Giustizia: allarme sicurezza? Il rispetto della Costituzione vale più della ragione di Stato di Valerio Onida (Presidente della Scuola superiore della magistratura) Corriere della Sera, 3 dicembre 2015 "Timidezza dei magistrati nel contrastare il terrorismo internazionale"? È la critica o il dubbio avanzato da Angelo Panebianco (Corriere del 27 novembre). Naturalmente è ben possibile che in singoli casi vi siano state decisioni sbagliate di giudici che hanno assolto o scarcerato persone che invece avrebbero dovuto essere condannate o trattenute. Di questi casi sarebbe possibile discutere però solo analizzando le rispettive vicende alla luce dei fatti e della valutazione giuridica dei medesimi, per dire se si è trattato davvero di "infortuni", o se, come dice lo stesso Panebianco, "un’analisi più sistematica potrebbe mostrare un quadro diverso", e magari mostrare che si trattava di decisioni giuste. Non varrebbe, evidentemente, giudicare solo in base a fatti o a informazioni sopravvenute. Chi è stato assolto giustamente da un’accusa può, successivamente, incorrere in un altro reato, e nessuno potrebbe dire che avrebbe dovuto essere condannato già la prima volta, quando il reato non c’era. Chi è stato scarcerato (giustamente) perché non c’erano sufficienti indizi a suo carico potrebbe, in seguito, essere raggiunto da nuovi indizi o nuove prove che ne giustificano un nuovo arresto. Insomma, la giustizia di una decisione non si può misurare alla luce di ciò che è avvenuto dopo. Errori, certo, ci possono essere (e il sistema processuale appresta rimedi per rimediare agli errori dei primi giudici). Peraltro errori ce ne possono essere anche in senso opposto: condanne che non avrebbero dovuto essere pronunciate, arresti che non avrebbero dovuto essere compiuti o mantenuti. Le cronache non mancano di fornire materia anche in questo senso, e non per niente la Costituzione si preoccupa di chiedere che la legge provveda alla "riparazione degli errori giudiziari" (art. 24, quarto comma), e la legge prevede un indennizzo per chi abbia subìto una ingiusta detenzione. In ogni caso il giudice (e lo stesso pubblico ministero) non può agire e decidere sulla base delle sole attese (spesso emotivamente sollecitate) di una pubblica opinione, o della "politica" cui riconoscere un "primato", o addirittura, come dice Panebianco, operando "al guinzaglio dei partiti". In questo senso, non si può davvero auspicare che la magistratura pensi di dover agire sempre e comunque e ad ogni costo "nella stessa direzione di chi cerca di bloccare una minaccia mortale", indipendentemente da ciò che prevedono la Costituzione e le leggi. Certo, le leggi vanno interpretate e applicate, anche dai giudici, avendo riguardo alla realtà su cui esse incidono. Ma specie nella materia penale, non è questione di adottare, in sede giudiziaria, una "linea dura" o una "linea morbida": è sempre e solo questione di fare giustizia in relazione alle caratteristiche effettive del caso concreto, e di giudicare con equilibrio e attenzione, senza mai violare le garanzie fondamentali. L’opinione pubblica, o meglio settori di essa, aizzati anche da certe prese di posizione politiche, possono non di rado indulgere alla richiesta di una "giustizia sommaria", pur di vedere soddisfatte le proprie attese. Ma nello Stato costituzionale non c’è spazio per la giustizia sommaria; nessuna "ragion di Stato" può giustificare l’abbandono della legalità costituzionale. Valgono qui pienamente le parole che un grande giudice, presidente per lungo tempo della Corte suprema di uno Stato, - Israele - che da sempre convive con la tragica realtà della guerra e del terrorismo, scrisse in una sentenza del 2004: "Il nostro compito è difficile. Noi siamo membri della società israeliana. Come ogni altro israeliano, noi riconosciamo anche il bisogno di difendere il Paese e i suoi cittadini contro le ferite inflitte dal terrorismo. Ma noi siamo giudici. Quando sediamo in giudizio, noi siamo soggetti a giudizio. Agiamo in base alla nostra migliore coscienza e capacità di comprensione. Guardando alla lotta dello Stato contro il terrorismo che si leva contro di esso, siamo convinti che, alla fine del giorno, una lotta condotta in conformità alla legge ne rafforzerà la forza e lo spirito. Non c’è sicurezza senza legge. L’osservanza delle previsioni della legge è un aspetto della sicurezza nazionale". Di questi giudici abbiamo bisogno. Giustizia: l’Unione delle Camere Penali "adesione pressoché totale allo sciopero" Agi, 3 dicembre 2015 È un’adesione pressoché totale quella che l’Unione delle Camere Penali sta registrando in questi giorni di astensione dalle udienze dei penalisti. A riferirlo è il presidente dell’Ucpi, Beniamino Migliucci, al termine della manifestazione indetta oggi a Roma. "La percentuale di adesione si attesta al 90% - spiega il leader delle Camere penali - vengono celebrati solo quei processi che sono vicini alla prescrizione o che hanno imputati detenuti". Migliucci, dunque, torna ad illustrare le ragioni che hanno indotto i penalisti a proclamare lo sciopero, iniziato lunedì scorso e che proseguirà fino a venerdì: "Vogliamo porre una riflessione sui temi fondamentali quali prescrizione, impugnazioni, partecipazione a distanza, processo mediatico e violazioni sistematiche del diritto di difesa e della dignità delle persone. Oggi abbiamo stigmatizzato la riforma, approvata alla Camera, che prevede un "processo virtuale" a distanza per gli imputati, che così non hanno più il diritto di stare davanti al giudice e accanto al proprio avvocato, cosa che significa eludere il principio del giusto processo e smaterializzare l’imputato che assiste al suo processo solo dalla sua cella". Secondo il presidente dei penalisti, bisogna riflettere "anche nel punto in cui si immagina un processo senza fine, rendendo ragionevole la sua durata intaccando il sistema delle impugnazioni, mentre il 40% delle pronunce in primo grado viene riformato in appello". Inoltre, denuncia Migliucci, "vi è una situazione drammatica in alcuni uffici giudiziari del Paese per disorganizzazione e disfunzioni che non consentono di celebrare i processi, mentre un processo ragionevolmente breve è negli interessi di tutti, dall’imputato, alle parti offese, all’intera società". La manifestazione organizzata oggi a Roma, continua il presidente dell’Ucpi, è quindi "l’occasione giusta per rilanciare principi costituzionali spesso accantonati, quali la presunzione di innocenza, e il fatto che la punizione deve avvenire, ma non vent’anni dopo i fatti. Vogliamo sapere quanto la politica difenda il contraddittorio tra le parti e l’idea che la prova si debba formare nel dibattimento, davanti a un giudice terzo. Vi sono anche ritardi nella riforma del Csm". Una giornata, dunque, "non solo di protesta, ma anche di proposta - sottolinea il leader dei penalisti - c’è un’interlocuzione costante con la politica, ma l’interesse di un Paese democratico è la difesa di questi principi costituzionali e vanno eliminate alcune storture". Infine, Migliucci ricorda anche il tema dei braccialetti elettronici, già al centro di un dibattito organizzato dai penalisti, a cui ha preso parte anche l’Associazione Magistrati, nei giorni scorsi: "I braccialetti elettronici in Italia sono solo 2 mila - conclude il presidente delle Camere penali - e dunque si resta in carcere anche quando si potrebbe stare fuori. Vi è un’enormità di costi per questi braccialetti: il contratto con Telecom prevedeva 11 milioni l’anno per 10 anni e in questi primi anni sono stati utilizzati solo 14 braccialetti". Giustizia: Beniamino Migliucci (Ucpi) "più braccialetti elettronici, meno carcere" corrierecomunicazioni.it, 3 dicembre 2015 Beniamino Migliucci, presidente dell’Unione camere penali: "In Italia disponibili solo 2mila dispositivi, e questo costituisce un problema: spesso si rimane in cella mentre si potrebbe stare fuori con il controllo a distanza". Se in Italia fossero disponibili più braccialetti elettronici molti detenuti in possesso dei requisiti per utilizzarli potrebbero evitare il carcere per usufruire di questa possibilità. Lo ha detto Beniamino Migliucci, presidente dell’Unione delle Camere penali italiane, durante la manifestazione nazionale dei penalisti in occasione dell’astensione dalle udienze, tornando a chiedere l`applicazione della norma che prevede il controllo elettronico a distanza dei detenuti fuori dal carcere. "In Italia ci sono solo duemila braccialetti elettronici e questo costituisce un problema perché spesso si rimane in carcere mentre si potrebbe stare fuori", ha sottolineato, evidenziando "l’enormità della spesa per quanto riguarda i contratti fatti con Telecom: 11 milioni di euro l’anno per dieci anni, e nei primi anni venivano utilizzati 14 o 50 braccialetti". "Riteniamo - ha concluso Migliucci - che sia un tema da portare all’attenzione dell’opinione pubblica se davvero si pensa che il carcere debba essere l’estrema ratio". Da tempo ormai la richiesta di braccialetti elettronici per i detenuti da condannare agli arresti domiciliari ha superato la disponibilità dei dispositivi, e diversi tribunali si vedono respingere la richiesta. L’intesa tra Telecom e il ministero della Giustizia, prevede la fornitura contemporanea di un massimo di 2mila braccialetti, e oggi il problema è opposto rispetto a quello che si era manifestato dopo l’introduzione di questa possibilità: superata la diffidenza e i disguidi iniziali, con i numeri che nei primi sei mesi del 2013 parlavano di soli 26 braccialetti attivati, la nuova misura di custodia cautelare ha iniziato a farsi largo nei tribunali anche grazie al decreto svuota-carceri del 2013. La quantificazione dei 2mila braccialetti che Telecom Italia si è impegnata a fornire al ministero della Giustizia risale all’accordo siglato con l’allora ministro Angelino Alfano, dopo uno studio ad hoc commissionato sull’applicabilità della misura. Il dispositivo viene gestito dalla centrale operativa grazie a un’infrastruttura di telecomunicazioni a larga banda messa a disposizione da Telecom. Il sistema fornito dall’operatore provvede anche all’assistenza 24 ore su 24, 365 giorni all’anno (dal momento che potrebbero rendersi necessarie installazioni o controlli anche nei giorni festivi o di notte, a seconda delle necessità dell’autorità giudiziaria), e l’aggiornamento dei software agli standard più avanzati. Il braccialetto elettronico, che si applica alla caviglia, è composto anche da una centralina, che ha la forma di una radiosveglia, che va installata nell’abitazione in cui deve essere scontata la condanna. Un device che riceve il segnale dal braccialetto e lancia l’allarme per eventuali tentativi di manomissione e in caso di allontanamento del detenuto. Giustizia: il Dap risponde a Salvini "la radicalizzazione nelle carceri? è monitorata" Il Sole 24 Ore, 3 dicembre 2015 Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) "chiarisce che il fenomeno della radicalizzazione nelle carceri italiane è costantemente e attentamente monitorato dal Nucleo Investigativo Centrale della Polizia Penitenziaria che acquisisce quotidianamente le informazioni da tutte le sedi penitenziarie". Così il Dap replica a Matteo Salvini che aveva parlato delle carceri come di una "bomba ad orologeria". "L’analisi del fenomeno - prosegue il Dap in una comunicato - distingue i soggetti a rischio di radicalizzazione violenta e di proselitismo in tre livelli di pericolosità: monitorati, attenzionati e segnalati. Alla data di oggi, a livello nazionale, i detenuti sottoposti al controllo sono complessivamente 282, di cui 182 i monitorati, 73 gli attenzionati e 27 i segnalati. I dati comprendono anche le 71 segnalazioni pervenute a seguito dei fatti di Parigi. In Lombardia i detenuti sottoposti a controllo per il rischio di radicalizzazione sono complessivamente 33, di cui 23 monitorati, 7 attenzionati e 3 segnalati. A San Vittore 3 i monitorati e 1 attenzionato. Tutte le informazioni che giungono dalle sedi periferiche sono condivise nell’ambito del Comitato di Analisi Strategica Antiterrorismo istituito presso il Ministero dell’Interno". "In data odierna - rende noto ancora il Dap - si è tenuta, presso la sede del NIC, una riunione di coordinamento dei referenti della Polizia Penitenziaria che curano il monitoraggio negli istituti della Lombardia, nel corso della quale non sono stati segnalati particolari elementi di criticità, pur in presenza della ridotta disponibilità di organico di personale di Polizia Penitenziaria. Su questo punto si evidenzia la costante e particolare attenzione del Ministro della Giustizia alle problematiche che riguardano la Polizia Penitenziaria. In tal senso, su proposta del Dipartimento, il Ministro ha presentato un emendamento alla legge di stabilità per l’assunzione anticipata nel 2016, rispetto al 2017, di 800 unità del Corpo. In tale contesto generale il personale di Polizia Penitenziaria, nonostante i pesanti carichi di lavoro svolti nella complessità della quotidianità penitenziaria, anche su questa emergenza internazionale conferma lodevoli qualità e capacita professionali garantendo i necessari livelli di sicurezza". Giustizia: Consulta, non si sblocca lo stallo di Barbara Fiammeri Il Sole 24 Ore, 3 dicembre 2015 Nuovo accordo Pd-Fi-Ap su Barbera, Sisto e Nicotra, ma i numeri non ci sono. Ufficialmente l’accordo tra Pd, Fi e Ap sui tre candidati per la Consulta tiene. I numeri però dicono il contrario. Anche il 29° scrutinio si è infatti concluso con una fumata nera. Dopo l’uscita di scena di Giovanni Pitruzzella, ai parlamentari è arrivata l’indicazione di votare, oltre ad Augusto Barbera e Francesco Paolo Sisto, la docente di diritto costituzionale Ida Angela Nicotra, indicata da Ap, che è anche membro dell’Autorità anticorruzione guidata da Raffaele Cantone. Eppure nonostante le indicazioni (anche Scelta Civica aveva dato il via libera alla terna) nessuno dei tre candidati ieri ha raggiunto quorum richiesto di 571 preferenze. Anzi, i due principali candidati Barbera e Sisto sono scesi mentre il popolare Piepoli, su cui si sono concentrati i malumori dei centristi, ha raggiunto quota 100. Oggi è previsto un nuovo scrutinio. Il rischio adesso è che si possa rimettere tutto e tutti in discussione. "Per quanto riguarda il Pd Barbera è l’unico candidato, su questo non c’è alcun dubbio", avverte il capogruppo dem Ettore Rosato. Un dato che fa riflettere è anche il numero dei votanti. Ieri si sono presentati solo 819 parlamentari, contro gli 871 di martedì, ben 52 in meno. Un segnale che non può essere sottovalutato nonostante Rosato lo definisca "fisiologico". È il risultato dello scontro non solo tra partiti ma anche all’interno delle stesse forze politiche sul nome dei tre candidati per completare il plenum della Consulta. Le divisioni interne a Fi, con la messa in discussione del capogruppo Renato Brunetta, hanno ulteriormente appesantito il clima nei confronti dell’azzurro Francesco Paolo Sisto, già preso di mira dai grillini che avevano manifestato al Pd la disponibilità a trovare un’intesa, a condizione però che il nome "dell’avvocato di Berlusconi" venisse "bruciato". Una richiesta che i dem hanno respinto al mittente. "Voteremo Barbera, Sisto e Nicotra", ha confermato il capogruppo del Pd Ettore Rosato al termine dell’assemblea dei parlamentari Dem tenutasi poco prima dell’avvio del voto cominciato alle 19. Il Pd non si fida e preferisce mantenere l’accordo con Forza Italia. Anche Fi ha infatti confermato che avrebbe votato la terna. I parlamentari hanno ricevuto l’indicazione direttamente da Silvio Berlusconi con un sms. Un modo per rafforzare la candidatura di