Non facciamoci illusioni, ecco i veri freni dell’Italia di Federico Fubini Corriere della Sera, 4 dicembre 2015 L’urgenza di risanare non è passata. La Banca centrale di Draghi ci ha salvati e continua a farlo. Ma illudersi che basti a risolvere i nostri problemi, significa volerla imprigionare per anni o decenni in questo ruolo di manager della nostra tenda a ossigeno. C’è un episodio che si collega con la più grande espansione monetaria che l’Europa ricordi, rafforzata ieri da Mario Draghi. Ma non riguarda i tassi d’interesse. Riguarda Gragnano. In quel comune in provincia di Napoli un imprenditore della pasta, Ciro Moccia, è stato attaccato davanti a casa cinque giorni fa: nove colpi, uno dei quali lo ha ferito a una gamba. Non tutto è chiaro di quel fatto di cronaca, qualcosa però sì: fa più per scoraggiare investimenti, chiudere imprese, creare disoccupazione e deflazione in Italia quell’unico proiettile nel polpaccio di un imprenditore, di quanto non spinga in direzione opposta la Banca centrale europea creando 1.500 miliardi di euro per comprare titoli di Stato od obbligazioni private. Quell’agguato si colloca su un punto estremo di una scala di disincentivi più o meno pesanti, più o meno legali. Il Nord non è come il Sud e il Sud non è tutto così. Ma dal più aberrante al più sottile, troppi fattori ovunque nel Paese militano verso lo stesso risultato: ogni euro aggiunto nel tessuto dell’economia dalla Bce porta a un aumento di produttività vicino allo zero. Per la precisione, sempre più vicino allo zero. Non è colpa della Banca centrale. Non significa che essa non dovrebbe agire come fa, inoltrandosi più o meno decisa in acque inesplorate. Basta chiedersi cosa accadrebbe se la Bce facesse il contrario, se negasse liquidità perché viene usata male in un sistema pieno di disfunzioni. Ogni euro tolto dall’economia per questo, porterebbe stress e crolli di produttività; strapperebbe la maschera alla fragilità finanziaria del Paese. Quello che fa la Bce è necessario, dobbiamo solo toglierci dalla testa che sia sufficiente. In questo l’Italia è solo un caso particolarmente evidente. Un po’ ovunque nell’area euro l’espansione monetaria non si sta traducendo automaticamente in un aumento del credito alle imprese. Nel terzo trimestre, mentre il sistema Bce comprava 24 miliardi di debito italiano, gli investimenti nel Paese sono scesi dello 0,4% (dello 0,9% sui macchinari). Malgrado il successo di Draghi nell’indebolire l’euro, rendendo i prodotti europei più competitivi nel mondo, fra luglio e settembre il contributo dell’export alla crescita italiana è stato di meno 0,4%. Quanto al credito, anche qui il molto che fa la Bce non basta. Lo stock di prestiti delle banche alle imprese non finanziarie in Italia valeva venti miliardi di euro di più un anno fa; valeva sette miliardi più all’inizio di questa campagna monetaria che oggi. Nell’insieme dell’area euro i risultati sono simili, benché meno accentuati: a ottobre lo stock di credito delle banche alle imprese valeva 16 miliardi meno che a marzo. Dunque tutto inutile? No, e non solo perché l’assenza di interventi sarebbe molto peggio. Gli ultimissimi mesi mostrano una timida ripresa dei prestiti, anche in Italia. Ma la Bce non può creare le condizioni di sicurezza che contrastino il dimezzarsi degli investimenti nel Sud Italia, per esempio. Né può trasformare la struttura dei rapporti fra finanza e impresa in Europa, che rende il suo bazooka meno efficace di quello della Federal Reserve negli Stati Uniti. Nell’area euro i prestiti bancari alle imprese rappresentano il 102% del Pil, in America solo il 47%. La ragione è che dall’altra parte dell’Atlantico gli imprenditori con una buona idea si finanziano più direttamente sui mercati: la quota di capitale azionario è pari al 117% del Pil in America, al 67% in area euro (ancora meno in Italia). Quando calano i tassi grazie al quantitative easing, la ripresa dei finanziamenti negli Stati Uniti è immediata, in area euro è mediata dalle banche e dunque dipende dalle loro condizioni. In Italia, non è ottima. Dopo la recessione il sistema resta oberato da 350 miliardi di crediti deteriorati. Bisognerebbe ripulire i bilanci, anche grazie a una garanzia pubblica come accade sempre quando si creano dei fallimenti nel funzionamento del mercato. Qui un’opposizione un po’ bigotta dalla Commissione europea e dalla Germania sta bloccando tutto: in caso di intervento pubblico vanno colpiti i risparmiatori privati, si dice. Sulla scala di un intero Paese? L’Italia ha strumenti per dimostrare l’impraticabilità di una richiesta simile: il suo direttore del Tesoro presiede a Bruxelles il comitato di stabilità finanziaria, dove si possono discutere e rovesciare le idee sbagliate. Ma non ha mai messo il problema all’ordine del giorno. C’è poi l’impatto sui conti pubblici. Grazie alla Bce, per fortuna i tassi sui titoli di Stato ormai sono bassissimi. Oggi chi investe 100 mila euro in Btp a 10 anni, anche dopo il balzo dei rendimenti di ieri, sa che alla fine del 2025 avrà guadagnato appena 1.435 euro netti. Nel frattempo però rischia di vincolare i propri soldi per dieci anni e registrare forti perdite teoriche ogni volta che il prezzo dei suoi titoli scende a causa del peso di un debito enorme. Investire così è razionale solo se un risparmiatore pensa che con un rendimento di 1.435 euro comprerà in futuro più cose di oggi; in altri termini i titoli di Stato italiani rischiano di diventare attraenti solo se si scommette sulla continua caduta dei prezzi, cioè sul fatto che il Paese non ripartirà. Altrimenti nessun privato comprerebbe più, e resta solo la Bce a sostenere il debito. È un paradosso, ma mostra che l’urgenza di risanare non è passata. La Banca centrale di Draghi ci ha salvati e continua a farlo. Ma illudersi che basti a risolvere i nostri problemi, significa volerla imprigionare per anni o decenni in questo ruolo di manager della nostra tenda a ossigeno. Il quantitative easing è stato eroico come risposta all’emergenza. Preoccupiamoci quando, per colpe non sue, diventa l’unico possibile modello di sviluppo. La normalità del nemico mortale di Mario Platero Il Sole 24 Ore, 4 dicembre 2015 C’è qualcosa di spaventevole e incontrollabile nell’eccidio terroristico di San Bernardino: siamo entrati nell’era del nemico invisibile, peggio, degli "zombie", dei morti che camminano, dei mostri che si mimetizzano indisturbati fra noi e che colpiscono all’improvviso, presi da un raptus incurabile. Come spiegare altrimenti la furia omicida/suicida che abbiamo visto in America? Come spiegare la storia di un giovane di 28 anni che guadagna 70mila dollari all’anno, con una figlia di appena sei mesi e una casa in uno dei posti più belli del mondo che si trasforma, con la moglie, in un’altra persona? Come è possibile che questi due, simbolo apparente della famiglia tipica da sogno americano, partano insieme per uccidere sapendo che saranno uccisi? E che lo facciano senza destare sospetto in nessuno? Sono questi i veri interrogativi con cui si confrontano oggi sociologi, psicologi, esperti di criminalità e di antiterrorismo, perché tutto, ma davvero tutto in quello che è successo a San Bernardino non ha precedenti, ci lascia spaesati, vulnerabili, incerti su chi si celi davvero dietro il volto buono del nostro vicino. Questo senso di vuoto lo abbiamo letto nello sguardo di Farhan Khan, il cognato di Syed. Si erano visti appena una settimana fa. Si vedevano spesso in famiglia. Vivevano tutti vicini, madre, fratelli e sorelle a pochi isolati gli uni dagli altri. Eppure nessuno sapeva o sospettava che nella casa della giovane coppia ci fosse un arsenale militare fatto di fucili, pistole, materiali per costruire bombe, armi automatiche e migliaia di munizioni. È agghiacciante pensare che i due genitori abbiamo dato la bambina alla nonna prima dell’eccidio, dicendo "andiamo dal dottore". Le tute mimetiche nere, usate per la missione, sanciscono sul piano simbolico il passaggio dalla condizione "normale" a quella di "zombie". La cosa che più colpisce nelle parole di Khan quando descrive il cognato è proprio l’aspetto "normale", "sorridente e normale". E allora dobbiamo chiederci: come riusciremo a individuare in questa normalità il nemico mortale? È davvero pensabile come suggeriscono alcuni impostare programmi educativi, di comunicazione o sociali per cambiare la testa di persone che nascono e vivono con noi ma sono pronte ad ucciderci? La risposta, dopo San Bernardino, deve essere provocatoria, deve essere negativa, se non altro per aumentare il livello di guardia. Purtroppo non abbiamo per ora alternative se non quelle di essere in un continuo stato di allerta, di diffidare persino della normalità. Ma qualche indizio in più dopo quello che è successo in America, lo abbiamo. Syed Rizwan Farook aveva conosciuto sua moglie Tashfeen Malik, 27 anni, su un sito per giovani single. Lei era nata in Pakistan, ma si era trasferita con la famiglia in Arabia Saudita. Lui, nato in America ma di famiglia pakistana, era andato a conoscere la famiglia di lei in Arabia Saudita chiedendola in sposa. E aveva promesso con il suo lavoro, con la sua famiglia, alla quale era molto attaccato, il sogno americano. Ci sono poi stati dei viaggi in Arabia Saudita e dei possibili contatti con gruppi estremisti islamici. La pista aperta, quella più temibile, come ci avevano anticipato appena giorni fa ad Antalya alti funzionari della Casa Bianca, è quella del cane sciolto, della persona in apparenza normale che imbraccia un mitra e spara all’improvviso. Il cane sciolto viene indottrinato e agisce in solitudine o, come in questo caso in coppia. Sono identificabili? No, se non all’ultimo momento quando è troppo tardi. È questo il mondo a cui purtroppo, dovremo abituarci a convivere per qualche tempo, augurandoci che non vada a finire come nei film dell’orrore. Nel suo classico film del 1932, "White Zombies" "Gli Zombie Bianchi", Victor Halperin descrive gli zombies come individui privi di coscienza e di mente, sono assassini incapaci di pensare o di capire, colpiti dalla maledizione di un mago che rappresenta le forze del male. Per questo con gli eventi di San Bernardino non siamo lontani dalla fantascienza. Auguriamoci che si sia trattato dell’eccezione. Che la maschera possa cadere prima che lo "zombie" o il nemico invisibile diventino davvero il "nuovo normale". Il ruolo offuscato degli Usa di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 4 dicembre 2015 Un’America che rinuncia alla leadership atlantica, come si è visto, è un’America che rinuncia alla leadership tout court. Ma anche l’Europa, come testimoniano questi anni, diventa un continente allo sbando. Previsioni no ma un’ipotesi fondata su qualche dato di fatto si può avanzare: l’offensiva finale contro il Califfato, plausibilmente, non comincerà prima della metà del 2017. Nel 2016 ci saranno le elezioni presidenziali statunitensi. Il nuovo presidente si insedierà all’inizio del 2017. A lui o a lei occorrerà un po’ di tempo per elaborare una strategia utile allo scopo di venire a capo del problema nei suoi aspetti militari e politici. Obama, figlio di una stagione in cui l’opinione pubblica americana era stanca di guerre (accadde anche negli anni Settanta: Jimmy Carter fu il presidente di un Paese estenuato dopo il Vietnam), non farà nulla di nuovo, non restituirà all’America, men che mai nelle faccende mediorientali, il ruolo dello Stato guida, della potenza che esercita una forte leadership sull’insieme degli alleati. A meno di eventi così sconvolgenti da far cambiare idea a Obama, perché ciò accada bisognerà aspettare un nuovo presidente, democratico o repubblicano. Fino ad allora vivremo in mezzo alle contraddizioni di coalizioni di guerra più nominali che reali, prive del collante che può fornire solo uno Stato egemone e deciso a esercitare l’egemonia. Inoltre, non potendo distruggere subito la principale fonte dell’infezione, continueremo ancora a lungo a fronteggiare un elevato rischio terrorismo. Va così inquadrato anche lo scontro in atto fra il russo Putin e il turco Erdogan. Putin non sta soltanto attaccando un nemico del suo alleato Assad di Siria (l’aereo russo abbattuto era in azione contro i ribelli anti Assad filoturchi). Sta anche sferrando colpi alla già precaria posizione americana. Mettendo a nudo il doppiogioco della Turchia (membro della Nato) nel rapporto col Califfato, Putin ottiene il risultato di accrescere le difficoltà degli americani e di rendere ancor più ardua la formazione di una vera coalizione a guida occidentale contro lo Stato Islamico. È in questo quadro strategico che va anche collocata la polemica russa contro il Montenegro nella Nato: serve ad alzare il prezzo nei negoziati con gli occidentali sui futuri assetti mediorientali (e far distogliere l’attenzione, il che non guasta, dalle responsabilità russe in Ucraina). Il presidente francese Hollande spera di realizzare ("nodo" Assad permettendo) una cooperazione stretta con la Russia contro lo Stato Islamico. E sono molti i leader, Matteo Renzi compreso, che pensano che senza la Russia non si potrà fare nulla. Berlusconi (Corriere del 2 dicembre) auspica un’ampia coalizione Onu guidata dalle principali potenze, Usa e Russia in primo luogo. Ma se è giusto sostenere che con la Russia occorra comunque cooperare in quel conflitto, è un’illusione pensare che ciò possa essere fatto senza un rilancio della leadership americana. Una Russia aggregata a una coalizione guidata, militarmente e politicamente, dagli americani è una cosa. Una Russia che non deve fare i conti con una forte America è un’altra cosa: perché sarebbe libera di fare soltanto i propri interessi, non necessariamente coincidenti con i nostri. Ha ragione l’ex ministro degli esteri tedesco Joschka Fisher ( Corriere del 29 novembre): per tentare di liberarci dello Stato Islamico, oggi rischiamo di doverci affidare a un blocco sciita (Iran, Siria di Assad, hezbollah libanesi) sotto la guida russa. Sarebbe politicamente una catastrofe - si pensi a come reagirebbero i sunniti- se Assad assurgesse al ruolo di "liberatore" dei territori oggi in mano al Califfato. La Russia va bene, insomma, ma non con un’America debole. Oltre a imprimere una forza che oggi manca alla coalizione anti Stato Islamico rendendo possibile una seria azione di contrasto all’estremismo, il ritorno della leadership americana servirebbe in molti modi agli europei. Servirebbe, per esempio, a distogliere tanti dalla cattiva idea secondo cui, poiché l’America latita, tanto vale legare le proprie sorti a quelle di un "vero" uomo forte. Il fascino che Putin esercita su molti europei è pericoloso: fa dimenticare che la Russia è un regime illiberale con cui dobbiamo certamente collaborare ma senza abbassare la guardia, senza dimenticare l’abisso, culturale e istituzionale, che separa quella democrazia autoritaria dalle nostre democrazie liberali. Nonché le insidie che sono sempre presenti nei rapporti con i regimi autoritari. Servirebbe anche a ridare ragioni e motivazioni a una comunità atlantica che non è stata solo un’alleanza di pura convenienza dei tempi della Guerra fredda. Nel lontano 1958, un grande storico liberale, Vittorio de Capraris, scrisse un libro suggestivo e quasi dimenticato, Storia di un’alleanza : la comunità atlantica, per lui, era il punto di arrivo di un percorso secolare, il momento di coagulo di un blocco di Paesi unito dalla consapevolezza di rappresentare una "comunità di destino", fondata sulla condivisione di valori e dotata degli istituti necessari alla vita e allo sviluppo di società libere. Un’America che rinuncia alla leadership atlantica, come si è visto, è un’America che rinuncia alla leadership tout court. Ma anche l’Europa, come testimoniano questi anni, diventa un continente allo sbando. Come De Capraris aveva capito fin dagli anni Cinquanta, non c’è nessuna integrazione europea possibile se non all’interno di un rapporto di partnership con gli Stati Uniti. Entrata in crisi la seconda, difatti, è entrata in crisi anche la prima. Talvolta, nel momento di maggior pericolo, di fronte a gravissime minacce esistenziali, uno scatto inaspettato non solo allontana il pericolo ma apre nuovi scenari. Oggi il mondo occidentale è certamente in pericolo. È difficile che possa superarlo se non ritroverà le smarrite ragioni di un’antica solidarietà. Il ministro Orlando: "la guerra in Rete sui dati personali rallenta quella all’Isis" di Wanda Marra Il Fatto Quotidiano, 4 dicembre 2015 Sulla strada della condivisione dei dati online essenziali per la lotta al terrorismo ci sono molti ostacoli: "la complessità della materia, gli interessi economici in gioco, gli egoismi nazionali". Andrea Orlando, il ministro della Giustizia, oggi discuterà a Bruxelles di Procura europea. In Italia ha appena annunciato un piano per potenziare l’intercettazione del traffico di dati online: dalle chat telefoniche, come WhatsApp a quelle della Playstation (usate dai terroristi di Parigi). Ministro, in cosa consiste il piano del governo? "Per quanto riguarda il ministero della Giustizia, si riassume essenzialmente nella ricognizione dell’adeguatezza degli strumenti di captazione". Che significa? "Servono nuovi strumenti, ma l’impianto normativo resta quello. C’è un problema di costi, però. Questi strumenti sono più costosi, ma contiamo che i soldi arrivino dalla riorganizzazione delle risorse". Quando durerà questa ricognizione? "Ci siamo dati circa un mese". E come si tutela la privacy? "Le intercettazioni di qualunque natura sono sottoposte all’autorizzazione dell’autorità giudiziaria. Per quanto riguarda invece più in generale la tutela della privacy, a prescindere dai provvedimenti giudiziari, il Consiglio dei ministri dell’Ue sta lavorando da molto tempo a un testo". Qual è il problema? "La tutela dei dati personali, nell’epoca della rete e dei Big data, corre nuovi rischi". Perché? "Il valore delle attività collegate all’utilizzo dei dati personali sarà quantificato nel 2020 a circa un trilione di euro. C’è un conflitto oggettivo tra l’interesse dei cittadini alla tutela della privacy e l’interesse a utilizzare quei dati per ragioni commerciali". Di quali aziende sta parlando? Facebook, Google, Amazon? "In generale di tutte le aziende che attraverso l’analisi di questi dati possono interpretare l’evoluzione del mercato. Questo conflitto ha rallentato molto il percorso. Alcuni stati si sono preoccupati da subito della tutela dei dati personali (la Germania, poi anche l’Italia), altri erano più preoccupati che disincentivasse lo sviluppo dell’economia digitale. Prima il problema della privacy era risolto con il consenso all’utilizzo dei dati dell’interessato. Oggi non è più sufficiente: le nuove tecnologie hanno moltiplicato le possibilità di utilizzare e veicolare quei dati a prescindere dalle ragioni per cui erano stati raccolti". E per quel che riguarda la sicurezza? "Una parte del dossier riguarda lo scambio di informazioni tra autorità giudiziaria e polizia. Il Consiglio ha esteso la materia anche riguardo alle informazioni necessarie a garantire la sicurezza, quindi non solo sentenze. Chiudere questo pacchetto detterebbe regole chiare su come veicolare le informazioni, ma poi è necessario un soggetto propulsore, che potrebbe essere la Procura europea. Ma l’Europa segna il passo. Pesa il fatto che i paesi non sono disponibili a cedere sovranità su questo tema". Insomma, se un terrorista è passato da un paese europeo all’Italia, quanto tempo ci vuole ad avere la foto? "Il caso della foto forse non si pone. Esiste però quello di informazioni altrettanto essenziali che circolano in ragione della qualità dei rapporti con i singoli stati. Con alcuni è facile, con altri molto difficile. Purtroppo, non c’è nessun automatismo. Nonostante ciò le autorità giudiziarie italiane mantengono una loro disponibilità a trasmettere le informazioni in loro possesso". Scusi Ministro, e nel frattempo che si fa? Invocare l’assenza di regole può sembrare