucca. Abolire il carcere, proprio ora che c’è da difendere noi stessi e l’occidente, è una proposta che probabilmente non passerà. Abolire questo carcere, se vogliamo salvare noi stessi, però è il minimo. Detenuti picchiati in carcere: qual è il "segreto" per restare uomini? di Marco Pozza (Cappellano della Casa di Reclusione di Padova) ilsussidiario.net, 5 dicembre 2015 A stupirmi è lo stupore di chi ancora si stupisce delle nefandezze perpetrate nel silenzio delle patrie galere. Dopo il reato di tortura - con il quale l’Europa ha sanzionato l’Italia per il trattamento inumano che riserva nelle sue carceri - cosa potrà diventare cagione di stupore? Oltre la violazione della dignità, rimane solo la morte, la violazione stessa del diritto alla vita. Quelle morti che, dentro le carceri, rimangono troppo spesso dei pensieri in sospeso, dei conti-che-non-tornano. Sembra cosa assai paradossale: nella patria del diritto, il trattamento dell’umano pare essere una cosa che va davvero storta, che sembra essere proprio foresta alle logiche più elementari. Perché di logica elementare si tratta, quella stessa che quando manca partorisce affermazioni dislessiche come "Le botte? Con questi metodi noi abbiamo ottenuto risultati straordinari". Parole che non sono un insulto al buon senso, bensì all’intelligenza umana. Quella che se non c’è, fa la differenza. Anche quando c’è. Parole, quelle intercettate dal detenuto e pubblicate ieri da Repubblica, che tratteggiano una realtà che è sotto gli occhi di tutti: il carcere, luogo che per sua natura dovrebbe essere un laboratorio di ricostruzione, il più delle volte si mostra come un luogo di decostruzione di quel poco ch’era rimasto, magari dopo un gesto delittuoso. Rimettere mano ad una strada slabbrata non è mai affare semplice, eppure tentare si deve, è necessario: nonostante tutto, in condizioni quasi impossibili, al limite della sopportazione. Chi decide di investire la sua vita in quella terra-di-mezzo che è una galera, sa che non si tratta di fare il sacrista in un convento di novizie. Per questo il senso dell’umano dovrebbe eccellere, il rispetto della Costituzione essere il fondamento di uno stile, l’uomo una scommessa non solo da correre ma che, addirittura, si può portare a casa. Gli agenti di polizia, spesse volte, lavorano in condizioni pietose: non sono gli unici, però, a farlo. Nemmeno i volontari trovano sempre giornate d’oro per ricostruire l’umano, a volte anche a causa di un’ostilità voluta, sponsorizzata. L’inadeguatezza delle condizioni, però, non giustifica l’inadempienza dello stile. Di una maleducazione del pensiero, delle gesta, dell’umanità. Di un tradimento della propria presenza: Despondere spem munus nostrum ("Dispensare la speranza è la nostra missione") è il motto che campeggia sotto lo stemma della Polizia Penitenziaria. L’esatto contrario del diffondere la speranza con la violenza. Arrendersi, dunque? Nemmeno il minimo dubbio: nel nome dell’onestà che "non tutti sono così". Sono proprio quelli-rimasti-umani a firmare la condanna dei loro colleghi: con la disapprovazione quando capitano certi eventi, con l’amarezza di vedere denigrato un intero corpo di polizia, con la constatazione che il gustoso, alla lunga, varrà più del disgustoso. Lo leggo nei loro occhi, negli occhi dei miei agenti-angeli, nelle parole di chi, pur con la divisa, rimane uomo appieno. Anche con la forza della denuncia di chi, pur libero, sa leggere l’angelico anche quand’è nascosto sotto la pelle dell’animalesco. Ciò che manca in chi manganella è, forse, proprio questa sfumatura: la consapevolezza d’essere, sotto la divisa, un uomo come loro, né migliore, né peggiore. Magari condita da un pizzico di cultura e di pensiero. Quella cultura che non è tanto sapere L’Adelchi del Manzoni a memoria, nemmeno l’Anabasi di Senofonte, ma la cultura in senso classico: il coltivare, l’annaffiare, l’irrigare. L’aratro, ma anche l’ago e il filo. Queste intercettazioni non rendono onore al carcere. Non rendono onore, soprattutto, a chi le ha firmate. Hanno tradito, per prima cosa, la fedeltà a ciò che hanno professato: alla speranza, alla divisa, alla loro intelligenza. Quale credibilità potranno ancora avere agli occhi di chi in essi s’imbatte? Gente in-credibile, non più credibile. Da riderci in faccia quando ci passi accanto, magari compatendoli per l’insoddisfazione di una professione che non li soddisfa, che non li soddisfa più, che non li ha mai soddisfatti. Forse a qualcuno ancora sfugge che i poveri hanno tanta memoria: non tanto di vendetta, ma memoria d’attendere quando i ruoli s’invertiranno. Come quella volta a Robben Island: hanno tenuto prigioniero un uomo-nero per trent’anni, perché era da rieducare. Dopo trent’anni si sono accorti che, dal carcere, era stato lui a rieducare la società. Ch’era come dire: la logica, certe volte, non sussiste. Di una cosa anche stanotte son certo: che domattina, a certi agenti-uomini, stringerò la mano con un affetto tutto umano. Oggi mi son reso ancor più conto che rimanere uomo, in certi ambienti, è saper vedere le rose a dicembre, il grano a Natale. L’umano, dentro l’imbecille. Roma: Camera Penale tra diritto di difesa e "Circolare Pignatone" di Barbara Alessandrini L’Opinione, 5 dicembre 2015 In piena astensione dall’attività giudiziaria penale proclamata dall’Unione Camera Penali Italiane la Cp di Roma, torna a farsi sentire. Effettivo motore della protesta contro la contrazione del diritto di difesa che non solo le iniziali modalità organizzative del processo Mafia Capitale, ma anche i futuri sbocchi legislativi proprio in materia di processo penale, hanno portato sotto i riflettori, la Cp di Roma ha ieri organizzato un importante convegno dal titolo "Lo stato della giustizia visto dagli avvocati", confronto a più voci tra il procuratore della Repubblica di Roma, Giuseppe Pignatone, la deputata Anna Rossomando della commissione Giustizia della Camera, Giovanni Bianconi del Corriere della Sera, il presidente della Camera Penale di Roma Francesco Tagliaferri, l’avvocato Valerio Spigarelli ex presidente dell’Ucpi e il professor Giuseppe Di Federico autore del testo "I diritti della difesa nel processo penale e la riforma della giustizia. Le esperienze di 1265 avvocati penalisti". Una protesta quella dei penalisti, ha spiegato Tagliaferri rivolta in particolar modo contro l’articolo 146 bis del cpp che, come ormai dovrebbe esser noto, prevede l’estensione del processo a distanza per tutti gli imputati detenuti, con formula destinata ad imporre un modello di giustizia militarizzata destinata di fatto all’equiparazione dei reati contro la Pa e poi di altri reati, a quelli di mafia con relativa e conseguente adozione del cosiddetto doppio binario e correlati strumenti giudiziari processuali e investigativi propri della legislazione speciale. In gioco, però, come puntualizzato da Tagliaferri ci sono anche la prescrizione, la limitazione del diritto di impugnazione ed altre misure legislative considerate restrittive sul piano dei diritti. Una mole di contenuti affrontati nel testo del professor Di Federico, da cui emerge una fotografia che dell’attuale sistema processuale penale restituisce un volto impietoso. Quello di un processo che non rispetta il diritto di difesa. Come ha spiegato Di Federico è emersa dall’indagine una mancanza di controllo giurisdizionale resa ancor più drammatica quando si affronta il capitolo della raccolta di intercettazioni. E più in generale in cui il diritto di difesa è sostanzialmente angariato dall’esondazione del potere giudiziario. Il nodo, inutile ripeterlo, resta sempre la mancata terzietà del giudice, la sua equidistanza tra la tesi accusatoria e quella difensiva, e dunque l’improrogabile quanto ostacolata urgenza di creare una distanza tra l’accusa e il giudice, attraverso una ragionata riforma delle separazione delle carriere che le agende politiche degli ultimi governo hanno ormai chiuso a doppia mandata nel cassetto, lasciando che essa sia meramente una cesura formale. Non a caso ad entrare nel mirino degli avvocati interpellati sarebbero proprio i giudici accusati di mancanza di terzietà. Ma al di là di queste considerazioni, poi, nel testo, come spiegato con allarme da Di Federico, l’Italia si attesta come l’unico paese in Europa, tra quelli con omogenei ordinamenti, in cui il grado di responsabilità non sia minimamente rapportabile alla libertà e all’indipendenza della magistratura, considerato il suo alto grado di invadenza nella sfera legislativa e politica in generale. Il problema anche qui, è antico, ed affonda le sue radici nella responsabilità di una cattiva e debole politica di aver assegnato alla magistratura quel ruolo di supplenza, e quel conseguente protagonismo, che l’hanno progressivamente trasformata in soggetto politico. Consentendo una sovraesposizione dei magistrati in tutte le sedi della vita pubblica del paese e la conseguente dilatazione, spiega Di Federico, del proprio potere come in nessun altro paese al mondo, sul piano legislativo, nella Corte Costituzionale, nel Csm, all’interno dello stesso ministero della Giustizia, sbilanciando fortemente il quadro democratico istituzionale. Non è difficile credere che sull’indagine siano da subito piombate le accuse e i tentativi di delegittimazione dal mondo della magistratura di essere un’indagine di parte, parzialità di cui Spigarelli ha ribadito la piena legittimità proprio perché ancorata a quella parte e a quei soggetti del procedimento che della pretesa punitiva