Sisto, costretto a fare i conti con le divisioni interne al partito esplose proprio alla vigilia del voto con un’assemblea dei deputati azzurri, tenutasi poche ore prima, in cui di fatto è stato ridimensionato il ruolo di Brunetta. A confermarlo del resto sono anche le parole del capogruppo del Pd che, prima di conoscere l’esito dello scrutinio, si è premurato di mettere le mani avanti: "So che gira voce che Sisto scenderà" nei voti complessivi, ha detto Rosato, "ma se accadrà non sarà certo per il Pd. Chi dice una cosa del genere dice una falsità". Ad aumentare le difficoltà di Sisto è stato anche l’affondo dei 5Stelle: "Se cadrà la candidatura di Francesco Paolo Sisto, il Movimento 5 stelle sarà disponibile a dialogare con le altre forze politiche per trovare una sintesi sui nomi dei tre giudici della Consulta", aveva detto in mattinata Danilo Toninelli. In sostanza i grillini davano la disponibilità a rivedere il "no" a Barbera in cambio della rottura del patto tra dem e Fi. Il Pd però non ci sta e la reazione grillina è rabbiosa: "È davvero impossibile far redimere il clan Renzi-Berlusconi, nonostante la più che ovvia richiesta del M5S rivolta ai piddini di tornare a dialogare con noi". Nel botta e risposta finisce anche la Lega. L’accusa dei grillini di "complottare sotto banco con il Pd", non è andata giù al Carroccio che, dopo aver confermato anche ieri la scheda bianca, ha attaccato il M5s: "Dopo aver gettato fango su di noi ora siedono alla tavola di Renzi. E così, dopo il patto del Nazareno nasce il patto di Giuda". Malumore però c’è anche tra i centristi. Ed è quello che più conta ai fini del risultato. La decisione a sorpresa di sostituire Pitruzzella con Ida Angela Nicotra non è stata presa bene anche da chi, come Scelta Civica, ha comunque confermato l’appoggio alla terna ufficiale. A dire apertamente "no" a Barbera, Sisto e Nicotra sono invece i Popolari che dopo l’uscita di Pitruzzella avevano chiesto l’apertura di un tavolo di confronto. "Abbiamo fatto una riunione di maggioranza per arrivare ad una candidatura condivisa ma questo nome spunta stasera: è un metodo inaccettabile", attacca il capogruppo Lorenzo Dellai anticipando che continueranno a votare il deputato Gaetano Piepoli su cui si sono concentrati i voti anche degli altri dissidenti centristi (martedì erano già arrivate 82 preferenze). Giustizia: un Parlamento che non sa decidere si delegittima di Paolo Pombeni Il Sole 24 Ore, 3 dicembre 2015 La vicenda dell’ultima tornata di designazione parlamentare di giudici della Corte Costituzionale è una vicenda triste che rimarrà nella storia repubblicana come uno dei momenti più bassi della storia delle Camere. Nessuno è tanto ingenuo da immaginare che un percorso parlamentare possa evitare di misurarsi con le tensioni politiche del momento e persino di farsi infiltrare da qualche calcolo di parte. Nessuno però può essere tanto cinico da pensare che vada bene così, perché ne va della legittimità del sistema costituzionale: su questo hanno assolutamente ragione i radicali. La attuale vicenda non ha affatto alla base la difesa di un valore degno di tutela come sarebbe quello di promuovere una formazione della Corte che sia basata sull’alta qualità professionale e umana dei suoi componenti. L’argomento per cui le candidature attuali rispecchierebbero scelte a favore o meno del sistema elettorale approvato di recente, sistema che verrà sottoposto allo scrutinio della Consulta è molto pericoloso: suppone che un giudice, e specialmente un giudice costituzionale, non formi le sue convinzioni finali nel corso di un dibattimento, e dunque tenendo in considerazione i ragionamenti che vi si svolgono, ma agisca sulla base dei suoi pregiudizi. Se questo fosse vero, praticamente non si riuscirebbe a formare nessuna corte, perché ovviamente non esistono personalità che non abbiano un proprio patrimonio personale di idee e convinzioni. Se così fosse, il giudizio di costituzionalità su una legge importante non sarebbe deciso dai giudici col loro procedimento, ma dai parlamentari che formerebbero a priori il collegio sulla base dei pregiudizi che possono attribuire a ciascun membro. Stiamo parlando in termini di banale buon senso che dovrebbe essere proprio di qualsiasi classe politica degna di questo nome. Quando invece, come nel caso presente, si fa della scelta dei giudici della Consulta un’occasione per prove di forza fra partiti e partitini, si tradisce profondamente lo spirito della nostra Carta che a suo tempo propose un quorum molto alto per quelle designazioni per evitare che maggioranze ristrette prefigurassero il funzionamento e l’esito dei pronunciamenti. Aggiungiamoci che la composizione della Corte, che non è limitata a membri eletti dal Parlamento, ma che si compone anche di membri designati dal Capo dello Stato e dalle Alte Magistrature, ha al suo interno una pluralità di origini proprio per evitare che si determinino composizioni omogenee a qualche interesse circoscritto. Ora mandare ai cittadini il messaggio plateale che invece la Corte è "cosa nostra" dei gruppi e delle fazioni parlamentari è deleterio: qualsiasi futura decisione della Consulta sarà letta come la vittoria di questa o quella fazione. Ovviamente nessuna Corte, e neppure la nostra, è infallibile e può sottrarsi a una corretta critica, ma deve essere salvato il presupposto che essa giudica arrivando a delle conclusioni sulla base di convinzioni e di ragionamenti che accettano di formarsi e di confrontarsi nel procedimento collegiale, non di scelte di parte pregresse. Cosa pensano di ottenere i Cinque Stelle volendo imporre neppure tanto un loro candidato (sin qui, entro i limiti di un accordo ampio, non ci sarebbe nulla di male vista la qualità del candidato), quanto un loro diritto assoluto di veto sulle candidature, anche queste di qualità, decise da altri partiti? Cosa pensa di ottenere la Lega bollando come "inciucio" un percorso di condivisione di proposte che è il percorso previsto dalla dinamica immaginata dalla nostra Carta? Che senso ha che piccoli partiti vogliano dar prova della loro capacità di avere una "quota" in queste nomine? Purtroppo la risposta è solo che si sta perdendo il senso di cosa significhi gestire un sistema costituzionale equilibrato. E non è davvero una bella conclusione. Se possibile poi, vorremmo ricordare ai vari che discettano sulla necessità di avere giudici che non abbiano rapporti con la politica, che la storia della Corte li contraddice. Tanto per citare i nomi di qualche grande membro di questa istituzione ricordiamo che Mortati, Crisafulli, Leopoldo Elia, Zagrebelski, De Siervo, Bonifacio (ricordiamo a caso) sono stati protagonisti di battaglie politiche e talora anche di impegni diretti nei partiti. Declassarli a pasdaran di cause decise a priori non è proprio accettabile. Se poi gli attuali parlamentari che sono così bravi in pubblico o nel segreto dell’urna a compromettere la credibilità della loro istituzione, che di necessità deve vivere su un equilibrio ben temperato di convivenza delle sue componenti, ragionassero su cosa significhi continuare in questo clima di guerriglia parlamentare, faremmo un bel passo avanti. Un Parlamento ingovernabile perché rende impossibile far finire la discussione e il confronto in un esito condiviso si condanna a consegnarsi al ricatto del ricorso al voto di fiducia come risolutore dei conflitti. Nel caso della scelta dei membri della Consulta non è possibile (ma a tirare troppo la corda potrebbe anche esserci il rischio di uno scioglimento delle Camere per incapacità di svolgere un compito costituzionalmente previsto: difficile, rischioso, ma non teoricamente impossibile). In molti altri casi lo è, e il governo ovviamente se ne giova, con la motivazione che è la sola arma che ha a disposizione. Teniamo conto che rischia di essere un’arma di distruzione di massa, perché o delegittima il Parlamento mostrando che alla fine i suoi membri sono sensibili solo al pericolo di non mantenere la poltrona, o incentiva le tendenze populiste al "muoia Sansone con tutti i Filistei". E nessuna delle due soluzioni serve a molto, né è quel che si dice un bel vedere. Giustizia: la paralisi sulla Consulta nella crisi del Parlamento di Alessandro Campi Il Messaggero, 3 dicembre 2015 La mancata elezione a Camere riunite dei tre membri mancanti della Consulta d’estrazione politica (anche ieri sera c’è stata una fumata nera: la trentesima nell’arco di un anno e mezzo) è una questione che sollecita, a questo punto, interrogativi e dubbi piuttosto seri sulla qualità della democrazia italiana, sul corretto funzionamento dei suoi meccanismi istituzionali e sui cambiamenti profondi che l’hanno investita. Non è, come potrebbe sembrare a prima vista, un semplice episodio di malcostume politico o la prova (l’ennesima) della inadeguatezza a svolgere il proprio ruolo da parte dei nostri parlamentari, molti dei quali avventizi della politica o poco più che affaristi. Che è poi quello che pensa - non senza ragioni - parte significativa (e crescente) dell’opinione pubblica nazionale. L’incapacità delle forze politiche a trovare un accordo, dopo così tanti mesi e tante inutili votazioni che hanno contribuito non poco a rallentare i lavori parlamentari, sembra indicare qualcosa di più e di diverso che una semplice mancanza di senso della responsabilità o una forma di scarso rispetto nei confronti degli equilibri costituzionali e del sistema di regole che sorreggono lo Stato repubblicano. C’è qualcosa di più e di diverso alla base di ciò che sta accadendo nella vita politica italiana ormai da diversi anni e che appunto spiega questa perdurante paralisi parlamentare. Si tratta di un deficit manifesto e perdurante di cultura istituzionale (che si traduce nell’incapacità a darsi un fondamento comune e regole condivise a partire da posizioni politiche divergenti, come in democrazia dovrebbe essere normale) che si è andato sommando alla crisi sempre più profonda delle strutture di rappresentanza (il che significa avere oggi un Parlamento che non è più un luogo di composizione degli interessi sociali organizzati, ma un’arena anarchica dove spesso si opera in modo poco trasparente e sulla base di interessi extra-politici). In questa impasse qualcuno ha in realtà voluto vedere come un disegno perverso e perseguito con maligna determinazione. L’insinuazione del costituzionalista Michele Ainis (espressa ieri sulle colonne del Corriere della Sera) è che ci sia una frazione del nostro ceto politico, a ben vedere tutt’altro che sprovveduto o allo sbando, intenzionata a depotenziare ovvero a delegittimare la Corte Costituzionale. Quest’ultima viene infatti accusata, nemmeno troppo sotto voce, d’essere diventata ormai un vero e proprio intralcio con le sue sentenze sempre più sgradite sia alle forze politiche di governo che a quelle d’opposizione. Non nominare scientemente i tre giudici mancanti di competenza diretta della politica, sarebbe per quest’ultima un modo dunque per azzoppare l’operato della Consulta, della cui azione di "garante" e interprete in ultima istanza del dettato costituzionale alcuni farebbero volentieri ameno. Da qui la provocatoria proposta di Ainis, per evitare che questo progetto politicamente criminogeno si compia, di nominare i tre membri mancanti ricorrendo al meccanismo del sorteggio. C’è indubbiamente del vero in questa ricostruzione. Tutto ciò che suona come potere neutrale e arbitrale, o per meglio dire come potere di controllo e verifica, risulta in effetti fastidioso per una classe politica che sembra inclinare sempre più alla discrezionalità e che, in certe sue espressioni, tende a considerare persino il voto popolare alla stregua di un fastidioso rituale. L’esperienza prolungata dei governi tecnici, sottratti per definizione alla volontà degli elettori, ha purtroppo gettato un cattivo seme nella democrazia italiana. Ma nel caso di quest’ultima ciò che sembra emergere come reale problema è, come accennato, la profonda trasformazione che nel corso degli anni ha investito le sue istituzioni elettivo-rappresentative, a partire dal Parlamento nazionale. Quest’ultimo - da quando i partiti politici si sono trasformati in sigle elettorali al servizio esclusivo di questo o quel leader, senza più radicamento territoriale - ha smesso di essere un luogo di mediazione e confronto. Non è più l’arena all’interno della quale le forze sociali cercavano, attraverso i loro rappresentanti politici, di far valere le proprie istanze secondo una logica inevitabilmente fondata sulla mediazione degli interessi. Manon basta. Il Parlamento, rispetto a quella che era una sua storica funzione, legifera sempre meno, essendo questo compito ormai delegato in gran parte all’organo esecutivo. Non è più nemmeno la struttura politica di controllo sull’operato del governo, che era un’altra delle sue storiche competenze. Da un lato sembra essere saltata al suo interno la chiara distinzione tra maggioranza e minoranza: oggi assistiamo spesso a pratiche parlamentari all’insegna del trasversalismo e di una sospetta convergenza tra le forze politiche. Dall’altro, chi opera all’opposizione lo fa secondo logiche distruttive, polemiche e demagogiche, ricorrendo ad un linguaggio e uno stile che poco hanno a che fare con la tradizione del parlamentarismo e che tendono a presentare qualunque compromesso o accordo alla stregua di un "inciucio" perpetrato a danno dei cittadini onesti. Con la crisi dei partiti il Parlamento non opera più da specchio della società nelle sue complesse articolazioni. E a causa del discredito popolare che grava sui suoi membri non assolve nemmeno quel ruolo simbolico di rappresentanza della nazione e del corpo politico che ha avuto nel passato. Che un organismo politico così ridotto non riesca ad eleggere nemmeno tre giudici della Consulta ci sembra, a questo punto, davvero il problema minore. Quello maggiore essendo rappresentato, dal punto di vista politico-costituzionale, dalla tensione sempre più forte che esiste tra l’assetto formale della nostra democrazia, che è ancora di tipo rappresentativo-parlamentare, ma ormai basata su strutture ed equilibri sempre più fragili (partiti inesistenti, organi di controllo delegittimati o privati del loro potere, dequalificazione del personale politico-parlamentare, ecc.) e la sua evoluzione de facto verso un modello di stampo personalistico-plebiscitario. Si tratta di capire, se questo è realmente il quadro, quanto questa tensione potrà durare prima che si arrivi all’inevitabile punto di rottura. Giustizia: dal Csm stretta sui magistrati in tv, per gli ospiti fissi servirà un’autorizzazione di Silvia Barocci Il Messaggero, 3 dicembre 2015 Passerà alla storia come la stretta del Csm sui magistrati che partecipano ai talk show o alle trasmissioni televisive su processi o casi giudiziari. Di fatto, le 32 pagine di circolare approvata ieri a Palazzo dei Marescialli aveva in origine un altro fine: snellire e meglio precisare le regole sugli incarichi extragiudiziari dei magistrati, vale a dire quelle attività che alle toghe sono sempre vietate (gli incarichi di giustizia sportiva, ad esempio), consentite senza bisogno di autorizzazione (collaborazioni con giornali, riviste, partecipazioni a seminari, etc.) e quelle che, come l’insegnamento, necessitano del via libera del Csm. A sollevare il caso dei magistrati in tv, chiedendone un divieto assoluto, era stato le scorse settimane il consigliere laico di centrodestra Pierantonio Zanettin, il quale aveva preso spunto "dalla partecipazione al salotto televisivo di Porta a Porta di un noto e stimato magistrato". Il riferimento è a Simonetta Matone, ora tornata ad indossare la