un alibi. "Lavoriamo sui rapporti bilaterali e sul rafforzamento di Eurojust". Condividere dati generici non è una grave limitazione della libertà personale? "Le indagini non si fanno per raccogliere informazioni generiche, ma per ricostruire singole vicende criminali. Dunque, nessun controllo di massa". Da quel che dice, sembra che si brancoli nel buio. "L’Europa su questi temi è in alto mare. Anche se avremmo due importanti asset: la Procura europea e la trattazione dei dati personali. Sono molto pessimista sulla Procura, che magari si farà, ma svuotata della sua ragion d’essere. Ma abbastanza ottimista sulla trattazione dei dati. Resterà comunque un problema politico, che riguarda l’integrazione dei dati penali: queste regole come le stiamo scrivendo dicono come vanno condivisi i dati, non costringono a farlo. Purtroppo non c’è nessun automatismo". Perché è più ottimista sul fronte del regolamento dati personali? "Credo che il totale vuoto normativo non sia nell’interesse del mercato. Se manca la fiducia, si rischia l’allontanamento della gente da alcune opportunità della rete. L’Europa è in difficoltà, ma è l’unica dimensione in cui questi problemi possono essere risolti". Il pm Gratteri: "vi spiego la riforma contro mafie e corruzione" Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 4 dicembre 2015 Dottor Nicola Gratteri, la Commissione da lei presieduta avanza modifiche su punti molto importanti della lotta alla corruzione e alla criminalità politico-mafiosa. Comincerei dal reato di voto di scambio, appena rivisto. Cosa c’è che non va, oltre alle pene che volete "non inferiori ai 10 anni"? "Si vuole riparare a un errore del legislatore che sta portando ad assoluzioni o addirittura a revoche di sentenze definitive. Si richiede sempre che nel patto sia previsto l’uso della modalità mafiosa, della intimidazione, come strumento per procacciare i voti al politico. Nel testo che proponiamo, invece, vengono distinte due ipotesi: se il procacciatore non è un mafioso "associato" è necessario l’accordo anche sulla modalità intimidatoria, se invece è un "associato", è sufficiente il mero procacciamento di voti, altrimenti la norma non sarebbe mai applicabile". La Commissione interviene anche sul neonato reato di auto-riciclaggio... "Vengono selezionati con più precisione sia i "reati presupposti", che portano all’auto-riciclaggio, sia le condotte di trasformazione del denaro". Inoltre, vorreste modifiche sulla gestione dei beni confiscati... "È necessario che fin dal provvedimento di confisca di primo grado sia data la possibilità di vendere il bene aziendale, per non mettere a repentaglio il suo valore. In caso di revoca della confisca "l’espropriato" recupererà il prezzo della vendita". E veniamo al punto dolente: "Pubblicazione arbitraria di intercettazioni". Carcere dai 2 ai 6 anni e multe da 2 mila a 10 mila euro per chi pubblica intercettazioni di un ‘inchiesta considerate "diffamatorie" o "irrilevanti ai fini di prova". Ma non le sembra che un’intercettazione penalmente irrilevante possa essere fondamentale ai fini dell’interesse pubblico? "Dobbiamo cercare di bilanciare gli interessi costituzionali contrapposti. Se l’autorità giudiziaria è titolare di un potere così invasivo come quello di registrare le conversazioni private, non è corretto che poi queste registrazioni, quando non riguardino il processo, finiscano sui giornali". Ma c’è già una legge che punisce la diffamazione. Invece, se ci troviamo di fronte a comportamenti deontologicamente discutibili di chi ha incarichi pubblici, come la mettiamo? Per esempio: i rapporti Ercole Incalza - Maurizio Lupi, o Matteo Renzi e il generale Michele Adinolfi sono irrilevanti per i cittadini? "Senza entrare nello specifico, convengo che come cittadino mi interessa sapere se un politico è spregiudicato, ma da magistrato devo fare una scelta. Siccome la tendenza di chi ha il potere legislativo (i politici, ndr) sarebbe quella di far sparire le intercettazioni, con questa proposta vogliamo evitare che si butti via il bambino con l’acqua sporca". E fate mettere in carcere chi vuole solo informare... "Il carcere è teorico, serve soprattutto per poter fare le intercettazioni, soprattutto per scoprire chi le fornisce". Passando invece allo strumento investigativo, qual è la novità più significativa? "Le due nuove forme di intercettazione: quella con videoripresa all’interno dei luoghi privati e quella chiamata "epistolare". In generale, puntiamo a facilitare le intercettazioni, a potenziare questo mezzo essenziale per gli accertamenti di molti reati". Migliaia di processi all’anno vanno al macero a causa della prescrizione facile. Come la vorreste? "La prescrizione deve cessare con la sentenza di primo grado ma nel contempo, se il processo ha una durata irragionevole, l’imputato condannato ha diritto a uno sconto di pena". Le modifiche proposte toccano anche nuove norme o appena riviste. In cuor suo crede che verrete ascoltati? "È buona prassi che anche riforme recenti siano "ritoccate" se in tal modo migliorano. I nostri interventi in tema di Auto-riciclaggio o di scambio elettorale mafioso "aggiustano" ma non vanno in direzione opposta. Il ministro Orlando ha già dimostrato attenzione alla Commissione. Nel disegno di legge sulla riforma del codice penale e di procedura penale la disciplina della partecipazione al dibattimento in videoconferenza è stata presa dalla nostra proposta. Si tratta di una disposizione cruciale per la lotta alla criminalità organizzata: si evita di concentrare in un’unica sede carceraria una serie di detenuti che durante il processo potranno progettare nuovi crimini". Cos’è la riforma del "Corpo di giustizia"? "Racchiudendo in un’unica forza di polizia la responsabilità della sicurezza e della efficienza della esecuzione penale verranno rilanciate e rese più efficaci le misure alternative; verrà assicurata economicità nella gestione della sicurezza dei protagonisti del processo e nella protezione dei palazzi di giustizia; sarà resa indipendente da condizionamenti la tutela dei testimoni e collaboratori di giustizia". Da Pordenone alla Sardegna, in Italia si continua a morire di carcere di Carmine Gazzanni lanotiziagiornale.it, 4 dicembre 2015 Sì, in Italia si continua a morire di carcere. E anche se probabilmente è prematuro parlare di nuovi casi Cucchi, specie negli ultimi mesi dai penitenziari del nostro Paese sono usciti detenuti coperti da teli bianchi, sul cui destino si addensano parecchie e pesanti ombre. Non sarebbe un caso, allora, che proprio nell’ultimo mese anche diversi parlamentari si sono interessati alla questione, rivolgendo al ministro della Giustizia, Andrea Orlando, interrogazioni cui si spera possa giungere una risposta nel più breve tempo possibile. Misteri in Friuli - Siamo a Pordenone. È il 7 agosto 2015 quando Stefano Borriello, un giovane di soli 29 anni, viene trasportato dal carcere friulano in condizioni che, con il passare del tempo, si fanno via via più critiche. Arriva in ospedale e subito gli viene offerto il dovuto controllo. Ma non c’è niente da fare. Poco dopo l’arrivo, Borriello muore. Per arresto cardiaco, reciterà il referto. Da subito, però, la madre di Stefano chiede con fermezza quali siano le ragioni del decesso del figlio sempre stato in ottime condizioni di salute. Un dubbio che tortura la madre. E non solo lei: la Procura, infatti, decide di aprire un fascicolo contro ignoti per omicidio colposo. Sembra che Stefano stesse male già da qualche giorno prima della morte, infatti. A interessarsi della vicenda, anche l’associazione Antigone, sempre presente quando si parla di diritti umani e detenzione. Ebbene, dalla visita effettuata dagli osservatori dell’associazione nei giorni seguenti, è emerso che all’interno del carcere di Pordenone il servizio medico non è garantito 24 ore su 24, ma soltanto fino alle 21, che esiste una unica infermeria per tutto il carcere e che non ci sono defibrillatori nella sezione. Ma arriviamo al dunque: com’è morto Stefano? Non è dato ancora saperlo. A più di tre mesi dalla sua terribile morte, infatti, ancora non se ne conoscono le cause: i periti nominati dalla Procura per riferire in merito alle "cause della morte" e ad "eventuali lesioni interne o esterne", ancora non hanno consegnato la relazione. Le ragioni della morte di Stefano sono ad oggi assolutamente incomprensibili. Istigazione al suicidio - Scendiamo lungo lo stivale e facciamo tappa a Pesaro, nelle Marche. È il 25 settembre quando Anas Zamzami, da tutti conosciuto come Eneas, viene trovato morto in cella. A soli 29 anni. Era stato arretato per il reato di falsa identità e resistenza a pubblico ufficiale, reati commessi nel 2011, e in relazione ai quali doveva scontare dodici mesi di reclusione. Nonostante quanto previsto dalla legge del 2010 riguardante "Disposizioni relative all’esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori a diciotto mesi", Eneas scontava, inspiegabilmente, la pena nell’istituto e già da 5 mesi. Ma non è questo l’unico buco nero della vicenda. Secondo la casa circondariale, Eneas sarebbe morto per suicidio. Peccato però che per i familiari e gli amici le dinamiche dei fatti risultino invece poco chiare. Ad interessarsi alla vicenda è stato anche Adriano Zaccagnini (Sel) che ha presentato un’interrogazione a riguardo. Perché l’unica cosa certa, paradossalmente, è che al momento più di qualcosa non torna. Eneas stesso, infatti, si lamentava delle condizioni di vita all’interno dell’istituto di pena che l’avevano anche portato ad una significativa perdita di peso e di fiducia verso chi lo circondava. Non è un caso che la Procura marchigiana ha aperto un fascicolo per istigazione al suicidio. Tre morti in quindici giorni - Facciamo ancora un salto e sbarchiamo in Sardegna dove, a distanza di soli 15 giorni, sono morti tre detenuti, due a Uta (Cagliari) e uno nella colonia penale di Mamone (Nuoro), avvenuta il 26 ottobre e tenuta incredibilmente nascosta fino al 15 novembre. Si tratta di un’escalation senza precedenti, denunciata anche da Mauro Pili in Parlamento. Ma dei tre decessi, come detto, ce n’è uno inquietante, quello di Simone Olla la cui morte, stando alla denuncia del leader di Unidos, "non sarebbe da attribuire a cause naturali come aveva dichiarato la direzione del carcere cercando di eludere la gravità della situazione. Sarebbe certa, invece, l’overdose. Con un quesito inquietante: chi ha fornito o somministrato quel cocktail letale al giovane sardo?". La polizia penitenziaria, ovviamente, nega tutto. Ma le indagini sono in corso. Ed è stato riconosciuto, dopo l’autopsia, che la morte del giovane sarebbe stata causata da una dose eccessiva di morfina iniettata con una siringa. E allora si ripropone la domanda. Perché qualcuno ha deciso di farla. Qualcuno ne ha deciso la quantità di dose. Qualcuno, di fatto, potrebbe aver ucciso Olla. Le botte ti saranno utili, la Costituzione non vale in questo carcere di Maria Novella De Luca La Repubblica, 4 dicembre 2015 Le parole degli agenti penitenziari: "Tanto da qui tu e gli altri uscirete più delinquenti di prima". "Brigadiere, perché non hai fermato il tuo collega che mi stava picchiando?". "Fermarlo? Chi, a lui? No, io vengo e te ne do altre, ma siccome te le sta dando lui, non c’è bisogno che ti picchio anch’io". Botte. E ancora botte. Sevizie. Perché con i detenuti, parole di agente penitenziario, "ci vogliono il bastone e la carota". Un giorno di pugni e l’altro no, "così si ottengono risultati ottimi". E la paura tiene buoni. Lividi, percosse, le ossa rotte, inutile nascondersi sotto la branda. Tanto "il detenuto esce dal carcere più delinquente di prima", e, dice ancora il brigadiere, "non perché piglia gli schiaffi, ma perché è proprio il carcere che non funziona". La registrazione è così nitida da far sentire il freddo sulla pelle. Chi parla è Rachid Assarag, detenuto marocchino quarantenne, che sta scontando una pena di 9 anni e 4 mesi nelle carceri italiane. E chi risponde sono gli agenti, ora di un penitenziario ora di un altro. La conversazione è una testimonianza agghiacciante di quanto succede nei nostri istituti penitenziari. Dove il detenuto Rachid (condannato per violenze sessuali) viene ripetutamente picchiato e umiliato dagli agenti addetti alla sua custodia. La prima volta nel carcere di Parma, racconta Rachid, dove in quattro (guardie) lo seviziano con la stampella a cui si appoggiava per camminare. Lui denuncia, ma chi crede alle parole di un detenuto? Così Rachid, assistito dall’avvocato Fabio Anselmo, mentre viene trasferito in undici carceri diverse dal 2009 (Milano, Parma, Prato, Firenze, Massa Carrara, Napoli, Volterra, Genova, Sanremo, Lucca, Biella), inizia a registrare tutto. Conversazioni con la polizia penitenziaria, medici, operatori e magistrati. Voci dall’inferno. Come quando le guardie entrano nella sua cella per "scassarlo" di botte, o il sovrintendente ammette: "questo carcere è fuorilegge, dovrebbe essere chiuso da 20 anni, se fosse applicata la Costituzione". Agente con accento napoletano: "Mi hai fatto esaurire, ti sei anche nascosto sotto il letto". Rachid: "Perché mi volevate picchiare". "Se ti volevamo picchiare era più facile che ti prendevamo e ti portavamo giù". Giù. Dove forse nessuno sente e nessuno vede. Sono le botte la rieducazione, come dice chiaramente qualcuno che Rachid chiama "brigadiere". Probabilmente un sovrintendente della polizia penitenziaria. Rachid registra e registra. Incalza anche: "Voi qui non applicate la Costituzione". La risposta del brigadiere (lo stesso che teorizzava una seconda razione di botte per Rachid che chiedeva "fermati" all’agente che lo stava picchiando) è incredibile: "Se la Costituzione fosse applicata alla lettera questo carcere sarebbe chiuso da vent’anni. In questo carcere la Costituzione non c’entra niente". Le registrazioni di Rachid escono dal carcere, e l’associazione "A buon diritto" di cui è presidente Luigi Manconi, decide di renderle pubbliche. Conversazioni acquisite dai magistrati, e che testimoniano quanto gli abusi sui detenuti siano una (atroce) prassi abituale nei nostri penitenziari. Dai quali, come ammettono gli stessi agenti "si esce più delinquenti di prima, ma non per gli schiaffi che prendono, o quantomeno non solo, ma perché è l’istituzione carcere che non funziona". Commenta Luigi Manconi, presidente, anche, della Commissione per i diritti umani: "Il carcere per sua natura e per sua struttura produce aggressività e violenza, e come dice il poliziotto penitenziario si trova in uno stato di permanente illegalità. Riformarlo è ormai un’impresa disperata. Si devono trovare soluzioni alternative". Rachid: "Devo uscire dal carcere più cattivo di prima? Dopo tutta questa violenza ricevuta, chi esce da qui poi torna". E il "superiore" invece di smentirlo difende l’uso della violenza come metodo rieducativo. "Le botte? Con questi metodi noi abbiamo ottenuto risultati ottimi". Tanto da dietro le sbarre nessuno parla, come dimostra il caso di Stefano Cucchi. Da anni Rachid Assarag registra e fa esposti. Ma quasi nulla accade. Anzi mentre le denunce degli agenti nei suoi confronti avanzano, quelle di Rachid si arenano. Assarag da un mese è in sciopero della fame, ha perso 18 chili. Di recente è stato di nuovo denunciato per aver bloccato le ruote della carrozzina in cui ormai viene trasportato, per aver insultato le guardie e rovesciato la branda in cella, "disturbando il riposo e le normali occupazioni degli altri detenuti". Rachid, qualunque sia il reato di cui un detenuto si è macchiato, testimonia con le sue registrazioni che nei penitenziari italiani la violenza è prassi. Scrive l’associazione "A buon diritto": "Se Assarag dovesse morire in carcere, nessuno potrebbe dire che non si è trattato di una morte annunciata". Consulta, Boldrini: nuovo voto il 14 dicembre, poi scrutini quotidiani di Barbara Fiammeri Il Sole 24 Ore, 4 dicembre 2015 "Il tempo è scaduto", il Parlamento in seduta comune si riunirà ancora il 14 dicembre alle 15 per eleggere i tre giudici della Corte costituzionale. Ma se neanche allora dovesse raggiungersi l’obiettivo, "procederò - compatibilmente con gli importanti temi all’ordine del giorno dell’Aula - a convocazioni quotidiane alle ore 19". Lo ha fatto sapere la presidente della Camera, Laura Boldrini, dopo l’ennesima fumata nera di ieri sera. "Il Parlamento - ha ammonito Boldrini - non può rischiare di ostacolare, per le proprie inadempienze, il regolare funzionamento della Consulta. Ho voluto riunire oggi la conferenza dei capigruppo al fine di sottolineare ulteriormente la prova di responsabilità alla quale i gruppi sono chiamati e per acquisire le loro valutazioni. Subito dopo ho sentito il presidente Grasso e d’intesa con lui ho deciso di convocare la prossima seduta comune per lunedì 14 dicembre alle ore 15". Ieri nessuno dei candidati ha raggiunto il quorum richiesto di 571 voti, i 3/5 dei componenti dell’Assemblea. Augusto Barbera (sponsorizzato dal Pd) ha ottenuto 504 voti, Francesco Paolo Sisto (Forza Italia) 493 e Ida Nicotra (new entry, appoggiata da Ap) 417. Boldrini a gruppi: situazione critica, tempo scaduto. La presidente della Camera Laura Boldrini non ha nascosto oggi tutta la sua preoccupazione. E ha usato parole dure con i capigruppo riuniti a Montecitorio per decidere come proseguire l’iter per l’integrazione del plenum della Consulta. Lo ha fatto parlando di "situazione critica" e di "tempo scaduto". La maggioranza dei gruppi propendeva per il 15 dicembre, mentre Fdi, M5s e Sel hanno chiesto votazioni a oltranza. Grasso: cambiare metodo per ampia condivisione. Un appello per un "cambio di metodo" è venuto dal presidente del Senato Pietro Grasso. "Riteniamo sia necessario, anche grazie alla pausa delle votazioni, cambiare metodo - ha detto Grasso - e sfruttare questo tempo per trovare il consenso più ampio possibile con la condivisione dei partiti di maggioranza e opposizione" sui tre giudici della Corte Costituzionale. E ha ammonito: "Il Parlamento non può mettere a rischio la funzionalità di un importante organo costituzionale come la Consulta". La mancata elezione "sta dando una brutta immagine delle istituzioni rappresentative della politica". Ecco perché, ha concluso Grasso, "voglio sperare, e per quanto nelle mie possibilità lavorerò in questo senso, che prima della fine dell’anno si possa aggiornare il volume con la foto di una Corte Costituzionale al completo dei suoi 15 membri". Boschi: impegno per ampia legittimazione. Il voto sulla Consulta "dipende dalla responsabilità dei gruppi nell’individuare candidature con legittimazione ampia per essere molto rappresentative e quindi super partes. È quello che ci stiamo impegnando a fare con la scelta di nomi autorevoli" ha detto il ministro Maria Elena Boschi alla presentazione del libro Photo Ansa. Speranza: riaprire dialogo vero con tutti i partiti. Dalla minoranza Pd è arrivato oggi un appello a un cambio di rotta, aprendo di fatto a un accordo con il M5s. "Basta picchiare la testa al muro sui giudici della Consulta. È il momento di riaprire un dialogo vero con tutte le altre forze politiche. Non funzionano i patti ad excludendum" ha afferma Roberto Speranza, ex capogruppo Pd ed esponente della minoranza Dem. Rosato: dialoghiamo con tutti, ma candidato Pd è Barbera. La maggioranza dem però non sembra disposta a cambiare schema. "Siamo interessati al dialogo con tutte le forze politiche ma teniamo ferma la nostra candidatura di Augusto Barbera, il cui curriculum e il cui profilo lo rendono indubbiamente quello giusto per la Corte costituzionale". Lo dice Ettore Rosato, capogruppo Pd alla Camera, interpellato a Montecitorio sulla prossima votazione per l’elezione dei tre giudici della Consulta che si dovrebbe tenere il 15 dicembre. Brunetta: Forza Italia conferma candidatura Sisto. Anche Forza Italia ha confermato la candidatura di Sisto. "È un momento difficile. Oggi siamo stati consultati dalla presidente Boldrini, abbiamo confermato il