subiscono la forza. Situazione, ha poi spiegato Spigarelli, peggiorata dagli ultimi orientamenti di un’azione legislativa che ha ceduto al ricatto dell’esigenza securitaria e del populismo giudiziario, pur a parole contestato dal premier Matteo Renzi, e che a un metro dal traguardo ha decapitato quelle leggi di aspetti fondamentali per le garanzie difensive, in generale per il raggiungimento del giusto processo e di una politica giudiziaria non cedevole ad inutili strette ed inasprimenti sanzionatori. Bordate dall’ex presidente dell’Ucpi anche sul pericoloso ampliamento dell’area del doppio binario ossia della platea del processo di prevenzione, iniquo strumento che già vede l’allineamento di chi, specialmente in questa fase di emergenza legata alla minaccia del terrorismo jihadista, ritiene legittima la contrazione dei diritti costituzionali. Questo il quadro generale. A riprova dell’egemonia che sulla produzione legislativa hanno le procure stesse. Accuse cui la voce della politica, nelle parole della Rossomando, è suonata un tantino fragile, incardinata per lo più, com’è stata, sul sapiente slittamento del discorso sul piano dei rapporti tra l’attività giurisdizionale e l’informazione nell’era digitale e sui legittimi meriti di un governo distintosi rispetto ai precedenti per capacità di far approdare in aula le iniziative di legge in altre epoche rimaste arenate in commissione e sulla puntualizzazione che nessun provvedimento è uscito con la medesima formulazione con cui è entrato in esame. Scontato l’assist del Procuratore Pignatone sulla "presunta" anomalia del sistema Italia con i suoi tre gradi di giudizio che consentono, ahinoi, di replicare in appello ciò che si è già sviluppato in dibattimento e con la mole di pagine di ogni sentenza. E ancora "la politica sulla rivisitazione delle pene ha dato qualche frutto interpretando la formula del carcere estrema ratio" ha spiegato l’esponente Pd, ma l’auto-encomio sui presunti meriti del governo per la complessiva normalizzazione della situazione carceraria sono apparsi fuori luogo considerando che alla spinta deflattiva sulle carceri l’ha data la sentenza della Corte Costituzionale sulla illegittimità della Fini Giovanardi che ha letteralmente svuotato gli istituti di pena di una buonissima percentuale di quel 40% di detenuti finiti dentro per droghe leggere. E considerato, la cosa è ovviamente passata sotto silenzio, che il rimedio risarcitorio interno, il cosiddetto 35 ter con cui l’esecutivo ha scantonato in prima battuta la scudisciata delle sanzioni della Cedu, è stato dichiarato ufficialmente fallito dallo stesso ministero della Giustizia. Con le conseguenze che ne deriveranno. Ribadita, pur nel rispetto del diritto di cronaca, la linea della contrarietà all’uso delle intercettazioni come anticipazione del processo soprattutto alla luce della recente cosiddetta autoriforma (altra protagonista del convegno) con cui il Procuratore di Roma Giuseppe Pignatone ha vietato a Pm e polizia giudiziaria di inserire negli atti le conversazioni irrilevanti ma funzionali alla gogna mediatica di fatto anticipando il governo che sulla disciplina della materia ha la delega. A motivare la circolare, che distingue tra ciò che è rilevante per le misure cautelari e limita le intercettazioni a strumento di indagine, e definita dalla Rossomando un coraggioso slancio "utile a restituire centralità al ruolo della magistratura nei confronti della polizia e del suo protagonismo, lo stesso Pignatone che ha motivata con la sacrosanta esigenza di "contenere l’impatto che intercettazioni, video e la pubblicazioni degli atti hanno sulla vita delle persone implicate e di contemperare i due momenti degli arresti e della diffusione del materiale, prevedendo un blocco temporale in cui sia possibile pubblicare solo l’ordinanza del giudice". Un atto per ora unilaterale utile a rammentarci che nel nostro paese si è adottato un sistema processuale in cui la prova si crea nel dibattimento e non attraverso le anticipazioni di una stampa che, attraverso la pubblicazione degli atti del procedimento, si fa troppo spesso megafono della tesi accusatoria della procura. Ma su cui Spigarelli ha comunque formulato una critica. Già, perché affidare alla discrezionalità del Pm la valutazione di ciò che del materiale sia o meno di pertinenza equivale a consegnarla al punto di vista di una sola delle parti investite nel processo. Di tutt’altro avviso - c’è da interrogarsi sulla effettiva utilità di questi convegni nel nell’individuare una sintesi tra esigenze inconciliabili come quelle della (cattiva ma maggioritaria) informazione e quelle delle garanzie processuali - Giovanni Bianconi. L’assunto è che l’informazione è diventata una componente del processo penale, che i processi sempre più coinvolgono gli interessi pubblici e che ormai "la stampa ha assunto una nuova funzione per cui attraverso le intercettazioni, come gli interrogatori e le informative della polizia giudiziaria svela ciò che accade intorno al mondo dei protagonisti del processo". La conclusione, dichiarata legittima è che per la stampa "il processo finisce laddove in realtà inizia". E nell’eterna contrapposizione tra controllo etico e controllo sociale rivendicato dai paladini dell’diritto all’informazione, l’articolo 114 a che fine è destinato? Secondo Bianconi non ha più ragion d’essere, implicita l’obiezione pavloviana per cui nessun giudice ammeterà mai di esser condizionato dalla pubblicazione di materiale prima del dibattimento: "Non poter riprodurre fedelmente materiale non coperto da segreto non è garantista e se è giudicato rilevante dal sistema dell’informazione è pubblicabile". E la norma Pignatone che espunge alla fonte le questioni irrilevanti? Semplicemente "Un bavaglio". Costernazioni mediatico-giudiziarie. L’unica certezza di fondo a restare in piedi è che l’informazione è interessata esclusivamente alla fase delle indagini preliminari. Che la gogna mediatica continui. Semplice. Trento: Lega Nord "il carcere di Spini di Gardolo è sovraffollato" Secolo Trentino, 5 dicembre 2015 Questo pomeriggio la Lega Nord Trentino ha tenuto una conferenza stampa davanti al carcere di Spini di Gardolo per affrontare una problematica che starebbe allarmando fortemente il personale della Polizia Penitenziaria ivi impiegato: un sovraffollamento delle carceri dovuto dall’invio di detenuti da altre carceri del territorio italiano, passando da 250 presenze a 349 in pochi giorni (numero che sarebbe però destinato ad aumentare toccando quota 418) e dalla contemporanea assenza di personale sufficiente a far fronte ad un numero così consistente di detenuti facendo divenire i turni di lavoro ancor più massacranti, con problemi gestionali e di spazi (ogni detenuto avrebbe diritto a 3 mq calpestabili, al di sotto dei quali scatta una sanzione). "Una simile situazione potrebbe portare a disordini, violenze e contestazioni così come starebbe avvenendo in diverse carceri italiane. Constatato ciò e appurato che il 60% dei detenuti di Spini sarebbe di origine straniera, si riterrebbe opportuno far scontare loro le pene nei Paesi nativi liberando così posti nelle carceri e riducendo le spese a carico dei cittadini italiani. Inoltre non possiamo scordare l’accordo tra Governo e Provincia autonoma di Trento: una capienza massima pari a 250 detenuti. Un patto che la Provincia dovrebbe far valere nei confronti di uno Stato che promette e poi massacra i territori; ma siamo purtroppo certi che, anche questa volta, il governo locale di centrosinistra si piegherà ai voleri e alle richieste renziane senza far prevalere la nostra autonomia e quanto contenuto all’interno di un accordo" ha detto Maurizio Fugatti per la Lega Nord del Trentino. Alla conferenza stampa erano presenti il Segretario nazionale Maurizio Fugatti, i Consiglieri comunali di Trento Bruna Giuliani e Gianni Festini Brosa, i Consiglieri circoscrizionali di Gardolo Angelo Pietro Spinelli e Fabio Armani, il Consigliere Circoscrizionale di Mattarello Maurizio Agostini. Milano: il Cardinale Scola "la società civile si impegni nei fatti su situazione delle carceri" Askanews, 5 dicembre 2015 La società civile, in tutte le sue espressioni, si deve impegnare nei fatti per concretizzare il principio della funzione rieducativa della pena e dunque l’accoglienza dei carcerati nella società "senza la quale il compito rieducativo viene vanificato". Lo ha detto l’Arcivescovo di Milano, cardinale Angelo Scola, nel Discorso alla Città e alla Diocesi, intitolato "Misericordia e giustizia nell’edificazione della società plurale" e tenuto nella Basilica di Sant’Ambrogio. Scola ha richiamato la necessità di capire in modo adeguato la funzione rieducativa della pena, nell’ambito di un più generale discorso sulla pratica della giustizia nell’ordinamento italiano, che stabilisce appunto questo principio rieducativo della pena. È necessario, secondo il cardinale, "evitare una concezione paternalistica o etica dello Stato" e invece "promuovere una accoglienza nella società senza la quale il compito rieducativo viene vanificato. Le leggi non possono assicurare la rieducazione, possono solo stabilire condizioni più favorevoli. La responsabilità della società civile emerge, in questo senso, in tutta la sua forza. E questo implica una concezione della partecipazione e della democrazia fondata sul riconoscimento reciproco, più che sulla deliberazione" ha detto. L’Arcivescovo ha ricordato come sono distribuite le carceri e la situazione in generale dei