toga, in procura generale a Roma, dopo aver ricoperto incarichi di vertice al ministero della Giustizia e al Dap. Ma altri casi (quasi) analoghi non mancano: basti pensare a Giancarlo De Cataldo, romanziere di successo e per un periodo "giudice" al programma tv Masterpiece su Raitre. Sta di fatto che la proposta di Zanettin, trasformatasi in un emendamento alla circolare, ha acceso il dibattito. E dopo lunghe mediazioni - ben quattro - il testo definitivo prevede che, d’ora innanzi, il Csm debba autorizzare i magistrati che partecipino, anche a titolo gratuito, in maniera "programmata, continuativa e non occasionale a trasmissioni televisive, radiofoniche ovvero diffuse per vi telematica o informatica (...) nelle quali vengono trattate specifiche vicende giudiziarie ancora non definite nelle sedi competenti". Se retribuita, anche la partecipazione sporadica dovrà essere autorizzata. Appare difficile che i tempi televisivi possano coincidere con quelli della trafila burocratica di un’autorizzazione del Csm. Tant’è. In ogni caso, pur non avendo ottenuto l’auspicato divieto totale, Zanettin non nasconde la propria soddisfazione perché per la prima volta si è affrontato il tema del "processo mediatico". Magistrati in tv a parte, la circolare fissa importanti paletti per assicurare al magistrato il diritto e la libertà di espressione e allo stesso tempo la non interferenza con l’attività giudiziaria. L’impegno annuale di ogni toga nelle attività extra lavoro non potrà superare le 80 ore (salvo casi eccezionali) e i compensi non potranno andare oltre i 3.500 euro lordi l’anno. "Non si tratta di un intervento estemporaneo o improvvisato. In questo modo - spiega il vicepresidente Giovanni Legnini - prosegue il percorso di autoriforma del Csm che fino ad oggi ha prodotto il testo unico sugli incarichi direttivi, quello sui fuori ruolo e, ora, la circolare sugli incarichi extragiudiziari". Giustizia: oltre "Libera", che cosa c’è dietro la grande disfatta dell’iconografia antimafia di Salvatore Merlo Il Foglio, 3 dicembre 2015 Lo scontro tra don Ciotti e La Torre e tutte le macerie in cui oggi si muovono i professionisti del moralismo chiodato. Don Luigi Ciotti è un ottimista, e l’ottimismo è di per se stesso un segno d’innocenza: chi non fa né pensa il male è portato a rifiutare di credere alla fatalità del male. Ed è forse per questo che il prete piemontese, il fondatore di Libera, la più estesa rete di associazioni che in Italia si occupa di gestire i beni confiscati alla mafia, dice "che non c’è nessun problema" nella sua creatura nata vent’anni fa dopo gli anni terribili delle stragi e coltivata in quel clima di rinascita, di primavera palermitana, in quella stagione d’impeti morali e di buone intenzioni che don Ciotti ha incarnato non meno di Gian Carlo Caselli, suo amico, il magistrato ed ex procuratore della Repubblica che questo prete impegnato e di sinistra andava a trovare nelle torri blindate del quartiere la Favorita, quando si cominciava a scrivere un capitolo tra i più confusi e inafferrabili della storia politica e giudiziaria d’Italia. Quando cioè da quelle stanze bunker di Palermo cominciarono a essere istruiti il processo a Giulio Andreotti, il processo "del secolo" o il processo alla "storia", e poi la grande inchiesta su Corrado Carnevale, il giudice "ammazza sentenze" assolto e reintegrato in magistratura, fino alla ricerca del terzo livello e dei mandanti occulti delle stragi. Così, di fronte ai contrasti che hanno portato all’allontanamento di Franco La Torre, suo collaboratore a Libera e figlio di Pio La Torre, il dirigente del Pci assassinato dalla mafia nel 1982, di fronte alle allusive ma ferme accuse del suo braccio destro di non essersi accorto e forse persino di essersi fidato (e dunque inevitabilmente affidato) al sistema dell’antimafia deviata scoperchiato dalla procura di Caltanissetta, don Ciotti dice che "è da molto tempo ormai che ci attaccano da diverse direzioni. Prima si conosceva il nemico, era la mafia", ha detto a Repubblica. "Ora gli attacchi arrivano da più parti. Non accettiamo tuttologi. Se si vogliono fare delle critiche si indichino fatti precisi". E insomma, con gli occhi fissi davanti a se, don Ciotti, guidato dalla sua purezza di visione come da un invisibile arcangelo, sembra quasi non vedere, non udire il trambusto indiavolato che lo circonda, quel pandemonio attraverso cui passa l’antimafia tutta, lui che pure, qualche mese fa, aveva usato parole dense: "L’antimafia non è più un fatto di coscienza", aveva detto, "ma una carta d’identità: se la eliminassimo, forse sbugiarderemmo chi ci ha costruito sopra una falsa reputazione". E d’altra parte, per la verità, La Torre ha indicato due circostanze precise in cui la dirigenza di Libera non sarebbe riuscita "ad intercettare" i guasti e il malaffare, cioè a evitare di venire a contatto con interessi poco limpidi che si muovevano attorno al sistema istituzionale con cui in Italia vengono gestiti i beni sequestrati alla mafia: a Palermo, nell’affaire del giudice Silvana Saguto (l’ex presidente delle Misure di prevenzione del tribunale di Palermo indagata per corruzione e abuso d’ufficio), e a Roma, nei rivoli torbidi della cosiddetta Mafia Capitale. La Torre ha poi avuto un aspro confronto con don Ciotti - o almeno così dice lui: "Mi ha scaricato con un sms" - e si è dunque dimesso, in violentissima polemica. Ma al di là delle ragioni e dei torti di ciascuno, questo conflitto deflagrato in pubblico, sui giornali e sui siti internet, in un contesto in cui gli ultimi fatti di cronaca giudiziaria descrivono un’antimafia deformata, mostrificata, "infangata dagli scandali", come ha detto il presidente del Senato ed ex procuratore antimafia Pietro Grasso, con arresti in flagranza di reato (l’ex presidente antimafia della Camera di commercio di Palermo Roberto Helg), con indagini su impegnatissimi esponenti della Confindustria siciliana (Antonello Montante), indagini che sfiorano imprenditori come Mimmo Costanzo, e poi ancora magistrati, avvocati, fino alle vicende non penalmente rilevanti ma politicamente disastrose di Rosario Crocetta (già "icona" dell’antimafia), insomma in questo contesto crepuscolare della stagione antimafiosa la vicenda di don Ciotti e Franco La Torre assume un suo speciale rilievo nell’atroce degrado che viene imputridendo come un tumore dentro la guerra alla mafia. Quando si parla di mafia, quando ci si accosta alle stragi, agli orrori, al sangue versato dall’eroismo di carabinieri, poliziotti, magistrati, sacerdoti, amministratori pubblici, s’accelera il metabolismo di ciascuno. Ma questo groviglio di eroismo e barbarie, di impegno civile e di sacrificio estremo, richiede una delicatezza che tuttavia non può trasformarsi in reticenza. "Il mondo dell’antimafia è ricoperto di macerie", ha detto Salvatore Lupo, lo storico, il professore, il più grande studioso di Cosa nostra: "Più si allontana il tempo drammatico dell’emergenza più si svuota l’idea di pulizia e s’imbarcano in questo fronte carrieristi, lestofanti, impostori. Guardiamo quante imprese hanno aderito al fronte antiracket, quanti politici hanno iniziato a gridare "la mafia fa schifo". È la grande impostura dell’antimafia". Un fenomeno che è stato motore della lotta - efficace - contro la criminalità organizzata, fatto di leggi che si sono affinate col tempo, composto di consenso sociale, di figure dignitose, un meccanismo che ha contribuito in maniera tangibile a intaccare il potere della mafia, ma che pure ha subito una degenerazione, non sempre, non dovunque, ma strisciante, pervasiva, inquinante - "c’è una mafia dell’antimafia", ha detto Claudio Martelli. Eppure un meccanismo insospettabile a prescindere, perché chiunque in questi anni si sia mai definito anti-mafioso - attenzione: antimafia erano anche Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo - è rimasto come protetto da un incontestabile alone di santità, nell’incarnazione più completa e sorprendente, forse preoccupante, del professionismo descritto da Sciascia. Ogni professione ha un costo, ha un albo d’onore, una storia, una geografia, una pianta organica, un sapere specialistico, una retorica e un’aneddotica. E allora quello che allarma, e tormenta, è l’idea che anche Libera, come altre associazioni, istituzioni private e pubbliche che si occupano della gestione dei patrimoni mafiosi, possa essersi in qualche modo mineralizzata sotto gli occhi dolci e velati di don Ciotti, trasformata cioè, con la sua rete di milleseicento associazioni, con i millequattrocento ettari di terreni confiscati alla mafia, le centoventisei persone impiegate, il fatturato di sei milioni di euro nella sola gestione dei beni del 2013, in un organizzazione di tipo politico, quasi una lobby, come suggeriscono i più accesi tra i detrattori, o comunque in un’organizzazione complessa, con i suoi interessi, i suoi eletti in Parlamento (Davide Mattiello, deputato del Pd, ex dirigente di Libera, relatore della riforma del Codice antimafia), con i suoi candidati nei diversi movimenti politici (due per il partito di Antonio Ingroia, uno per il partito di Nichi Vendola), e dunque le sue divergenze di linea interna, di orizzonte non soltanto manageriale - come sembra testimoniare il caso di Franco La Torre: "L’associazione ha dei meriti enormi", ha detto l’ex dirigente di Libera all’Huffington post. "Ma qualcosa non va nella catena di montaggio. La mia non è una critica alla persona di don Ciotti bensì al metodo democratico. Non è più un club, è una associazione nazionale dove tutti devono prendersi le proprie responsabilità". Due mesi fa l’Italia ha scoperto che il manager più pagato d’Europa non era Marchionne, né l’amministratore delegato di Deutsche Banke John Cryan, ma un tale Gaetano Cappello Seminara, sovrano degli amministratori giudiziari d’Italia, pupillo delle sezioni di misure di prevenzione dei tribunali, indagato a Caltanissetta assieme al giudice Saguto, in una storia di favoritismi sfacciati e di gestione familistica delle attività imprenditoriali sottoposte a sequestro: per duecento giorni di lavoro l’avvocato Seminara aveva chiesto diciotto milioni di euro alla Italcementi, azienda i cui vertici erano sospettati di aver favorito Cosa nostra. Sono i fatti a descrivere la deformazione dell’antimafia, trascinata in una palude, stretta in legami stabili con i misteri dell’Interno e dell’Istruzione che elargiscono considerevoli somme di denaro pubblico con una discrezionalità assai discutibile, tra bandiere al vento, agende colorate, frasi sgorgate da una grandezza e una commozione con il tempo divenute retoriche, vale a dire una via d’uscita illusoria da quel labirinto della verità che, ormai lo sappiamo, è fatto di mafia e di antimafia. "L’Antimafia dovrebbe guardare al proprio interno", ha detto Pietro Grasso qualche giorno fa, "e dovrebbe abbandonare il sensazionalismo, il protagonismo, la pretesa primazia di ogni attore, la corsa al finanziamento pubblico e privato", non dovrebbe cioè muoversi come un "potere", che per sua definizione scatena anche lotte per il potere. L’antimafia politica si è squassata in un macello di conflitti tra Leoluca Orlando, Beppe Lumia e Rosario Crocetta. L’antimafia Confindustriale è esplosa in Sicilia nel conflitto tra Marco Venturi e Antonello Montante (poi inquisito). Dopo ogni guerra, dopo ogni rivoluzione, così come dopo una pestilenza, si sa che i costumi decadono. Ed ecco il punto. Quel che don Ciotti non può permettersi è di diventare un’altra figura di quel genere letterario dominato dai professionisti dell’antimafia, ai quali probabilmente molto più della lotta alla mafia interessa la rendita di posizione che da questa vicenda politico-burocratica possono ricavare. Giustizia: caso Shalabayeva "mai viste pressioni così" di Sara Menafra Il Messaggero, 3 dicembre 2015 Agli atti della procura di Perugia le dichiarazioni del numero due dell’Ufficio Immigrazione: "Attivismo senza precedenti". L’identità della signora era nota sin dall’inizio alle forze dell’ordine che procedettero per l’espulsione immediata. Nei giorni dell’espulsione di Alma Shalabayeva, la moglie del dissidente kazako Ablyazov, negli uffici della questura di Roma si capiva che stava accadendo qualcosa di fuori dal comune. A raccontarlo a verbale, a Roma, è stato il vice capo dell’ufficio immigrazione Pierluigi Borgioni, indagato nella capitale per abuso d’ufficio e falso ideologico ma rimasto fuori dalle indagini perugine: "Si capiva che c’era interesse alla vicenda anche fuori dall’ufficio. Non mi era mai capitato di vedere tanto interesse attorno ad un clandestino". Un’agitazione data dalle telefonate che riceveva, dall’imponente scorta e dall’immediato attivarsi dell’ambasciata kazaka. Il verbale di Borgioni è arrivato nei giorni scorsi agli atti della procura di Perugia, che da tempo procede sulle presunte irregolarità nell’espulsione della donna e ha ipotizzato il sequestro di persona per la giudice di pace in servizio a Ponte Galeria Stefania Lavore, l’attuale capo dello Sco, Renato Cortese, e il questore di Rimini Maurizio Improta. Proprio ieri, Improta, ex numero uno dell’ufficio Immigrazione e adesso assistito dall’avvocato Ali Abukar, è stato sentito per cinque ore dai pm Antonella Duchini e Massimo Casucci. Audizione secretata che riprende il verbale fatto a Roma la scorsa primavera e finora inedito. Un documento ampio, in cui Improta rivela una circostanza nuova: la comunicazione sulla reale identità di Alma Shalabayeva sarebbe stata mandata dal suo ufficio a quello di ponte Galeria, e quindi alla Questura, prima dell’udienza di convalida del trattenimento al Cie. Per capire l’importanza di questo tassello, bisogna ricominciare dall’inizio della storia. Tutto comincia il 28 maggio 2013 quando, su sollecitazione delle autorità kazake arrivate fino ai piani alti del Viminale, viene organizzato un blitz per catturare Muktar Ablyazov, dissidente ed ex membro del governo kazako ma anche accusato di truffa e bancarotta. Al momento del blitz il banchiere è già fuggito ma la moglie viene fermata e spedita in Kazakistan nell’arco di quattro giorni. Nei mesi successivi e dopo l’esplosione dello scandalo, dovuta anche all’interessamento dell’ex ministro degli esteri Emma Bonino, gli uffici competenti hanno difeso in più sedi la correttezza di quell’espulsione, perché la donna si era fatta identificare con un passaporto diplomatico con generalità diverse, che secondo una perizia della Polaria risultava falso. Nel verbale fatto a Roma, però, Improta dice che le generalità della donna furono comunicate a tutti i referenti fin dalla mattina dell’udienza al Cie. Con le sue vere generalità, Alma Shalabayeva era titolare di un permesso di soggiorno in Lettonia e di protezione umanitaria in Gran Bretagna. "Il 30maggio,mi sono incontrato con un rappresentante dell’ambasciata kazaka, tale Hazzem - ha detto Improta a verbale a Roma - Questo mi racconta del marito ricercato, mi racconta che stavano seguendo la cattura di questo tizio, viene lì sapendo che la moglie era stata accompagnata nei nostri uffici perché lo apprende dalla Squadra mobile e quindi si sposta. Il rappresentante diplomatico mi disse "la donna non si chiama Alma Ayan ma si chiama Alma Shalabayeva". Dopo l’incontro sarebbe partito il fax. Ieri Intanto il Csm ha aperto un fascicolo per la stessa vicenda. Il via libera alla richiesta del consigliere laico di Forza Italia Pierantonio Zanettin, è arrivato dal Comitato di presidenza di Palazzo dei Marescialli. A occuparsi del caso sarà l’ottava Commissione, competente sui giudici di pace. Zanettin aveva sollecitato l’intervento del Csm anche per "valutare