nostro candidato e la nostra disponibilità ad un accordo, come è già stato e che purtroppo non ha portato a una fumata bianca", ha detto Renato Brunetta (Fi), al termine della seduta dei capigruppo della Camera. Toninelli (M5s): via anche Barbera. Il M5s insiste invece per nuovi candidati. E dopo aver chiesto il ritiro di Sisto, oggi ha chiesto un passo indietro anche a Barbera, perché "non ha i voti, come dimostra la fumata nera di ieri sera". "Ora siamo più che mai indispensabili, verranno a bussare alla porta del Movimento 5 stelle" ha sostenuto il deputato 5 stelle, Danilo Toninelli, che ha insistito sul "metodo 5 stelle" che aveva portato all’elezione della giudice Silvana Sciarra il 6 novembre del 2014. Consulta e Italicum, il passo doppio del M5S di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 4 dicembre 2015 Stallo per l’elezione dei giudici costituzionali, rinvio di dieci giorni. Ma alla camera i grillini finiscono con il difendere l’odiata legge elettorale: il governo non la cambi. Felice Besostri: il Movimento sbaglia ad alimentare la ricerca di candidati alla Corte incolore, che non abbiano preso posizioni. Dopo tre buchi nell’acqua consecutivi, anche Renzi ha capito che insistere con la strategia del "si fa come dico io" non porterà a risolvere la questione dell’elezione dei giudici costituzionali che si trascina da 17 mesi e sei giorni. Il presidente della Repubblica continua a non intervenire e allora la maggioranza decide di prendersi una pausa di dieci giorni per cambiare linea. La prossima seduta comune delle camere è convocata - visti anche gli impegni della sessione di bilancio - lunedì 14 dicembre. Esattamente nel giorno in cui sarà eguagliato il record di "buco" alla Consulta, stabilito nel 2008. Per provare a salvare Augusto Barbera, il costituzionalista ultra-renziano che in un primo momento i 5 Stelle avevano bocciato e che è crollato nello scrutinio di mercoledì sera, il Pd sta facendo pressioni sul Forza Italia perché rinunci a Francesco Paolo Sisto, l’avvocato berlusconiano che ha fatto da relatore alle prime letture dell’Italicum e della riforma costituzionale. Non è operazione impossibile visto che Sisto non è amatissimo dai suoi e che i disorientati forzisti hanno già cambiato cinque candidati, tradendoli tutti nel voto segreto. I 5 Stelle che il 23 novembre avevano bocciato Barbera nell’assemblea dei parlamentari rifiutandosi di sottoporlo al voto del blog quando ancora Sisto non era in campo, adesso dicono che se da destra arriva "un nome diverso per indipendenza e competenza, si potrebbe anche ragionare su Barbera". Del resto il Pd ha un solo obiettivo: blindare la Consulta con giudici non ostili all’Italicum e alla legge di revisione costituzionale in dirittura d’arrivo. E non ha mai avuto problemi con il candidato grillino, lo stimato costituzionalista Franco Modugno che non si è esposto in critiche alle riforme di Renzi. Tacendo Mattarella, hanno parlato ieri il presidenti di senato e camera. Grasso ha detto che bisogna "cambiare metodo" e che si deve puntare su candidati di "riconosciuta esperienza e indipendenza" da eleggere "entro l’anno". Boldrini che "il tempo è scaduto" e che "il parlamento non può rendersi responsabile del mancato funzionamento della Corte costituzionale". Ma Felice Besostri, l’avvocato che sta orchestrando i venti ricorsi in tribunale contro l’Italicum e che è stato per un tratto il candidato più votato dai 5 Stelle, obietta ai presidenti che "avrebbero potuto ben convocare le camere in anticipo rispetto alla scadenza dei giudici, niente lo vietava, almeno nel caso della sostituzione del giudice Napolitano decaduto il 10 luglio". Besostri ha anche qualcosa da dire ai 5 Stelle e al loro stop and go su Barbera, motivato con il fatto che il costituzionalista bolognese è un fiero sostenitore dell’Italicum. "Una forza che si presenta come alternativa non dovrebbe accodarsi a questa ricerca di candidati scoloriti che non prendono posizione - dice -. Io, avversario dichiarato dell’Italicum, ero nella loro terna, e per questo hanno detto che il Pd ha posto un veto su di me. Invece la trasparenza delle idee dovrebbe fare premio su tutto, com’è negli Stati uniti per la Corte suprema, tanto più che per i giudici della nostra Consulta non sono previste cause di incompatibilità e obblighi di astensione". Diversi parlamentari grillini hanno firmato i ricorsi contro l’Italicum e i gruppi M5S hanno contrastato la riforma elettorale in parlamento, eppure ieri a prima firma Di Battista hanno presentato un ordine del giorno per chiedere al governo di non modificare in alcun modo la legge. È accaduto alla camera nelle battute finali dell’esame della riforma costituzionale. Comprensibile l’ispirazione, visto che i grillini hanno capito che se Renzi cambierà l’Italicum immediatamente dopo l’approvazione della riforma costituzionale, per riportare il premio di maggioranza dalla lista alla coalizione, le confuse norme transitorie renderanno impossibile sottoporre la legge elettorale modificata al vaglio di costituzionalità preventivo della Consulta - una delle poche novità apprezzate della riforma. Ma invece di impegnare il governo a rendere comunque possibile quel vaglio costituzionale, come da promessa del sottosegretario Scalfarotto e ordine del giorno del Pd Sanna, i grillini hanno chiesto di blindare l’Italicum. Alimentando così il sospetto che l’odiata legge elettorale è in realtà protetta in quanto è l’unica che può portare M5S alla vittoria nel ballottaggio. Attaccati sul punto da Sinistra Italiana, i 5 Stelle hanno spiegato che si trattava di "una provocazione". E così hanno votato contro il loro ordine del giorno. Respinto all’unanimità. L’altra faccia di Mafia Capitale manifesta a Roma di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 4 dicembre 2015 Welfare. I lavoratori delle cooperative sociali in piazza del Campidoglio contro il lavoro gratuito e precario. Inviata una lettera al Commissario Tronca: "Il lavoro va pagato, basta gare al massimo ribasso". Il grigiore della Roma più triste, paurosa e commissariata sarà interrotto alle 16 di oggi da un’ampia coalizione dei lavoratori delle cooperative sociali che lavorano nell’accoglienza, nel sociale, nei servizi. Si sono dati appuntamento per uno speakers’ corner in piazza del Campidoglio, lì dove oggi governa il commissario Francesco Paolo Tronca. Nel cuore della città sospesa, e alluvionata dalla catastrofe Marino e dalle indagini sugli affari della coppia Buzzi-Carminati, oggi a processo, si manifesterà l’altra "faccia di Mafia Capitale". Così si definiscono i lavoratori in una lettera aperta indirizzata ieri a Tronca in cui si parla di sfruttamento, lavoro gratuito e precario, addirittura di "lavoro schiavile". Tutto questo accade della Capitale, travolta dalle indagini. "Siamo quelli che stanno alle frontiere della città, dal centro alle periferie, dalla stazione Termini a Tor Sapienza - scrivono i lavoratori in una lettera inviata a Tronca - Lavoriamo nei centri d’accoglienza per garantire il minimo (e, se ci riusciamo, qualcosa in più) di dignità ai migranti che passano per Roma. Siamo gli operatori dei centri della sanità privata convenzionata, ormai più del 70% della sanità pubblica nella nostra Regione. Siamo i lavoratori di Atac e del trasporto pubblico locale, siamo le maestre degli asili comunali, siamo i lavoratori dei canili, siamo i manutentori del verde pubblico, siamo gli operatori sociali". Questa dichiarazione di esistenza si fa ascoltare nel deserto romano. L’elenco delle categorie trova un senso alla luce di una condizione materiale drammatica: "Non veniamo pagati, veniamo pagati poco, non abbiamo garanzie, non abbiamo diritti". Una situazione già nota per chi lavora, precariamente, in questi settori di confine, necessari per praticare quel minimo di civiltà residua in una città ridotta al lumicino. "Al di là di qualche arresto esemplare - questo è il racconto de "l’altra faccia di Mafia capitale" - è rimasto in piedi per intero quel sistema degli appalti pubblici senza controllo e delle cooperative che non è solo all’origine della corruzione, ma che è anche la causa del lavoro non pagato, sottopagato, discontinuo, precario". A Tronca questi lavoratori chiedono di "assumersi la responsabilità dei servizi che appalta". Le "stazioni appaltanti" devono assumersi "la responsabilità del regolare pagamento delle retribuzioni ai lavoratori". Al commissario viene inoltre chiesto di "inibire le gare ai soggetti che non hanno rispettato i diritti dei lavoratori, che non rispettano i diritti del contratto nazionale". E poi la battaglia delle battaglie in tutto in un settore che muove entrate per 64 miliardi di euro, il 3,4% dell’economia nazionale: mettere per una volta la parola fine alla logica del massimo ribasso nelle gare di appalto. "Il costo del lavoro dev’essere considerato come un costo incomprimibile". La norma va rivista imponendo l’osservanza di una "clausola sociale forte", a difesa dei lavoratori e dei soggetti con i quali lavorano quotidianamente. In questi casi, infatti, la precarietà non nuoce solo a chi lavora, e alle rispettive famiglie, ma si abbatte anche sui migranti, i pazienti, gli assistiti. La precarietà indotta dallo Stato, e dagli enti sociali, è diventata una bomba sociale a frammentazione che ha colpito la sinapsi, oltre che i diritti, in una città di 3 milioni di abitanti. La Cassazione non si pronuncia d’ufficio sull’illegalità della pena di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 4 dicembre 2015 Corte di cassazione - Sentenza 47766/2015. Se il ricorso è inammissibile perché presentato fuori termine, il giudice di Cassazione non può rilevare d’ufficio l’illegalità della pena, che può essere dedotta in fase di esecuzione. Le Sezioni unite penali con la sentenza 47766, confermano il no opposto dalla giurisprudenza prevalente alla possibilità per il giudice di legittimità di agire d’ufficio sulla pena illegittima. Di recente le Sezioni unite (sentenza 33040/2015) erano intervenute sul tema dell’illegalità della pena in seguito alla dichiarazione di incostituzionalità della legge sulla quale era basata. I giudici avevano ammesso che il contrasto nella giurisprudenza, al di là dell’effetto Consulta, riguardava in generale il margine di manovra concesso al giudice di legittimità per "sanare" la sentenza inammissibile. Superando la distinzione tra cause di inammissibilità originarie o sopravvenute il Supremo consesso aveva deciso di far prevalere la dichiarazione di non ammissibilità su quella di non punibilità, erodendo lo spazio di applicabilità del Codice di rito che, con l’articolo 129, stabilisce i casi in cui scatta l’obbligo dell’immediata declaratoria delle cause di non punibilità. L’aspetto processuale supera, dunque, il principio di legalità della pena a meno che questa non sia divenuta illegale in seguito a una sentenza della Corte costituzionale. Ipotesi in cui il giudice di legittimità può intervenire d’ufficio anche se il ricorso è inammissibile, a meno che non sia tardivo. Il ricorso fuori dalla "dead line" rappresenta uno scoglio, anche rispetto alla decisione della Consulta, perché "si è in presenza di una impugnazione sin dall’origine inidonea a instaurare un valido rapporto processuale, in quanto il decorso del termine derivante dalla mancata proposizione dell’impugnazione ha già trasformato il giudicato sostanziale in giudicato formale, sicché il giudice dell’impugnazione si limita a verificare il decorso del termine e a prenderne atto". Il "problema" può essere risolto dal giudice dell’esecuzione grazie al superamento della vecchia concezione di una fase esecutiva vista come secondaria e accessoria. Con le nuove attribuzioni e la giurisdizionalizzazione del procedimento il giudice dell’esecuzione ha assunto un ruolo centrale e complementare, maggiori poteri riconosciuti anche dalla Consulta (sentenza 210/2013) in virtù dei quali è abilitato a intervenire sul titolo esecutivo. E può farlo anche quando il ricorso è inammissibile perché fuori tempo. Una soluzione in linea con il principio di legalità e rispettosa della formazione del giudicato come dell’intangibilità dell’accertamento processuale quando sia scaduto il termine per proporre ricorso in Cassazione. La stabile dimora equivale alla residenza di Enrico Bronzo Il Sole 24 Ore, 4 dicembre 2015 Corte di cassazione - Sentenza 47772/2015. La Corte di cassazione, con sentenza 47772/2015 depositata ieri, ha annullato la condanna comminata dalla Corte di appello di Potenza il 10 aprile 2013, per falso in atto pubblico, a quattro consiglieri della Regione Basilicata accusati di aver autocertificato di risiedere fuori dal capoluogo per accedere ai rimborsi. Per la Cassazione, infatti, nel concetto di residenza anagrafica rientra un concetto più ampio di residenza che comprende anche la stabile dimora. Ecco i fatti: dal 2004 al 2008 i consiglieri dichiaravano di abitare in paesi della provincia di Potenza anche se residenti a Potenza. Non avendo l’auto di servizio richiedevano il rimborso benzina ai sensi della legge regionale 38/2002. I difensori dei quattro politici hanno argomentato che la normativa in questione parlava solo di residenza non specificando se anagrafica o luogo di stabile dimora. Dal 2009, invece, la legge regionale n. 21 fa riferimento alla residenza anagrafica. Per questo, scrive la Corte di cassazione rinviando la decisione alla Corte di appello di Salerno, sarà necessario che il nuovo collegio svolga un giudizio considerando la legge del 2009 come di interpretazione autentica rispetto a quella del 2002, in deroga al principio per cui la legge dispone soltanto per l’avvenire. E, diversamente da quanto fatto dalla corte di Potenza, qualora i giudici di Salerno ricontrassero profili di incostituzionalità della legge 21/20o9, dovrà adire la Corte costituzionale. Il Tribunale di Potenza, invece, non ha fatto ciò pur avendo individuato che la legge del 2009, nel collegare il diritto al rimborso alla residenza anagrafica del richiedente, contrasterebbe con il principio di ragionevolezza contenuto nell’articolo 3 della Costituzione "in quanto ricollega il diritto al rimborso delle spese a una situazione soggettiva - la residenza anagrafica - che risulta estranea alla ratio e alla funzione del diritto medesimo: le spese sostenute per spostarsi dal luogo di stabile ed effettiva permanenza". Ruoli di Equitalia, per 600 miliardi recupero in salita di Giovanni Parente Il Sole 24 Ore, 4 dicembre 2015 Mission impossible o quasi. I ruoli che Equitalia difficilmente sarà in grado di riscuotere valgono 601,5 miliardi di euro e sono l’84,2% del carico complessivo affidato all’agente della riscossione, pari a oltre 714 miliardi al netto di sgravi, sospensioni e riscossioni. Mentre solo 113 miliardi sono ancora "raggiungibili": 24,1 miliardi sono oggetto di rateazioni e 88,9 sono in lavorazione, vale a dire che per esempio sono in corso solleciti di pagamento o di avviso di intimazione oppure di azioni cautelari/esecutive non ancora concluse. Le indicazioni del Mef. È l’aggiornamento al 30 settembre scorso che emerge dalla risposta fornita ieri dal Mef(era presente il viceministro Luigi Casero) in commissione Finanze al Senato all’interrogazione del Movimento 5 Stelle (prima firmataria Laura Bottici). Un’interrogazione che nasce proprio da una precedente risposta che aveva fornito la fotografia al 28 febbraio di quest’anno. In quell’occasione era emerso che il carico dei ruoli ammontava a 682,2 miliardi di euro e di questi ben 580,8 miliardi erano inesigibili o quasi. Tornando a ieri, le indicazioni arrivate dal Mef precisano comunque che "per avere contezza dell’effettivo valore" delle quote non più recuperabili sarà necessario attendere le comunicazioni di inesigibilità che, in base a quanto previsto dalla legge di Stabilità 2015, andranno prodotte dal 2017. Intanto, però, ben 304 miliardi di euro (il 42,6% del carico complessivo) sono stati interessati da procedure esecutive o cautelari "senza soddisfacimento integrale del credito". Altri 135,5 miliardi di euro riguardano procedure concorsuali (l’88,5% di queste sono fallimenti ). Altri 75,5 miliardi sono relativi a soggetti deceduti o ditte cessate e 86,5 miliardi (il 12,1% del monte complessivo) sono il debito riconducibile a soggetti che risultano nullatenenti. I nodi della riscossione. Anche alla luce di questi dati la commissione Finanze del Senato, presieduta da Mauro Maria Marino (Pd), ha deciso di approfondire in una prossima seduta (la data sarà fissata dall’ufficio di presidenza di mercoledì) il tema della riscossione alla presenza del Governo. Sempre restando in tema di Equitalia, va segnalato il protocollo d’intesa con il Codacons per favorire la trasparenza nell’azione di riscossione dei tributi e a fornire assistenza veloce su cartelle, rateizzazioni e tutte le altre attività del concessionario. Mentre la risposta a un altro question time (primo firmatario Gianluca Rossi del Pd) in commissione Finanze ha rinviato alla legge di Stabilità con l’emendamento già introdotto al Senato e al decreto attuativo la soluzione del raccordo tra bonus per il rientro dei cervelli (Dlgs 147/2015) e l’abrogazione della proroga all’agevolazione della legge controesodo (238/2010). Libertà e sicurezza in tempi di pace (e di guerra) di Francesco Petrelli (Segretario Unione Camere Penali italiane) Corriere della Sera, 4 dicembre 2015 È facile, nei periodi di pace e di assenza di tensioni sociali, coniugare la sicurezza e le garanzie, i diritti dei singoli e l’ordine pubblico, autorità e libertà. Difficile, invece, tenere ferma la barra dei diritti e dei principi costituzionali quando la vita dei singoli, le ragioni della convivenza civile e la sicurezza della collettività sono scosse dalle fondamenta. Lo sgomento che pesa nel cuore di chi assiste ai più atroci gesti del terrore condiziona l’opinione pubblica e orienta conseguentemente le scelte politiche di chi governa e sembra gravare in modo particolare sulla magistratura, la cui indipendenza rischia di essere turbata e condizionata dall’inevitabile domanda di sicurezza. Perché oggi è questo il problema: che un magistrato possa far prevalere la garanzia sulla pulsione repressiva, che un pubblico magistrato faccia governare la sua scelta all’osservanza del diritto piuttosto che al giustificato, ma cieco, rifiuto di questo o quel fenomeno criminale. Perché nel tempo dell’insicurezza matura un’idea della giurisdizione cui si plaude solo se produce repressione. Il riconoscimento delle garanzie corre, in questo clima difficile, come una distorsione inaccettabile, un piegarsi al "nemico", senza invece comprendere che è proprio il declinare dai principi liberali e democratici della nostra civiltà, l’abbandonarne le fondamentali garanzie di libertà, che significa arrendersi al nemico. Attendersi, tuttavia, dalla magistratura, come ha fatto Angelo Panebianco nel suo appassionato editoriale (Corriere, 27 novembre), che moduli la sua applicazione della legge in virtù del contesto terroristico, è infatti anch’essa una perdita di laicità dello Stato, un declinare pericoloso dei suoi valori fondanti, una sorta di chiamata alle armi, un arrendersi all’idea che la legge si possa inchinare a una sorta di improbabile sharia laica, e divenire anch’essa uno strumento ideologico da usare contro il nemico. Quei secoli di distanza culturale che ci separano dall’integralismo del terrore, e che ci fanno orgogliosi della nostra storia, sono intessuti proprio di questi valori, sono trascorsi riflettendo sull’idea che il fine non giustifica i mezzi, e convincendoci che le garanzie assumono un valore ed un significato proprio quando vengono usate contro il nemico. Risponde Angelo Panebianco Sharia laica? Consiglierei più sobrietà di linguaggio. Sono abituato da tantissimi anni ad essere attaccato da giustizialisti vari per la mia difesa delle libertà personali. Non mi sarei mai aspettato un attacco di segno opposto. Come dice anche Petrelli