detenuti nella Diocesi di Milano, richiamando il cambiamento della legge in vigore dal 2013 per "rendere ancora più residuale la pena da scontare in carcere per dare più spazio a forme di esecuzione penale esterna". "Tutte queste sono misure positive ma richiedono l’impegno fattivo della società civile in tutte le sue espressioni" ha aggiunto Scola, citando come esempio la necessità di riorganizzare gli spazi in carcere ma anche di "offrire percorsi di lavoro non retribuito o retribuito e di accoglienza a coloro che scontano la loro pena fuori dagli istituti. È impensabile che tutti questi bisogni possano trovare risposta senza il coinvolgimento effettivo dei corpi intermedi. In questo senso la Chiesa ambrosiana da qualche decennio è impegnata direttamente attraverso l’operato dei cappellani, dei numerosi volontari, dei centri diocesani di accoglienza, della Caritas e di altri soggetti che operano in questo delicato ambito. Tanto è però ancora il lavoro da fare per coinvolgere le comunità e l’intero territorio nella risposta ai bisogni emergenti". L’invito è stato poi a prendersi cura anche di chi invece in carcere deve restare perché non può beneficiare delle misure per motivi di legge o di povertà e bisogno. "È necessario prendersi maggior cura anche di queste persone coinvolgendo operatori e volontari per garantire diritti effettivi a tutta la popolazione detenuta" è stato il richiamo. Avellino: Valente (Pd): Stiamo riaffermando la funzione rieducativa della pena Agenparl, 5 dicembre 2015 "Secondo l’articolo 27 della nostra Costituzione, le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, e devono tendere alla rieducazione del condannato". Così sulla sua pagina Facebook, la parlamentare del Pd, Valeria Valente, riguardo il convegno "Riflessioni sulla situazione carceraria post Torreggiani", promosso dalla presidente del Consiglio regionale della Campania, Rosetta D’Amelio, dal Direttore della casa circondariale di Sant’Angelo dei Lombardi e da Samuele Ciambriello, docente Università degli Studi Suor Orsola Benincasa, e svoltosi oggi alla Casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi. "Ho incontrato detenuti davvero impegnati in lavori qualificati e utili alla comunità. Lavori che - prosegue il segretaria dell’ufficio di presidenza della Camera dei Deputati - riaffermano concretamente il principio della funzione rieducativa della pena, restituendo ai ristretti innanzitutto la loro dignità". "Questa è la direzione da seguire, percorsa da Parlamento e governo, in questi mesi, con risultati - ribadisce - finalmente tangibili sul sovraffollamento carcerario. Questa è la scelta di rispondere in una maniera diversa, più efficace e giusta, alla domanda di sicurezza, che pure viene dalle nostre comunità e che non può essere ignorata". "Basta cedimenti al riflesso securitario ed esclusivamente punitivo dell’opinione pubblica, che in questi anni ha mostrato tutti i suoi limiti. Questa è la strada giusta, in grado di non piegarsi sempre e soltanto alle ragioni del consenso immediato, ma che - conclude Valente - persegue la realizzazione di obiettivi concreti, sul breve come sul lungo periodo". Rebibbia: Sappe; un morso ed una mano rotta, detenuta sieropositiva aggredisce agenti romatoday, 5 dicembre 2015 La denuncia da parte del segretario generale del Sappe Donato Capece: "Dateci spray anti aggressione come polizia e carabinieri". Ha rotto le ossa di una mano ad una agente ed ha morso la sua collega. Alta tensione nel Carcere Femminile di Roma Rebibbia, dove mercoledì scorso una detenuta italiana sieropositiva ha dato in escandescenza e turbato l’ordine e la sicurezza della struttura penitenziaria aggredendo le due agenti di Polizia Penitenziaria in servizio nella Casa Circondariale della via Tiburtina. A darne notizia è il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "La detenuta era stato fatto uscire dalla cella per essere accompagnata nell’infermeria - spiega il segretario generale del Sappe Donato Capece. Durante il tragitto, senza alcun motivo, improvvisamente si avventava contro le due colleghe, rompendo ad un osso della mano e dando un morso all’altra, procurandole abrasioni che hanno determinato il panico essendo la detenuta, come detto, sieropositiva. Si è reso necessario accompagnarle al Pronto Soccorso dell’ospedale, dove sono state medicate e dove per la collega morsicata sono iniziati una serie di accertamenti per scongiurare il rischio contagio. A loro va la nostra vicinanza e solidarietà". Da qui la richiesta del primo Sindacato della Polizia Penitenziaria al Ministro della Giustizia Orlando e ai vertici dell’Amministrazione centrale: "Sono anni - prosegue Capece - che sollecitiamo di dotare le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria di strumenti di tutela efficaci, come può essere lo spray anti aggressione recentemente assegnato, in fase sperimentale, a Polizia di Stato e Carabinieri. Sono decine e decine le aggressioni subite da poliziotti penitenziari in carcere dall’inizio dell’anno. Chiedo al Ministro della Giustizia Andrea Orlando e il Capo Dap Santi Consolo di adottare adeguati provvedimenti per garantire la sicurezza e la stessa incolumità fisica degli Agenti che lavorano in carcere, sempre più spesso al centro di gravi e violente aggressioni". Donato Capece evidenzia infine come l’aggressione nel carcere femminile di Roma Rebibbia sia "sintomatico del fatto che le tensioni e le criticità nel sistema dell’esecuzione della pena in Italia sono costanti. E che a poco serve un calo parziale dei detenuti, da un anno all’altro, se non si promuovono riforme davvero strutturali nel sistema penitenziario e dell’esecuzione della pena nazionale". Imperia: Uil-Pa; due agenti della Polizia penitenziaria aggrediti da un detenuto sanremonews.it, 5 dicembre 2015 "È giunto il momento che le istituzioni diano reali segnali di vicinanza e di intervento verso gli uomini e le donne della Polizia Penitenziaria che quotidianamente garantiscono e gestiscono la sicurezza di Imperia, senza mezzi, penalizzati e soprattutto dimenticati da tutti, agnello sacrificale del sistema penitenziario" - spiega il rappresentante della Uil-Pa. "È trapelata solo ora la notizia della grave aggressione di ieri, di due Poliziotti Penitenziari nel carcere di Imperia, un detenuto del Mali ha prima aggredito i due agenti che ricorrendo alle cure presso il nosocomio cittadino, hanno riportato prognosi rispettivamente di 15 e 7 giorni di prognosi". Fabio Pagani, rappresentante della Uil-Pa denuncia quanto successo nella casa circondariale di Imperia. Il detenuto sarebbe stato a sua volta ricoverato coattamente dopo aver dato ulteriormente in escandescenze. "L’Istituto vive la piena emergenza e l’Amministrazione Penitenziaria, comprese le istituzioni, hanno dimenticato di fatto l’Istituto Penitenziario di Imperia che colleziona numeri, in negativo, sia in merito al personale di Polizia Penitenziaria ridotto oramai all’osso, stanco, stremato, impiegato in turni strazianti, sia per la popolazione detenuta, 86 detenuti presenti su una capienza regolamentare di 69 detenuti e una percentuale di sovraffollamento che supera il 55%. - denuncia Pagani - È giunto il momento che le istituzioni diano reali segnali di vicinanza e di intervento verso gli uomini e le donne della Polizia Penitenziaria che quotidianamente garantiscono e gestiscono la sicurezza di Imperia, senza mezzi, penalizzati e soprattutto dimenticati da tutti, agnello sacrificale del sistema penitenziario". Livorno: Pianosa, l’isola "recuperata" dai detenuti di Romina Rosolia thinknews.it, 5 dicembre 2015 Pianosa, per metà isola e per metà carcere. Nell’arcipelago toscano, a otto miglia dall’Isola d’Elba, c’è un isolotto che è qualcosa di più di una meta turistica. Va detto, comunque, che non più di 250 persone al giorno possono sbarcarvi e che l’isola oggi è praticamente deserta se non fosse per quella manciata di detenuti - una trentina - che hanno la fortuna di scontare qui la loro pena in regime di semilibertà. Sono persone condannate per omicidio o per il reato di spaccio ma che selezionati da una speciale commissione, e valutati dal punto di vista psicologico ed umano, e che hanno avuto la possibilità di vivere "liberamente" anche se reclusi. Ma soprattutto, possono lavorare. Tutti provengono dal carcere di Porto Azzurro di Livorno. I detenuti gestiscono il "Milena" l’unico albergo aperto sull’isola - struttura che può ospitare 24 persone per volta, ricavata dalla residenza del direttore della Colonia Penale realizzata nel XIX secolo: Pianosa è da sempre sede di penitenziari sin dal 1800, è arrivata infatti ad averne cinque. Il piccolo alberghetto viene gestito dai detenuti insieme ad un gruppo di volontari che fanno parte della cooperativa "San Giacomo". C’è chi serve ai tavoli, chi fa il caffè, chi cucina, chi pulisce la spiaggia, chi cura l’orto, chi vende i prodotti coltivati in spiaggia. Sono loro a mantenere vivo questo lembo di terra nel Parco nazionale dell’Arcipelago Toscano, ma allo stesso tempo è quest’isola a tenere loro in vita. Non ci sono sbarre, possono liberamente giocare a calcio con i turisti. Possono parlare con loro, interagire da persone libere, reintegrarsi prima ancora che scada la propria condanna. A testimoniarne il loro lavoro ci sono molti reportage proposti dalla stampa italiana. L’ultimo è "Boats" su Deejay Tv, condotto da Pif, documentario in cui si racconta l’Italia di oggi attraverso l’occhio non convenzionale di alcuni giovani registi