eventuali responsabilità disciplinari" del magistrato. Verifiche rigorose se l’apologia di reato corre sul web di Carlo Melzi d’Eril e Giulio Enea Vigevani Il Sole 24 Ore, 3 dicembre 2015 Poco più di due settimane dopo la strage di Parigi, la I sezione penale della Cassazione (si veda Il sole 24 Ore di ieri) deposita una sentenza (n. 47489 del 2015), con cui conferma gli arresti domiciliari a un indagato per apologia di terrorismo in rete. Un uomo aveva pubblicato su due siti un documento che invitava a supportare lo "stato islamico" e ad accorrere in suo aiuto. Più precisamente, stando a quanto sostenuto dal tribunale del riesame e avallato dalla Corte, la natura apologetica e il fine di proselitismo erano evidenti: il contenuto del testo, redatto in lingua italiana, aveva sia lo scopo sia la capacità di indurre il lettore ad aderire all’organizzazione terroristica, sola scelta corretta sotto il profilo religioso, esaltandone non singoli atti ma l’intera organizzazione. Il caso ha chiamato la Cassazione a confrontarsi con un tema antico - le parole proibite - calato in due fenomeni del presente e del futuro: lo sviluppo della rete e, temiamo, il terrorismo di matrice islamica. Punto fermo nella giurisprudenza, dalla storica sentenza della Corte costituzionale 65/1970, è che per punire l’apologia non è sufficiente un giudizio positivo su un delitto. È necessario invece che il messaggio abbia una effettiva idoneità a incitare il pubblico a commettere quel reato. La Cassazione, nonostante i mala tempora, non abdica a tale impostazione garantista, né sacrifica il rigore interpretativo a suggestioni emotive. E infatti, nel ritenere sussistente il fumus del reato, non si limita a verificare la presenza di un pensiero adesivo al crimine, ma cerca e trova indici che la convincono della idoneità a stimolare la commissione di delitti di terrorismo. Tali indici sono da un lato i contenuti del documento, molto accesi e violenti, dall’altro la circostanza che siano diffusi in internet. Se sul primo punto la motivazione pare convincente, sul secondo la Corte forse spende troppe poche parole. I giudici sembrano, infatti, accogliere il postulato secondo cui la diffusione in rete, di per sé, renda un messaggio violento idoneo a integrare la fattispecie di apologia. Se si è bene inteso, non risulterebbe esservi un accertamento delle dimensioni della propalazione, attraverso magari un banale conteggio degli accessi alla pagina web. L’idea che i nuovi media abbiano una capacità di diffusione illimitata e di persuasione estremamente forte è, tuttavia, più teorica che effettiva. La maggior parte dei contenuti inseriti in rete ha un numero di lettori irrisori e solo pochi oltrepassano la cerchia ristretta di amici e conoscenti. Senza una rigorosa verifica di questo secondo aspetto, non ci pare che si possa davvero parlare di apologia di reato per come il nostro ordinamento concepisce tale delitto. Diversamente, il rischio è quello di tornare alla punizione della difesa elogiativa di un crimine - un qualunque crimine, non solo quelli disumani di cui si tratta - per il solo fatto che la manifestazione del pensiero sia avvenuta in rete. È bene ricordare che nello Stato democratico i reati di apologia hanno avuto un destino declinante. Negli anni dell’emergenza, forse inevitabilmente, tendono a risorgere, come in parte accaduto con il terrorismo degli anni ‘70 e come pare accadere ora. Così, occorre pretendere, con la Corte costituzionale, che la sola apologia punibile sia "quella che per le sue modalità integri un comportamento concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti". E ciò sia nell’età di Internet sia nell’epoca del ciclostile. Badante ubriaca? È abbandono di incapace di Andrea A. Moramarco Il Sole 24 Ore, 3 dicembre 2015 Corte d’Appello di Trento - Sezione penale - Sentenza 19 giugno 2015 n. 221. La badante che assolve negligentemente i suoi compiti, mettendo così in pericolo l’incolumità della persona assistita, commette il reato di abbandono di persona incapace. Il reato è configurabile in presenza di qualsiasi comportamento contrastante con il dovere giuridico di cura da cui possa derivare uno stato di pericolo. Nel caso di specie, la badante, tornata a casa ubriaca, prima di coricarsi aveva acceso una stufa in maniera impropria surriscaldando e riempiendo di fumo la stanza da letto della signora anziana. La Corte d’appello ha escluso che il fatto potesse considerarsi di particolare tenuità. È reato congelare i cibi senza farli passare dall’abbattitore termico aduc.it, 3 dicembre 2015 Scatta la condanna penale per gli esercenti di bar, pizzerie e ristoranti, che surgelano i cibi - cotti o crudi, carne o pesce, non importa - mettendoli direttamente nel surgelatore senza averli fatti previamente "sostare" nell’abbattitore termico, dove la crescita dei batteri viene meglio contrastata per la maggiore accelerazione del ciclo del freddo. L’avvertimento viene dalla Cassazione che ha confermato la condanna all’ammenda - la cui entità non è nota - per la titolare di un bar di Torino colpevole di aver "detenuto sostanze alimentari in cattivo stato di conservazione e, in particolare, 50 chili di hamburger acquistati freschi e sottoposti irregolarmente a surgelazione in assenza di abbattitore termico, con l’uso della medesima attrezzatura destinata alla conservazione". In genere, l’abbattitore termico è utilizzato nei ristoranti di pesce, soprattutto quelli che servono carpacci crudi. Ad avviso della Suprema Corte, invece - che si è trovata in accordo con la Procura di Torino, sempre attenta alla salute di consumatori e lavoratori - tutti i locali che vendono al pubblico cibo surgelato devono usare l’abbattitore, indipendentemente dallo stato di conservazione nel quale vengono trovati gli alimenti durante i controlli, anche nel caso in cui non siano tossici o nocivi per la salute. La prassi di non utilizzare l’abbattitore è così diffusa che la proprietaria del bar in questione - come riporta il verdetto 40772 della Terza sezione penale della Cassazione - non ha nemmeno negato di "aver posto in essere il fatto oggetto dell’imputazione". Non pensava che fosse un reato. "La contravvenzione in esame - rileva la Suprema Corte - non richiede la produzione di un danno alla salute, poiché l’interesse protetto dalla norma (artt. 5 e 6 legge 283 del 1962) è quello del rispetto del cosiddetto ordine alimentare, volto ad assicurare al consumatore che la sostanza alimentare giunga al consumo con le garanzie igieniche imposte per la sua natura". L’uso dell’abbattitore evita la formazione dei macro cristalli all’interno del prodotto e surgela rispettando le qualità organolettiche del cibo. Per quanto riguarda la contestazione dell’errata modalità di conservazione, i supremi giudici ricordano agli esercenti che chi effettua i controlli non è tenuto a far eseguire "analisi di laboratorio o perizie", "ben potendo il giudice di merito considerare altri elementi di prova, come le testimonianze di soggetti addetti alla vigilanza, quando lo stato di cattiva conservazione sia palese e, pertanto, rilevabile da una semplice ispezione". In questo caso, il Tribunale di Torino - ricorda la Cassazione - aveva "verificato in concreto la mancanza di un piano di autocontrollo, dell’abbattitore di temperatura e del termometro esterno, cosicché gli alimenti sono stati ritenuti in cattivo stato di conservazione perché detenuti in violazione delle norme tecniche di buona conservazione". Abruzzo: Fausto Bertinotti "nessuno meglio di Rita Bernardini a Garante dei detenuti" Adnkronos, 3 dicembre 2015 Merito, esperienza e pratica non violenta, cosa chiedere di più? Appello di Fausto Bertinotti a Radio Radicale per la nomina di Rita Bernardini a garante dei detenuti in Abruzzo. "Assistiamo a un parallelo nel disastro della politica contemporanea: la mancata elezione dei membri della Corte costituzionale e la mancata elezione di Rita Bernardini a un ruolo così significativo della società civile", ha detto l’ex presidente della Camera. "Colpisce il tasso d’ipocrisia in cui sono avvolte le scelte o le mancate scelte - ha proseguito Bertinotti - la politica si ammanta molto di nuovi termini: uno di questi è il merito, l’altro è l’esperienza. Dove, rispetto al problema delle carceri, si può trovare un merito e un’esperienza superiori a quelli di Rita Bernardini?". Bertinotti ha commentato anche le obiezioni del M5S sulle condanne ricevute da Rita Bernardini per le azioni di disobbedienza civile. "La politica deve discernere: una condanna non vale l’altra. Una condanna per omicidio non vale una condanna per una manifestazione di lavoratori che si oppongono alla chiusura di una fabbrica. Non solo la pratica della nonviolenza lo testimonia in maniera storica, ma anche le lotte sociali tradizionali. Faccio un augurio ai carcerati e all’istituto carcerario, che coincide con l’augurio a Rita Bernardini, la quale meriterebbe davvero di essere messa all’opera", ha concluso Bertinotti. Napoli: rapporto di Save the Children "niente scuola, così cresce la paranza dei bambini" Il Mattino, 3 dicembre 2015 In Campania il 15 per cento dei ragazzi non arriva al diploma e il 28 per cento non sa leggere. Diciassette ragazzini innocenti uccisi in Campania nel corso delle faide di camorra: è una delle cifre utilizzate da Save me Children per raccontare l’Italia degli esclusi. Un’Italia che vive soprattutto al Sud e che brucia soprattutto i bambini. Il rapporto pubblicato a fine ottobre dalla Onlus e consegnato a metà novembre al presidente Mattarella, infila una dopo l’altra cifre a dir poco inquietanti. In Italia il 15 per cento dei ragazzi trai 18 e i 24 anni non ha concluso il ciclo di studi superiori. Una media alta (nonostante i progressi degli ultimi anni), che diventa altissima al Sud e si assesta in Campania al 19,76 per cento. E c’è di peggio: nella nostra regione il 35,8 per cento degli alunni non raggiunge livelli sufficienti di competenza in matematica e il 28,2 non sa leggere. Non è un caso visto che in Italia solo il 14% dei minori tra 0 e 2 anni riesce ad andare al nido o usufruire di servizi integrativi, con notevoli differenze tra le regioni. E ovviamente l’insuccesso scolastico è maggiore dove c’è meno scuola. "L’offerta di qualità si misura anche sul numero delle classi che garantiscono il tempo pieno nella scuola primaria e secondaria", è scritto nel rapporto e in Campania l’89 per cento delle scuole non offre il tempo pieno. I risultati? Nel 2014 sono stati 20 mila i minori presi in carico dai servizi sociali dall’area penale. Al Nord si tratta soprattutto di stranieri, al Sud di ragazzi provenienti dai ghetti di casa nostra. Save the Children dedica un intero capitolo alla guerra di casa nostra, quella che la "paranza dei bambini" combatte nel centro storico. "I giudici li hanno chiamati "la paranza dei bimbi" - è scritto nel rapporto - perché sono nati quasi tutti tra il 1995 e il 1999 e in qualche caso sono ancora minorenni. Avevano i calzoncini corti e muovevano i primi passi quando in quegli stessi vicoli migliaia di persone assistevano al funerale della quattordicenne Annalisa Durante - quasi una sorella maggiore - e applaudivano la bara bianca che lasciava la Chiesa di San Giorgio ai Mannesi per sfilare tra le vie di Forcella. Nella città listata a lutto, mentre le autorità promettevano cambiamenti duraturi, duecento detenuti camorristi venivano trasferiti dal carcere di Poggioreale a quello di Secondigliano e il giovane Salvatore Giuliano, unico indagato per la morte di Annalisa, veniva portato d’urgenza a Padova, il più lontano possibile da Napoli. "Cambierà, deve cambiare". E invece dieci anni dopo la storia si ripete". Una storia senza fine: "I nipotini di Salvatore, nel frattempo condannato in via definitiva per l’omicidio della ragazza, gli eredi di terza generazione del vecchio re di Forcella Luigi "Lovigino" Giuliano e di altre note casate locali riaprono l’eterna guerra con i Mazzarella e tornano a sparare per strada, tra la gente, a imporre il pizzo a tutti. Commercianti, titolari di pizzerie e di tipografie universitarie, parcheggiatori abusivi, pusher, prostitute, ambulanti. Soltanto il racket della bancarelle fruttava al clan 13 mila euro settimanali, a tariffe alternate su base emica: i venditori stranieri di borse e accessori di false griffe dovevano versare 100 euro, quelli napoletani solo 50. Ma perché tutto possa rimanere uguale, tutto nel frattempo è cambiato. Negli anni i clan sono stati decimati dalle faide e dagli arresti, molti vecchi leader e capi di mezza età sono al416bis, e i nuovi boss sono molto più giovani e spregiudicati di chi li ha preceduti". Storie di ieri, storie di oggi. Sempre le stesse storie. Milano: San Vittore, Beccaria, Bollate e Opera… inaugurato il "Consorzio Vialedeimille" mi-lorenteggio.com, 3 dicembre 2015 L’Acceleratore Impresa Ristretta del Comune di Milano diventa grande e si fa Consorzio. Cinque cooperative sociali che da anni lavorano all’interno delle carceri milanesi di San Vittore, Bollate, Opera e Beccaria, hanno infatti deciso di unire le forze per affrontare insieme una sfida imprenditoriale sostenibile, fuori delle mura carcerarie. A presentare oggi l’iniziativa del "Consorzio Vialedeimille", nato dall’incontro delle esperienze di Alice, Estia, Opera in Fiore, Zerografica e Bee4, sono stai Luisa Della Morte, presidente del Consorzio, Massimo Parisi, direttore del Carcere di Bollate, Gloria Manzelli, direttrice del Carcere di San Vittore, Michelina Capato, presidente della Cooperativa Estia e responsabile del progetto Tecno-Emergency. Assieme a loro l’assessore alle Politiche per il lavoro, Sviluppo economico, Università e Ricerca Cristina Tajani che ha dichiarato: "Oggi inauguriamo una realtà unica in Italia, un consorzio che nasce grazie all’esperienza pluriennale dell’Acceleratore di Impresa Ristretta, un progetto in cui l’Amministrazione comunale ha investito negli ultimi tre anni più di un milione e 700mila euro, oltre alla messa a disposizione dello spazio in viale dei Mille. Lo scopo del consorzio è quello di creare sinergie per favorire opportunità di lavoro per le cooperative carcerarie e incoraggiare l’incontro tra il tessuto territoriale e i detenuti, favorendo il loro percorso di reinserimento sociale proprio a partire dal lavoro". "Le Cooperative Sociali che lavorano in carcere - ha spiegato Luisa Della Morte, presidente del Consorzio - devono per prime abbattere i muri che a volte le confinano per uscire e condividere idee, risorse e strategie e trovare insieme nuove forme per comunicare l’importanza che il lavoro penitenziario assume nel reinserimento delle persone detenute e di conseguenza nella sicurezza sociale". Nello spazio di viale dei Mille 1 sarà anche allestito uno spazio di esposizione e vendita di beni e servizi realizzati dai detenuti. Qui si potranno acquistare prodotti di qualità ad alto valore sociale, realizzati da persone che imparano un mestiere e acquisiscono nuove competenze che gli permetteranno, una volta usciti dal carcere, di ricominciare la loro vita, uscendo dall’isolamento e da una condizione di disagio economico e sociale. L’evento di oggi è stato anche l’occasione per presentare un’importante novità: il progetto Strumenti d’impresa, nato dalla collaborazione tra la cooperativa sociale Estia, il Comune di Milano - che ha contribuito con un investimento di 200mila euro - e la casa di reclusione di Bollate, che si propone di generare occasioni di imprenditorialità, attraverso l’accesso a un centro servizi attrezzato, situato all’interno del carcere di Bollate, che offre l’utilizzo di macchinari e la messa a disposizione