all’inizio della sua lettera, salvo poi dimenticarsene, una cosa è coniugare libertà e sicurezza in tempi di pace. Altro è farlo in tempi di guerra (ancorché asimmetrica, come l’attuale). Hollande, ad esempio, non è un esaltato sostenitore della sharia laica. È il presidente di un Paese colpito a morte da un atto di guerra. Non si può fingere di non sapere che qui purtroppo il problema non è "se" ma solo "quando" torneremo di nuovo a contare morti innocenti. Dopo di che, se si tratta di discutere seriamente (ripeto: seriamente) delle differenze fra le guerre interstatali classiche e le guerre asimmetriche, e degli speciali problemi che la guerra asimmetrica pone agli stati di diritto, sono disponibile. Terrorismo, i giudici si devono aggiornare di Alfredo Mantovano (Giudice Corte d’appello di Roma) Corriere della Sera, 4 dicembre 2015 Merita riflessione la questione posta da Angelo Panebianco circa il tratto "timido" dei magistrati nella repressione del terrorismo di matrice islamica. La risposta giudiziaria non è risolutiva, è il tassello di un mosaico, a fianco al lavoro dei servizi, delle forze di polizia, del coordinamento fra Stati: come si è visto a Parigi, agli attentatori basta una smagliatura in uno di questi segmenti per seminare morte. Leggendo i provvedimenti giudiziari che in Italia si susseguono da oltre un decennio, quanto è adeguata la consapevolezza culturale in senso lato dei giudicanti? Dei giudicanti più che dei requirenti, per i quali la conoscenza del fenomeno si è quasi sempre mostrata puntuale. Non sono in discussione l’autonomia e l’indipendenza della magistratura: guai a invocare la preminenza della sostanza su una forma che è garanzia di correttezza. Ma ricordare solo qualche pronuncia fa cogliere il senso del discorso: 8 gennaio 2004, il gip di Napoli rigetta una richiesta di custodia in carcere di indagati accusati di costituzione di una rete a sostegno del Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento, e più in generale del Gruppo islamico armato, non perché manchino gli indizi, ma perché Gspc e Gia non sarebbero organizzazioni terroristiche; 24 gennaio 2005, il gip di Milano esclude la qualifica terroristica per Ansar al Islam, che sarebbe "solo" una "organizzazione combattente islamica", e quindi respinge la richiesta di arresto di appartenenti a cellule italiane. Salto ai nostri giorni: lo scorso febbraio il gip di Lecce scarcera perché "profughi" (ma non avevano presentato domanda di asilo) cinque arrestati in possesso di documenti contraffatti e filmati di bombardamenti e di attentati nei cellulari. Il limite non è l’ignoranza delle norme, ma la non corretta conoscenza della realtà del terrorismo islamico. È come se all’epoca delle Br fossero sorti dubbi sulla loro natura terroristica (qualche iniziale incertezza purtroppo c’è stata); è come se oggi un magistrato che si occupa di mafie ignori la differenza fra camorra e ‘ndrangheta. È un limite che si supera se si prende atto che esiste ed investendo in formazione: lo si fece 30 anni fa, con risultati importanti, per le mafie. Sorprende che la programmazione per il 2016 della Scuola superiore della magistratura di decine e decine di corsi di formazione ne dedichi uno soltanto al terrorismo; in compenso, i giudici possono accedere a corsi come l’immagine della giustizia nell’arte, nel cinema e nella letteratura o, in sede decentrata, la tutela giuridica del sentimento per l’animale da compagnia e gli altri animali. Ecco, se, come qualcuno ha ricordato, alla prevenzione del terrorismo serve pure la cultura, qualche adeguamento su questo fronte è indispensabile. Lo Stato nelle carceri tortura: lo ammette, ma continua a farlo con il 41bis di Federico Rucco Contropiano.org, 4 dicembre 2015 Nel 2004 due detenuti vennero torturati nel carcere di Asti. L’associazione Antigone si costituì parte civile in quel procedimento che, nei mesi scorsi è arrivato davanti alla Corte Europea dei Diritti Umani la quale, il 23 novembre, ha dichiarato ammissibile il ricorso. Lo Stato italiano, a quel punto, ha proposto una composizione amichevole di 45.000 euro per ciascuno dei due ricorrenti. "Quella della Corte europea è una decisione di importanza enorme che riguarda la tortura in un carcere italiano. Il Governo ammette sostanzialmente le responsabilità e si rende disponibile a risarcire i due detenuti torturati ad Asti. Come aveva scritto a chiare lettere il giudice di Asti nella sentenza del 2012, si era trattato di un caso inequivocabile, e impunito, di tortura" - ha dichiarato Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, la quale è tornata a chiedere al Governo di approvare subito, anche in Italia, una legge che punisca questo crimine contro l’umanità. Su questo è stata avviata una petizione che ha raccolto sinora più di 52mila firme. Ma quella della tortura in Italia, è una pratica che si presenta con varie dimensioni, una delle quali è la detenzione in regime di 41 bis. L’art.41 bis dell’Ordinamento Penitenziario, è il punto più rigido della scala del trattamento differenziato che regola il sistema carcerario italiano. Nato come provvedimento emergenziale, come sempre succede, è diventato norma permanente e questo processo di stabilizzazione determina inasprimenti anche di altri regimi carcerari, come l’Alta Sicurezza 1 e 2 o l’isolamento prolungato dell’art. 14 bis. Dal regime di 41 bis non si esce, se non attraverso la collaborazione con lo Stato. Il regime carcerario del 41 bis prevede: 1. isolamento per 23 ore al giorno (soltanto nell’ora d’aria è possibile incontrare altri/e detenuti/e, comunque al massimo tre, e solo con questi è possibile parlare); 2. colloquio con i soli familiari diretti (un’ora al mese) che impedisce per mezzo di vetri, telecamere e citofoni ogni contatto diretto; 3. esclusione a priori dell’accesso ai "benefici"; 4. utilizzo dei Gruppi Operativi Mobili (Gom), il gruppo speciale della polizia penitenziaria, tristemente conosciuto per i pestaggi nelle carceri e per i massacri compiuti a Genova nel 2001; 5. "processo in videoconferenza": l’imputato/a detenuto/a segue il processo da solo/a in una cella attrezzata del carcere, tramite un collegamento video gestito a discrezione da giudici, pm, forze dell’ordine, quindi privato/a della possibilità di essere in aula; 6. censura-restringimento nella consegna di posta, stampe, libri. È evidentemente un regime che mira all’annullamento de detenuto, di ogni suo pensiero e autonomia. Solo in questo senso è spiegabile la nuova restrizione della possibilità di accesso a libri e pubblicazioni. Chi è sottoposto al 41 bis non può più ricevere libri, né qualsiasi altra forma di stampa, attraverso la corrispondenza e i colloqui sia con parenti sia con avvocati: è un’ulteriore restrizione in aggiunta a quella che già prevede che il detenuto possa avere al massimo tre libri in cella. La campagna "Pagine contro la tortura" vuole agire su questo ulteriore accanimento per mettere in discussione tutto il regime del 41 bis ed in ultima analisi tutto il sistema carcerario perché il carcere non è la soluzione, ma parte del problema. La campagna consiste nello spedire cataloghi, libri, riviste e altre pubblicazioni presso le biblioteche delle carceri in cui sono presenti le sezioni di 41bis ed ai detenuti e alle detenute che di volta in volta ne faranno richiesta. Sabato 19 dicembre al Cpa Fi-Sud alle 18.00 è fissato un incontro con Olga (è Ora di Liberarsi dalle GAlere) e Uniti contro la Repressione che presenteranno la campagna nazionale "Pagine contro la tortura" a Firenze. Cari Carabinieri, sono disabile mica scema di Adriana Belotti lettera43.it, 4 dicembre 2015 Rincasavo di sera. In carrozzina. Le forze dell’ordine mi hanno fermata. Ritenendomi incapace di cavarmela da sola. Una storia di abusi di potere? Il mio primo e spero ultimo spiacevolissimo incontro ravvicinato del terzo tipo con due rappresentati dell’arma dei carabinieri è già diventato un aneddoto ed è destinato a essere divulgato a lungo. Ed è giusto raccontarlo il 3 dicembre, in occasione della "Giornata internazionale delle persone con disabilità". Ore 21.30, Padova. Ero appena uscita dall’appartamento di Rupica, la signora cingalese che mi aiuta a pranzo e con le pulizie di casa. Cena gustosa, serata piacevole. Avevo l’esigenza di telefonare alla mia amica Elena, prima delle 22. Non ce l’avrei mai fatta a tornare a casa in tempo, quindi ho cercato con lo sguardo un posticino nelle immediate vicinanze dove poter parlare al cellulare in modalità "viva voce" (non ho infatti ancora trovato degli auricolari che si adattino alle mie orecchie, senza cadere ogni due minuti). Ho imboccato una viuzza isolata che terminava con alcune case, mi sono fermata davanti a una di queste e ho iniziato una delle mie interminabili conversazioni telefoniche. Stavo chiacchierando già da qualche tempo, quando mi si è avvicinata un’automobile, da cui è sceso un signore che abitava lì e che, vedendomi, mi ha chiesto: "Stai bene? Ti sei persa?". Ho risposto educatamente di star bene e di essere impegnata in una chiamata. Il tizio è entrato in casa e, in sottofondo, ho sentito la sua voce informare qualcun altro della presenza di una ragazza disabile sola, che stava passeggiando avanti e indietro, sotto casa loro. Non ho dato importanza all’avvenimento e ho proseguito nelle chiacchiere. Ingenua! Qualche tempo dopo, stavo lentamente imboccando la via di casa, quando ho visto una vettura dei carabinieri venire verso di me. Ho indovinato subito cosa poteva essere successo: l’arrivo dei "caramba" era sicuramente opera del condomino "caritatevole" che, preoccupato per me, li aveva contattati. "Gran bella sorpresa!", ho pensato. Sapevo che, di lì a poco, avrei avuto la possibilità di confermare o meno ciò che si racconta nelle barzellette sull’Arma, ma non ne avevo alcuna voglia. L’apprensione controproducente delle forze dell’ordine. Quando la gazzella si è avvicinata e i due uomini in divisa, che soprannominerò il Diversamente alto e il Magro, abbassando il finestrino, mi hanno chiesto se andava tutto bene, ho annuito frettolosamente (più tardi i due negheranno ripetutamente che io abbia risposto alla domanda), li ho salutati e ho cercato di filarmela. Temevo infatti che non mi avrebbero creduta sulla parola e mi avrebbero trattenuta per ulteriori accertamenti, alla luce della ahinoi ben nota teoria "disabile indifesa in quartiere molto pericoloso di notte abbisogna indiscutibilmente della nostra protezione". Non è stata una mossa a buon fine: i due mi hanno inseguita con l’auto e bloccata sulla via principale. Scesi dal mezzo hanno iniziato a bombardarmi di domande: "Cosa ci fai qui? Dove abiti?". Ho risposto che poco prima stavo parlando al telefono, che mi sentivo bene e che mi accingevo a tornare a casa, in zona xxx. "Da qui fino a xxx da sola a quest’ora? Non possiamo permettertelo, questo quartiere è troppo pericoloso! Ti accompagniamo in auto!". Ritenete praticabile introdurre una carrozzina elettrica che pesa 95 chili nel bagagliaio di un’auto di medie dimensioni, sprovvista di rampa o elevatore? Forse potrebbe essere un buon testo per una barzelletta. E infatti, per fortuna, si sono arresi di fronte all’evidenza: la sedia non sarebbe mai entrata. Ma un’altra idea creativa stava balenando nelle loro menti. "Chiama l’ambulanza!", ha suggerito uno dei due al compagno. L’altro, rientrato in macchina, ha effettivamente contattato il 118 per richiedere un intervento. A quel punto ho pensato che il servizio richiesto avrebbe potuto forse anche essere utile... ma per soccorrere loro! Mi stavo proprio innervosendo: mi sembrava di essere stata sufficientemente chiara nell’affermare di non aver bisogno del loro aiuto, ma evidentemente il messaggio non era stato recepito. Così ho deciso che non avrei assecondato le loro teorie un minuto di più. Ero sicura che, di fonte alla rivendicazione del mio diritto di compiere scelte in autonomia, si sarebbero arresi, mi avrebbero finalmente rilasciata e permesso di tornarmene a casa. Bloccata con la forza e in preda all’agitazione. "Sono maggiorenne, vaccinata e ho tutto il diritto di tornare a casa da sola!" e, pronunciando queste parole, ho regolato la carrozzina sulla massima velocità e sono partita... in quinta! Avevo percorso solo pochi metri quando il Diversamente alto ha afferrato la sedia a rotelle elettrica da dietro per impedire la mia "fuga". Questa mossa geniale ha fatto si che il mio bolide s’impennasse sulle ruote posteriori, con il rischio di ribaltarsi all’indietro. Iniziativa veramente curiosa da parte di un rappresentante delle forze dell’ordine che afferma di agire a garanzia della mia sicurezza e incolumità. "Cretina! Cosa stai facendo? Stai ferma!", mi ha intimato con un bon ton francese. "Non hai il numero dei tuoi genitori?". Gli ho risposto che la mia famiglia vive a Bergamo e che vivo con due coinquiline non automunite. Riassumendo: si trovava di fronte una donna disabile, sola, di notte, in un quartiere pericoloso come quello e che, addirittura, abitava lontana dalla sua famiglia! Mi meraviglio di come abbia potuto sopravvivere di fronte a questo abominio. E infatti, rivolgendosi al suo collega, è sbottato: "Ma come si fa a lasciare andare in giro una ragazza (di 38 anni!, ndr) in carrozzina di notte da sola?". Ero agitata: sentirsi detenuta con la forza (perché bloccare in quel modo la carrozzina elettrica è un’azione coercitiva!) senza aver commesso alcun reato né essere in condizione di costituire un pericolo per me stessa o per gli altri è una sensazione orribile. Mi sentivo in gabbia e non sapevo come liberarmi. A un certo punto mi sono ricordata che la mia dipendente abitava lì vicino e ho proposto di andare a chiamarla, sperando che lei e suo marito mi avrebbero aiutata a riprendermi la mia libertà. "Ti accompagniamo noi dalla tua amica, abbassa la velocità di guida", ha esclamato perentoriamente il Magro, afferrando la maniglia della carrozzina, per evitare che "scappassi" nuovamente. Furiosa, li ho minacciati: "Io vi denuncio! Io scrivo articoli su un quotidiano e vi ringrazio perché mi avete dato un buon spunto per il mio prossimo pezzo!". Sì, lo ammetto, me la sono un po’ tirata, come si direbbe in Francia... ma per una giusta causa. Rabbia da una parte, stupore dall’altra. Loro, per tutta risposta, hanno manifestato stupore di fronte alla mia rabbia, ribadendo più volte di essere lì solo per aiutarmi. Magari pensavano che dovessi pure ringraziarli di avermi rovinato il finale di una bella serata. Abbiamo citofonato a Rupica che, meravigliata che io fossi ancora sotto casa sua, è scesa con tutta la famiglia. Ho iniziato a spiegarle di essere stata trattenuta con la forza, nonostante avessi ripetutamente esplicitato di non avere nessun problema e di stare semplicemente tornando a casa, dopo una telefonata. I carabinieri hanno negato che io avessi mai detto questo e si sono giustificati, affermando di aver ricevuto una segnalazione anonima e di avere l’obbligo di intervenire. La mia dipendente ha cercato di spiegare che io mi muovo in carrozzina elettrica da sola anche la sera tardi senza nessun problema, ma il Diversamente alto ha risposto di non voler parlare con lei, ma piuttosto con la mia amica italiana, quella della chiacchierata al cellulare. Gran segno di apertura e la comprensione nei confronti di chi ha qualche difficoltà di espressione quando parla in una lingua che non è la sua. Oltretutto Rupica, pur non parlando un italiano impeccabile, è perfettamente comprensibile. Ho richiamato Elena e l’ho pregata di intercedere per me con l’uomo in divisa che, anche parlando con lei, ha ripetuto il solito ritornello sulla pericolosità di permettermi di girare da sola di notte in certe zone. Dopo le rassicurazioni telefoniche e non prima di aver richiesto i dati di tutti i presenti fisicamente e non, inclusi quelli di Elena, i due carabinieri hanno disdetto l’intervento dell’ambulanza e mi hanno finalmente dato il via libera. Una soddisfazione però me la sono presa: salutandoli, prima di partire, ho esclamato forte e chiaro: "Bene, ora vado a prostituirmi!". Sobria e lucida: perché allora tanto accanimento? Ora, ripensando all’intera vicenda, mi sorgono alcune riflessioni e molte domande: all’uomo che ha chiamato in caserma, io avevo spiegato cosa stavo facendo sotto casa sua. Se lo preoccupavo tanto, perché non ha cercato ulteriori chiarimenti confrontandosi con me, invece di cercare "aiuti" esterni? Avrebbe chiamato lo stesso se al mio posto ci fosse stata una donna deambulante? Possibile che a chi ha ricevuto la segnalazione non sia venuto in mente di chiedere di parlarmi di persona al telefono per capire meglio la situazione, invece di scomodare una volante per venirmi a cercare? Quando sono stata fermata ero sobria (anche se non lo fossi stata, non avrebbero avuto modo di saperlo dato che non mi hanno sottoposta alla prova dell’alcol test, probabilmente convinti che i disabili siano tutti astemi) e lucida, con quale diritto hanno preteso che dessi loro informazioni personali come il nome, il cognome e l’indirizzo o comunque la zona di residenza, pretendendo una mia risposta? Capisco che, ricevuta una segnalazione con richiesta di soccorso, le forze dell’ordine abbiano il dovere di intervenire, ma perché non mi hanno lasciata andare, dopo avermi sentita ripetutamente affermare di essere in salute e in grado di rincasare autonomamente? Non avevo commesso alcun reato, con che diritto mi hanno detenuta, anche con l’uso della forza? Se non mi fossi impuntata, avrebbero fatto mobilitare inutilmente un’autoambulanza che magari avrebbe potuto essere indispensabile a qualcun altro. Ma allora, come vengono valutate le priorità? Qual è il confine tra il corretto esercizio del proprio ruolo professionale e l’abuso di potere, consentito dall’indossare l’uniforme? L’impressione che ho avuto è che, nel rapportarsi a me, non abbiano realmente ascoltato quel che stavo cercando di comunicare né osservato quali fossero le mie "condizioni psico-fisiche", ma che abbiano indossato "gli occhiali e gli auricolari del pregiudizio" per poi agire di conseguenza. In questa, come in altre occasioni, mi sono chiesta quale sia l’attuale formazione per chi vuole entrare nell’Arma o in qualsiasi altro corpo delle forze dell’ordine; se oltre a insegnare a usare le armi siano previste discipline che preparino a osservare oggettivamente gli elementi del contesto di intervento e a utilizzare modalità più orientate al dialogo e alla mediazione, che alla coercizione e all’esercizio di autoritarismo. Gli amici, per consolarmi, mi dicono che non capita tutti i giorni che qualcuno ti offra la possibilità di usare un mezzo del 118 come se fosse un taxi e, per giunta, senza sborsare un euro. E per concludere, concedetemi uno slogan: più ambulanze per tutti! Veneto: manca Rems, 14 detenuti psichiatrici veneti restano nell’ex Opg di Reggio Emilia ilfarmacistaonline.it, 4 dicembre 2015 Su reclamo dei detenuti veneti, infatti, il magistrato ha deciso che non potendo essere trasferiti alle Rems dovesse essere comunque tolta la vigilanza delle guardie carcerarie. Ma per il Garante delle persone private della libertà personale dell’Emilia-Romagna "si tratta di un carcere e servono misure di sicurezza che non possono essere affidate al personale sanitario, già peraltro insufficiente". I ritardi delle Regioni nell’applicazione della normativa sulla chiusura degli ex Opg e l’attivazione delle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems) rischiano di creare gravi problemi in Emilia Romagna. Infatti, mentre questa Regione ha ottemperato agli obblighi di legge trasferendo, entro il 31 marzo 2015, nelle due Rems già istituite (una a Casale di Mezzani, nel parmense, e l’altra a Bologna) tutti gli internati residenti nel territorio emiliano-romagnolo che non potevano essere dimessi dall’ex Opg di Reggio Emilia, lo stesso non è potuto accadere con i 20 internati ospitati dall’Opg di Reggio Emilia ma provenienti da altre Regioni (14 