italiani. Un’isola, Pianosa, che oggi è praticamente deserta. Non ha più un centro abitato dal 1968, da quando venne trasformato in penitenziario di massima sicurezza dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. In quella occasione la popolazione venne evacuata. Nella struttura detentiva vennero confinati appartenenti a organizzazioni terroristiche e pericolosi esponenti delle mafie, tra cui Francis Turatello, Pasquale Barra e Renato Curcio. La struttura carceraria è stata lentamente smantellata, fino a quando nel 1998 il Governo Prodi decise di chiuderla definitivamente non senza lasciare strascichi: la caserma di polizia nuova di zecca che venne realizzata e composta da una centrale termica, una mensa, una cucina e un circolo ufficiali, rappresentano ormai miliardi buttati al vento e che logorano un’isola che avrebbe potuto rimanere intatta e non sfigurata nelle sue bellezze ambientali. Oggi di Pianosa non solo rimane il ricordo di personaggi come Sandro Pertini, che qui venne rinchiuso nel 1931 dal fascismo, o di Napoleone Bonaparte che in esilio all’Elba - intorno al 1805 - si recò molto spesso a Pianosa facendone ricostruire la torre a guardia del porto. Qui vi è di più, la speranza che pratiche come quella in cui sono impegnati i 30 detenuti, possano essere replicate per combattere la reiterazione dei reati, ed investire nella rieducazione su cui il carcere dovrebbe basarsi. Alessandria: progetto "Giù le mani dalle donne, voci dal carcere" di Stefano Summa dialessandria.it, 5 dicembre 2015 La Consulta comunale alle Pari Opportunità, insieme all’Assessorato alle Politiche di Genere della Città di Alessandria, ha promosso la conferenza stampa odierna presso le Sale Storiche della Biblioteca Civica "F. Calvo" di Alessandria con cui è stato presentato il libro realizzato a conclusione dell’esperienza biennale del progetto "Giù le mani dalle donne" curato dall’Area 03 del Distretto 30 di Zonta International nell’ambito della campagna internazionale "Zonta Says No". Presenti alla conferenza stampa Maria Teresa Gotta, assessore comunale alle Politiche di Genere, Marzia Maso, Presidente della Consulta comunale alle Pari Opportunità, Nadia Biancato, Direttore Internazionale Zonta International 2014-2016 e Governor del Distretto 30 di Zonta International nel biennio 2012-2014, Anna Girello, Presidente Zonta Club Alessandria 2014-2016, Oria Trifoglio, Presidente Zonta Club Alessandria 2012-2014, Felice De Chiara, Comandante Polizia Penitenziaria della Casa di Reclusione di Alessandria, Manuela Allegra, Capo Area Educativa della Casa di Reclusione di Alessandria, insieme anche agli studenti della III A del corso "Acconciature" dell’Enaip di Alessandria accompagnati dalla propria insegnante. Il libro che è stato presentato nell’incontro - redatto in italiano e in inglese - è stato realizzato con il concorso del Ministero di Grazia e Giustizia e l’associazione "Ovale oltre le sbarre" e raccoglie le riflessioni sul tema della violenza nei confronti delle donne raccolte dagli Istituti penitenziari di Alessandria, Fossano, Novara, Torino, Verbania e Vercelli. "Giù le mani dalle donne" nasce con l’intento di coinvolgere gli uomini nei luoghi in cui si pratica lo sport per sconfiggere una volta l’idea che la violenza sulle donne sia un problema di genere. Un fitto calendario di eventi sportivi hanno ospitato i Club Zonta di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta con i loro striscioni e le pettorine gialle "Giù le mani dalle donne" indossate da calciatori, pallavolisti, giocatori di hockey o di basket, così come di rugby. L’eccezionalità di una squadra di rugby nata dietro le sbarre e militante nel campionato nazionale ha portato nel 2012 "Giù le mani dalle donne" all’interno del carcere Le Vallette di Torino. Da questo contatto è nato l’iniziativa del "minuto di silenzio" in tutte le carceri italiane: il coinvolgimento dei Club Zonta in tutta Italia per un evento non solo di Area, ma di Zonta Italia che si rinnova ogni anno. Le squadre di rugby composte da carcerati sono diventate due (Torino e Frosinone) e il coinvolgimento si è ampliato con una partecipazione diretta, su base volontaria, dei detenuti invitati ad esprimersi sul tema della violenza sulle donne. Ad Alessandria, come sempre, si è andati oltre: la Presidente del biennio 2012-2014 dello Zonta Club Alessandria Oria Trifoglio, accompagnata dalla Past Governor del Distretto 30 di Zonta International Nadia Biancato, ha visitato personalmente la Casa di reclusione di San Michele e la Casa circondariale don Soria in centro città, avendo colloqui diretti con i carcerati, raccogliendo direttamente i loro contributi poi stampati nel libro. Il volume ha stampigliata in copertina una frase di una celebre canzone di Ligabue, gentilmente concessa: "…le donne lo sanno che niente è perduto…" e i pensieri raccolti rappresentano un esempio, una presenza di coscienza - come indica Giancarlo Caselli nella prefazione - una speranza che nasce in un luogo in cui con l’educazione si può trovare riscatto al debito con la società. Perché "gli uomini veri amano le donne", "i veri uomini rispettano le donne e usano le mani per accogliere, per proteggere". Sono alcune frasi semplici che dicono tutto. Le testimonianze sono frutto di lavori di gruppo, di esperienze personali. Ci sono anche le testimonianze di donne detenute (non ad Alessandria) e alcune poesie. Si parla di stereotipi, di cause… e vengono offerti suggerimenti su come intervenire. Ogni sezione ha una sua introduzione e al termine, Roberto Poggi dell’associazione "Cerchio degli Uomini", invitato lo scorso anno ad Alessandria da Zonta per informare sui centri di ascolto per i maltrattanti, propone una conclusione sul tema della fragilità maschile e sulla consapevolezza del cambiamento. Un lavoro che continua: certamente ad Alessandria dove Zonta Club sarà nuovamente in carcere il 10 dicembre per concludere i "16 giorni di mobilitazione contro la violenza sulle donne" della campagna "Zonta says No to violence against women", questa volta finalizzati ad affrontare un tema fondamentale: la Carta dei Diritti Umani. Zonta Club Alessandria non è più solo in questo confronto dietro le sbarre: alle socie si uniscono le nuove generazioni, le ragazze che costituiscono il Golden Z Alessandria Cittadella (il club giovanile di Zonta costituito dagli universitari), ma anche i membri della Consulta Pari Opportunità della Città di Alessandria. "Proprio per questa occasione di visita in carcere - sottolineano Maria Teresa Gotta, Assessore comunale alle Politiche di Genere, e Marzia Maso, Presidente della Consulta Pari Opportunità - come Assessorato alle Politiche di Genere e Consulta comunale alle Pari Opportunità intendiamo lanciare, insieme a Zonta, una colletta per portare generi di necessità per i detenuti del carcere di San Michele. Nel ringraziare molto il Direttore Internazionale Zonta International 2014-2016, Nadia Biancato, con le Responsabili e Presidenti di Zonta Club Alessandria Anna Girello e Oria Trifoglio, insieme al Direttore della Casa di Reclusione di Alessandria Elena Lombardi Vallauri, al Capo Area Educativa della Casa di Reclusione Manuela Allegra, e al Comandante Polizia Penitenziaria della Casa di Reclusione di Alessandria Felice De Chiara, per l’ideazione, la realizzazione e il sostegno fattivo di questa esperienza - concludono Maria Teresa Gotta e Marzia Maso - riteniamo che sia importante favorire la promozione di gesti come questo: un modo pratico, oltre che simbolico, per testimoniare i valori sanciti dalla Carta Universale dei Diritti Umani. Un gesto eloquente in un particolare momento storico, quale quello attuale, in cui l’ascolto può essere di grande sostegno per tutti noi". Il punto di raccolta per la colletta sarà attivo, a partire dal 3 dicembre, presso l’URP del Comune di Alessandria (in piazza della Libertà 1) con i seguenti orari: lunedì, mercoledì e venerdì dalle 8.30 alle 12.30 e martedì e giovedì dalle 8.30 alle 15.30. Si potranno portare dentifrici, asciugamani, calzini, maglioni, felpe, indumenti intimi maschili. Ascoli Piceno: le condizioni penitenziarie nelle Marche al centro di un convegno a Fermo fermonotizie.info, 5 dicembre 2015 Sabato 5 dicembre l’appuntamento organizzato da associazione Antigone Marche e Associazione Italiana Giovani Avvocati. "Verso un’esecuzione penale oltre il carcere: le sanzioni e le misure penali di comunità". È questo il titolo del Convegno che si terrà sabato 5 dicembre a Fermo, presso la Sala degli Artisti, realizzato da Antigone Marche e Aiga, con il patrocinio del Comune di Fermo, del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Fermo e della Fondazione Carifermo, con il sostegno del Csv Marche. Sponsor Beleggia Sandro. Relatori la prof.ssa Lina Caraceni, prof. aggregato di diritto penitenziario nell’Università di Macerata, l’avv. Samuele Animali, presidente di Antigone Marche, e l’avv. Francesca Palma, presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Fermo. Convegno sulle misure penali organizzato a Fermo da Antigone. Tema centrale: le misure alternative alla detenzione in carcere, nella prospettiva di quanto previsto dall’art. 27 della Cost. secondo cui "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato", il quale con la reclusione non cessa di essere persona. Salva l’esigenza di assicurare la protezione della collettività: è sempre e comunque il carcere la migliore soluzione in vista del recupero della persona sottoposta a misure