di professionalità specializzate alle imprese milanesi. Il progetto ha anche lo scopo di creare opportunità di integrazione per i detenuti e contribuire così al loro percorso di recupero sociale e lavorativo. All’interno di questo progetto s’inserisce anche la struttura mobile Tecno-Emergency, attiva da questa mattina. Si tratta di un furgone altamente attrezzato per attività di riparazione e manutenzione di dispositivi audio-video, luci, pc e supporti tecnici di vario genere, interamente gestito da un team di tecnici professionisti della cooperativa Estia. Sarà sufficiente chiamare il numero verde 800-808288 per richiedere assistenza domiciliare per guasti di tipo tecnico ed elettrico. Il furgone può effettuare riparazioni impiantistiche semplici in loco, mentre nel caso d’interventi più complessi i dispositivi saranno inviati al laboratorio situato all’interno del penitenziario di Bollate. I destinatari degli interventi sono i consigli di zona - che hanno già usufruito in via sperimentale di alcuni interventi - soggetti no profit, privati e aziende. Avellino: addio Opg, a San Nicola Baronia aperta la prima Rems della Campania Corriere del Mezzogiorno, 3 dicembre 2015 Antonio Acerra, capo del dipartimento di Igiene mentale di Avellino, spiega: "Promuove un nuovo approccio curativo-riabilitativo e si pone come modello". Archiviati gli Opg, Ospedali psichiatrici giudiziari che negli anni Settanta avevano sostituito i manicomi criminali, ecco le Rems ovvero le Residenze per la esecuzione delle misure di sicurezza. La prima in Campania è stata inaugurata il 2 dicembre a San Nicola Baronia, in provincia di Avellino. Acerra: nuovo approccio curativo-riabilitativo. Le Rems sono previste dalla legge 81 del 2014, andata in vigore il 31 marzo scorso. "Il nuovo strumento legislativo - spiega in una nota il professor Antonio Acerra, capo del dipartimento di Igiene mentale dell’Asl di Avellino - traccia un nuovo assetto assistenziale che prevede la messa in funzione di strutture alternative ai vecchi ospedali, ma soprattutto promuove un nuovo approccio curativo-riabilitativo nei confronti della persona affetta da disturbo mentale autore di reato, pericolosa socialmente. L’approccio è finalizzato al recupero sociale con tempi misurati sui bisogni assistenziali personalizzati". Ferrante: "La prima definitiva in Campania". "Quella aperta in Irpinia - dice il commissario dell’Asl Mario Vittorio Nicola Ferrante - è la prima definitiva in Campania e tra le prime in Italia. Le altre sono ed erano provvisorie cioè aperte temporaneamente per tamponare la chiusura degli Opg. La nostra, invece, è nata ad hoc. È una struttura intermedia di riabilitazione che prevede anche possibile dimissioni. C’è una sala teatro, una palestra attrezzata, sala ricreativa dove faremo corsi di musica e teatro". Indotto occupazionale. "La nuova struttura, a dispetto delle polemiche, ha anche creato un indotto occupazionale. Oltre al dottor Acerra e al suo collaboratore Amerigo Russo che sono già dirigenti dell’Asl, sono stati assunti tre psichiatri, venti infermieri, quindici operatori socio-sanitari, fisioterapisti e alcuni psicologi". E pare che anche la paura sia per il momento sedata: "I cittadini sono venuti all’inaugurazione e hanno potuto constatare personalmente che la struttura è sicura. L’abbiamo isolata con pannelli di ferro che abbiamo voluto colorati che circondano prato e zone verdi. Ci sono venti posti in tutto divisi in nove stanze doppie e due singole. I malati provengono da Caserta, Benevento e Avellino". Il programma di apertura prevede anche l’attivazione nell’Istituto penitenziario di Sant’ Angelo dei Lombardi di una "articolazione di tutela salute mentale in carcere di 10 posti letto". Protocolli con le forze dell’ordine. "Di fatto - continua Acerra - siamo di fronte a un primo potenziamento della rete nell’ambito del dipartimento di salute mentale, attraverso la creazione di nuovi percorsi con strutture di eccellenza e di qualità. Si tratta di un percorso assistenziale innovativo e per certi aspetti "rivoluzionario" con l’attivazione in contemporanea di protocolli di intesa con la magistratura e le Forze dell’ordine con l’impegno e il riferimento alle Società Scientifiche in particolare a quelle che si occupano di riabilitazione". Infine: "La Rems di San Nicola Baronia, per come è stata pensata, si pone come modello di assistenza sul piano nazionale nell’ambito della psichiatria forense, della riabilitazione psicosociale e della residenzialità". In Regione si parla di "un obiettivo strategico nazionale raggiunto a tutte le strutture coinvolte e le istituzioni locali". Ad inaugurala con le autorità locali il prefetto di Avellino Carlo Sessa e il presidente del consiglio regionale Rosetta D’Amelio. Le polemiche. L’inaugurazione era stata preceduta da polemiche. L’apertura della struttura, infatti, che si trova al centro del paese, aveva destato preoccupazione nei cittadini del tranquillo borgo irpino che temevano per la loro sicurezza e incolumità. In particolare aveva generato terrore l’ipotesi, poi sventata, del trasferimento nella villetta nuova di zecca del cosiddetto "cannibale di Torrione", ovvero Lino Renzi che nel 2013 uccise e divorò la madre. È stata tale la paura dei cittadini che il sindaco Francesco Colella è stato costretto a diramare una nota che assicurava che "The Cannibal" non sarebbe arrivato in Irpinia. A rassicurare, ora, c’è anche il commissario straordinario dell’Asl irpina, Mario Nicola Vittorio Ferrante, che dice al Corriere del Mezzogiorno: "Il cannibale di Torrioni non verrà in Irpinia, per lui sono state trovate soluzioni alternative". Benevento: nuovo episodio di violenza nel carcere, la denuncia il Sinappe ilquaderno.it, 3 dicembre 2015 Un nuovo episodio di violenza, avvenuto il 1 dicembre all’interno della Casa Circondariale di Benevento - reparto femminile, è stato denunciato dal Sinappe, il Sindacato Nazionale Autonomo di Polizia Penitenziaria. "I segnali percepiti nei giorni precedenti da parte del personale addetto alla vigilanza ed osservazione delle detenute avevano fatto presagire che qualcosa sarebbe potuto accadere, tant’è che nella mattinata era stata data disposizione affinché non si procedesse alla consueta apertura giornaliera delle stanze detentive, ma l’autorità dirigente, unitamente al comandante del reparto, avrebbe incontrato le detenute al fine di comprendere le problematiche esistenti e prevenire esiti infausti". È quanto racconta il Sinappe - Sindacato Nazionale Autonomo di Polizia Penitenziaria, che ha denunciato l’ennesimo episodio di violenza accaduto all’interna della struttura detentiva di contrada Capodimonte a Benevento. "Nonostante ciò - continua il sindacato - cinque detenute, approfittando dell’unico momento di aggregazione per l’incontro con il direttore presso la sala socialità, non esitavano a mettere in atto una vera e propria rissa che veniva sedata solo grazie al deciso e risolutivo intervento del comandante del reparto presente sul luogo per il programmato incontro e dell’assistente capo addetta alla vigilanza ed osservazione della sezione. A rendere ancor più grave - sottolinea il Sinappe - l’episodio la resistenza attiva messa in atto dalle detenute protagoniste della rissa nei confronti dell’assistente capo intervenuta per sedare la lite, tant’è che la stessa è stata, poi, accompagnata presso il nosocomio cittadino avendo riportato lesioni per l’aggressione subita". Il Sinappe ha poi espresso "piena e completa solidarietà alla collega coinvolta dall’aggressione, ponendo però una forte critica al regime di sorveglianza dinamica che, nonostante le previsioni, è divenuto un sistema che apre le celle per tutto il giorno e lascia che i detenuti, indistintamente, stiano insieme per tutto il giorno a non fare nulla. Un sistema che non fa altro che fomentare la formazione di fazioni che si contrappongono e che si dichiarano guerra, anche per ragioni spesso futili, ma che finiscono col creare tensioni e condizioni lavorative inaccettabili". L’Aquila: "Il Futuro sarà di tutta l’umanità. Voci dal carcere", libro sul lavoro in carcere abruzzoweb.it, 3 dicembre 2015 Si chiama "Il Futuro sarà di tutta l’umanità - Voci dal carcere", ed è il saggio degli autori Antonella Speciale e Emanuele Verrocchi che oggi 3 dicembre, alle ore 18, sarà presentato presso la sede Cgil del capoluogo in via Saragat. Il lavoro in carcere, il tema principale. Il libro nasce infatti dall’esperienza diretta vissuta da Antonella Speciale come volontaria all’interno delle carceri italiane, in particolare dei circuiti di alta sicurezza. "Portando avanti dei laboratori di scrittura autobiografica e creativa - si legge in una nota degli autori stessi - sono state raccolte le voci di persone recluse che pongono interrogativi sul senso della carcerazione, sul modo e sul perché di molte realtà ignote o ignorate dalla maggioranza. Partendo da queste testimonianze dirette, si aggiungono delle riflessioni di Antonella Speciale, unite a considerazioni di Emanuele Verrocchi, incentrate, queste ultime, sul ruolo del lavoro e sulle possibilità e sulle responsabilità che anche i sindacati come tutela alla reintegrazione dei detenuti possono e devono avere, per aprire un dibattito con l’intera società, sul tema dell’inclusione senza più barriere né distinzioni e per interrogarci a fondo sulla storia del nostro Paese". Antonella Speciale vive in Sicilia e da anni si occupa di Laboratori di scrittura autobiografica e creativa negli Istituti penali per minori e adulti. Laureata in Lingue e letterature straniere, ha pubblicato opere di poesia e narrativa, articoli inerenti alla questione carceraria, ed ha partecipato ai seminari del Progetto Memoria di Sensibili alle foglie sugli anni 1969- 1989 (lotta armata, nascita del 41 bis, tortura ecc.). Destini Dentro, 2013, edito da Sensibili alle foglie, è la sua ultima opera di narrativa. Emanuele Verrocchi vive a Sulmona, in Abruzzo; sindacalista della CGIL, da novembre 2012 è Segretario Generale della Fillea Cgil della Provincia dell’Aquila. Laureato in Scienze Internazionali e Diplomatiche, si occupa, per il sindacato, anche di immigrazione e di politiche per la legalità. Interverranno alla presentazione Umberto Trasatti, segretario generale Cgil L’Aquila, e Fabio Pelini, assessore al Lavoro del Comune dell’Aquila. Roma: firmato Protocollo per realizzazione di un pastificio nell’Ipm di Casal del Marmo Ristretti Orizzonti, 3 dicembre 2015 Il Capo Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità del Ministero della Giustizia, Francesco Cascini, il Direttore dell’Agenzia del Demanio, Roberto Reggi, il Presidente del Consiglio di Amministrazione della Gustolibero Società Cooperativa Sociale Onlus, Padre Gaetano Greco, hanno firmato il Protocollo di Intesa per la realizzazione di un pastificio di eccellenza nei locali di pertinenza dell’Istituto Penale per i Minorenni di Roma. L’obiettivo primario è quello di assicurare la formazione professionale ai giovani detenuti nell’Istituto "Casal Del Marmo" di Roma e ai giovani sottoposti a misure penali in area penale esterna, avviandoli formalmente, qualora idonei, all’attività lavorativa. Per il raggiungimento di tali finalità sono stati messi a disposizione della società cooperativa circa 500 mq annessi al complesso immobiliare di proprietà dello Stato, in uso governativo al Ministero della Giustizia i cui spazi saranno ristrutturati e riconvertiti, a cura della cooperativa, per le attività del pastificio artigianale. L’intesa consente allo stesso tempo la riqualificazione e la riconversione di spazi altrimenti non utilizzati per sostenere processi di rieducazione e di inclusione sociale. Velletri (Rm): apre il mercatino dell’Associazione Vol.A.Re., un’occasione di solidarietà noicambiamo.it, 3 dicembre 2015 Iniziativa di Vol.A.Re. con i detenuti del carcere Lazzaria di Velletri. Il coordinamento delle Donne per il Cambiamento di Frattocchie segnala alla nostra redazione una interessante iniziativa sociale promossa dell’associazione Vol.A.Re. di Velletri, associazione che si occupa di aiutare nel reinserimento sociale i detenuti del carcere di Velletri. "Alcuni volontari dell’associazione Vol.A.Re" ha dichiarato Barbara Cerro "erano stati ospitati in una sessione formativa delle Donne per il cambiamento per conoscere meglio la realtà del carcere di Velletri. Siamo contente che sia nata questa sinergia tra associazioni di solidarietà sociale per dar voce a persone che si trovano in difficoltà e invitiamo pertanto a visitare questo mercatino che proporrà dei lavori artigianali eseguiti da 20 detenuti del carcere che hanno aderito a questo progetto". L’iniziativa ‘Voci dal Lazzarià è inserita nella tradizione consolidata del Mercatino di Natale a Velletri, Piazza Mazzini per il 5/6/7/8 dicembre, 11/12/13 dicembre, 18/19/20 dicembre dalle ore 16,00 alle 21,00. In esposizione ci sono oggetti natalizi prodotti all’interno della Casa Circondariale Lazzaria di Velletri da un gruppo di 20 uomini detenuti che si sono impegnati nel progetto "Laboratorio artigianale". Ecco l’intervista rilasciata da una delle responsabili dell’associazione Vol.A.Re. Da dove nasce l’idea di partecipare al mercato di Natale? Nasce dalla consapevolezza che la società civile di questi territori ha dimenticato la presenza di un istituto penitenziario nel quale vivono più di 500 persone (la terza struttura nel Lazio per capienza dopo Rebibbia e Regina Coeli), e dalla convinzione che sia quanto mai necessario tornare a parlare di carcere proprio nei luoghi dove pulsa la vita di una città. È desiderio dell’Associazione Vol.A.Re. essere un ponte che unisce la comunità di persone che vive "dentro" con la più grande comunità delle persone che vive "fuori". Chi ha partecipato al laboratorio? Uomini condannati a scontare pene che vanno da alcuni mesi a svariati anni; dai giovani poco più che ventenni fino ai sessantenni sia italiani che stranieri; chi falegname e restauratore, chi marinaio, chi meccanico o idraulico, chi muratore o pasticcere, chi elettricista… ma tutti impegnati a riconquistare la fiducia della società nella quale dovranno nuovamente inserirsi quando torneranno liberi. Rieti: la Sesta Opera San Fedele promuove raccolta donazioni prodotti igiene per detenuti rietinvetrina.it, 3 dicembre 2015 Siamo gli Assistenti Volontari Penitenziari della Sesta Opera San Fedele Rieti, operiamo con il Centro di Ascolto all’interno della Casa Circondariale di Rieti Nuovo Complesso, collaboriamo con la Direzione per la rieducazione dei detenuti e per il loro reinserimento nella famiglia e nella società, molti hanno anche bisogno del necessario per la dignità della loro persona, noi Volontari Penitenziari quando non abbiamo risorse rivolgiamo un appello, ora abbiamo bisogno, aiutateci ora, non domani. Rivolgiamo il nostro appello ai credenti ed alle persone di buona volontà, in particolare alle Parrocchie, alle Associazioni, ai Club, ai Gruppi diversamente impegnati, ai negozi, ai supermercati, a tutti coloro che credono nella dignità della persona umana. Per i nostri detenuti abbiamo bisogno di: asciugamano - bagnoschiuma - carta igienica - saponette - rasoi monouso in plastica - dentifrici - spazzolini per denti - sapone in pezzi per lavare indumenti - panni per pavimenti - sapone liquido per pavimenti - sapone liquido per piatti. I contenitori devono essere solo in plastica. Il Centro di Raccolta è presso la Sesta Opera San Fedele Rieti / Movimento Cristiano Lavoratori Rieti in Via Paolo Borsellino, 36 Rieti dal martedì al venerdì dalle ore 9.00 alle 13.00 e dalle 15.30 alle 18.30 - Offerte in denaro possono essere versate presso