dal Veneto, 5 dalla Lombardia e 1 dalla Toscana). Nelle due Rems emiliane, infatti, non c’è più posto, e in Veneto le Rems non esistono ancora. Di fatto, quindi, l’Opg di Reggio, che doveva chiudere i battenti lo scorso 31 marzo, non è stato ancora chiuso. Ma rischia di restare senza servizio di sorveglianza della Polizia Penitenziaria. Il magistrato di Reggio Emilia, accogliendo il reclamo degli internati veneti, ha infatti disposto l’allontanamento del personale di Polizia Penitenziaria dall’Opg di Reggio in esecuzione della nuova normativa che prevede che la gestione delle misure di sicurezza psichiatriche detentive debba essere "a carattere esclusivamente sanitario". Una decisione che ha allarmato il Garante delle persone private della libertà personale dell’Emilia-Romagna, Desi Bruno, secondo la quale "non è pensabile che negli attuali spazi possa declinarsi una gestione esclusivamente sanitaria degli internati perché la struttura non è autonoma dal resto dell’istituto in cui l’amministrazione penitenziaria sovrintende a tutta una serie di attività, dai colloqui alla cucina, dal controllo esterno agli ingressi, che non possono essere svolte dal personale sanitario che, peraltro, è del tutto insufficiente in termini numerici". Il tutto mentre nella struttura risultano essere presenti anche 19 condannati con infermità psichica sopravvenuta durante l’esecuzione della pena e 27 minorati psichici. A fornire al nostro giornale i dettagli della vicenda è proprio il Garante Desi Bruno, che lo scorso 26 novembre ha visitato gli spazi detentivi del settore dell’istituto psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia raccogliendo l’allarme del personale. L’attuale situazione, spiega infatti il Garante, "rischia di mettere a dura prova l’attuale organizzazione del lavoro negli spazi detentivi dell’ospedale psichiatrico giudiziario. Stiamo parlando di un carcere, non possiamo pensare che a gestirlo sia solo il personale sanitario". Per Bruno, la decisione del magistrato mira, di fatto, a trasformare l’Opg in una Rems. "Ma la Rems è una struttura sanitaria che risponde a particolari requisiti e standard. Non basta togliere la Polizia Penitenziaria a un Opg per realizzare una Rems". Se le Rems non sono pronte, trovare una soluzione non sarà però semplice. Come detto, la normativa vigente prevede infatti che dal 31 marzo 2015 l’internamento debba essere eseguito esclusivamente nelle strutture sanitarie denominate Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, le Rems. Per il magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia, dunque, nell’Opg di Reggio "l’attuale internamento sta avvenendo in violazione di legge, con un pregiudizio grave e attuale dei diritti degli internati che hanno il pieno diritto all’esecuzione delle misure di sicurezza operata esclusivamente mediante il ricovero nelle Rems". Tuttavia, non spetta all’Emilia Romagna garantire questo diritto agli internati provenienti da altre Regioni. L’Accordo Stato-Regioni-Provincie Autonome del 26/2/2015 attuativo della legge di soppressione degli Ospedali psichiatrici prevede infatti che "le Regioni e le Provincie Autonomie devono garantire l’accoglienza nella proprie Rems di persone sottoposte a misura di sicurezza detentiva residenti nel proprio ambito territoriale". Di conseguenza, non può essere contestato al Dipartimento l’utilizzo del criterio primario della "regionalizzazione" nella scelta degli internati da traferire né può essere accusato di pregiudizi nei confronti degli internati rimasti di Reggio Emilia. Il magistrato di sorveglianza ha dunque ordinato al presidente della Giunta regionale veneta di "porre rimedio al pregiudizio degli internati adottando i necessari provvedimenti nel termine di 15 giorni", ma nel frattempo ha ordinato anche all’amministrazione penitenziaria "di esonerare il personale della Polizia penitenziaria dal servizio nel settore dell’ospedale psichiatrico giudiziario", sempre nel termine di 15 giorni. Il problema è che, in sede di udienza, la Regione Veneto ha fatto sapere che, pur essendo in fase di attuazione una Rems a Nogara che potrà ospitare 40 pazienti, questa non potrà essere pronta però prima dell’ottobre del 2016. E così, nell’attesa dell’attivazione della Rems veneta, l’Opg di Reggio rischia di dover trattenere gli internati di altre Regioni restando, tuttavia, sfornita di personale di Polizia Penitenziaria. Nelle prossime settimane saranno decisi anche altri reclami giurisdizionali presentati contro l’illegittimo internamento dagli altri internati residenti in Regione che non hanno ancora attuato le Rems. Intanto Bruno sollecita la magistratura ha riconsiderare il provvedimento, magari prorogandone i tempi, "che comunque devono essere stretti. La Regione Veneto - spiega il Garante - ha comunicato che è in fase di attuazione una Rems a Nogara che potrà ospitare 40 pazienti, pronta però non prima dell’ottobre del 2016. Parliamo di un anno, un periodo troppo lungo, che va assolutamente ridotto. Aspettiamo di vedere come risponderà alla diffida che gli è stata recapitata". Dal Garante, infine, un appello al Governo affinché venga imposta una scadenza in tempi brevi per la realizzazione delle Rems, anche attraverso il commissariamento delle Regioni. "È stato ventilato tante volte, forse è arrivato il momento che venga messo in atto". Milano: Luigi Vollaro, boss della camorra, muore a 83 anni detenuto in regime di 41bis di Antonio Emanuele Piedimonte La Stampa, 4 dicembre 2015 Luigi Vollaro aveva 83 anni ed era detenuto nel carcere di Opera. Dietro il paravento del ricco costruttore edile, fu un protagonista sanguinario della malavita italiana. Definirlo il boss sciupafemmine sarebbe riduttivo. Il fondatore di uno dei sodalizi storici della camorra è stato molto più di un semplice capoclan, e con i suoi 27 figli avuti da una decina di donne diverse (il calcolo sarebbe approssimato per difetto) non può essere circoscritto nel novero dei semplici dongiovanni. Luigi Vollaro, morto ieri a 83 anni nel carcere di Opera a Milano, è stato un autentico protagonista della malavita degli ultimi cinquant’anni. Uomo forte e leader naturale, per la spiccata tendenza alla riproduzione fu chiamato "‘o Califfo". E lui in una vecchia intervista confidò: "Nella vita ci sono poche soddisfazioni. Tra queste, le donne. Loro mi piacciono. E io, modestamente, piaccio a loro. C’hanno la passione per me". La passione ce la metteva pure lui e non solo tra le lenzuola. Il 2 agosto del 1979 un uomo agonizzante per un colpo di pistola ai soccorritori sussurra: "È stato Luigi Vollaro", poi spira. Gli investigatori scopriranno ben presto quello che già sapevano tutti: la vittima aveva le ore contate perché aveva commesso il grave errore di intrecciare una relazione con una donna dell’harem del Califfo. L’onore prima di tutto. Cinque mesi dopo anche la concubina fedifraga, la povera Giuseppina Velotto, farà una brutta fine. Tuttavia ci vorrà diverso tempo prima che la magistratura riesca a far luce sui due omicidi. Agli occhi del mondo, infatti, Luigi Vollaro era un ricco costruttore edile (la casa più bella era la sua, una mega-villa con quaranta stanze per la sua corte). Ma dietro il paravento del mattone e le abitudini che ricordano i vecchi guappi e la camorra di una volta c’è un rampante e sanguinario ras che segue le orme di un altro personaggio famoso: Michele Zaza, lo "zar" delle sigarette di contrabbando. In breve dalla natia San Sebastiano al Vesuvio il padrino si estende alla vicina Portici, che diventerà il quartier generale del clan. Nel 1978 è nella "cupola" che fonda l’Onorata Fratellanza (poi Nuova Famiglia), ovvero la colazione che fronteggia l’esercito della Nco di Raffaele Cutolo in una guerra che lascia sul terreno di migliaia di morti. Donne, soldi, potere: la parabola del Califfo comincia a mutare rotta quando hanno inizio i suoi guai giudiziari più seri (sarà il primo boss condannato all’ergastolo e tra i primi a subire il 41 bis). I figli non sono all’altezza del padre e, grazie ai pentiti, i magistrati infliggono colpi micidiali alla cosca. Nel 1995 si pente anche uno degli eredi, Ciro Vollaro, che qualche anno dopo, nel 2006, si toglie la vita in carcere. L’impero si sgretola e lui, chiuso nel più totale isolamento carcerario, non può far nulla. Un tormento che ieri se l’è portato via insieme a un pezzo di storia della camorra napoletana. Trieste: il Garante "un laboratorio sociale per il recupero dei reclusi" di Marco Bisiach Il Piccolo, 4 dicembre 2015 La proposta del Garante per i diritti dei detenuti don Alberto De Nadai. Il problema del vecchio carcere. Creare a Gorizia un "laboratorio sociale", una sinergia tra enti e istituzioni che possano seguire e accompagnare i detenuti e più in generale tossicodipendenti o persone in difficoltà in un cammino di recupero e reinserimento nella società. È il progetto, ambizioso ma necessario, auspicato dal garante per i diritti dei detenuti di Gorizia don Alberto De Nadai. Sabato 5 dicembre don Alberto sarà tra i relatori del convegno "Ri-pensare in carcere per possibili alternative", che si svolgerà al Centro "Balducci" di Zugliano e vedrà partecipare tra gli altri anche il garante regionale dei detenuti Pino Roveredo e il senatore Luigi Manconi, presidente della commissione per la tutela dei diritti umani. Ieri, anticipando alcuni dei temi di quell’incontro, che servirà per fare il punto della situazione sulle condizioni dei detenuti dei cinque carceri regionali, don De Nadai ha incontrato la stampa in Provincia, assieme all’assessore al Welfare Ilaria Cecot e ad alcune delle volontarie dell’associazione "La Zattera", che operano quotidianamente a sostegno dei carcerati. "Esiste un grande squilibrio sociale nella nostra città - ha detto don Alberto, dove a nessuno sembra interessare il problema del carcere. Non a caso tutte le esperienze positive che erano state lanciate, dalla serra al giornalino trimestrale L’Eco di Gorizia, fino alla stessa ristrutturazione, sono cadute nel dimenticatoio. In questo modo, però, la prigione finisce per diventare luogo di esclusione, anziché istituto deputato alla rieducazione e all’inclusione sociale". Da qui nasce, per De Nadai, la necessità di un "laboratorio sociale", un luogo, non necessariamente fisico, dove istituzioni, enti ed associazioni operino in sinergia per seguire il percorso dei detenuti, tutelarne i diritti, e proporre percorsi di lavoro e reinserimento sociale. Al momento, a questo provano a pensare le tre volontarie de "La Zattera", che assistono don Alberto nel nuovo ufficio del Garante messo a disposizione dalla Provincia (al secondo piano della palazzina della direzione Welfare), e si occupano di trovare vestiti e prodotti di prima necessità per i detenuti. L’associazione ha anche promosso il progetto "A scuola di libertà", portando nel carcere di via Barzellini una piccola delegazione di docenti e studenti maggiorenni degli istituti "Cossar", "Slataper" e del polo sloveno di via Puccini, dove poi tra il 26 e il 27 novembre si sono svolti degli incontri e degli approfondimenti sul tema dei diritti dei detenuti. Ma l’attenzione del garante si concentra anche sulle condizioni sempre più difficili della casa circondariale, in via Barzellini. Dove si trovano 36 detenuti, con diversi spazi ancora inagibili e i corridoi al piano terra da poco recuperati che già stanno iniziando a cedere. Avellino: la Camera penale irpina a Bellizzi "migliora il problema sovraffollamento" irpinianews.it, 4 dicembre 2015 Si è tenuta ieri mattina all’interno del Carcere di Bellizzi Irpino la visita dell’Osservatorio Carceri dell’UCPI fortemente voluta dalla camera penale irpina su impulso del referente dell’Osservatorio, l’avv. Giovanna Perna. La visita che è durata circa 5 ore, è stata divisa in due momenti, il primo dedicato ad una serie di domande (questionario) che il referente dell’Osservatorio Carceri dell’Ucpi, avv. Riccardo Polidoro, ha sottoposto al direttore del carcere, dott. Paolo Pastena, il secondo, invece, è stato dedicato alla visita all’interno delle sezioni (femminile e maschile) della struttura. Questo il commento della Camera penale irpina. "Molte le novità rispetto all’ultima visita del mese di luglio 2014, quando ai problemi di sovraffollamento si univano anche quelli strutturali. Attualmente alcune sezioni sono interessate da lavori di ristrutturazione e di ammodernamento. In particolare la cd zona "ex transito" è stata interessata da lavori di adeguamento con particolare riferimento alla parte riservata al passeggio, dove poco più di un anno fa i detenuti di questa sezione passeggiavano all’interno di gabbiotti di pochi metri quadri. A seguito dei lavori, eseguiti dagli stessi detenuti, gli spazi dedicati al passeggio sono più ampi e parte dell’area adiacente alle mura è coltivata con ortaggi. In miglioramento il problema del sovraffollamento, in quanto la struttura ospita attualmente 547 unità a fronte dei 500 previsti dalla pianta organica. Tante ancora le "deficienze" che caratterizzano le sezioni del vecchio padiglione, rispetto al nuovo padiglione; la maggior parte di esse segnano una evidente differenza tra detenuti di serie A, ristretti nel nuovo padiglione dotato di stanze confortevoli, e detenuti di serie B ristretti nel vecchio padiglione, questi ultimi, purtroppo sono costretti nelle celle, nonostante tutta la zona è interessata a lavori di muratura. Infine, nota dolente nella sezione del femminile, oltre alla presenza di due bambini di anni 2 circa, la struttura non presenta le caratteristiche proprie del nuovo padiglione; inoltre le detenute soffrono l’assenza del magistrato di sorveglianza che alcune di loro non vedono da diverso tempo. Quello, comunque, della sorveglianza resta un problema irrisolto, nel senso che, i detenuti lamentano la mancanza di riscontro da parte del magistrato di sorveglianza, che non concede con tempestività i benefici (liberazione anticipata, permessi etc..) o ancora peggio non si porta, come l’ordinamento penitenziario prevede, all’interno del carcere. La visita ha visto la partecipazione dell’avv. Riccardo Polidoro, responsabile dell’Osservatorio carceri dell’Ucpi, dell’avv. Giovanna Perna, referente osservatorio della camera penale irpina, dell’avv. Gaetano Aufiero, presidente della Camera penale Irpina, dell’avv. Patrizio Dello Russo del direttivo della camera penale irpina. Un contributo determinante è stato dato dal Direttore della Casa Circondariale di Bellizi Irpino, dott. Paolo Pastena che si è sottoposto ad un colloquio di domande e risposte della durata di circa due ore, nonché del Commissario e dell’Ispettore della struttura; nonché di alcuni degli agenti di polizia penitenziaria che hanno consentito l’accesso nelle singole aree della struttura. Milano: l’Università Statale sigla convenzione per il reinserimento sociale dei detenuti agoramagazine.it, 4 dicembre 2015 Firmata in Statale tra Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria per la Lombardia e Università degli Studi di Milano una convenzione che prevede una nutrita gamma di attività di collaborazione riguardanti il sostegno allo studio universitario dei detenuti, la realizzazione di progetti formativi e di volontariato per gli studenti e la formazione del personale dell’Amministrazione Penitenziaria. Le attività si svolgeranno in massima parte negli Istituti di Milano Bollate e Milano Opera, dove si è costituito il polo universitario metropolitano e dove c’è un forte investimento sull’istruzione come strumento di reinserimento: attualmente i detenuti iscritti alle Università milanesi sono oltre 60. L’istruzione è infatti uno tra gli strumenti importanti per realizzare l’obiettivo del reinserimento sociale e l’impegno dell’Università è di favorire la formazione superiore dei detenuti fornendo orientamento, tutorato, docenze, facilitando l’accesso alle informazioni, alle procedure di segreteria e ai servizi bibliotecari e prevedendo anche la configurazione agevolata delle tasse e dei contributi a carico degli studenti. La convenzione prevede anche lo svolgimento presso le strutture penitenziarie di attività di volontariato e di formazione per studenti universitari (tirocini, master, attività finalizzate alla stesura di tesi di laurea), oltre all’elaborazione di progetti di studio e di ricerca in ambito penitenziario, con l’eventuale coinvolgimento dei detenuti e del personale penitenziario. Programmi formativi e riconoscimento dei crediti sono previsti anche per i dipendenti dell’Amministrazione Penitenziaria(personale di polizia penitenziaria, personale comparto ministeri e Dirigenti). "Questa convenzione - ha dichiarato il Rettore Gianluca Vago - darà maggior respiro e continuità alle numerose attività che già coinvolgono vari docenti e studenti della Statale: prestare ogni collaborazione possibile all’imprescindibile dettato del reinserimento sociale dei detenuti, in primis sostenendo la possibilità della loro realizzazione personale tramite l’istruzione, è non solo dovere dell’Università ma occasione di esperienza preziosa per la formazione culturale, civile e professionale dei nostri studenti". Teramo: con Davide e gli altri, nel carcere di Castrogno di Giorgio Cremaschi Contropiano.org, 4 dicembre 2015 Il carcere di Teramo è un moderno fortino, immane blocco di ferro e cemento arroccato sulla cima di un colle, totalmente estraneo al paesaggio circostante, fatto di dolci declivi coperti di uliveti, di montagne che si ergono in lontananza, bianche di neve. Vi giungo in una mattina d’autunno che sembra primavera. Sole chiaro e aria profumata, un invito al libero andare. Penso a come si debbano sentire le donne e gli uomini oltre le sbarre. Sono qui insieme alla delegazione in visita al carcere, a conclusione dell’iniziativa organizzata ieri dall’Osservatorio contro la repressione con un partecipatissimo convegno dal titolo " Chi devasta e saccheggia è il capitale", sugli scempi sociali e ambientali, la repressione nei confronti di chi vi si oppone, l’urgenza di un’amnistia sociale che liberi dalle galere quanti scontano il reato di povertà e con loro i compagni che - alcuni da mezzo secolo - pagano duramente l’antagonismo all’ingiustizia e alla schiavitù. Tra poco vedrò Davide, Davide Rosci, uno dei giovani arrestati in seguito agli scontri avvenuti a Roma il 15 ottobre 2011, che sta scontando una condanna a sei anni per "devastazione e saccheggio", un reato esistente solo per la legge italiana, triste eredità del codice fascista Rocco. La visita comincia con le solite formalità, (il controllo documenti il deposito borse e cellulari, la compilazione dei fogli di generalità). Al di là del pesante cancello c’è silenzio. Alcuni detenuti trasportano i bidoni della spazzatura, una quotidianità che stride con l’eccezionalità del luogo. In una saletta interna il medico del carcere sta tenendo un corso per il personale di custodia e gli operatori sociali su temi trattati in due volumetti che ci vengono forniti: "Conoscersi per amarsi. Tutela della salute della donna" e "Salute Mentale dei Soggetti Reclusi". Gli agenti che ci accompagnano non nascondono le difficoltà e le carenze: il sovraffollamento endemico, la presenza di carcerati con problemi psichiatrici che il carcere aggrava (nei mesi scorsi si sono verificati tentativi di suicidio), portatori di handicap in una struttura piena di barriere architettoniche, mancanza di spazi per attività lavorative e artigianali che permettano alla persona, insieme all’acquisizione di una professionalità, l’evasione almeno mentale dall’alienazione carceraria. Le attività che i detenuti svolgono a rotazione sono legate esclusivamente alla gestione interna quotidiana: pulizie, cucina, piccola manutenzione. C’è anche un orto per consumo interno, tenuto da reclusi che compiono in carcere gli studi di agraria (si preparano da privatisti, come anche altri, studenti di istituti professionali e universitari di Giurisprudenza). Il pezzo di terra è minuscolo, davvero un’anomalia rispetto