penali? Tenuto anche conto del problema del sovraffollamento, della carenza di fondi e di personale - in particolare del personale civile che si occupa del trattamento e del recupero - e della non adeguatezza di buona parte strutture? Bari: "Gli affetti dei minori reclusi", se ne parla in un convegno mercoledì 9 dicembre barilive.it, 5 dicembre 2015 Degli affetti dei minori "reclusi" si parlerà mercoledì 9 dicembre alle ore 17,00 nella Sala Consiliare della Città Metropolitana di Bari (Via Spalato,19) nel corso di una tavola rotonda promossa dal Servizio di Pastorale Carceraria "Fratello lupo" della Provincia di S. Michele Arcangelo dei Frati Minori di Puglia e Molise in rete con Cooperativa Maieutica, Associazioni famiglia per tutti e Anteas, Gruppo arca di Noè. L’iniziativa rientra nel progetto "Tutela della genitorialità in carcere" durante il quale sono stati approfonditi i temi degli affetti sia nei detenuti che nei Cie, Cara e Cpa. La Tavola Rotonda si inserisce a completamento di un intero e intenso mese dedicato alla riflessione sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza, e vuole porre l’attenzione attraverso il confronto su una questione delicata. Un figlio minorenne in carcere rappresenta un momento di crisi per il nucleo familiare, perché senza dubbio il periodo di detenzione crea uno spazio di separazione, demarca un territorio da riconquistare e rischia di radere al suolo talvolta il fragile rapporto tra genitori e figlio adolescente. La crisi però può creare spazi e presupposti affettivo - cognitivi per il cambiamento ed in questa prospettiva, anche l’istituzione carceraria minorile può assumere una importante funzione, attraverso le figure più significative sul piano pedagogico degli educatori. Saranno queste alcune delle questioni affrontate nel dibattito moderato da Rosa Stella Zero Componente della commissione famiglia, minori e persone dell’Ordine degli Avvocati di Bari, al quale porteranno il saluto il Sindaco della Città Metropolitana di Bari Antonio Decaro, il Consigliere sviluppo sociale della Città Metropolitana di Bari Giuseppe Valenzano, il Garante dei diritti delle persone limitate nella libertà della regione Puglia Piero Rossi, il Direttore della Caritas di Bari-Bitonto Don Vito Piccinonna e il Coordinatore del Servizio Pastorale Carceraria dei Frati Minori di Puglia e Molise Padre Mimmo Antonio Scardigno. Intervengono Nicola Petruzzelli Direttore dell’I.P.M. Fornelli di Bari, Angela La Fortezza Responsabile dell’Area Educativa dell’I.P.M. Fornelli di Bari, Rosy Paparella Garante dell’infanzia e dell’adolescenza della regione Puglia, e Nicola Angelini ex detenuto ed operatore del Centro di Ascolto Caritas Chiesa Madre di Rutigliano. Bologna: all’Ipm del Pratello pranzo di Natale preparato e servito dai giovani detenuti sassuoloonline.it, 5 dicembre 2015 Tra gli ospiti anche la Garante regionale delle persone private della libertà personale, Desi Bruno. I giovani, una decina, hanno seguito un corso di formazione del Fomal all’interno della struttura. Da un corso di formazione all’interno del carcere minorile fino alla possibilità di preparare e servire un pranzo sotto la guida di Mirko Gadignani, famoso chef che segue anche l’alimentazione dei giocatori del Bologna Fc: è successo a una decina di ragazzi dell’Istituto penale per i minorenni di Bologna durante il tradizionale pranzo in occasione delle festività natalizie. A raccontarlo è Desi Bruno, Garante regionale delle persone private della libertà personale, tra la ventina di invitati dell’evento promosso dalla direzione dell’Istituto e dal Fomal, l’ente che realizza percorsi formativi legati alla ristorazione all’interno del Pratello: la struttura, riferisce la Garante, alla data di ieri ospitava 24 ragazzi, per la quasi totalità stranieri (2 soli italiani) e maggiorenni (solo 4 i minorenni). "I percorsi formativi mirati, consentendo ai giovani detenuti di acquisire una specifica professionalità, sono una risorsa fondamentale- commenta la figura di garanzia dell’Assemblea legislativa- che, una volta terminata la detenzione, può permettergli di accedere al mercato del lavoro, come già si verificato per alcuni, proprio nel settore della ristorazione". Tra i presenti, accolti dal direttore dell’Istituto Alfonso Paggiarino, oltre a rappresentanti delle Fondazioni Carisbo e Delmonte - finanziatrici del progetto - anche il magistrato di sorveglianza presso il tribunale per i minorenni di Bologna, Luigi Martello, la dirigente del Centro giustizia minorile per l’Emilia-Romagna e Marche, Silvia Mei; la dirigente del centro di prima accoglienza e della comunità pubblica per i minori, Immacolata Pisano, la responsabile del servizio sociale per i minorenni, Teresa Sirimarco, Giovanni Schiavone, dirigente dell’Ufficio scolastico V ambito territoriale di Bologna, Valeria Bonora, direttore dell’area ricerca e sviluppo di Fomal e Paola Mambelli, dirigente istituto alberghiero Ipssar di Castel San Pietro. Lanciano (Chieti): il Papa invitato in carcere, per l’anno straordinario della Misericordia Ansa, 5 dicembre 2015 Papa Francesco è stato invitato al supercarcere di Lanciano per il 2016 in occasione dell’anno straordinario della Misericordia che prevede il Giubileo della Misericordia per i detenuti. Lo ha reso noto oggi la direttrice Lucia Avvantaggiato, a margine della presentazione del progetto Scuola - Carcere sul Bene e Beni comuni. L’invito inoltrato al Pontefice viene confermato dalla Curia frentana. La direttrice ha poi precisato che sette detenuti ospitati a Lanciano, e che possono beneficiare dei permessi di legge, saranno momentaneamente trasferiti a Roma per collaborare con il comitato giubilare. Alcuni detenuti lancianesi parteciperanno inoltre alle cerimonie che l’arcivescovo Emidio Cipollone terrà per le aperture delle Porte Sante della Cattedrale di Lanciano, il 12 dicembre, e del Santuario del Miracolo Eucaristico, il 19. Il 10 dicembre, alle 15, la struttura penitenziaria ospiterà poi l’anteprima dello Spettacolo teatrale e multimediale "Bene e beni comuni", nato in collaborazione tra la Casa Circondariale di Lanciano, l’istituto superiore Itet "Enrico Fermi" e l’associazione Davide Orecchioni Onlus, con il sostegno dell’Agenzia per la Promozione Culturale di Lanciano-Mediateca Regionale. "Lo spettacolo, è stato spiegato oggi, nasce da un percorso di ricerca e sperimentazione educativa sul tema della cittadinanza nelle sue implicazioni scientifiche e affronta, in particolare, il tema dei beni comuni utilizzando una varietà di linguaggi che spaziano dalla scienza, alla letteratura, alla musica". Dopo la prova generale in carcere gli studenti dell’Itet terranno lo spettacolo ufficiale il 16 dicembre, ore 18.30, nella sede dell’Agenzia di Promozione Culturale, in via dei Frentani. Brindisi: teatro e carcere, una "capa calda" all’Istituto Alberghiero di Fasano di Dino Cassone fasanolive.com, 5 dicembre 2015 Il sorprendente testo autobiografico di un giovane carcerato è stato messo in scena per i ragazzi dell’istituto dall’Associazione Teatro dell’Altopiano. Un testo dal forte impatto emotivo e dall’alto tasso di empatia. Che è riuscito a catturare l’attenzione dei giovani spettatori, attraverso molti sorrisi strappati, nonostante la crudezza e la drammaticità della storia, vera, narrata. Ieri mattina, presso l’Auditorioum dell’Itec "G. Salvemini", l’Associazione Teatro dell’Altopiano di Martina Franca ha messo in scena l’atto unico dal titolo "Capa Calda", nell’ambito del progetto voluto dall’Istituto Alberghiero che vede coinvolti gli studenti e il teatro. La storia è quella reale di un giovane detenuto (aveva diciassette anni quando è stato arrestato la prima volta), dalla vita di strada alla prigione, fino al riscatto parziale (è ancora detenuto), grazie alla passione per il teatro e per la scrittura. Grazie a quest’ultima il ragazzo napoletano (che è conosciuto solo con il nomignolo di Gugli) ha partecipato e vinto il Premio Letterario Goliarda Sapienza "Racconti dal carcere - sezione minori e giovani adulti" dell’edizione 2013. Il suo testo è stato così notato dal regista Carlo Formigoni che ne ha voluto fare una trasposizione teatrale, "senza alterare una sola virgola", come lo stesso ha tenuto a specificare ai presenti. Un racconto drammatico nella sua semplice verità: le amicizie sbagliate, il primo furtarello, poi la prigione, prima in un centro per minori, poi la seconda volta in un carcere vero e proprio. Qui il protagonista conosce il "caporalato" degli adulti che vogliono farne un personale schiavetto e l’orgoglio di farsi rispettare. Una vita destinata alla discesa inevitabile negli abissi dell’Inferno della malavita, che, inaspettatamente, trova la sua svolta nell’arte: il teatro e la scrittura, appunto. Platea assorta durante l’efficace rappresentazione dei quattro attori: Giovanni Calella nei panni del protagonista, Angelica Schiavone in quelli della madre, Dario Lacitignola e Salvatore Laghezza in quelli dei due amici balordi. Le musiche originali sono state composte dallo stesso Calella, che le ha eseguite dal vivo con una tastiera. Al termine la compagnia è stata salutata da un caloroso applauso cui è seguito un breve dibattito. L’Ue verso una mini-Schengen di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 5 dicembre 2015 Fuori, prima dall’Eurogruppo adesso dall’area Schengen. A Bruxelles quest’idea di spingere la Grecia fuori, oltre i bordi dell’Europa, per un motivo o per l’altro - adesso con l’accusa, non proprio esplicita