il Centro di Raccolta o con bonifico bancario e causale "Abbiamo bisogno di aiuto" - Banca di Credito Cooperativo di Roma, Iban: IT 29 R 08327 14600 0000 0000 2788 - Puoi scegliere il 5 x mille con il codice 90058190571 - Per in formazioni e ritiro dei prodotti offerti chiamare allo 0746.495261 - 335.6294606 - sestaopera@mclrieti.it. Milano: i cani da pet therapy della Maith Onlus entrano a San Vittore Ristretti Orizzonti, 3 dicembre 2015 Dal prossimo gennaio la pet therapy varcherà i portoni di San Vittore per un progetto pilota finanziato dalla Camera Penale di Milano, che vedrà come protagonisti i detenuti del reparto psichiatrico e i cani da pet therapy della Maith Onlus. Un progetto accolto e promosso dalla lungimiranza della direttrice del carcere Gloria Manzelli, ci ha permesso di portare avanti un progetto ambizioso che è il primo nel suo genere. Gli animali non ci giudicano, non guardano al nostro passato, vivono nel presente e ci insegnano a fare altrettanto. I benefici effetti della pet-therapy fanno capo sia all’ambito cognitivo che a quello affettivo-relazionale. Molteplici sono le ricerche che mettono in luce la possibilità che l’utente ha, durante la seduta, di dominare la propria apprensione e i propri stati d’ansia, cercando di armonizzare i rapporti sia con il terapista che con l’animale. Relazionarsi con un cane, sviluppa un senso di cura e responsabilità, determinando cambiamenti nello stile relazionale dei pazienti. Un altro aspetto che sembra essere determinante nei cambiamenti di chi usufruisce di tale terapia è che proprio il rapporto con l’animale aiuta a formulare delle domande e riconoscere i desideri che vivono dentro i detenuti, cosicché si sviluppa una maggiore possibilità d’espressione unita ad un miglior uso funzionale delle proprie risorse. Altrettanto importante è una conoscenza più approfondita del proprio corpo sia rispetto ai propri limiti che alle potenzialità che in esso stazionano. L’intero progetto è stato messo a punto da una equipe multidisciplinare che sarà incaricata di monitorare gli obiettivi e nello stesso tempo salvaguardare il benessere animale durante tutto il percorso. Per ulteriori informazioni sul progetto di pet therapy a San Vittore potete contattare Maith Onlus a info@maith.it o 3479243886. Parma: le ostie per il Giubileo preparate dagli ergastolani dell’Alta Sicurezza di Alessandro Trentadue La Repubblica, 3 dicembre 2015 Il pane eucaristico che verrà consacrato il 13 dicembre e offerto ai fedeli è il frutto del lavoro di un gruppo di detenuti del regime di massima sicurezza. Oggi la consegna al vescovo. Il corpo di Cristo plasmato dalle mani di chi invoca il perdono e cerca nella fede un nuovo significato alla vita, che appaga più di un compenso. Le mani degli ergastolani del carcere di Parma, che hanno preparato le ostie e il pane eucaristico che riceveranno i fedeli. Invocando, tutti, il perdono e la remissione dei peccati, alle soglie del Giubileo indetto da Papa Francesco. A Parma, il Giubileo proclamato dal pontefice si apre il 13 dicembre: giornata in cui saranno consacrate le ostie realizzate dai detenuti del braccio di massima sicurezza del carcere. Preparate, un giorno alla settimana, da un gruppo di reclusi dell’ex 41 bis. Ergastolani con alle spalle più di vent’anni di galera. Il loro ingresso nell’istituto penitenziario negli anni ‘90. Persone abituate a lungo alla cella quasi perpetua, tranne l’ora d’aria concessa. Dal loro lavoro, ecco il corpo di Cristo. Il progetto di conversione, presentato mercoledì mattina via Burla, è "un ulteriore segno di vicinanza del carcere alla città - le parole del direttore Carlo Berdini - progetti del genere possono essere conciliati tra sicurezza e occasioni di riconciliazione: possono andare pari passo". Il mercoledì, per il gruppo di oltre dieci detenuti, è il giorno del forno: preparano pane, focacce, pizze, che poi vengono consegnate alla mensa di Padre Lino, per i più bisognosi. "Padre Lino ai suoi tempi in carcere portava tanto", ha ricordato monsignor Enrico Solmi, vescovo di Parma, a cui stamattina sono state consegnate le ostie preparate dai carcerati. "Ora sono i figli di Padre Lino a portare il pane a chi non ne ha. Questo pane eucaristico ha un valore di unità". Sarà il vescovo a consacrare, domenica prossima, il pane per la celebrazione eucaristica preparato dai detenuti, al termine della processione dalla Steccata al Duomo, con l’apertura della Porta santa. "Non ci sono state questioni disciplinari di alcun tipo - ha sottolineato Roberto Cavalieri, garante dei detenuti - si possono fare progetti come questo senza rischiare nulla. Offrendo delle opportunità, dando un contenuto al dovere di questa istituzione: quello di recuperare i detenuti". Cuneo: la musica dell’Orchestra Bruni entra nel carcere di Cerialdo targatocn.it, 3 dicembre 2015 Il concerto si è tenuto sabato 28 novembre all’interno della Casa Circondariale cuneese. Gli scritti vincitori sono stati scelti da una giuria di "Scrittorincittà" che ha lanciato l’iniziativa letteraria rivolta ai reclusi. La rieducazione carceraria passa anche attraverso la musica. Con questo spirito la Casa Circondariale di Cerialdo ha aperto le porte, sabato 28 novembre, ad un concerto dell’Orchestra Bruni di Cuneo. Alcuni detenuti hanno potuto assistere all’esecuzione dei brani che gli orchestrali hanno voluto dare in dono ai reclusi in occasione dell’imminente festa del Natale. "Portare la musica classica nelle carceri è molto importante, serve a donare serenità e pace in un momento in cui il mondo è immerso nell’odio e nella violenza." ha dichiarato Paola Mosca, presidente dell’Associazione Orchestra Bruni. Non solo musica, ma anche poesia nella giornata di sabato. Nell’intervallo del concerto, infatti, sono stati premiati gli scritti partecipanti al concorso indetto da Scrittorincittà sul tema della "luce". Tanto materiale, alto il livello che ha portato, infine, alla premiazione dei testi di Massimiliano, Hicham, Mirgen e Camillo. Libri: "Femminismo e processo penale" di Ilaria Boiano. Le parole della violenza recensione di Cecilia D’Elia Il Manifesto, 3 dicembre 2015 Un’attiva presenza femminile nelle aule giudiziarie produce trasformazioni e aiuta a individuare ipotesi di procedure e norme più attente alle donne. Femminismo e processo penale (Ediesse, pp. 340, euro 16) di Ilaria Boiano non è solo il saggio di una giurista femminista, ma è il libro di un’avvocata impegnata a fianco delle donne che si rivolgono ai centri antiviolenza. È un testo che nasce da un posizionamento dichiarato e rivendicato, che ambisce a mostrare il nesso tra norme penali ed esperienza concreta che le donne fanno della violenza. L’autrice scommette sull’utilità dei diritto per la trasformazione della vita delle donne. Conclusione che non è figlia di una lettura ingenua, né della violenza né del diritto. Al contrario, Ilaria Boiano si fa forte dell’attraversamento critico che il femminismo ha fatto del diritto per mostrare l’uso efficace che di esso se ne può fare. Il punto di vista è quello delle giuriste che, in questi anni, hanno accompagnato e sostenuto le donne che decidevano di denunciare e che hanno cercato di utilizzare le norme per sostenere il loro percorso di fuoriuscita dalla violenza. Questa esperienza è proposta come terzo modo di elaborare il rapporto tra femminismo e diritto. Definita come "ritorno alle pratiche", si affianca a quello del "sopra la legge" (Cigarini) e della produzione di vuoti legislativi, e a quello che invece ha visto nella legge un terreno di negoziazione, con il rischio però di appiattire i conflitti politici nella sola dimensione giuridica. Seguendo Tamar Pitch, che firma anche una delle due introduzioni al testo, Boiano avverte però che la lettura delle divisioni all’interno del femminismo italiano sul diritto non attiene alla sua utilità, ma piuttosto agli obiettivi e alle pratiche. A partire dalle vicende di cinquanta donne che si sono rivolte all’associazione Differenza Donna, l’esperienza del "ritorno alle pratiche", la cui complessità è narrata anche nell’introduzione di Teresa Manente, viene raccontata mostrando come un’attiva presenza femminile nelle aule giudiziarie produca trasformazioni e aiuti a individuare concrete ipotesi di procedure e norme più attente alle donne. Tanto più necessarie alla luce della resistenza al cambiamento della cultura giuridica, del permanere tra gli operatori della giustizia di stereotipi e atteggiamenti culturali discriminatori nei confronti della vittima. Questo approccio consente all’autrice di sostenere che politiche di empowerment delle donne e riconoscimento della loro condizione di vittime, all’interno di un procedimento di querela di un reato di violenza, non siano azioni contraddittorie. Distinguendo tra vittima e vittimismo sottolinea l’utilità di tale definizione per ricorrere alle risorse giuridiche a disposizione e meglio tutelare la donna che ha subito violenza. Mostra le diverse strategie messe in atto, restituisce la discussione che si è sviluppata attorno al nodo della violenza sessuale, in ambito nazionale e internazionale. Riesamina così in tutto il suo spessore la vexata quaestio tra procedibilità d’ufficio o querela di parte, recentemente riproposta dalla temporanea irrevocabilità della denuncia per atti persecutori (legge n.119/2013). In gioco c’era la prevalenza dell’autodeterminazione delle donne in un sistema penale che ha contribuito a legittimare la violenza maschile nei loro confronti oppure la necessità di sancire la gravità del delitto e liberare in questo modo le donne dal ricatto. Eppure la prassi suggerisce che, a prescindere dal regime di procedibilità o meno, urgono altre questioni, come quella di assicurare l’esercizio del diritto alla difesa della donna offesa sin dall’inizio del procedimento. Rimane aperto il nodo della definizione della violenza contro le donne; il libro mostra il significato delle diverse locuzioni usate: violenza di genere, violenza maschile contro le donne, femminicidio. Questa restituzione del pluralismo del discorso femminista sulla violenza, del modo in cui normative nazionali e internazionali la definiscono è uno dei pregi del libro. Tanto più prezioso oggi. Dopo il recepimento della Convenzione di Istanbul, infatti, stenta ad attivarsi una politica integrata e globale, efficace nel sostenere il cambiamento che le donne hanno prodotto e nell’interrogare il rapporto degli uomini con la violenza. Diventa così utile provare a nominare precisamente di cosa stiamo parlando in un momento in cui - per dirla con le parole di Patrizia Romito, richiamate dall’autrice - dal silenzio di un tempo si è passati al rumore di oggi. Il rumore, si sa, può stordire, ma soprattutto nasconde tanto quanto il silenzio Jihad, bugie e videotape di Giuseppe Acconcia Il Manifesto, 3 dicembre 2015 Escalation. Con un’iniziativa senza precedenti Mosca offre le prove degli illeciti rapporti tra Ankara e Stato islamico. E punta i missili sulla Turchia. Nel business del petrolio in cambio di armi sarebbe coinvolta la stessa famiglia di Erdogan. E ora Putin vuole la testa del presidente turco. Il Pentagono: "Assurdità". Mosca ha scoperto il vaso di Pandora degli affari petroliferi tra Ankara e Stato islamico (Is). Putin aveva già rivelato che l’abbattimento del bombardiere russo Sukhoi Su-24 servisse a proteggere i traffici petroliferi tra Ankara e Is. Secondo alcune stime, la produzione petrolifera complessiva dello Stato islamico, raggiungerebbe i 35-40 mila barili al giorno. Ma ieri i vertici militari russi in una conferenza stampa senza precedenti si sono spinti ad accuse ben più articolate. Secondo il ministero della Difesa russo, la stessa famiglia di Erdogan sarebbe coinvolta direttamente nel business del petrolio che tiene in vita i jihadisti. Il vice ministro della Difesa, Anatoly Antonov, ha accusato la Turchia di essere il più grande acquirente del petrolio "rubato" da Siria e Iraq. "I leader turchi hanno dimostrato estremo cinismo. Guardate cosa stanno combinando!", ha tuonato Antonov. "Hanno invaso il territorio di un altro paese e lo stanno saccheggiando sfacciatamente", ha aggiunto. Il riferimento, finalmente senza peli sulla lingua, è al finanziamento delle opposizioni al presidente Bashar al-Assad da parte di Ankara e poi all’imposizione unilaterale, con l’avallo della Nato, di una safe-zone turca nel Nord della Siria (Rojava). Soprattutto nella popolazione kurda questo atteggiamento ha prodotto un odio anti-turco senza precedenti sin dai tempi della conquista della città di Kobane (2014) da parte dello Stato islamico. Quel giorno è un segno indelebile nella mente del popolo kurdo perché non si sarebbe mai dovuto verificare, se Erdogan avesse avuto davvero a cuore le sorti del suo popolo. A questo punto i kurdi, nonostante non abbiano mai tifato per al-Assad, vedono nell’intervento russo l’unica chance per liberarsi dal controllo delle autorità turche. Se Erdogan aveva promesso di dimettersi qualora fossero state presentate le prove del suo coinvolgimento con Is, definendo le accuse russe come "calunniose", ora dovrebbe lasciare subito il suo incarico, perché a rafforzare le evidenze inequivocabili dei legami tra Servizi segreti (Mit) e Is, costate il carcere ai giornalisti di Cumhuriyet, Can Dundar e Erdem Gul, cantano le prove aggiuntive prodotte dai militari russi. In ministero della Difesa russo ha fatto riferimento anche alle immagini satellitari che mostrano i camion che trasportano il petrolio di Is attraverso il confine tra Siria e Turchia. I camion hanno viaggiato verso due raffinerie turche e una in un terzo paese. Particolarmente rivelatrici sono le riprese del 18 ottobre e del 14 novembre scorsi, quando nella provincia kurda turca di Silopi si vedono migliaia di container in fila pronti ad alimentare il traffico di greggio. Il Pentagono ha bollato le accuse russe contro Ankara come "assurdità". "Rifiutiamo l’idea che la Turchia stia lavorando con Is", si legge in una nota. Eppure anche fonti Usa confermano che intermediari turchi sono coinvolti nei commerci illegali di Is. Obama aveva chiesto a Erdogan di fare di più per controllare il confine con la Siria, chiuso agli aiuti umanitari e aperto al passaggio dei jihadisti. Secondo Mosca, i rifornimenti di Is attraverso la Turchia sono avvenuti su "scala industriale", per il Cremlino solo nell’ultima settimana sarebbero almeno duemila i terroristi, oltre 120 le tonnellate di munizioni e circa 250 i mezzi di trasporto dei jihadisti che hanno raggiunto la Siria attraversando il confine turco. Ma Mosca, ha molte cose da rimproverare anche alla coalizione internazionale guidata dagli Usa, che sarebbero pronti a un intervento di terra in Siria. Secondo il vice capo di Stato maggiore, Serghiei Rudskoi, i raid Usa non hanno avuto come obiettivo le infrastrutture di Is. Per Rudskoy, i profitti di Is si sarebbero invece dimezzati dopo i raid russi. Per Mosca, l’abbattimento dell’Su-24, che stava colpendo ribelli turcomanni e jihadisti ceceni nel Nord della Siria, avrebbe avuto perciò come scopo a lungo termine di minare i colloqui di pace sulla Siria in corso a Vienna. Anche Francia e Germania hanno chiesto ad Ankara di poter utilizzare la base di Incirlik per bombardare i jihadisti e vorrebbero supporto logistico nel porto di Tasucu. Ma è la Nato nel suo insieme a intensificare il suo impegno militare nel paese. Potrebbe tenersi a breve una riunione congiunta Nato-Russia per discutere della crisi russo-turca e di Siria. I piani dell’Alleanza atlantica sono di inviare missili e aerei per rafforzare la difesa missilistica turca al confine con la Siria. La decisione di