al cemento circostante, ma dai teli delle brevi serre debordano fragole meravigliose, un rosso grido di vita in mezzo a quel morto grigiore. Nei pressi del reparto femminile è stato allestito uno spazio per i colloqui con le famiglie: colori pastello alle pareti, affreschi di animali e pupazzetti eseguiti da un detenuto, mobili chiari, arredamento domestico; all’esterno un piccolo giardino con panchine e giochi per bambini. M è uno spazio disabitato: le donne e i bambini sono altrove, oltre i cancelli che si aprono e si chiudono al nostro passaggio. Nel reparto femminile grandi pulizie del sabato, pavimenti tirati a specchio, le donne sulle porte delle celle in attesa che si asciughi il lungo corridoio centrale. Vado da loro; mi abbracciano, vogliono sapere il mio nome. Hanno età diverse, un’anziana, tante giovani, alcune giovanissime; qualcuna indossa il grembiule come nella cucina di casa. Sento crescere il disagio per una visita che, oltre al saluto e all’abbraccio, non lascia loro niente, non porta buone novelle, non apre cancelli né abbatte inferriate, non renderà più leggero il carico dei mesi e degli anni scanditi da giorni vani e notti interminabili, non parla del dopo. Il cuore del reparto femminile è il nido, che ospita con le madri, i bambini fino a tre anni d’età. Sulla porta della cella, in braccio alla giovanissima mamma, trovo Laura, nata lo scorso 14 novembre; dorme serena e ignara, fagottino rosa dai pugnetti serrati, lei così piccola e già privata dell’aria libera e del sole, rinchiusa in stanze tristi dove il cielo si vede solo dalle inferriate. Quale futuro questa società di sepolcri imbiancati riserva a lei, alla sua pallida madre bambina? E come può essere tutto questo un risarcimento alla "società offesa"? Saliamo col montacarichi al quinto piano, nel reparto dei comuni. (i piani sottostanti sono riservati ai detenuti per mafia, ai collaboranti, ai condannati per violenze sessuali). Anche qui le celle sono aperte, il corridoio affollato. Ci accompagnano alla cella di Davide. Un giovane (il suo coinquilino) sta spazzando vigorosamente con acqua e sapone il pavimento. Davide arriva dal fondo del corridoio, sorridente sotto la gran barba; abbracci e commozione. Chiede dei compagni, del Movimento No Tav, dell’assemblea tenutasi il giorno precedente. È forte, sereno e pieno d’amore, nonostante tutto, come chi affronta la sua strada senza arroganza ma con determinazione, capace, anche nella disumanità del luogo, di provvedere agli altri, ai più deboli e dimenticati. I compagni di detenzione gli si fanno vicini. Al direttore che intanto è sopraggiunto chiede anche per gli altri detenuti la possibilità di attrezzare una palestra, l’accesso ai canali televisivi; lo fa senza deferenze, con tranquilla autorevolezza. La minuscola cella che divide con un compagno, parla di lui e dei suoi affetti: le foto dei familiari, i disegni dei nipotini, una piccola scansia di libri, il ritratto del Che, i colori del Teramo, una miriade di adesivi che rivendicano la sua militanza antifascista, le lotte sociali e ambientali tra cui spiccano i simboli No Tav. Dalla finestrina ferrata si scorgono i terreni che scendono tra casali e coltivi fino al mare, ma Davide ama i monti e, prima del commiato, mi accompagna in fondo al corridoio, alla vetrata da cui si può vedere il Gran Sasso innevato ed accanto ad esso quello che la leggenda chiama il gigante dormiente, un profilo supino di idolo, ieratico nel suo candido splendore. Mi viene da pensare che della stessa fibra forte e dolce siano plasmati Davide e questi generosi compagni che mi hanno accolta, ospitata, accompagnata. Dal treno del ritorno, in corsa lungo un mare che ieri era di piombo ed ora accoglie l’ultima luce del tramonto ripenso a loro e scrivo queste note. Cosenza: Durante (Sappe) "al carcere di Rossano servirebbero altri 30 agenti" di Rossella Molinari ecodellojonio.it, 4 dicembre 2015 Fari puntati sulla Casa di Reclusione di Rossano. A ridestare l’interesse dei mass media e delle istituzioni l’episodio verificatosi il 13 novembre scorso quando, dopo la strage di Parigi, quattro detenuti accusati di terrorismo internazionale hanno esultato inneggiando alla "Francia libera dagli infedeli". È questo che ha fatto innalzare la soglia d’attenzione sull’istituto di contrada Ciminata Greco che, oltre ai cosiddetti "detenuti comuni" ospita anche una sezione speciale, separata dal resto della struttura, nella quale oggi sono ristretti ventuno soggetti arrestati e condannati per terrorismo internazionale di matrice islamica. Riconosciutogli lo status di "obiettivo sensibile", il carcere di Rossano è stato oggetto di una recente riunione del Comitato provinciale di sicurezza e ordine pubblico che ha disposto il potenziamento delle misure di sicurezza. L’episodio del 13 novembre ha fatto tornare alla luce quella che è ormai una cronica carenza di personale, e di mezzi, all’interno dell’istituto. Una problematica da anni segnalata dalle organizzazioni sindacali, i cui appelli finora erano spesso caduti nel vuoto. Oggi, alla luce dei nuovi sviluppi, qualcosa sembra muoversi. Ma ci si chiede: era necessario questo per richiamare l’attenzione mediatica e istituzionale su un penitenziario che, proprio per le sue caratteristiche (non dimentichiamo che è anche prevista l’apertura di un’ulteriore sezione per le ex Brigate Rosse) meritava già da tempo una considerazione diversa? Ne parliamo con Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe (Sindacato autonomo Polizia Penitenziaria) e protagonista, insieme ad altre sigle, di numerose battaglie a tutela della struttura e del personale che quotidianamente vi opera. La casa di reclusione di Rossano torna sotto i riflettori e, alla luce di quanto accaduto dopo la strage di Parigi, è ritenuta "obiettivo sensibile". Ritiene che, in qualche misura, lo fosse anche prima? Quello di Rossano è un istituto nato bene e sviluppatosi male. Nasce infatti come casa di reclusione, per ospitare detenuti definitivi, e pian piano diventa casa circondariale, con detenuti in attesa di giudizio. All’inizio c’erano tante attività lavorative, tipiche di una casa di reclusione, ma nel tempo molte di queste sono state chiuse. Un istituto che ospita detenuti classificati come appartenenti all’alta sicurezza è sempre un obiettivo sensibile. Lo era prima e lo è oggi. L’episodio legato alla strage di Parigi ha solo risvegliato le coscienze di chi già da tempo avrebbe dovuto provvedere a garantire uomini e mezzi adeguati. Oggi è l’unico penitenziario in Italia ad ospitare i detenuti arrestati e condannati per terrorismo internazionale. Perché questa scelta? In Italia, alcuni anni fa, sulla base di accordi internazionali, furono trasferiti circa 5o detenuti arrestati per fatti di terrorismo. Si trattava di detenuti che avevano pendenze giudiziarie o condanne in Italia. Furono destinati in tre regioni: Sardegna, Campania e Calabria. Rossano era ed è una struttura sicuramente affidabile, con personale preparato, tra l’altro gli agenti furono inviati anche a fare un corso di formazione specifico. Nel tempo molti di questi detenuti sono stati scarcerati, altri ne sono arrivati perché successivamente arrestati in Italia, attualmente sono tutti reclusi a Rossano perché essendo diminuiti non aveva più senso tenere aperte tre sezioni in tre strutture diverse. Quanti sono attualmente i detenuti ristretti nella sezione AS2, di che nazionalità sono e in che contesti sono stati arrestati? Come vivono all’interno della sezione? Si tratta per la maggior parte di detenuti cosiddetti islamici, quindi di fede islamica e osservanti dei precetti religiosi, per cui rispettano il mese del Ramadan, le ore di preghiera e non mangiano alcuni cibi, come la carne di maiale. C’è una stanza adibita alla preghiera, dove appunto si riuniscono per pregare. L’Italia è un Paese che anche in carcere garantisce tutti i diritti previsti dalla Costituzione e dalle altre leggi. Quanti agenti sono presenti quotidianamente in questa sezione? Come dicevo prima noi abbiamo personale specializzato, che però ritengo in generale insufficiente. Nel momento in cui c’è stata l’emergenza successiva alla strage di Parigi e si è reso necessario rafforzare la sicurezza non avevamo gli uomini a sufficienza ed i mezzi adeguati per fare anche la vigilanza esterna. Comunque, nonostante le carenze, i vertici dell’istituto ed il personale si sono attivati per fare il possibile. Quanti invece ne servirebbero? A Rossano servirebbero almeno altre 30 unità tra agenti e ispettori. Ora, anche dopo la riunione del Comitato provinciale per la sicurezza e l’ordine pubblico, è stato potenziato il servizio di vigilanza. In che modo? Oggi la sorveglianza esterna è garantita da Carabinieri, Polizia di Stato, Guardia di Finanza e Polizia Penitenziaria. Si tratta di una vigilanza su quattro turni, nel corso dei quali le quattro Forze di polizia si alternano. È da anni che le organizzazioni sindacali lanciano l’allarme sulla carenza di organico all’interno della Casa di Reclusione di Rossano. È cambiato qualcosa? Dopo quest’ultima denuncia che abbiamo fatto qualcosa si è mosso sia a livello locale, sia a livello nazionale. La collaborazione nella vigilanza esterna è un grosso aiuto, anche se so che i colleghi delle altre Forze di polizia hanno anche loro molte carenze di uomini e di mezzi. In più l’Amministrazione centrale ha accolto la nostra richiesta di inviare più agenti a Rossano. Ne dovrebbero arrivare 15, non riteniamo siano sufficienti, ma è un primo importante segnale di attenzione. Oltre alla sezione AS2, quanti detenuti, e di che tipologia, ospita complessivamente l’istituto penitenziario? Attualmente l’istituto di Rossano ospita poco più di 200 detenuti, di questi 147, compreso i detenuti islamici classificati AS2, appartengono al circuito alta sicurezza. Gli altri sono detenuti comuni, in carcere per reati vari. Considerata la presenza di tanti detenuti sottoposti al regime di alta sicurezza sarebbe opportuno che l’istituto di Rossano venisse classificato di secondo livello. Oggi è classificato di terzo livello, in virtù di scelte fatte quando era una casa di reclusione. Attualmente gli istituti in Italia sono classificati in tre livelli, in relazione alla loro complessità A breve è prevista l’apertura di un’ulteriore sezione destinata alle ex Br. Da dove provengono questi detenuti e come mai si è scelto di trasferirli proprio a Rossano? Questa è una scelta che riteniamo assolutamente sbagliata, perché a Rossano non ci sono gli spazi necessari e il personale non è sufficiente. È una scelta che a nostro avviso non andrebbe fatta. Si tratta di detenuti che provengono da un altro istituto della Calabria. In passato vi sono state denunce, anche da parte di parlamentari, su presunti casi di maltrattamenti all’interno del penitenziario. Come si sono concluse quelle vicende? Mi sembra che si siano concluse senza che nessuno sia realmente riuscito a dimostrare che ci siano stati davvero maltrattamenti, per il semplice fatto che non ci sono stati. Se si riferisce all’ultimo episodio denunciato da un Parlamentare, è evidente che se si conoscesse a fondo come funziona il carcere, probabilmente si eviterebbe anche di fare tanto rumore per nulla. Se si mette un detenuto in isolamento, senza utensili e suppellettili vari, magari si tolgono i lacci delle scarpe ed altre iniziative simili, perché è a rischio suicidio, si capisce che tutto questo si fa per garantire la sua incolumità, non per maltrattarlo. Vi sono problematiche analoghe a quelle della Casa di Reclusione di Rossano anche negli altri istituti penitenziari della provincia di Cosenza? Noi abbiamo un problema generale che è quello della mancanza di risorse, soprattutto economiche. Ciò determina tutte le altre carenze di uomini e di mezzi. Questo è un problema comune a tanti istituti. Bisogna investire di più per la sicurezza. Adesso Renzi ha annunciato uno stanziamento di 1 miliardo di euro per la sicurezza, sicuramente è un segno di attenzione, ma gli investimenti per la sicurezza non devono arrivare solo quando ci sono delle emergenze. La sicurezza è un bene nazionale, deve essere un valore condiviso da tutti i cittadini e da tutte le forze politiche, purtroppo io constato che nel nostro Paese non ci sono valori fondamentali condivisi da tutti, come invece avviene in altre Nazioni. La sicurezza è uno di questi. Cagliari: "carcere Uta isolato", è polemica cagliaripad.it, 4 dicembre 2015 L’Arst non prevede linee dirette col capoluogo, i collegamenti con Cagliari sono assicurati solo dal Ctm che, tuttavia, offre un numero di corse limitato e difficilmente conciliabile con le esigenze dei detenuti, dei familiari e del personale". "Il problema dei trasporti aggrava la già difficile situazione del carcere di Uta", lo denuncia il consigliere regionale dei Rossomori, Paolo Zedda, che ha presentato un’interpellanza alla Giunta che chiede un progetto di lungo periodo per una rete di collegamenti razionali con il Carcere di Uta. "La recente relazione del segretario generale dell’Uilpa Eugenio Sarno, ed i colloqui con gli assistenti dell’Auser Cagliari, mettono in rilievo una serie di criticità intorno alle condizioni di vita dei carcerati - osserva -. La struttura ospita 525 detenuti su una capienza complessiva di 558, si trova quindi in condizioni di forte affollamento. Nel corso del 2015 sono stati registrati 200 casi di autolesionismo, 43 tentati suicidi, un suicidio, 106 scioperi della fame, sette manifestazioni collettive di protesta, 63 aggressioni contro agenti di Polizia penitenziaria. Alle durissime condizioni di vita nell’interno del carcere quindi, si aggiunge la distanza dalla società in cui i detenuti dovrebbero essere reinseriti". Secondo Zedda, poi, "il carcere di Uta è isolato dal territorio circostante. L’Arst non prevede linee dirette col capoluogo, i collegamenti con Cagliari sono assicurati solo dal Ctm che, tuttavia, offre un numero di corse limitato (ogni quattro ore, nella fascia oraria meglio servita) e difficilmente conciliabile con le esigenze dei detenuti, dei familiari e del personale". Venezia: Nessuno Tocchi Caino presenta il Rapporto 2015 presso il Consiglio regionale di Maria Grazia Lucchiari Ristretti Orizzonti, 4 dicembre 2015 Si parlerà della pena di morte, di diritti umani, di Stato di diritto il prossimo 10 dicembre presso il Consiglio regionale del Veneto (ore 12,30) e a promuovere la discussione sarà l’associazione che insieme allo Stato Italiano ha condotto nel 2007 una battaglia storica all’Onu con l’approvazione della risoluzione che chiede ai 192 Stati di "adottare una moratoria delle esecuzioni in vista della loro abolizione definitiva". Stiamo parlando della presentazione del Rapporto 2015 organizzata da Nessuno tocchi Caino, attraverso il circolo locale di Padova, con il patrocinio del Presidente del Consiglio regionale del Veneto. La Regione Veneto è stata socio sostenitore di Nessuno tocchi Caino. L’evento si svolge in occasione della Giornata mondiale dei Diritti Umani e quest’anno il pensiero corre ai tragici fatti di Parigi, con le risposte che seguono in termini di stato di emergenza e lotta al terrorismo, con le richieste addirittura di pena di morte. Elisabetta Zamparutti, tesoriera di Nessuno tocchi Caino, che interverrà alla presentazione del Rapporto, allo Stato di emergenza propone di "fondare e rafforzare Stati di Diritto non solo in Medio-Oriente, ma anche nel mondo occidentale cosiddetto libero e democratico". Nell’incontro verranno presentati i fatti più importanti relativi alla pratica delle esecuzioni capitali nel 2014 e nei primi sei mesi del 2015; nel mondo sono tre i Paesi autoritari che guidano la classifica delle esecuzioni: Cina, Iran e Arabia Saudita. Mentre i primi Paesi-boia del 2015 (al 30 giugno) sono Cina, Iran e Pakistan. La presentazione sarà condotta dal Presidente del Consiglio regionale del Veneto, Roberto Ciambetti, cui seguirà l’intervento del Vice Presidente del Consiglio regionale, Bruno Pigozzo. L’evento si arricchisce degli interventi del magistrato Carlo Nordio, del cappellano del carcere Santa Maria Maggiore di Venezia, don Antonio Biancotto, della garante dei diritti della persona della Regione Veneto, Mirella Gallinaro. Concluderà Maria Grazia Lucchiari, presidente del Circolo Nessuno tocchi Caino di Padova. Durante l’evento saranno illustrati gli obiettivi della campagna di Nessuno tocchi Caino in vista del Congresso che si terrà nel carcere di Opera di Milano il 18, 19 dicembre dedicato prevalentemente al tema dell’ergastolo oltre che della prossima votazione, nel dicembre 2016, della nuova Risoluzione sulla Moratoria Universale delle esecuzioni da parte dell’Assemblea Generale dell’Onu. Il Premio "L’Abolizionista dell’Anno 2015" promosso da Nessuno tocchi Caino quale riconoscimento alla personalità che più di ogni altra si è impegnata sul fronte dell’abolizione, è conferito quest’anno a Papa Francesco. Papa Bergoglio, il cui Pontificato è stato inaugurato dall’abolizione dell’ergastolo e dall’introduzione del reato di tortura nell’ordinamento dello Stato del Vaticano, si è pronunciato in modo forte e chiaro non solo contro la pena di morte, ma anche contro la morte per pena e la pena fino alla morte. Novara: Amnesty parla di diritti umani con la polizia penitenziaria novarese novaratoday.it, 4 dicembre 2015 La scorsa settimana alcuni volontari dell’associazione hanno incontrato il personale del carcere di via Sforzesca per sensibilizzare sul delicato tema dei diritti umani dell’integrazione. Il 26 novembre, alcuni attivisti torinesi e novaresi di Amnesty International sono stati al carcere di Novara. Lo scopo era quello di parlare di diritti umani con gli agenti di polizia penitenziaria che operano all’interno della casa circondariale. Del gruppo faceva parte anche Berthin Nzonza, rifugiato proveniente dalla Repubblica del Congo, arrivato in Italia nel 2002, che ha raccontato la sua esperienza inquadrandola nel discorso dei diritti umani. Anche Christine, emigrata dagli Stati Uniti per ragioni di studio e di lavoro e in Italia da molti anni, ha portato la sua testimonianza di emigrante. Erano presenti circa quaranta poliziotti, alcune persone del Provveditorato regionale, la direttrice del carcere, il comandante di polizia, il magistrato di sorveglianza, personale dei percorsi scolastici in carcere. Grande la partecipazione del pubblico con domande e maggiori richieste di approfondimenti. "Abbiamo avuto molti ringraziamenti dalla direzione del carcere che auspica percorsi analoghi per i detenuti - raccontano i volontari - Valga per tutti il commiato del comandante della polizia che ci ha detto "avete smosso molte coscienze". Alessandria: mostra fotografica sulle attività dei volontari nei due Istituti carcerari dialessandria.it, 4 dicembre 2015 Oggi venerdì 4 dicembre l’inaugurazione della mostra fotografica e un incontro pubblico sulle attività dei volontari nei due Istituti carcerari alessandrini. "Guardami" è il risultato di un percorso fotografico realizzato con i detenuti della Casa di Reclusione di Alessandria dal fotografo Mattia Marinolli, in collaborazione con l’associazione Musica Libera, ICS onlus e Fondazione SociAL di Alessandria, Canon Italia e il patrocinio della Città di Alessandria. Guardami è un invito a soffermarsi di fronte ad uno sguardo e cercare di capire una persona. Guardami è una finestra aperta su uno spazio senza tempo, dove il concetto di aspettare è fine a se stesso e le mura non rinchiudono solo i detenuti, ma anche le persone all’esterno. Le rinchiudono "fuori", alimentando pregiudizi e preconcetti. La prigione diventa un "non luogo", una chimera che, a volte, fa capolino sulle testate giornalistiche associata alla parola "problema". Guardami è una mostra fotografica, una serie di ritratti dove negli occhi dei soggetti non c’è riflesso il quadrato di un soft-box, ma la luce filtrata dalle sbarre alle finestre. "Ma come ci vedono fuori? Pensano che siamo tutti dei