ma chiara, di non essere in grado di governare l’afflusso dei migranti - è una sorta di chiodo fisso, suggerita sempre dall’asse franco-tedesco per imporre regole sotto dettato. Questa volta anche in barba ai trattati, in virtù di regole eccezionali antiterrorismo. A Bruxelles si sono riuniti ieri e l’altro ieri i ministri degli Interni e della Giustizia per deliberare sulla proposta della presidenza di turno lussemburghese del Consiglio europeo di interrompere la libera circolazione delle persone, stabilita con il Trattato di Schengen come cardine dell’Ue, "in uno o più paesi" (senza specificare quali, almeno nella bozza del testo finale), ma con evidente riferimento alla Grecia nelle dichiarazioni rilasciate ad inizio vertice da alcuni dei ministri partecipanti al summit. Il ministro tedesco Thomas De Maiziere entrando alla riunione è stato uno dei più espliciti: "Vogliamo mantenere Schengen, ma perché il sistema funzioni, con frontiere interne aperte, abbiamo bisogno di una protezione efficace delle frontiere esterne. E per farlo abbiamo poco tempo". La collega austriaca Johanna Mikl Leither, di rincalzo, ha espresso soddisfazione perché "la Grecia sta alla fine accettando la responsabilità di custodire la frontiere esterne e di accedere così agli aiuti europei per un effettivo controllo dei confini". In discussione, un pacchetto di misure per dotare il Vecchio continente di frontiere smart, intelligenti, che oltre alla schedatura a tappeto dei passeggeri di voli aerei anche interni tramite metadati da conservare cinque anni, prevede una sorta di "mini-Schengen", con la riattivazione dei controlli ai terrestri statuali per le persone che provengono in particolare dalla Grecia, dove sarebbe sospesa la validità di Schengen per un periodo da sei mesi fino a due anni. La proposta, è stata elaborata in un pre-vertice dei giorni scorsi, formulata a metà novembre sulla base delle preoccupazioni francesi seguite agli attentati di Parigi - la Francia voleva anche scansioni facciali e parametri biometrici schedati per tutti - e una consultazione tramite questionario inviato agli Stati membri sulle capacità di controllo delle frontiere esterne, in particolare sulla evidenza che la Grecia non sia riuscita a identificare centinaia di migliaia di migranti entrati nel suo territorio negli ultimi mesi. In base alle relazioni dell’agenzia europea Frontex - alla quale verrà affidata una supervisione pressoché totale di tutta la politica migratoria europea, incluso, a quanto pare, un non meglio precisato allargamento dei suoi compiti, della sua mission - nel 2015 hanno attraversato le frontiere esterne 1 milione e 200 mila persone (886 mila via mare), con un aumento del 431% rispetto al 2014. La stragrande maggioranza dei migranti e rifugiati hanno percorso la rotta dei Balcani occidentali, attraverso la Grecia. In autunno si sono registrate forti tensioni di confine e sospensioni di un mese di Schengen in Ungheria, Austria Germania, Slovenia. Mentre negli ultimi giorni si sono verificati tafferugli al confine Grecia-Macedonia tra migranti e rifugiati (curdi, iracheni, pakistani e bengalesi). Del resto se la Grecia si piega nei nuovi documenti della Commissione non c’è spazio per migranti economici, e poco anche per rifugiati e richiedenti asilo. Si preme ad esempio per un accordo con il governo afghano: soldi in cambio di renditions. La Raccomandazione elaborata ieri invoca l’articolo 26 di Schengen che introduce come "ultima risorsa" la possibilità di sospensione della libera mobilità dei cittadini europei, in uscita e in entrata, in presenza di gravi carenze, "serie e continue", di controllo dei confini comuni. Nello stesso tempo, si ricorda, non sono ammesse azioni unilaterali di chiusura delle frontiere nazionali "senza informare gli Stati vicini" e senza coordinamento. Per i dettagli, è fissato un vertice il 17 dicembre ad Atene. Intanto circa 3mila migranti sono stati arrestati in Turchia mentre si apprestavano a affrontare le acque fredde e agitate del mar Egeo per raggiungere le coste greche. Sono 2.933 persone, soprattutto provenienti da Siria e Iraq, diretti a Lesbo dalla provincia di Canakkale Ayvacik, finiti nelle retate di lunedì scorso come biglietto di ringraziamento per lo stanziamento di 3,2 miliardi di euro al governo Erdogan per il suo nuovo ruolo di gendarme. Ma non basta. Per sigillare la Fortezza Europa, serve ora un limbo: la Grecia. Dove ieri 1.700 migranti sono sbarcati al porto del Pireo per essere trasferiti nel principale hotspot vicino Atene dall’Egeo orientale. Al direttore esecutivo di Frontex, il francese Fabrice Leggeri, è stato dato tempo cinque giorni per mettere in campo in Grecia una squadra Rabit (Rapid border intervention team) in grado di surrogare le autorità greche. Controlli sui voli, sacrifici possibili di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 5 dicembre 2015 Tracciabilità dei voli: sapranno dove andiamo, quando, con chi, per quanto. Per sei mesi - la Francia chiedeva un anno - le informazioni saranno disponibili liberamente alle forze di polizia dell’Unione Europea; poi, per altri quattro anni e mezzo, quei dati saranno criptati, ma rimarranno accessibili. La domanda è semplice: rinunciare a parte della nostra privacy in favore di una maggiore sicurezza è un sacrificio troppo grande? La risposta è altrettanto facile: no, si può fare. Anzi: si deve fare. I terroristi si sono spostati con troppa facilità dalle terre di Daesh all’Unione Europea: vantandosi delle proprie imprese, approfittando della nostra fiducia, deridendo la nostra ingenuità. Hanno sfruttato i vantaggi della società aperta per raggiungere gli scopi pensati al chiuso dei loro covi. Le conseguenze le abbiamo viste: a Parigi un venerdì sera d’autunno, e non solo. Ben venga, quindi, la condivisione delle informazioni sui passeggeri dei voli aerei decisa ieri a Bruxelles. I Trattati europei garantiscono la libera circolazione delle merci, dei servizi, dei capitali e delle persone. Non la libera circolazione degli assassini. I ministri dell’Interno della Ue, ieri, hanno deciso insieme, superando alcune perplessità del Parlamento europeo. L’ importante, per gli Stati membri, è andare avanti così: continuare ad agire uniti, al di là delle differenze politiche e ideologiche. Speriamo che anche a Londra - dove le sirene antieuropee non smettono di cantare e un referendum s’avvicina - lo capiscano: loro hanno bisogno di noi, e noi abbiamo bisogno di loro. Da questa stagione buia usciremo insieme. Oppure non usciamo. I venditori di vecchio fumo nazionalista vogliono invece farci credere che siamo più sicuri se ogni Paese pensa a sé. Occupano le televisioni sbraitando. Vogliono convincerci che solo i confini di Stato vanno difesi. È vero esattamente il contrario. I drammi del 2015 - la crisi dell’euro, le migrazioni di massa, il doppio eccidio di Parigi - portano lo stesso marchio europeo. Non nascono da problemi italiani, francesi, greci, tedeschi, ungheresi e spagnoli. Nascono da problemi comuni, e vanno risolti in comune. I terroristi, nella loro psicotica lucidità, sono bravi a infilarsi negli interstizi: tra le incomprensioni che tolleriamo, tra le soluzioni che non troviamo, tra gli accordi che non raggiungiamo, tra le sciatterie che non riusciamo a evitare. È apparso subito evidente che gli stragisti del Bataclan hanno tratto vantaggio dal mancato coordinamento tra i servizi di sicurezza di Francia e Belgio; che i commessi viaggiatori della morte si sono potuti spostare nel cuore dell’Europa, come se nulla fosse, viaggiando sui nostri treni veloci e usando i nostri sistemi di telecomunicazione; che sono potuti uscire e rientrare facilmente dalla Siria alla Ue. I cosiddetti foreign fighters - nome altisonante per giovani disperati avviati al macello - sono potuti partire come se andassero in vacanza. L’Europa è tollerante, pacifica, libera: ma non può essere imbelle. E non dev’essere stupida. Nessuno di noi si sentirà offeso se, di questi tempi, gli verrà chiesto di mostrare la carta d’identità. Nessuno si sentirà violato se i propri dati e i propri itinerari saranno disponibili alle forze di polizia per quasi cinque anni. Cerchiamo di non essere ipocriti: ai colossi del web (Google, Facebook, Instagram, WhatsApp, Skype) affidiamo informazioni ben più riservate. È chiaro: esiste un conflitto oggettivo tra libertà e sicurezza, e sarebbe meglio che non ci fosse. "Spannungsfeld", un’area di tensione, l’ha chiamata Angela Merkel, sfruttando la sintesi lessicale tedesca. È altrettanto chiaro che un compromesso va trovato. Un compromesso onesto, dichiarato, accettabile. Ma non bisogna vergognarsi di volersi difendere. L’importante è farlo bene. Farlo rapidamente. E farlo insieme. L’Europa è forte quanto il suo anello più debole. L’abbiamo imparato a nostre spese. Spese sanguinose. Non deve accadere più. Quella lettera dal carcere scritta all’Europa dei diritti umani di Michaela Iaccarino Left, 5 dicembre 2015 L’appello al vertice di Parigi di Can Dundar e Erdem Gul, giornalisti del Cumhuriyet imprigionati con l’accusa di spionaggio. Avevano scritto del traffico di armi dalla Turchia di Erdogan al Califfato di Al Baghdadi. Siamo seduti intorno al fuoco in cerchio. Siamo norvegesi, greci, italiani, inglesi, olandesi, tedeschi: europei. Sono le 3 di notte sulla costa di Le-sbos, Grecia. In cerchio, in Europa fino alla Siriaq un altro fuoco e un filo rosso sangue ci lega tutti da Mosca a Damasco, da Kamishlo a Roma, da Berlino a Istanbul