Washington e Berlino di ritirare i loro missili Patriot aveva creato non poco disagio ad Ankara. In seguito all’abbattimento del Sukhoi, Mosca ha dispiegato jet Su-34 con missili aria-aria e i suoi missili S-400, puntati verso la Turchia, nel Nord della Siria. Nonostante l’escalation dello scontro e l’imposizione di sanzioni contro Mosca, il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, si è detto pronto ad incontrare il suo omologo turco, Mevlut Cavusoglu, durante una conferenza che si tiene questa settimana a Belgrado. Putin si era rifiutato di rispondere al telefono e di incontrare Erdogan ai margini della conferenza sul clima di Parigi. Erdogan ha ricordato che fino a poche settimane fa, il presidente russo elogiava il suo "coraggio" e ha aggiunto che negli incontri bilaterali con i leader europei a Parigi ha ricevuto solidarietà. L’affaire Dündar e Gül di Dimitri Bettoni (Osservatorio Balcani e Caucaso) Il Manifesto, 3 dicembre 2015 Libertà di stampa. Direttore e caporedattore di "Cumhuriyet" accusati di spionaggio per un articolo sul traffico di armi verso la Siria. Incarcerati su denuncia del presidente turco Erdogan. Can Dündar, direttore del quotidiano Cumhuriyet è stato arrestato il 26 novembre scorso dalle autorità turche insieme ad Erdem Gül, capo della redazione di Ankara dello stesso giornale. I due sono stati fermati con l’accusa di aver divulgato lo scorso maggio notizie sul sequestro e la perquisizione di alcuni camion appartenenti ai servizi segreti turchi (Mit) carichi di armi e diretti in Siria. L’accusa a carico dei due giornalisti è di spionaggio politico e militare, divulgazione di informazioni coperte da segreto di stato e propaganda a favore di organizzazioni terroristiche, più precisamente quella che fa capo al predicatore islamico Fetullah Gülen. Esule da anni negli Stati Uniti, Gülen è stato un tempo alleato del presidente Recep Tayyip Erdogan, ma oggi è accusato di essere l’architetto del cosiddetto "stato parallelo" contro cui le operazioni di polizia si contano ormai a centinaia. In particolare, i giornalisti di Cumhuriyet sono accusati di aver costruito notizie false attraverso informazioni ricevute dall’organizzazione di Gülen, allo scopo di dare un’immagine della Turchia come collaboratrice di gruppi terroristi. L’arresto è l’esito di un’indagine lanciata a fine maggio scorso, quando Cumhuriyet aveva pubblicato un articolo dal titolo "Ecco le armi che Erdogan sostiene non esistano", in cui si rendeva pubblico il sequestro, avvenuto nel gennaio 2014 da parte della polizia, di tre camion carichi di armi nascoste sotto casse di medicinali diretti in Siria. L’arsenale includeva munizioni per artiglieria e mitragliatrici, colpi di mortaio e munizioni per contraerea, contenuti in casse con scritte in cirillico e partite dall’aeroporto Esenboga di Ankara. L’operazione di polizia, avviata da una soffiata ricevuta dal procuratore generale di Adana che aveva quindi autorizzato le indagini ed il sequestro, rischiava di porre nuovamente la Turchia sul banco degli imputati per l’atteggiamento ambiguo nei confronti dello scenario siriano e dei gruppi armati che vi combattono. Non è mai stato chiarito a chi fosse destinato il carico di armi. La circolazione della notizia sui media nazionali era poi stata immediatamente bloccata da un’ordinanza del tribunale di Adana, che aveva disposto il bando di ogni materiale scritto, audio video e online sulla perquisizione dei camion, mentre i contenuti già online venivano cancellati. Erdogan stesso aveva commentato l’episodio sostenendo che i responsabili della divulgazione avrebbero pagato un prezzo salato. Il presidente turco aveva sporto personale denuncia contro Dündar, chiedendone due ergastoli più 42 anni di carcere per aver minato gli interessi dello stato attraverso l’uso di falso materiale giornalistico. Dopo il blocco delle indagini e la restituzione dei camion al personale del Mit (i Servizi segreti turchi), grazie all’intervento diretto del governatore di Adana, diversi membri ed ufficiali delle forze di polizia erano stati posti in stato di accusa ed espulsi. Durante la propria deposizione, l’autista Murat Kislakci dichiarò che per diverso tempo aveva guidato camion da Ankara alla cittadina di Reyhanli, sul confine turco-siriano, e che sapeva perfettamente di lavorare per il Mit. L’avvocato Hasan Tok, legale rappresentante del comandante delle forze di polizia di Adana colonnello Ozkan Çokay, aveva poi rilasciato una dichiarazione secondo la quale, nel corso di un’udienza, il procuratore di Adana Ali Dogan avrebbe dichiarato che "oltre duemila camion sono stati inviati in Siria dalla Turchia". L’arresto di Dündar e Gül ha scatenato le proteste di diverse personalità di spicco del mondo politico e dei sindacati. Manifestazioni in segno di solidarietà si sono svolte in questi giorni a Istanbul di fronte alla sede di Cumhuriyet. La Turchia nell’Unione? Buonanotte Europa di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 3 dicembre 2015 Dall’autoradio è uscita una frase del ministro della Difesa Roberta Pinotti, e credevo d’aver sentito male: "Quando la Turchia era fortemente motivata a entrare nell’Unione Europea le fu dato lo stop dalla Francia di Sarkozy, oggi si riapre questa opportunità". Mi sbagliavo. La frase è stata effettivamente pronunciata, durante un’intervista a Maria Latella su SkyTg24. Una curiosa opportunità davvero. Breve riepilogo della recente cronaca turca. Pochi giorni fa l’abbattimento di un aereo russo Sukhoi sul confine turco-siriano; l’arresto di Can Dündar, direttore del quotidiano Cumhuriyet e di Erdem Gul, caporedattore ad Ankara del giornale antigovernativo; l’assassinio di Tahir Elci, il capo degli avvocati curdi, sabato a Diyarbakir. Martedì una bomba vicino alla stazione della metro di Bayrampasa. Ieri le gravissime accuse dei vertici militari russi al presidente turco Erdogan. Secondo Mosca - non una fonte imparziale, certo - il presidente e la sua famiglia sono coinvolti nel traffico di petrolio con lo Stato Islamico. "In cinque giorni sono avvenute più cose in Turchia che in cinquant’anni in un Paese scandinavo", dice un diplomatico europeo citato dal Sole 24 Ore. Sembra un buon riassunto. Anni di negoziati non hanno portato a nulla, nonostante amici potenti a Roma e a Londra (Silvio Berlusconi, Tony Blair). C’è un motivo. La Turchia non è nell’Unione Europea perché non è pronta. La religione - 98% di musulmani (68% sunniti, 30% sciiti) - non conta. Contano i clamorosi ritardi strutturali. Contano le censure ai social media, le intimidazioni ai giornali, gli attacchi alla libertà di espressione, le brutalità poliziesche. E pesano le tragedie senza spiegazioni, come quella del 10 ottobre: strage alla marcia pacifista, 95 morti. Dispiace per i molti turchi che ci hanno creduto, per quelli che l’Europa la meritano. Ma è un carico che l’Unione Europea non può assumersi: dobbiamo unirci, non dividerci; concentrarci, non diluirci. La Turchia, oggi, non rispetta la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Che nessuno mai cita: ma è alla base di tutto. Le alleanze militari e le opportunità economiche sono più importanti? Non è vero: contano i principi. Se svendiamo quelli, buonanotte Europa. Stati Uniti: strage a San Bernardino (California), 14 morti, uccisi 2 attentatori di Luca Celada Il Manifesto, 3 dicembre 2015 Il terrore stavolta è arrivato a San Bernardino, in una tranquilla mattina di dicembre, e solo cinque giorni dopo la sparatoria in Colorado, l’America ha seguito attonita in diretta un ennesimo angosciante replay. Il bagno di sangue ha avuto inizio poco dopo le undici di mattina. Due o tre persone mascherate, pesantemente armate con armi automatiche - forse con indosso giubbotti antiproiettile - hanno fatto irruzione nei locali dell’Inland Regional Center, un complesso polivalente di uffici pubblici e sede di un centro di servizi per disabili 100 chilometri e Est di Los Angeles. Gli attentatori sono entrati in una sala conferenze in cui si stava preparando un pranzo prenatalizio per impiegati pubblici della contea ed hanno aperto il fuoco mietendo vittime inermi. Sono poi fuggiti lasciando a terra quattordici morti e almeno diciassette feriti. Mentre la strada antistante al centro regionale veniva trasformata in ospedale da campo, nella zona sopraggiungevano ingenti forze dell’ordine in assetto di guerra. Nel giro di un paio di ore le indagini hanno portato gli inquirenti ad un appartamento nella vicina comunità di Redlands, dove gli agenti sopraggiunti hanno osservato un suv nero che si allontanava in velocità. È iniziato un inseguimento con una fitta sparatoria fra l’auto in fuga e la polizia che inseguiva. Le dirette televisive hanno mostrato il veicolo dei sospetti, crivellato di colpi che si è infine fermato su una strada di San Bernardino. Un uomo e una donna all’interno del suv sono morti raggiunti dal fuoco della polizia, un terzo individuo, forse un complice, è stato fermato nelle vicinanze. Il quartiere, nei pressi dell’aeroporto di San Bernardino è stato militarmente occupato da centinaia di agenti polizia, dello sheriffs department e dell’Fbi pesantemente armati e dotati di cani e blindati militari che per ore hanno setacciato la zona andando di casa in casa alla ricerca di potenziali complici. E ancora una volta una periferia americana è tornata a somigliare a una città mediorientale, una zona di guerra sull’uscio di casa. A meno di una settimana dai fatti di Colorado Springs, un centro di servizi sociali ha subìto un attacco che stavolta ha provocato il maggiore numero di vittime dalla strage alla scuola elementare di Sandy Hook in cui morirono 20 bambini e 6 insegnanti. A differenza di quella strage a Newtown, nel 2012, o di quella al politecnico Virginia Tech nel 2007, in questo caso non si è trattato di un individuo squilibrato che ha agito da solo ma di almeno due persone apparentemente ben attrezzate e organizzate, vestite di nero e dotate di armi militari, una tipologia più "parigina" quindi, che ha subito scatenato le supposizioni su un "commando", o addirittura una "cellula terrorista" improvvisamente operativa in una piccola municipalità proletaria sul limitare del deserto del Mojave. Una tesi che avrebbe trovato conferma anche in "uno o più ordigni esplosivi" che sarebbero stati rinvenuti sul luogo. Secondo lo sceriffo di San Bernardino, però, i due attentatori uccisi si chiamerebbero Syed Rizwan Farook (28 anni) e Tashfeen Malik (27), una coppia di cittadini nati e cresciuti in America la cui famiglia è di origine pakistane. I due avrebbero una figlia di 6 mesi. Farook lavorava come ispettore presso i servizi sanitari della contea da 5 anni e mercoledì mattina insieme alla moglie ha lasciato la figlia neonata dalla nonna dicendo che dovevano andare a una visita medica. Accanto ai loro corpi, oltre a giubbotti antiproiettile, sono stati ritrovati due fucili d’assalto e armi semiautomatiche. Dopo una giornata di panico, nella serata i portavoce di polizia e Fbi hanno fornito i primi dettagli delle indagini, parlando in una conferenza stampa anche di un litigio o una colluttazione che sarebbe avvenuta nel centro conferenze. In seguito al diverbio un individuo sarebbe stato allontanato dalla festa e lo stesso sarebbe poi forse tornato accompagnato da uno o due complici e compiuto la strage. In piena psicosi, i media hanno ripetutamente evocato una possibile responsabilità addirittura dell’Isis, ma col calare del sole andava purtroppo prendendo forma la più prosaica, plausibile, tesi di un litigio sul lavoro sfociato nel sangue. L’ennesimo "mass shooting" insomma in un paese che solo quest’anno ha registrato ben 355 "omicidi multipli" (nel 2013 sono stati 365; nel 2014 336). "Non abbiamo ancora tutti i dettagli ma sappiamo che ci sono numerose vittime", ha detto a caldo Obama quando la situazione era ancora in evoluzione. "Ancora una volta il nostro paese dimostra una disposizione alle stragi che non ha paragone in alcuna altra nazione della terra" ha aggiunto il presidente affermando ancora una volta l’unica evidente verità: "Potremmo adottare leggi sulle armi che limiterebbero di molto il fenomeno". Malgrado la psicosi alimentata ad arte da esperti militari in TV e politici repubblicani, il terrorismo in America non è una minaccia che incombe dall’estero ma una patologia da tempo endemica, una guerra civile strisciante che si annida in ogni casa e ogni periferia dove i cittadini stoccano una potenza di fuoco che equivale a una superpotenza militare sommersa, a disposizione di ogni squilibrato turbato da un’ideologia, una ossessione religiosa o un semplice dissidio col college o col vicino. Stati Uniti: mille sparatorie in mille giorni di Guido Olimpio Corriere della Sera, 3 dicembre 2015 Armi facili, pubblicità, emulazione: tre elementi ricorrenti nelle stragi che in tre anni hanno fatto oltre mille morti negli Usa. Killer di massa e terroristi cercano notorietà, massacrano in nome di una causa, uccidono nel segno della follia, sovente lasciano un video. L’assalto al target facile e poi la fuga. Quale che sia la matrice dell’attacco di San Bernardino ci sono due dati in comune: le armi e il terrorismo. Perché il modo di agire è da terroristi. Anche se fossero dei folli hanno agito come guerriglieri, con equipaggiamento di stile militare. Quasi un raid a imitare la tragedia di Parigi, protagonisti di una guerra infinita. Dal 2012 ci sono state negli Usa 1.029 sparatorie gravi. In quell’anno c’è stato il massacro nella scuola elementare di Newtown. Allora sembrava che si fosse passato ogni limite. Invece la serie nera è proseguita portandosi via oltre 1.300 vite e ferendo non meno di 3.700 persone. Basterebbe questo per far cambiare leggi, invece si è fatto finta di niente. Attacchi dove le bocche da fuoco hanno un ruolo primario insieme ai guai di una società che pur ossessionata dalla sicurezza è incapace di trovare risposte efficaci per curare la piaga d’America. E questo nonostante la tripla minaccia: il killer di massa, i jihadisti, i militanti interni. Le stragi avvengono perché è possibile attuarle con copie di fucili d’assalto che acquisti al supermarket e su Internet, munizioni a volontà. E questo permette di organizzare operazioni che somigliano alle missioni sacrificali di estremisti mediorientali ma ambientate in cittadine americane. La sequenza di San Bernardino dimostra la pericolosità. Ripeto, non conta il movente. Il secondo aspetto è quello della pubblicità. Killer e terroristi sono alla ricerca della notorietà, massacrano in nome di una causa, uccidono nel segno della follia, sovente lasciano un video. Spesso c’è un punto d’unione, due strade parallele che si incontrano. Il "matto" - una definizione a volte usata con troppa leggerezza - copia il "politico", il fuori di testa cerca giustificazioni per i suoi gesti. Dunque ha bisogno dei riflettori. Dobbiamo interrogarci sulla gestione mediatica: impossibile oscurarli, ma servono contromisure per contenere gli effetti. La notizia di un attacco può spingere altri ad emulare. E questo a prescindere dal movente. Immaginiamo l’impatto della battaglia di ieri in California. Sul web è pieno di materiale in onore di psicopatici come i due del liceo di Columbine, copia dei video che celebrano i kamikaze o miliziani neonazi. Ora molti esperti invocano un blackout. Il terzo elemento è lo "studio". Coloro che sparano fanno ricerche su quanti li hanno preceduti, i precedenti diventando un modello ed una sfida. Gli omicidi provano a ripetere l’assalto, cercano di superarli causando una cifra maggiore di vittime. Si è spesso parlato di una gara tra jihadisti, ora questo