pazzi, vero?". L’inaugurazione della mostra fotografica si terrà venerdì 4 Dicembre 2015 alle ore 17.00 presso la sede dell’associazione Cultura e Sviluppo, Piazza De Andrè n.76 - Alessandria. Interverranno Mauro Cattaneo, assessore alla Coesione sociale e alla Partecipazione del Comune di Alessandria, il prof. Davide Petrini, Garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale per il Comune di Alessandria, i rappresentanti delle associazioni che operano a favore delle persone detenute, i rappresentanti delle Istituzioni pubbliche garanti della gestione della pena e dell’efficacia dei percorsi di recupero e reinserimento sociale e il fotografo Mattia Marinolli. "Questo incontro - dichiara l’assessore Mauro Cattaneo - è il primo frutto dell’attività avviata con la nomina del professore Davide Petrini come Garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale per il Comune di Alessandria. Grazie al lavoro di rete da lui svolto possiamo promuovere questo confronto con i vari operatori del mondo carcerario, ma soprattutto con i numerosi alessandrini che da anni svolgono volontariato e formazione nei due carceri della città". "Un patrimonio di esperienze - secondo l’assessore comunale alla Coesione sociale e alla Partecipazione - che è giusto valorizzare anche per le opportunità che offre a chi non è direttamente coinvolto. Un percorso che l’Amministrazione Comunale vuole consolidare, promuovendo sempre maggiori connessioni con la nostra comunità locale". Milano: "Sogni di segni, segni di sogni", in mostra in Tribunale le opere dei detenuti Askanews, 4 dicembre 2015 Si chiama "Sogni di segni, segni di sogni" l’esposizione che si è aperta oggi al Palazzo di Giustizia di Milano per mettere in mostra le opere realizzate da circa una cinquantina di persone che stanno scontando una condanna nel carcere milanese di San Vittore e all’Icam, l’istituto di custodia attenuata per le madri detenute. Obiettivo del progetto, promosso dalla sezione milanese dell’Associazione Nazionale Magistrati, è quello di consentire ai detenuti di vivere la propria quotidianità carceraria realizzando la propria personalità attraverso la pittura e esprimere così il proprio stato d’animo nella difficile fase di espiazione della pena. La mostra di pittura resterà aperta fino al prossimo 17 dicembre nell’androne del terzo piano della cittadella giudiziaria milanese per poi essere trasferita alla Casa dei Diritti del Comune di Milano. "È interesse dello Stato - ha osservato il presidente della Corte d’Appello del capoluogo lombardo, Giovanni Canzio, durante la cerimonia di inaugurazione - realizzare questo percorso di legalità. Iniziative come queste sono la strada migliore per ridurre il rischio di recidiva". È grazie a progetti come questo, ha aggiunto la direttrice di San Vittore, Gloria Manzelli, che "le condizioni dei nostri detenuti sono notevolmente migliorate rispetto al passato. Ma occorre lavorare ancora molto". I visitatori potranno esprimere il loro voto sulle tre opere migliori che saranno insignite del premio del pubblico. Tutti i dipinti in mostra - più di un centinaio - potranno essere acquistati con un’offerta libera da presentare entro fine gennaio prossimo. I profitti verranno tutti destinati ad altre iniziative simili. "Non avevo mai preso una matita in mano e non sapevo dipingere", ha raccontato Salvatore, che sta scontando la sua condanna all’interno della casa circondariale milanese e che ha realizzato due dei dipinti esposti: "Ho imparato a farlo nell’ambito di questo progetto. Ora la pittura è l’unico passatempo che ho in carcere". Ungheria: richiedenti asilo in cella per settimane, Budapest imprigiona i rifugiati di Chiara Nardinocchi La Repubblica, 4 dicembre 2015 Dopo l’entrata in vigore delle nuove norme circa il riconoscimento di asilo politico e l’accesso regolare in territorio ungherese, sempre più richiedenti vengono detenuti, a volte anche per mesi, al confine. Una prassi che non rispetta le linee guida sull’accoglienza dettate dall’Unione Europea. L’Ungheria non è un paese per rifugiati, soprattutto dopo l’approvazione delle nuove leggi che innalzano barriere ancora più impervie per l’accoglienza delle domande d’asilo. Così migliaia di persone rimangono per settimane chiuse nei centri di detenzione. Alcuni aspettano che la loro domanda d’asilo riceva risposta, altri, entrati illegalmente nel paese, attendono di essere rispediti nella loro terra d’origine dalla quale sono fuggiti. Reclusi. Secondo le linee guida dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) la detenzione per i richiedenti asilo è una misura eccezionale. Inoltre secondo l’agenzia la reclusione dovrebbe essere esclusa come misura verso le persone più vulnerabili. Ma di quanto consigliato dall’Unhcr, le nuove direttive ungheresi tengono ben poco conto. Secondo la Ong Human Rights Watch (Hrw) che ha visitato cinque centri di detenzione e due strutture di accoglienza e intervistato 81 richiedenti asilo in Ungheria, la detenzione dei richiedenti asilo è una prassi consolidata nel paese, senza distinzione per sesso, età e condizioni fisiche. In galera donne in gravidanza e bambini non accompagnati. Tra le testimonianze raccolte da Hrw, ce ne sono alcune che affermano la reclusione anche per lunghi periodi di donne in gravidanza, minori non accompagnati e interi nuclei familiari con bambini. "Le persone in cerca di protezione - afferma Lydia Gall, ricercatrice Hrw per Balcani e Eurpa orientale - non dovrebbero essere detenute a meno che la reclusione sia giustificata da circostanze eccezionali. L’Ungheria dovrebbe rilasciare immediatamente le persone vulnerabili, comprese le famiglie con bambini, i minori non accompagnati in attesa di determinazione dell’età, le persone con disabilità e chi deve attendere per un lungo lasso di tempo la procedura d’espulsione". La fortezza ungherese. Dopo l’ondata di migranti e richiedenti asilo che ha interessato l’Europa orientale e meridionale, il governo di Budapest nel corso dell’estate 2015 ha modificato le norme statali nel campo dell’accoglienza. Le nuove leggi rendono quasi impossibile l’accesso alla protezione e puniscono con otto anni di reclusione coloro che entrano nel paese in modo illegale, ovvero non passando per le dogane. Ma oltre alle barriere burocratiche, l’Ungheria ha provveduto anche ad erigere mura lungo il confine che la dividono da Croazia e Serbia, quest’ultimo il paese dove la maggior parte dei richiedenti asilo irregolari sono respinti dal governo ungherese. Nessuna accoglienza. In questo clima si inserisce la visita dei delegati di Human Rights Watch in cinque strutture dedicate alla detenzione dei richiedenti asilo, molti dei quali siriani in attesa di esser rimpatriati nel loro paese in guerra con l’accusa di essere migranti irregolari. Inoltre, nonostante l’Ungheria sia tra i firmatari della Convenzione sui diritti del fanciullo, nove persone intervistate da Hrw hanno dichiarato di essere minorenni, ma di non esser stati sottoposte a nessun controllo per verificare la loro età. Le condizioni degli edifici è risultata abbastanza soddisfacente, ma in una struttura, quella di Niyarbator, i reclusi soffrono il freddo e vivono in condizioni igienico-sanitarie precarie. La carta europea. Nei confronti dell’intransigenza ungherese l’Europa e gli stati membri non hanno un atteggiamento unitario. Se da un lato la Commissione europea ha avviato due procedure d’effrazione contro Budapest rea di non aver attuato pienamente la normativa circa il sistema comune europeo di asilo, dall’altro gli stati membri continuano a ricacciare i richiedenti asilo verso l’Ungheria attraverso il sistema Dublino III che riconosce la responsabilità di avviare la procedura di richiesta d’asilo al primo paese europeo in cui il richiedente è arrivato. "L’Ungheria - conclude Gall - non rispetta gli obblighi internazionali circa l’accoglienza di migranti e richiedenti asilo. Bruxelles deve far pressioni su Budapest affinché si ponga fine alla detenzione e alla persecuzione delle persone che attraversano le sue frontiere in cerca di protezione". Usa, il terrorismo fatto in casa di Luca Celada Il Manifesto, 4 dicembre 2015 San Bernardino. Un arsenale nell’abitazione dei killer. Gli inquirenti non escludono alcuna pista. Obama: limitare le armi. Ventiquattr’ore dopo i fatti che hanno insanguinato San Bernardino, gli inquirenti non escludevano ancora alcuna pista nella ricerca di un movente. Il capo della polizia della città, Jarrod Burguan e il direttore regionale del Fbi David Dowdich, incaricati delle indagini, hanno delineato però un possibile movente "misto", per il bagno di sangue avvenuto nella città 100 km ad Est di Los Angeles. Nella mattinata di mercoledì gli autori della strage, identificati come Syed Rizwan Faoruk, 27 anni, figlio di immigrati pakistani, e sua moglie di 26 anni, Tashfeen Malik, hanno fatto irruzione, mascherati e armati, nei locali dell’Inland Regional Center, complesso polivalente di uffici pubblici e sede di un centro di servizi per disabili. Gli attentatori sono entrati in una sala conferenze in cui si stava preparando un pranzo prenatalizio per impiegati pubblici della contea e hanno aperto il fuoco mietendo vittime inermi. Faoruk, anche lui impiegato della contea, era stato alla festa coi colleghi ma secondo testimoni si era allontanato in seguito a un diverbio, tornando poco dopo con la moglie per compiere la strage. Acquisito questo dato, gli inquirenti hanno raggiunto l’abitazione dei Farouk nella vicina comunità di Redlands. Quando i due si sono dati alla fuga è cominciato l’inseguimento finito con una sparatoria in cui la polizia ha esploso 380 colpi. Le dirette tv hanno mostrato il veicolo crivellato di colpi in cui sono morti i fuggitivi. Secondo il capo della polizia nell’auto e nell’appartamento sono state rinvenute altre migliaia di proiettili e materiali esplosivi. Un ordigno esplosivo artigianale sarebbe stato lasciato dai due anche sul luogo della strage. Le indagini ora si focalizzano sui retroscena dell’attacco. In particolare le origini dei due attentatori. Malik avrebbe raggiunto Farouk dal Pakistan nel 2014 per sposarlo (i due erano genitori di una bambina di sei mesi che avrebbero affidato a parenti prima dell’attentato). Nel corso degli ultimi due anni la coppia avrebbe anche visitato l’Arabia Saudita, forse per compiere il pellegrinaggio dell’Haj. Se non una "cellula terrorista" potrebbe quindi essere plausibile secondo gli inquirenti l’ipotesi di una "radicalizzazione volontaria" della coppia, forse durante la permanenza nel regno salafita. "Il livello di armamento e di apparente pianificazione suggerirebbe una missione ben preparata" ha detto Dowdich, "ma non sappiamo se alla scelta dell’obbiettivo specifico abbiano contribuito altri fattori". Il riferimento è all’apparente litigio fra Farouk e i colleghi che suggerirebbe un’altra consueta "tipologia" di strage americana: quella della vendetta sul posto del lavoro. Elementi da cui si potrebbe insomma dedurre un gesto di rabbia "spontanea" da parte di qualcuno che aveva comunque intrapreso i preparativi per una azione violenta premeditata. Qualunque finisca per essere il movente accertato, rimane il dato della terrificante potenza di fuoco di cui disponevano ancora una volta gli assassini, non solo le pistole 9mm regolarmente acquistate come può fare qualunque cittadino entrando in un negozio (a San Bernardino, città di 200.000 abitanti, ce ne sono ben 11), ma anche fucili militari AR15 dotati di letali munizioni calibro 233 e numerosi caricatori automatici. Questi ultimi sono soggetti a qualche restrizione in California ma facilmente e legalmente reperibili in stati vicini. Bisogna quindi tornare a parlare dell’"anomalia americana", un paese in cui gli episodi di omicidio plurimo solo nell’anno corrente sono stati 355; le stragi - i mass shooting - come i due della scorsa settimana, sono una media di 18 all’anno. Un fenomeno su cui è tornato a battere Barack Obama sottolineando come le stragi siano una specialità di casa come in nessun altro luogo al mondo. "Ancora una volta dobbiamo registrare la prevalenza di questi fenomeni nel nostro paese", ha detto il presidente che più che arrabbiato come è stato di recente, è apparso sobrio, quasi rassegnato nel breve triste discorso fatto davanti al camino addobbato della Casa Bianca. "Molti americani si sentono impotenti di fronte a questo dilagare, ma tutti abbiamo un ruolo per rendere un po’ più difficile l’accesso a questo tipo di armi". In una settimana in cui l’America si è trovata a contare le vittime di due, forse tre tipologie di strage, il denominatore comune è rimasto unico. Il terrorismo in America non è tanto una minaccia che incombe dall’esterno ma una patologia endemica, che si annida in ogni casa e periferia dove i cittadini stoccano una potenza di fuoco che equivale a una superpotenza militare sommersa, a disposizione di ogni squilibrato turbato da un’ideologia, un’ossessione religiosa o un semplice dissidio col college o col vicino. "Mass shooting", il 31% avviene negli Stati Uniti di Marina Catucci Il Manifesto, 4 dicembre 2015 La strage infinita. Negli Usa 353 casi di mass shooting, più di uno al giorno. Un americano su 3 conosce qualcuno che è stato colpito da una pallottola, la media nazionale è 10,6 morti per arma da fuoco per 100mila residenti. In America, dall’inizio del 2015, sono avvenuti 353 casi di mass shooting, più di uno al giorno. Questo il dato fornito dal sito ShootingTraker?.com e rimbalzato in tutte le analisi del caso di San Bernardino. Ma analizzando non solo i casi di omicidio di massa, ma tutti i dati riguardanti i morti da arma da fuoco, i numeri aumentano. Secondo la Violence Archive (Gva), società no profit che si occupa di tenere questo macabro conto, solo in quest’anno gli episodi di violenza per arma da fuoco sono stati 48.297 (pari a circa un terzo dei soldati americani morti durante l’intero conflitto in Vietnam), e hanno causato 12.219 morti e 24.716 feriti; 1.125 volte un’arma è stata usata per legittima difesa, 1.748 volte per errore. Sono stati coinvolti 640 bambini tra gli 0 e gli 11 anni e 2.422 adolescenti tra i 12 e i 17 anni. Un americano su 3 conosce qualcuno che è stato colpito da una pallottola, la media nazionale è 10,6 morti per arma da fuoco per 100.000 residenti. Questi dati comprendono anche i mass shooting, gli omicidi di massa, ma non solo. Per mass shooting si intendono episodi di violenza in cui uno o più uomini armati sparano ad altre persone e in cui i morti e i feriti (compresi quelli che hanno sparato) sono almeno quattro. È difficile avere dati chiari che permettano di capire se negli Stati Uniti le stragi siano aumentate negli ultimi anni perché fino ad alcuni anni fa si utilizzava uno standard di valutazione diverso e si consideravano mass shooting solamente sparatorie in cui morivano almeno quattro persone, non contando i feriti, nemmeno se gravi. Guardando agli ultimi due anni e con fonti non ufficiali, derivate da notizie di giornali e tv, si può però osservare un aumento di sparatorie in cui la somma di morti e feriti è uguale o superiore a quattro: nel 2014 i mass shooting sono stati 336, nel 2013 363, ed è quindi molto probabile che il 2015 diventerà a breve il peggiore di quest’ultimo triennio. Tenendo conto che la popolazione americana è il 5% di quella mondiale vediamo che rappresenta quasi la metà dei possessori di armi da fuoco del pianeta. E negli Usa avvengono il 31% dei mass shooting globali. In linea generale si può dire anche che gli stati più densamente popolati tendono ad avere meno morti per arma da fuoco ma non ci si può spingere fino a dire che il fenomeno sia geograficamente circoscrivibile ad un’area americana. La Kaiser Family Foundation ha messo insieme i dati relativi alle diverse cause legate alle morti per armi da fuoco (aggressione, sparatorie della polizia, suicidio, morti accidentali) e emerso che i due stati con il più alto tasso di questo tipo di morti sono l’Alaska (19,8) e la Louisiana (19,3), seguono l’Alabama (16,2) e il Mississipi (16,1) mentre gli stati con il tasso più basso sono risultati il Massachusetts (3,1) e le Hawaii (2,6). Entrambi gli stati hanno alcune delle leggi più severe sul controllo delle armi nel paese. Secondo i dati dell’Fbi in questo ultimo fine settimana, durante il Black Friday, giorno di grandi sconti successivo al giorno del ringraziamento, si è registrato un picco nell’acquisto di armi, come non se ne vedeva da anni: si sono registrate 185.345 richieste di acquisto contro le 175.754 del 2014, un incremento del 5%. Bangladesh. Le bambine liberate di Adriano Sofri La Repubblica, 4 dicembre 2015 Nel Paese l’integralismo islamico fa paura e la piaga delle spose adolescenti è ancora viva. Il lavoro delle Ong contro l’orrore delle nozze infantili. Nel Paese l’integralismo islamico fa paura e la piaga delle spose adolescenti è ancora viva. Ma malattie e mortalità infantile si riducono. E la speranza sono tante giovani ragazze che chiedono solo formazione e indipendenza C’è un villaggio, Dhubati, nel reticolo formato dal Gange e il Brahmaputra e da una miriade di altri fiumi. Tutto è fatto come un giardino di acqua e argini di creta e mattoni. Per arrivarci, dalla capitale Dhaka, c’è una mezz’ora di aereo a Jessore (120 km, in treno sono dieci ore), poi due ore e mezza di auto a Khulna, un’altra ora d’auto poi un’ora e mezza di battello a Kailashkanj Ghat, poi un tratto in motocicletta. Il villaggio è radunato attorno a una vasca recintata da bambù, per la prova di nuoto dei suoi piccoli, dai quattro ai dieci anni. Ogni esercizio è accolto da un grande applauso. Galleggiamento, nuoto, apnea, e finalmente la messinscena essenziale: una bambina simula - drammaticamente bene - di affogare, e un bambino grida all’allarme e interviene, porgendole una pertica cui afferrarsi. Poi, a riva, c’è anche la prova di rianimazione. Quando l’Unicef inaugurò queste scuole di "Nuoto sicuro" qualcuno storse il naso, come per un lusso oltraggioso in tanta povertà. Il fatto è che mentre malattie e altre cause di mortalità infantile si riducono sensibilmente, il numero di bambini annegati in questi ritagli d’acqua resta spaventoso. Basta una distrazione delle madri -hanno una quantità di cose cui tener dietro- una scivolata, un gioco ingenuo. Allora la prima cosa è insegnare a nuotare, e la seconda cosa è insegnare a non buttarsi a soccorrere chi è in difficoltà: spesso muoiono in due, perché un fratellino si tuffa al salvataggio. Bisogna insegnare anche ai più piccoli di 4 anni, ma occorrono specialisti. Un australiano ha promesso di portarli. I bambini coinvolti sono 70 mila nel solo 13mo distretto, in 400 centri. (Forse, se Aylan e Galip e Sena e tutti i bambini morti sulle spiagge dell’Europa avessero saputo nuotare…). C’è il Club degli adolescenti, sono fieri di aver impedito tre matrimoni infantili in questo mese nel villaggio. "Bisogna stare attenti -dicono- perché certe famiglie, se gli fermi il matrimonio, lo vanno a fare in un altro villaggio". Gli adulti approvano, ammirati: "Vanno dappertutto, come le mosche". Il battello sul delta fa una deviazione per portarci al punto in cui finisce il territorio degli umani e comincia quello delle tigri. Più in là visitiamo un altro villaggio illustre per il suo centro di giochi infantili e di teatro tradizionale. C’è un’assemblea preliminare coi ragazzi. Chiedono dei matrimoni in Italia. Chiedo loro se sanno qualcosa di Parigi. No, dicono. Anche a Parigi non sanno di loro. La premessa è semplice e fulminante: il Bangladesh ha un territorio che è due terzi di quello italiano, e una popolazione di 162 milioni, tre volte quella italiana. La gran parte si trova appena sopra il livello del mare, troppo poco per proteggerla dalla furia ricorrente dei cicloni e delle alluvioni, o dalla furia imminente dell’innalzamento delle acque. Le acque sotterranee sono piene di arsenico in alcune aree, micidialmente saline in altre. Sono già milioni quelli cui manca la terra sotto i piedi. Alcuni arrivano da noi, a venderci la frutta di notte. In un edificio fatiscente della Old Dhaka, al quinto piano, c’è un appartamento in cui abitano più di cento bambine e adolescenti. Non avevano nessuno, stavano in strada. Qui occupano un vasto salone che di notte si riempie di materassini. Stanno, da sole o in cerchi, a disegnare o fare i compiti, o sbrigare faccende. Un infermiere mi mostra con orgoglio la vetrinetta con un mucchietto di farmaci povero povero, e un cartellone scritto a mano con le malattie diagnosticate questa settimana. Non proverò a descrivere la grazia di queste bambine e la libertà senza bigottismi cui è ispirato il loro spettacolo per gli ospiti: danza, poesie, canti -e poi un’assemblea. Le fotografie lo faranno meglio. Sono contente di stare qui. Sono libere di andarsene quando vogliano: succede a una o due su cento. Finiscono gli studi fino al diploma. Mi chiedo che cosa succeda quando sono grandi abbastanza per l’amore. Ma qui come nelle baracche degli slum le ragazze tengono più alla propria formazione e all’indipendenza. L’amore, e il matrimonio e la maternità, verranno dopo: anche un matrimonio combinato a quel punto non sarà una servitù. Fatema, 16 anni, ora fa parte del Comitato di Protezione, e va a cercare altre bambine in strada. Suo padre morì quando aveva 4 anni, sua madre non riusciva a mantenerla. Andò a servizio in una casa, la picchiavano, e anche in strada la picchiavano, fino a che è stata invitata qui. Fa la nona classe, accudisce le altre, si è fatta un conto in banca. Adesso ha 255 taka, l’equivalente di 3 euro. Va a trovare sua madre e l’aiuta. Vuole diventare stilista. L’Unicef, col ministero per le donne e i bambini, investe su adolescenti che mostrano una più forte volontà di farsi strada, oltre che un più feroce bisogno. Dà loro una somma -12 mila taka, 140 euro- a condizione che vadano a scuola e ci mandino fratelli e sorelle. Con quel capitale iniziale, comprano i mezzi per mantenersi. Per esempio, una vecchia macchina Singer, completa di fregi dorati pedale e ruota a maniglia. Shurma, 16 anni, studia e cuce stoffe. Sua madre va a servizio e suo padre guida il risciò. Ha due sorelle, una sposata a 15 anni, ora ne ha 20 e un bambino disabile, che è qui con Shurma e la zia. Il Comitato l’ha proposta per il sussidio. Poco più in là c’è una sua amica, ha 17 anni. Ci accoglie con la madre, che si sposò a 15 anni, e ha avuto 3 bambine e 2 maschi. Suo padre è malato, ha bisogno di 500 taka (6 euro) al mese solo di medicine. Lei guadagna 200 taka cucendo. Le due sorelle maggiori sono state sposate bambine, e hanno sofferto per i parti. Ora ho capito che non si deve, dice la madre. Madre e figlia sono orgogliose l’una dell’altra. Lo "stipend" procurato dall’Unicef è di 15 mila taka, 89 euro. 6500 costava la Singer, il resto è andato per i libri. 