fino a Parigi. Siamo qui, una primavera araba dopo l’altra, perché alcuni di noi erano lì quando tutto è cominciato nel 2011, una rivoluzione e un’involuzione più avanti, un colpo di Stato, uno di teatro e uno di pistola all’avvocato curdo Tahir Elci ucciso il 27 novembre. Se un editoriale si può dedicare, quello che segue è per lui. Un paio di fatti in fila sotto questo cielo di stelle a picco nel buio, notizie commentate con questo panorama, alla luce dei volti intorno al falò di un’Europa che rimane sveglia a fare la vedetta per sentire voci, per vedere se c’è uomo o barca in mare da salvare, tirare a riva. Giovani e vecchi, Nord e Sud, a dare pugni più che schiaffi morali su chi dubita dell’umanità intera in questi tempi disperati, compreso chi ora ne scrive e registra le loro conversazioni notturne. I fatti nel cerchio all’interno del nostro cerchio: l’aereo russo abbattuto in Siria dai turchi, i giornalisti turchi in carcere, i trafficanti turchi in libertà dall’altro lato, di fronte a noi. È geopolitica da spiaggia, ma questa spiaggia, sotto una luna piena, di gradi centigradi ne contiamo 5 o 7, dipende da quanto sia vicina l’alba. Noi, come giornalisti che credono che la Turchia è parte della famiglia europea vi scriviamo questa lettera dalla prigione di Silivri. Le libertà di pensiero e di espressione sono valori indispensabili della nostra civiltà. Siamo stati arrestati e detenuti in attesa di processo per aver esercitato queste. Il primo ministro della Turchia, che incontrerete questo fine settimana, e il regime che rappresenta sono noti per le loro politiche e pratiche che violano i diritti umani e la libertà di stampa. I vostri governi stanno negoziando con Ankara per quanto concerne la crisi dei rifugiati. È l’inizio della lettera che Can Dundar e Erdem Gul, direttore e vice della redazione del Cumhuriyet, hanno scritto all’Europa dal carcere. Sono in manette con l’accusa di spionaggio per aver pubblicato documenti che evidenziavano la fornitura di materiale bellico del Paese di Erdogan a quello del Al Baghdad! Mentre le vedette europee aspettano i migranti, l’Europa sta stringendo mani turche e concede 3 miliardi di finanziamenti ad Ankara per arginare il flusso dei profughi, controllare i confini. Non quelli con l’Is, con cui fa affari. Putin, pur essendo Putin, l’ha detto ad alta voce ad Erdogan dopo il Sukhoi abbattuto in terra straniera. Ad entrambi: la Siria. L’Europa no: la Turchia è la porta blindata dei migranti che potrà chiudere i confini d’Eutopia. Can e Erdem dietro le sbarre scrivono al vertice di Parigi, scossa dalle ultime sassaiole e da due attentati dell’Is. È anche il nemico da cui scappano i migranti in arrivo sulle coste dell’Egeo. Non rinunciate dicono, alla sensibilità per i diritti umani, per i vostri egoismi: non usano queste parole, sono più bravi. Questa frase è la sintesi. Dicono: non siamo solo noi dietro le sbarre, tutta la Turchia lo è. Non stringete mani di chi finanzia califfi, ammazza curdi, organizza stragi ai cortei della pace. Lo scrivono mentre in Europa lo hanno già fatto. Dalle mani sono passati al braccetto. Perché poi i diritti umani di cui tanto parla e scrive questa Unione, dopo mare e deserto, toccando terra, i migranti, venivano a reclamarli davvero La strage di San Bernardino è terrorismo islamico, la killer giurò fede all’Is su Facebook di Alberto Flores D’Arcais la Repubblica, 5 dicembre 2015 La polizia: ispirati ma non diretti da Daesh. Adesso è ufficiale: la strage di San Bernardino è un atto di terrorismo islamico. Per l’Fbi non ci sono più dubbi, l’analisi dei dati sui cellulari e il computer usati da Syed Farook e Tashfeen Malik nei giorni precedenti il massacro - e anche poche ore prima di salire armati di tutto punto sul Suv scuro dove poi sono stati uccisi tentando una fuga impossibile - conferma che la giovane coppia di terroristi ha agito per conto (o almeno in nome) dello Stato Islamico. Hanno tentato di distruggere le prove, ma i cellulari di Syed a Tashfeen, schiacciati e gettati in un cesto della spazzatura, sono stati ritrovati dagli investigatori del Bureau. "Continuiamo a ricavarne dati, con le impronte "digitali" che hanno lasciato siamo riusciti a ricostruire le loro motivazioni. Da oggi indaghiamo sul caso come un atto di terrorismo". Diversi dettagli e una serie di piccole indizi (legami di Syed con Shebab somali e un militante del gruppo qaedista Al Nusra) che alla fine hanno rimesso in sesto un "puzzle" che per due giorni risultava incomprensibile anche a navigati detective come gli agenti federali delle squadri speciali anti-terrorismo. La cosiddetta "pistola fumante", la prova decisiva, l’hanno trovata nel computer abbandonato nella casa della coppia a Redland. I due fanatici islamici avevano distrutto l’hard disk, ma gli specialisti del Fbi sono riusciti comunque a risalire a un post su Facebook che Tashfeen aveva postato (sotto falso nome): un testo inneggiante allo Stato Islamico dove la giovane donna (27 anni) dichiarava la sua "completa fedeltà" al cosiddetto Califfo. Il messaggio è stato poi cancellato, ma l’Fbi ha deciso di non rivelare ulteriori dettagli su questo punto, né ha voluto spiegare ai media il modo in cui avevano ricostruito la vicenda del post su Facebook. Gli agenti hanno solo precisato che la coppia potrebbe essere stata "ispirata" dallo Stato Islamico, ma non "diretta" da militanti del Califfato. Solo una conferma che Syed e Tashfeen si erano "radicalizzati" negli ultimi mesi senza che (al momento) siano stati trovati legami diretti - i due non hanno lasciato alcuna rivendicazione e non c’è traccia anche nelle impronte "digitali" - con l’organizzazione terroristica di Al Baghdadi. Nelle stesse ore in cui l’America aveva la certezza che l’ultima strage era opera di terroristi islamici è arrivata anche la prima rivendicazione ufficiale di Daesh. In un comunicato trasmesso da Aamaq, il network di propaganda dello Stato Islamico, si legge che "due sostenitori dell’Is" sono gli autori della strage. Nel rivendicare l’attacco l’organizzazione terrorista sostiene che "è arrivato dopo la dichiarazione degli americani che gli Usa non erano a rischio di attentati terroristici" e dopo "i sanguinosi attacchi a Parigi e Tunisi". Nella casa di Redlands dove la coppia aveva vissuto negli ultimi mesi, ieri aperta a cameramen e fotografi, oltre all’arsenale (fucili, pistole e dodici "tubi- bomba") gli agenti hanno recuperato una serie di copie di istruzioni per fabbricare una bomba. Sarebbero state prese (e anche questa è una prova a favore dell’atto di terrorismo premeditato) dalla rivista online di Al Qaeda, Inspire. Dopo i dettagli emersi su Farook e il suo passato (più di un viaggio in Arabia Saudita, l’ultimo durato oltre un mese) gli agenti del Bureau stanno ora setacciando la vita della moglie. Malik, nata in Pakistan, era arrivata negli Stati Uniti solo l’anno scorso grazie a un "visto da fidanzata", un documento non facile da ottenere anche per chi è da tempo il partner di cittadini americani. Solo quest’anno, poco prima che nascesse la bimba di sei mesi (affidata alla nonna paterna poco prima di andare a compiere la strage) si erano sposati. Record di veterani di guerra tra i condannati a morte Usa di Guido Caldiron Il Manifesto, 5 dicembre 2015 Terrorismo domestico. Dal fronte americano delle stragi in casa. Di guerra non si muore solo al fronte. Oltre il 10% dei condannati alla pena capitale negli Stati Uniti, attualmente si calcola siano almeno 300 persone, sono degli ex combattenti, dei reduci dei tanti conflitti nei quali il paese ha impegnato i propri soldati nel corso dell’ultimo mezzo secolo. I dati del rapporto del Centro d’informazione sulla pena capitale, il Dpic, diffuso recentemente a Washington in occasione del Veteran’s day, la giornata in cui l’America celebra i suoi uomini in divisa, parlano chiaro: i problemi psicologici e le conseguenze dello stress post-traumatico che i militari hanno riportato a casa dagli scenari di guerra, sono all’origine di una lunga serie di gravi patologie e di molti crimini efferati. Secondo l’autorevole think-tank che si batte da anni contro la pena capitale, almeno 800mila veterani del Vietnam, oltre due terzi dei militari impegnati all’epoca dagli Stati Uniti, soffrono ancora oggi di disturbi molto seri, e questo a più di trent’anni dalla fine del conflitto nel Sud-est asiatico. A costoro si devono aggiungere i reduci dell’operazione Desert Storm del 1991, di cui oltre 175mila risultano affetti dalla cosiddetta "sindrome della Guerra del Golfo" che oltre a disturbi mentali sembra sia all’origine anche di un numero elevato di tumori cerebrali. Infine, altri 300mila veterani dell’Afghanistan e dell’ultima stagione delle guerre irachene, mostrano chiari segni di instabilità e di un grave stress. Di fronte a questo, i programmi di riabilitazione e di assistenza psicologica varati dalle forze armate o dall’amministrazione federale, risultano rari, carenti, quando non del tutto assenti. "Il vero problema - denunciano i responsabili del Dpic - è che per quanto gli Usa non cessino di celebrare con rispetto e gratitudine chi ha messo la propria a vita protezione del paese, coloro che al fronte hanno subito ferite non facilmente cicatrizzabili, come quelle che riguardano la loro psiche, ricevono spesso un’accoglienza del tutto diversa". Dai veterani ci si aspetta un comportamento esemplare, al punto che le loro défaillance sono spesso punite in modo ancor più duro rispetto al resto della