tipo di duello coinvolge anche il territorio americano dove si muovono i "mass shooter". Stati Uniti: tredici anni a Guantánamo per errore "colpa di uno scambio di persona" Adnkronos, 3 dicembre 2015 Gli Stati Uniti hanno ammesso di aver detenuto ingiustamente un 37enne yemenita per uno "scambio di identità". L’uomo non avrebbe ricoperto alcun ruolo nell’attentato terroristico allo Uss Cole nel 2000. Tredici anni e sei mesi. Tanto è rimasto nella prigione di Guantánamo Mustafa al-Aziz al-Shamiri, prima che il governo degli Stati Uniti ammettesse di aver commesso un errore. Gli Usa hanno ammesso infatti di aver ingiustamente detenuto nel carcere di Guantánamo il 37enne yemenita a causa di uno "scambio d’identità". Secondo un documento rilasciato ieri, l’uomo era stato accusato di attività condotte invece da altri noti estremisti, con nomi simili. Al-Shamiri "probabilmente partecipo’ a un campo d’addestramento per l’uso di esplosivi in Afghanistan", ma non avrebbe ricoperto alcun ruolo nell’attentato terroristico contro il cacciatorpediniere Uss Cole, il 12 ottobre 2000, nel porto di Aden, in Yemen. Al-Shamiri era stato catturato nel 2002, dopo aver combattuto con i talebani in Afghanistan; in precedenza, avrebbe anche combattuto la guerra civile nel suo Paese, nel 1996, e la guerra in Bosnia nel 1995. Secondo il documento, rilasciato dal dipartimento della Difesa, l’uomo vorrebbe tornare in Yemen, ma è consapevole che il ritorno in patria non è al momento un’opzione possibile, e "non ha piani per il futuro, a parte il desiderio di sposarsi". Il centro di detenzione di Guantánamo è stato creato dal presidente George W. Bush, dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, per incarcerare persone sospettate di azioni o legami con gruppi terroristici. Al momento, ci sono poco più di cento detenuti. Vatileaks: lo scandalo del processo ai giornalisti in Vaticano di Francesco Merlo La Repubblica, 3 dicembre 2015 Con Fittipaldi e Nuzzi finisce alla sbarra la libertà di informazione. La sorpresa è che la Chiesa di Francesco, il Papa che sta illuminando les Caves du Vatican, rischi al tempo stesso di legittimare il buio del diritto medievale, un ingranaggio inquisitorio che, a parte i ceppi e le tenaglie, è ancora quello della Tosca. Lunedì prossimo, infatti, alla vigilia del Giubileo della Misericordia, saranno interrogati nell’aula del Vaticano i due cronisti italiani, Emiliano Fittipaldi e Gianluigi Nuzzi, processati senza i loro avvocati di fiducia e senza le garanzie previste da tutti i codici dell’Occidente civile. L’imputazione è di concorso nella rivelazione dei documenti riservati della Commissione di indagine sulle finanze vaticane istituita proprio da Papa Francesco per ripulire appunto i bimillenari sotterranei che già André Gide avrebbe voluto demolire. A fornire i documenti della Commissione a Fittipaldi e a Nuzzi sarebbero stati almeno due dei tre imputati di questo processo che entra nel vivo il 7 dicembre: il presidente della Commissione stessa, lo spagnolo monsignore Balda (detenuto); il suo segretario particolare Nicola Maio; e Francesca Immacolata Chaouqui che, in quella commissione, era una sorta di perpetua del monsignore. Ha spiegato il Papa ai giornalisti: "Vorrei dirvi anzitutto che rubare quei documenti è un reato. È un atto deplorevole che non aiuta". Ma è provato, ed è agli atti del processo, che i cronisti non hanno rubato nulla alla Commissione. Hanno infatti avuto i documenti dallo stesso Balda e da altre fonti curiali. Perché li hanno dati proprio a loro? È vero che il buon giornalista ha il dovere di chiedersi "cui prodest?", ma deve comunque andare avanti e pubblicare tutte le notizie purché siano attendibili e di pubblico interesse. Anche l’audio rubato al Papa non è opera di Nuzzi che non lo ha divulgato ma si è limitato a trascriverne i passi più importanti, sempre legati ai problemi economici del Vaticano. Fittipaldi e Nuzzi, in quantità e in forma diversa, hanno rivelato nei loro due libri, Avarizia e Via Crucis, quel che la Commissione papale aveva scoperto nel 2013 e quel che il Papa, da due anni ormai, cercava di sanare senza riuscirci del tutto. Ha detto Francesco: "Io stesso avevo chiesto di fare quello studio, e quei documenti io e i miei collaboratori già li conoscevamo bene e sono state prese delle misure che hanno incominciato a dare dei frutti, anche alcuni visibili". E ancora: "Voglio assicurarvi che questo triste fatto non mi distoglie certamente dal lavoro di riforma che stiamo portando avanti con i miei collaboratori e con il sostegno di tutti voi". Il Papa ci ha dunque assicurato che continuerà a battersi (ogni volta che ci riuscirà, aggiungiamo noi) anche contro la Curia, contro la segreteria di Stato, conto il Clero romano e contro la Nomenklatura che già Benedetto XVI aveva apertamente bastonato perché "deturpano" il volto della Chiesa. Avviando un’operazione di trasparenza che non ha precedenti nella storia, Francesco vorrebbe sapere cosa resta, in quei famosi sotterranei, delle scostumatezze e dei commerci che diedero vita e vigore alla riforma protestante, degli eccessi denunziati dalla poesia di Dante, delle scelleratezze dei Borgia, dei lussi faraonico-curiali di quel potere temporale che ancora faceva dire a Pasolini che in Vaticano "il codice non è mai letto e applicato cristianamente", e anzi proprio lì "Cristo è lettera morta". I codici di cui in quel suo scritto corsaro parlava Pasolini, che qualche giorno fa è stato celebrato dall’Osservatore romano come "il poeta del verbo cristiano", sono il Codice penale del 1889 - il codice Zanardelli - e quello di Procedura del 1913. Pasolini, che era un ateo innamorato di Cristo, avrebbe voluto trovare in quelle norme lo spirito del Vangelo. A noi basterebbe cominciare con l’articolo 21 della Costituzione italiana, quello che tutela la libera stampa, e con l’articolo 51 del nostro attuale Codice penale, quello che esclude la punibilità del giornalista che esercita il diritto di cronaca. Sono ovvietà ribadite in tutte le Carte e le Convenzioni internazionali, da quella di Nizza a quella di New York a quella di Strasburgo. E c’è anche la carta del Vangelo. Chissà quanto è cristiano non potere scegliersi gli avvocati. Fittipaldi aveva indicato Giandomenico Caiazza e Nuzzi aveva indicato Caterina Malavenda. Ebbene, il presidente della Corte d’Appello, Pio Vito Pinto non li ha ammessi "attesa la natura del procedimento nel caso". Non una parola di più. Fittipaldi e Nuzzi stanno dunque subendo avvocati rotali, pagati e reclutati dai loro accusatori. Gli avvocati rotali sono infatti quelli abilitati a patrocinare davanti a tutti i tribunali del Vaticano, non solo nei casi di matrimoni annullati ma anche nei processi penali e nelle cause civili. E spesso avvocati non rotali hanno affiancato quelli rotali. Ma a Fittipaldi e a Nuzzi è stato detto di no "attesa la natura del procedimento nel caso". E, pensate!, in aula gli imputati non possono stare vicino ai loro avvocati: un poliziotto ha il compito di tenerli separati per non farli parlare. E il tribunale, se vorrà, potrà interrogare ciascun imputato facendo uscire dall’aula tutti gli altri, un po’ come faceva il capitano Bellodi per confondere i mafiosi Pizzuco e Zecchinetta, "due spugne di infamità". Del resto Fittipaldi non ha neppure la possibilità di conoscere le liste dei testi richiesti da Nuzzi sinché il giudice non leggerà gli elenchi in aula. Di più, Fittipaldi e Nuzzi non hanno il diritto di avere copie degli atti che li riguardano perché i loro avvocati rotali sono stati diffidati dal dargliele. E si potrebbe continuare a recitare questo breviario di illiberalità e di violazioni della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo che pure il Vaticano ha sottoscritto. Ma al di là dei codici e dei giudizi-ordalie, proprio perché il Vaticano è l’ultima monarchia assoluta del mondo, nessuno capisce come sia possibile che proprio questo Papa permetta un simile processo a due giornalisti che sono riusciti a raccontare in due libri di analisi economica e di reportage, 600 pagine complessive e neppure una smentita, una parte di quegli affari sporchi che lui combatte. È strano che il Papa voglia punire i cronisti che hanno rivelato al mondo la vita da nababbi di quei cardinali che egli denunzia come "faraoni". Il Papa permette che il cardinale Bertone continui a vivere nel superattico ristrutturato con i fondi stornati dall’ospedale pediatrico Bambino Gesù e vuole condannare (sino ad otto anni di galera) i cronisti che hanno svelato non solo quell’odioso privilegio, ma anche l’esistenza della fabbrica dei santi a pagamento, le truffe dello Ior, i conti bloccati a padre Georg, l’uso privato del patrimonio immobiliare. C’è infine in Vaticano un uso dell’informazione, della disinformazione e della mala informazione che andrebbero - queste sì - processate e stroncate dal Papa. In un vortice di vendette, ricatti e tradimenti qualcuno della segreteria vaticana ha per esempio messo nel ventilatore le conversazioni private tra il monsignore e la sua titolatissima perpetua: debolezze della carne che forse sono diventate oggetto di ricatto e che nulla hanno a che vedere con questo processo. Il tentativo è quello di far credere che Fittipaldi e Nuzzi non abbiano fatto giornalismo ma abbiano messo le mani nella sporcizia, abbiano rovistato nella spazzatura, si siano sporcati "nella cacca". Dunque, alla fine, tutta l’inchiesta, ordinata dal Papa, sarebbe robaccia screditata visto che monsignor Balda è raccontato come un porcellone ricattato e depresso, la signora Chaouqui come una prosseneta ninfomane, i giornalisti come cronisti morbosi e voyeur. E invece i due libri sono castissimi elenchi di numeri, informazioni economiche fredde e persino noiose, conversazioni, analisi, documenti…, insomma neppure l’ombra di una sconcezza, di una scorrettezza, di un furto, di una menzogna. La verità è che meriterebbero un premio e non un processo Fittipaldi e Nuzzi, già premiati dalle vendite e dalla bella pubblicità che sempre gli sciagurati censori finiscono col fare ai censurati. Città del Vaticano: l’accusa al banchiere Nattino "usò i conti vaticani per riciclare" di Fiorenza Sarzanini Il Corriere della Sera, 3 dicembre 2015 Ha utilizzato i conti aperti presso l’Apsa, l’ente che amministra il patrimonio vaticano, per effettuare "investimenti e negoziazioni che potrebbero costituire attività fraudolenta". Obiettivo: "Influire sul prezzo di titoli negoziabili sul pubblico mercato investendo risorse che potrebbero provenire o essere state alimentate da proventi illeciti". È pesante l’accusa mossa dalle autorità della Santa Sede a Giampiero Nattino, il presidente della Banca Finnat, indagato di riciclaggio e insider trading. Anche perché conferma come all’interno delle strutture ecclesiastiche anche i "laici" abbiano potuto utilizzare i depositi per scopi ritenuti illeciti. Le autorità italiane hanno già accettato di collaborare con l’ufficio del promotore di giustizia e accettare la richiesta di rogatoria. E ieri mattina gli investigatori del Nucleo valutario della Guardia di Finanza si sono presentati negli uffici dell’istituto di credito per acquisire la documentazione relativa a tutte le operazioni "sospette". L’ennesimo scandalo finanziario coinvolge dunque una delle strutture strategiche per l’economia del Vaticano, ma potrebbe arrivare anche allo Ior dove Nattino aveva un altro conto corrente. L’accusa del monsignore. Il primo a rivelare pubblicamente i retroscena dei rapporti tra il banchiere e le gerarchie ecclesiastiche era stato monsignor Nunzio Scarano, finito sotto inchiesta proprio per l’accusa di aver riciclato soldi di imprenditori al termine di indagini condotte proprio dagli specialisti del Valutario. In uno degli interrogatori il prelato racconta: "Nattino aveva un conto all’Apsa (poi chiuso) e un figlio di Luigi Mennini (ex dirigente Ior coinvolto nel crac Sindona, ndr ) lavorava nella banca da lui diretta. Fece un’operazione di aggiotaggio di cui si parlava nei corridoi e che riguardava titoli della sua banca che subivano oscillazioni e che venivano comprati e venduti, di fatto, sotto mentite spoglie. A quanto ricordo i titoli erano stati fatti artatamente scendere di valore e Nattino li riacquistò al momento giusto senza apparire e servendosi dello schermo dell’Apsa". Circostanze che evidentemente sono state ritenute attendibili dagli inquirenti della Santa Sede. Movimentazione di somme. Nella richiesta di assistenza giudiziaria all’Italia il promotore Gian Piero Milano sottolinea come "nella condotta del signor Nattino sono ravvisabili movimentazioni di ingenti somme di denaro eseguite attraverso attività finanziarie detenute nella città del Vaticano e aventi a oggetto la negoziazione in Italia di strumenti finanziari o la sottoscrizione di titoli oggetto di offerte pubbliche e relativi a emittenti facenti capo alla famiglia Nattino". Una parte degli accertamenti è già stata svolta perché "il 12 marzo scorso è stata sequestrata l’intera documentazione relativa al conto e dal materiale acquisito è emerso che alcune movimentazioni hanno come origine l’Italia dove dovrebbero essere accesi altri conti a lui intestati". Ma adesso si va avanti con "indagini dirette ad accertare la sua responsabilità, nonché quella di altre persone al momento non identificate che potrebbero aver concorso nel reato agevolandolo". Verifiche sui computer. Sono numerosi i filoni di inchiesta che riguardano quanto avvenuto all’interno della Santa Sede. La procura di Roma ha ordinato il sequestro del computer del marito di Francesca Chaouqui - accusata di essere uno dei "corvi" - e lo sottoporrà a perizia per "ricostruire" le intrusioni informatiche che avrebbe compiuto per reperire materiale da utilizzare per i ricatti. Attività illecite contestate dai pubblici ministeri di Roma, costate a entrambi e all’ex funzionario di palazzo Chigi Mario Benotti l’accusa di associazione per delinquere finalizzata. Tutti e tre hanno chiesto di essere interrogati dai pubblici ministeri. Appuntamento rinviato al termine delle verifiche tecniche affidate ai periti scelti dalla procura di Roma. Egitto: il giornalista Ismail Alexandrani detenuto per diffusione di "false informazioni" di Emanuela Barbieri arabpress.eu, 3 dicembre 2015 Il tribunale della Sicurezza Nazionale egiziana ha deciso di mettere in custodia cautelare per 15 giorni il giornalista e ricercatore Ismail Alexandrani. Alexandarani è accusato di pubblicare "false informazioni con l’obiettivo di danneggiare l’interesse nazionale e perturbare la quiete pubblica" e anche di "appartenere ai Fratelli musulmani". Specialista nei movimenti jihadisti nella penisola del Sinai, noto per i suoi scritti critici alle autorità del paese, in viaggio dalla Germania lo studioso egiziano è stato arrestato il 29 novembre al suo arrivo a Hurghada, sulle rive del Mar Rosso. È stato trasferito alla sede della Sicurezza Nazionale del Cairo, dove "è stato interrogato alla presenza dei suoi avvocati", ha detto sua moglie Khadija Gaafar. Secondo una fonte di sicurezza di Hurghada, contattata dalla Associated Press, l’ambasciata egiziana a Berlino ha comunicato alle autorità aeroportuali l’arrivo di Alexandrani che è stato arrestato per "cooperazione con le organizzazioni internazionali dei diritti umani" e "diffusione di false informazioni", ha detto un ufficiale sotto anonimato. Il giornalista egiziano Abdelrahman Ayyash ha postato sulla sua pagina Facebook che Alexandrani era stato recentemente invitato a Berlino per dare conferenze sulla situazione politica in Egitto, dove ha parlato di combattenti jihadisti attivi nel Sinai.