1000 taka per affitto e bollette, ma siamo fortunate, dicono, gli altri pagano di più. Nel quadrato della baracca abitano in 7. (Traduco i taka in euro, per condividere il turbamento di scoprire quanto costa sospingere un destino personale). Questo slum, Korail, ha 600 mila abitanti, solo Mumbay e San Paolo ne hanno di più grandi. Fra una baracca e l’altra lamiere teli e pali di bambù, ogni tanto una stanza vuota adibita ad aula. Non ci sono banchi né lavagne, stanno seduti per terra, disegnano o leggono o scrivono, assorti come il Matteo di Caravaggio, il loro angelo è una giovane maestra povera come loro. Lungo uno stradone polveroso di Dhaka c’è la baracca di Sharmin, studentessa dell’ottava e imprenditrice della carta stampata: impacchetta giornali vecchi. Ha 16 anni e un dipendente di 17 che batte su pezzi di ferro vecchio per ammucchiarli meglio. Lei e altri due raccolgono in giro la carta, la confezionano e la vendono a un magazzino più grande. Un kg di carta vale 8 taka, 10 centesimi di euro. Con la carta fa 2 mila taka al mese. Fra tutte le attività raggranella 10 mila taka, 124 euro, e mantiene tutta la famiglia. A volte basta una domanda scema per procurarsi una risposta memorabile. "Sei felice?", le chiedo. "Sì. Perché no?" Siamo arrivati il giorno in cui sono stati impiccati due dirigenti nazional-islamisti, condannati a morte per crimini di guerra. La guerra era quella di liberazione dal Pakistan, 1971. Il Bangladesh ha tratto da quella terribile guerra, che costò forse tre milioni di morti, un relativo secolarismo. Gli islamisti hanno proclamato un "hartal", nome un tempo gandhiano per lo sciopero generale, oggi per un appello ad assalti e incendi a volontà. C’è stata una sequela di assassinii -a colpi d’ascia, di preferenza- di intellettuali, editori, cooperanti o imprenditori stranieri, esponenti di minoranze religiose. L’Is li rivendica, forse ancora indebitamente; il governo nega che esista l’Is in Bangladesh, per esorcizzarne lo spettro. C’è uno spaesamento in viaggi come questo. Quanti abitanti ha Dhaka, 20 milioni, 30? Ogni luogo è affollato a Dhaka. Come e più che in India, il progresso prodotto dall’azione di governo, di organizzazioni vaste come l’Unicef o il Brac di sir Abed, la più importante Ong, o la Banca del Nobel Yunus, e dei loro partner di ogni dimensione, è così veloce da eccitare per contraccolpo la reazione di interessi e pregiudizi colpiti, i patriarcali e pseudoreligiosi in primo luogo. Le adolescenti che incontriamo, i quaderni in un angolo del tavolaccio che fa da letto e da tutto, e la macchina da cucire subito accanto, stanno sfuggendo di mano ai padroni di sempre. Succede, come nello spettacolo teatrale del villaggio di Dacope, che le adolescenti dicano drammaticamente ai loro padri e nonni: vi vogliamo bene, non pensiamo che siate colpevoli, vi hanno insegnato che andava bene così, ora le cose cambiano, sareste colpevoli se voleste continuare così dopo aver capito che non era giusto… I padri e i nonni applaudono compiaciuti. La ragazza adolescente che ha sventato il matrimonio forzato e ha salvato un bambino che stava per annegare è il loro vanto, e ora è la maestra di nuoto dei bambini di quattro anni. La combinazione fra vite singole e folla onnipresente e in perpetuo moto rende inconcepibile la nostra privatezza. Qui l’enormità del numero si suddivide in una trama infinita di comitati, elettivi o spontanei, incaricati dei problemi sociali, la protezione infantile e femminile in primo luogo. Il riserbo delle famiglie ne è senz’altro violato, ma quel riserbo copriva il matrimonio infantile e il suo corredo di violenze -malattie e morti di parto, sequestri e botte legate alla tradizione della dote, prepotenze di mariti e suocere- e l’arbitrato delle comunità diventa un argine essenziale. Negli organi della comunità cresce anzi una gara orgogliosa a realizzare i traguardi civili, che prevale sugli stessi pregiudizi dei loro componenti. L’Unicef italiana è fra i più importanti donatori in Bangladesh. Le campagne che l’Unicef conduce toccano il cuore della cosiddetta guerra di civiltà. Contro il matrimonio infantile, per l’educazione delle bambine, contro il lavoro infantile. Unicef è il marchio più amato nel mondo. I suoi attori e i suoi partner che ci incontrano "sul campo", Zahidul, Jamil, Aroti Rani, Konika, Rokibul, sono gente meravigliosa. Non si occupano di politica, e intervengono sui fondamenti della civiltà quotidiana, della sua libertà, consapevolezza e gentilezza. Reciprocamente, succede che la politica non si occupi di quei fondamenti, e li deleghi alla buona volontà. Ma guardiamo dentro il progetto jihadista. I suoi miliziani amano il potere e la conquista, sono ubriachi di sangue e di morte, ma il nocciolo della cosa sta nella restaurazione del matrimonio infantile -per le bambine di 9 anni, precisano- nell’esclusione delle bambine dall’educazione -come vogliono i talebani o Boko Haram e così avanti- nell’autorizzazione a stuprare e rendere schiave bambine e bambini "infedeli", nella riduzione dell’educazione dei bambini al libro sacro imparato a memoria e al mestiere della macelleria. Il jihadismo nelle sue varie versioni si batte sanguinariamente per rinstaurare gli orrori che bambine e bambini si battono per cancellare. La posta della cosiddetta guerra è là. Stati Uniti: respinto il piano del Pentagono su Guantánamo americaoggi.info, 4 dicembre 2015 Barack Obama non molla. "Lavorerò per la chiusura di Guantánamo fino al mio ultimo giorno da presidente", ha ribadito durante un’intervista alla tv francese I-Télé. Ma il suo ambizioso progetto ha subito un’altra battuta d’arresto dopo che lo stesso presidente Usa ha bocciato il piano del Pentagono per la chiusura del supercarcere. Un piano giudicato "troppo costoso" da presentare al Congresso. Per chiudere il supercarcere nella baia di Cuba e allestire negli Usa le adeguate strutture penitenziarie che possano accogliere i detenuti rimasti servirebbe oltre mezzo miliardo di dollari. Troppi per il presidente americano che - scrive il Wall Street Journal - ha chiesto una revisione della proposta avanzata dal segretario alla Difesa, Ash Carter. Secondo il Pentagono, ci vorranno fino a 600 milioni di dollari per chiudere la prigione, incluso l’investimento di 350 milioni per la costruzione di una struttura alternativa. Il costo annuale per gestire il centro di Guantánamo si aggira intorno ai 400 milioni di dollari; secondo i piani del Pentagono, una struttura negli Stati Uniti, una volta entrata in funzione, costerebbe poco meno di 300 milioni per la gestione. La cifra ha quindi spinto Obama a respingere il piano e a chiedere al Pentagono una revisione. La mossa ritarda ancora una volta i piani della Casa Bianca di sottoporre la proposta al Congresso dove il presidente si è già scontrato con l’opposizione bipartisan e dove sicuramente gli alti costi avrebbero creato una maggiore ostilità. Lo scoglio da superare riguarda il trasferimento di detenuti sul suolo americano. Gary Ross, uno dei portavoce del Pentagono, ha detto che l’amministrazione sta lavorando per finalizzare un piano che "chiuderebbe in maniera sicura e responsabile" Guantánamo. Al momento, sono 107 i detenuti rinchiusi nel supercarcere: di questi, 48 sono ritenuti ammissibili al trasferimento in altri Paesi, altri 59, considerati più a rischio, dovrebbero essere portati in una struttura americana, se e quando sarà costruita. Ed è proprio su questo punto che Obama avrebbe chiesto al Pentagono di ridurre i costi. Il ministero della Difesa sta quindi valutando alcune ipotesi. Tra queste, anche quella di eliminare il requisito che i detenuti debbano essere giudicati da commissioni militari per inserirli invece nel sistema giudiziario federale, secondo quanto riferisce un alto funzionario della Difesa. In questo modo, si eliminerebbe il costo per la costruzione di un impianto giudiziario militare nel nuovo carcere. Libia: Human Rights Watch denuncia torture in carceri di Tripoli e Misurata Ansa, 4 dicembre 2015 Human Rights Watch (Hrw) denuncia in un nuovo rapporto "detenzioni arbitrarie prolungate e casi di tortura nelle carceri gestite da Tripoli nell’ovest della Libia". Maltrattamenti che "per il loro carattere generalizzato e sistematico possono definirsi crimini contro l’umanità". Tra il 16 ed il 20 settembre Hrw si è recata in 4 penitenziari - Ain Zara e al-Baraka a Tripoli e al-Jawiyyah e al-Huda a Misurata - e ha intervistato 120 detenuti, 96 dei quali hanno affermato di essere in prigione senza un capo di accusa. "Cinque sono sotto processo, 19 sono stati condannati, tra cui 5 alla pena capitale. Tra loro in 79 affermano di avere subito dei trattamenti equivalenti alla tortura - malmenati con tubi di plastica, cavi elettrici, bastoni e a mani nude -, altri ancora affermano di essere stati appesi al soffitto per ore o di essere stati tenuti in celle di isolamento per diverso tempo". L’organizzazione ha chiesto alle "autorità che controllano l’ovest della Libia di porre fine a questa ingiustizia". Brasile: cannibalismo nelle carceri di Maria Cristina Fraddosio La Repubblica, 4 dicembre 2015 Orrore nelle carceri brasiliane. Il paese rischia di essere condannato dalla Commissione Interamericana dei Diritti Umani. Dopo il rapporto di Human Rights Watch sulla cessione delle chiavi delle celle ai reclusi, scoppia il caso cannibalismo. Procuratore avverte: "Si sospetta non sia l’unico". ìPreferirebbe morire, piuttosto che finire in una delle prigioni medievali del suo paese. Lo ha dichiarato il ministro della Giustizia brasiliano, José Eduardo Cardozo. Il ritratto che emerge dalle ultime relazioni pubblicate da enti istituzionali e Ong fa rabbrividire: un coacervo di microcriminalità, gang spietate, violenza e corruzione. Il tutto motivato dal sovraffollamento delle celle, dove vivono oltre 200.000 detenuti in più rispetto alla capienza prevista. Le immagini raccapriccianti che ritraggono uomini ammassati gli uni sugli altri, privi di servizi igienici e di acqua, e la notizia di un caso accertato di cannibalismo, che si teme non sia il solo, stanno mettendo seriamente a rischio il paese, che potrebbe ricevere la prima condanna dalla Commissione Interamericana dei Diritti Umani. Dove spadroneggiano i carcerati. "Prigionieri-sentinelle" li ha definiti Human Rights Watch (Hrw), all’interno del rapporto pubblicato il 19 ottobre. L’Ong ha documentato, infatti, la cessione da parte delle guardie carcerarie delle chiavi delle celle agli stessi reclusi. Nel carcere di Pernambuco, nel nordest del paese, comandano loro: quei capi-banda che con la violenza e l’intimidazione sono riusciti a ottenere un ruolo nella struttura e che esercitano il loro potere ai danni degli altri. Si servono di vere e proprie "milizie", addette allo spaccio, alla vendita di posti letto e alla resa dei conti con chi disapprova. Sono numerosi i casi di decapitazione tra reclusi. Dallo scorso anno ad oggi, se ne registrano molteplici in diverse carceri del paese. Così come sono stati denunciati casi di violenze sessuali. Nell’inferno di Urso Branco. Tra le strutture più a rischio vi è quella di Urso Branco, al confine con la Bolivia. Qui, ad ottobre, c’è stata una rivolta contro gli abusi della polizia e le condizioni di vita disumane. Il penitenziario, già al centro dell’attenzione mediatica perché luogo storico di massacri, è stato oggetto della denuncia che l’Ong Justiça Global ha sporto presso la Commissione Interamericana dei Diritti Umani (CIDH) dell’Organizzazione degli Stati Americani (OEA), che potrebbe portare alla prima condanna del paese carioca. All’interno del rapporto presentato, si segnala l’alto tasso di impunità: "Che si tratti di massacri, morti o torture provocate dagli agenti dello Stato, il grado di risoluzione di questi casi è estremamente basso", spiega Sandra Carvalho alla BBC. Cannibalismo e sovraffollamento. Ci sono voluti due anni per risolvere il caso della morte del detenuto Edson Carlos Mesquita da Silva, assassinato a dicembre del 2013. Il suo corpo è stato spezzettato in 59 parti, smaltite all’interno dei sacchetti dell’immondizia. Tra i resti mancava il fegato, che - secondo il testimone oculare ascoltato dal procuratore Gilberto Câmara França Júnior - è stato arrostito, diviso tra i reclusi e mangiato. In merito agli episodi di cannibalismo, lo stesso procuratore avverte: "Si sospetta non sia l’unico". Al momento, il problema principale che tutti riconoscono è il sovraffollamento. Il numero dei detenuti è cresciuto del 575%, nell’arco di 25 anni. Oggi ci sono 607.731 detenuti, al cospetto di una capienza massima di 377.000 persone. Una delle misure che il paese sta vagliando, per risolvere questo problema, è di lasciare in libertà gli imputati fino alla sentenza. Brasile: il presidente della Camera dei deputati autorizza l’impeachment contro Rousseff Nova, 4 dicembre 2015 In primo piano sulla stampa sudamericana e spagnola l’annuncio del presidente della Camera dei deputati brasiliana, Eduardo Cunha (Partito del movimento democratico - Pmdb), che ieri sera, in una conferenza stampa, ha informato che autorizzerà l’avvio di un procedimento di impeachment contro la presidente Dilma Rousseff. L’annuncio sarà pubblicato oggi sulla Gazzetta Ufficiale. Durante la conferenza, Cunha ha spiegato che "non si tratta di una decisione politica", bensì di "natura tecnica", giustificata dalle cosiddette "pedalate fiscali" attuate dal governo federale per "abbellire" i conti pubblici. Tuttavia, proprio mentre Cunha teneva l’annuncio, il parlamento approvava la misura fiscale che permetterà all’esecutivo di chiudere il 2015 in deficit senza incorrere nella responsabilità fiscale. Inoltre, sempre nella giornata di ieri, e prima dell’annuncio di Cunha, i tre deputati del Partito dei lavoratori (Pt, al governo) che siedono nel Comitato Etico avevano annunciato che voteranno contro il presidente della Camera, accusando di aver violato la legge e infranto il decoro parlamentare non dichiarando dei conti bancari detenuti in Svizzera. Nei giorni scorsi era circolata l’indiscrezione secondo cui Cunha si preparava a una ritorsione contro i parlamentari del Pt acconsentendo all’impeachment contro la presidente. Roussef ha reagito all’avvio della procedura di impeachment a suo carico con parole infuocate: la presidente ha affermato di aver accolto con "indignazione" la decisione del presidente della Camera dei deputati Cunha di accettare la richiesta di impeachment presentata contro di lei dall’opposizione. Con un palese riferimento ai guai giudiziari di Cunha, il capo dello Stato ha sottolineato di non essere titolare di conti bancari all’estero, e di non avere a suo carico accuse di atti illeciti o uso improprio di denaro pubblico. Roussef ha aggiunto di non aver mai praticato estorsione ai danni di persone o istituzioni per cercare di soddisfare i propri interessi personali. A suo avviso le motivazioni che hanno sostenuto la richiesta di impeachment sono "inconsistenti e infondate": "Sono indignata per la decisione del presidente della Camera di avviare un procedimento di impeachment contro un mandato che mi è stato democraticamente conferito dal popolo brasiliano - ha affermato Rousseff. I motivi della richiesta sono incoerenti e infondati. Il mio passato e il mio presente attestano la mia integrità e il mio impegno indiscutibile verso le leggi e lo Stato". Costa Rica: carceri a porte aperte per alleggerire il sovraffollamento agccommunication.eu, 4 dicembre 2015 Sale la tensione sociale in Costa Rica per il possibile inserimento in strutture di recupero aperte dei carcerati allo scopo di alleggerire il sovraffollamento carcerario. Seicento detenuti dovrebbero essere ospitati in strutture semi-aperte scatenando un acceso dibattito nel paese, con i media e giudici che temono una conseguente ondata di criminalità. Il governo insiste, però, che la decisione si rende necessaria per porre fine alle terribili condizioni nelle carceri che creano gravi violazioni dei diritti umani. Dei cittadini hanno presentato ricorso contro i trasferimenti e diversi giornali costaricensi hanno affermato che criminali pericolosi verranno lasciati liberi. Il ministro della Giustizia Cecilia Sanchez ha detto che i trasferimenti hanno lo scopo di porre fine ad un "grave problema di sovraffollamento. Le carceri hanno una capacità di 9.000 detenuti, attualmente ne detengono più di 14.000. Ciò ha portato a denunce contro di noi presso la Corte interamericana dei diritti umani. Ci sono stati 18 ordinanze, emesse da giudici nazionali, di chiusura di 11 dei nostri 13 penitenziari e ci sono decisioni della Corte Costituzionale che ci obbligano a rispettarle. Questo impedisce di realizzare quello che sta dietro l’obiettivo di una prigione: riabilitare una persona che ha commesso un crimine in modo che possa essere reinserita nella società ed essere una brava persona", riporta Asia One. Gli oppositori alle misure chiedono la costruzione di nuove strutture carcerarie ma Sanchez ha detto che "al ritmo attuale di 600 nuove entrate al mese, se costruiamo 100 prigioni in poco tempo avremo 100 carceri sovraffollate".