popolazione. "Se a causa del loro stato mentale si macchiano di qualche crimine, prosegue il rapporto, sono giudicati come i peggiori criminali per la cui sorte è inutile evocare la grazia o sentimenti di pietà umana". Eppure, diversi fatti di cronaca che hanno colpito l’opinione pubblica americana indicano chiaramente come in conseguenza di quanto avevano vissuto al fronte, molti di questi veterani si siano trasformati in autentiche "bombe umane" pronte ad esplodere una volta tornati a casa. Come accaduto a Andrew Brannan, che aveva combattuto in Vietnam quando aveva solo 21 anni e aveva ottenuto per questo encomi e riconoscimenti, giustiziato in Georgia all’inizio di quest’anno dopo essere stato condannato per aver ucciso un poliziotto nel 1998. Nel video delle forze dell’ordine che documenta l’omicidio, si vede l’uomo, fermato per un banale controllo stradale, scendere dal suo pick-up e urlare "sono qui, ammazzatemi, sono un fottuto veterano di guerra", prima di impugnare un revolver e sparare nove colpi all’indirizzo dell’agente. Del resto, era un reduce dei Marines anche il responsabile del più grave attentato, compiuto dai "terroristi domestici" dell’estrema destra, che sia avvenuto nel paese prima dell’attacco alle Twin Towers: la strage che il 19 aprile del 1995 fece 168 vittime e 700 feriti a Oklahoma City. Condannato e giustiziato nel 2001 nel carcere di Terre Haute nell’Indiana, Timothy McVeigh aveva 26 anni quando compì l’eccidio e aveva lasciato l’Us Army solo 4 anni prima, dopo aver combattuto in Irak. Che nel paese questo sia un tema di grande e drammatica attualità, è stato del resto evidenziato anche dalla scelta di Clint Eastwood di girare lo scorso anno American Sniper, un film che racconta la storia di un tiratore scelto dei Marines, impiegato in Iraq, Chris Kyle, che dopo aver sofferto egli stesso di problemi psicologici una volta tornato negli Stati Uniti, sarà ucciso nel 2013 da un altro veterano, disadattato come lui. Armi al supermarket e reclutatori sul web, così l’America scopre gli attentatori free-lance di Arturo Zampaglione La Repubblica, 5 dicembre 2015 Per il giornalista del "New Yorker" Adam Gopnik la strage di San Bernardino fa emergere una nuova sociologia della jihad. "Sulle armi facili il presidente Obama appare frustrato. Sa bene di non essere in grado di vincere questa battaglia con il Congresso". "La strage di San Bernardino fa emergere una dimensione nuova nella sociologia del terrorismo", dice Adam Gopnik: "L’affiliazione jihadista, magari semplicemente attraverso un paio di clic sui social network, può rappresentare un modo sbrigativo per elementi sociali emarginati, oltre che per psicopatici, di sfogare la rabbia e uccidere all’impazzata, nobilitando le loro vendette criminali. Ma attenzione: per ora è un trend tutto americano, perché in nessun altro paese, tanto meno in quelli europei, le armi sono accessibili con tanta facilità". Gopnik è tra le firme più celebri del New Yorker, il settimanale che dal 1925 esprime la coscienza critica dell’America più colta e impegnata. Canadese di origine e newyorkese d’adozione, 59 anni, autore di vari libri, è sempre stato in prima fila nella battaglia politica, ma anche culturale, contro quella che definisce "la follia della armi". Facciamo un passo indietro: a suo avviso, quali sono le vere differenze tra gli attentati del venerdì nero di Parigi e la domenica del terrore in California? "Premetto che non sono ancora chiarissimi i collegamenti con l’Is dei due attentatori di San Bernardino. Sembrano più indiretti e meno organici di quelli dei jihadisti parigini, pur con una simile ispirazione spirituale. La vera differenza resta comunque il contesto: per la strage di Parigi c’è stato bisogno di un piano coordinato e probabilmente etero-diretto per acquisire l’arsenale. Negli Stati Uniti, invece, è facile diventare un "terrorista free-lance": basta entrare in un’armeria e comprare legalmente pistole, fucili automatici, giubbotti anti-proiettile e munizioni a go-go. Proprio come hanno fatto Syed Rizwan Farook e la moglie Tashfeen Malik". Vede cambiare qualcosa in America dopo quest’ultima strage? Ci sono segnali politici di un ripensamento sulle armi? Di un rimorso collettivo? "Mi piacerebbe rispondere di sì, ma purtroppo non è così. Barack Obama è apparso triste, più frustrato del solito: perché sa di non essere in grado di vincere questa battaglia con il Congresso. E i candidati alla Casa Bianca, a cominciare dal senatore repubblicano Ted Cruz, hanno approfittato del clima incandescente solo per portare acqua al loro mulino, non per voltare pagina sulla piaga delle armi". Ma di che cosa c’è bisogno perché il paese si ravveda? Di una strage ancor più mostruosa? "Temo che ci sia bisogno solo del tempo necessario perché una nuova generazione di americani imponga un cambiamento politico, una maggioranza democratica al Senato e una visione diversa del problema, così come è successo su altri temi che hanno spaccato la società, come i matrimoni gay". Sono considerazioni molto pessimiste, le sue. "Forse sì, ma non rinuncerò alla battaglia. E non voglio neanche sottovalutare alcuni segnali incoraggianti. A livello locale, ad esempio, si muove qualcosa: molti comuni stanno imponendo vincoli crescenti alla diffusione delle armi. Ovviamente ciò non impedisce a chi vuole condurre azioni violente di procurarsi altrove le armi, ma contribuisce a cambiare il clima. Mi ha colpito anche il tabloid Daily News che ha schiaffato in prima pagina, assieme alla foto di Farook e altri terroristi, quella di Wayne La Pierre, il capo della Nra, la lobby delle armi, accusandolo di una jihad contro gli americani in nome del profitto". Egitto: detenuto muore per torture, arrestati 4 agenti di polizia Aki, 5 dicembre 2015 Quattro agenti di polizia sono stati colpiti da ordinanze di custodia cautelare a Luxor, in Egitto, in seguito alla morte in carcere per torture di un detenuto. Lo ha riferito il sito del quotidiano Al-Ahram, precisando che le indagini sull’uccisione del 47enne Talaat Shabeeb sono ancora in corso. Gli arresti sono scattati dopo la diffusione di un referto medico che ha accertato la morte dell’uomo per fratture al collo e alla schiena. Shabeeb era finito in manette la scorsa settimana a Luxor per traffico di droga. Secondo i suoi familiari, tuttavia, l’uomo era stato arrestato per un litigio personale con un agente di polizia. Dopo l’arresto Shabeeb è morto e il suo cadavere portato all’ospedale internazionale di Luxor. Il suo caso ha avuto una forte eco sui social network dopo la diffusione di una foto che mostrava Shabeeb vittima di un pestaggio. Al-Ahram ha ricordato che centinaia di manifestanti sono scesi in strada a Luxor la scorsa settimana per protestare contro la sua morte e per chiedere le dimissioni del capo della polizia locale. Quello di Shabeeb è il terzo caso negli ultimi giorni che vede sul banco degli imputati la polizia egiziana per presunti abusi. L’ultimo episodio è avvenuto a Ismailiya, dove un poliziotto è stato arrestato per la morte di un detenuto per le torture subite dopo l’arresto. Il ministero dell’Interno egiziano ha liquidato le questioni come "incidenti isolati", respingendo le accuse di un uso sistematico della tortura da parte della polizia. Libia: Human Rights Watch "nelle carceri di Tripoli torture anche ai minori" Nova, 5 dicembre 2015 Nelle carceri libiche sotto il controllo del governo filo-islamista di Tripoli, non riconosciuto dalla comunità internazionale, si torturano persino i minorenni. Lo ha detto Hanan Salah, ricercatrice di Human Rights Watch, unica persona di un’organizzazione internazionale ad aver visitato le carceri libiche dopo che l’Onu e la Croce rosse internazionale hanno abbandonato il paese per motivi di sicurezza. "Abbiamo intervistato 120 persone in quattro prigioni di Tripoli e Misurata sotto il controllo del ministero della Giustizia dell’autoproclamato governo di Tripoli. I detenuti erano in gran parte persone accusate di essere combattenti o simpatizzanti pro-Gheddafi, così come criminali comuni accusati di furto", ha detto la ricercatrice in un’intervista pubblicata sul sito internet di Human Rights Watch. "Abbiamo incontrato solo un ristretto numero di persone accusate di terrorismo ed erano tutte detenute in un’unica prigione", ha aggiunto. "Anche se le guardie non erano presenti, uno dei prigionieri mi ha confessato di temere per la sua vita se fosse stato scoperto a parlare con me. Abbiamo dovuto prendere delle misure scrupolose per evitare di conoscere la loro identità", ha detto Salah. Secondo la sua testimonianza, diversi detenuti sono stati ripetutamente torturati fino a essere ridotti in fin di vita. Altri sono stati maltrattanti al punto da tentare il suicidio per evitare ulteriori sofferenze. La ricercatrice ha riferito di aver visto anche ragazzi di circa 14 anni detenuti insieme agli adulti ed esposti al rischio di violenze delle guardie e degli stessi compagni di cella. Molti dei minorenni, inoltre, sono tenuti in isolamento: un fatto contrario alle leggi internazionali per chi ha meno di 18 anni. "I ragazzi ci hanno detto di essere stati picchiati con sbarre di plastica, appesi per i polsi o per i piedi e di non aver ricevuto cibo per diverso tempo, senza ovviamente poter vedere la propria famiglia per mesi". Molti dei dirigenti e delle guardie carcerarie, ha aggiunto la ricercatrice, sono combattenti anti-Gheddafi che non hanno ricevuto alcuna formazione per svolgere il loro delicato lavoro.