Un appello e tante lettere al Vescovo di Padova Ristretti Orizzonti, 31 dicembre 2015 Per difendere i 35 detenuti dell’Alta Sicurezza che rischiano il trasferimento da Padova e il ritorno nei ghetti delle sezioni AS sparse per l’Italia. Carissimo Vescovo di Padova, ci rivolgiamo a Lei perché è passato poco tempo da quando è arrivato in città, ma già ha dato tante prove del suo interesse profondo per il mondo del carcere, è stato più volte alla Casa di reclusione, ha voluto conoscerci, vedere come viviamo, sapere le nostre storie, e poi ha deciso che la cappella del carcere diventasse Porta santa del Giubileo. È per questo, perché La sentiamo vicina e abbiamo visto la sua sensibilità, che Le chiediamo di farsi testimone e portavoce di una realtà complicata che riguarda il carcere di Padova: la presenza, al suo interno, di 35 detenuti del circuito dell’Alta Sicurezza, che da nove mesi attendono che il loro destino venga deciso. Quando il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha preso la decisione di chiudere le sezioni AS, sapeva di chiudere una delle poche realtà di questo tipo di circuiti che funzionano davvero, garantendo alle persone detenute un reale percorso di rieducazione. I detenuti presenti in quelle sezioni hanno deciso allora di chiedere di essere declassificati, dopo anni di permanenza in Alta Sicurezza, e di poter così rimanere a Padova nelle sezioni comuni, una richiesta che si basa sul rispetto della legge, che stabilisce che ogni sei mesi sia rivista la permanenza del detenuto in un circuito. Alcuni detenuti hanno ottenuto la declassificazione, ad altri è stata negata e sono quindi stati trasferiti. 35 aspettano da nove mesi, vivendo in una condizione di angoscia e di paura di perdere, da un giorno all’altro, quella condizione di quasi "normalità" che hanno trovato a Padova, dove passano il tempo in modo utile, andando a scuola, lavorando, partecipando ad attività come la redazione di Ristretti Orizzonti e il progetto di confronto fra le scuole e il carcere, che costringe le persone detenute a un confronto serio e profondo con la società. Le chiediamo allora di rappresentare di fronte alle autorità la situazione di questi 35 detenuti, e di chiedere che l’anno della misericordia inizi con un atto di umanità nei confronti loro e delle loro famiglie. Non si tratta di mettere in libertà delle persone, non stiamo chiedendo l’impossibile, si tratta solo di fargli continuare l’esperienza che hanno iniziato nel carcere di Padova: un’esperienza di superamento delle condizioni di vita nelle sezioni-ghetto dell’Alta Sicurezza, alle quali dovranno tornare se non gli verrà, finalmente, riconosciuto che non sono più persone pericolose, che sono in grado di affrontare la vita detentiva in una sezione comune e di continuare il loro percorso di crescita, di cambiamento, di recupero della loro umanità. Perché di fronte a una condanna disumana si deve aggiungere altra sofferenza? di Lorenzo Sciacca Ristretti Orizzonti, 31 dicembre 2015 Buongiorno Signor Vescovo, mi chiamo Lorenzo Sciacca, ci siamo conosciuti nella redazione di Ristretti Orizzonti, come avrà capito sono un detenuto, un detenuto "comune". Caro Vescovo mi sento in dovere di dirle che non sono credente, lo ero, ma la mia fede è andata persa da molti anni, la mia fede è stata messa a dura prova e io quella prova non sono riuscito a superarla, forse per debolezza o forse per altro, non lo so, so solo che oggi preferisco provare a credere esclusivamente nelle persone. Le scrivo perché vorrei tanto che mi aiutasse a trovare delle risposte, risposte a domande che ho fatto molte volte nei miei scritti, ma mai nessuno si è degnato di rispondermi. Così ho deciso di provare a condividerle con Lei, se dovesse approvarle, mi piacerebbe tanto che le rivolgesse anche Lei alle persone competenti, magari la sua voce avrà l’effetto che tanto desidero, quello di essere ascoltato e avere risposte. Come saprà il carcere è suddiviso nei cosiddetti circuiti, le sezioni comuni e le sezioni di Alta Sicurezza che, a loro volta queste ultime, si dividono in altre due classificazioni, sezioni AS1 e sezioni AS3. Ormai è da quasi un anno che i miei compagni dell’Alta Scurezza sono in lista per partire. Caro Vescovo stiamo parlando di uomini che sono in carcere da decenni, alcuni anche tre decenni. Uomini che da quasi un anno, grazie all’ex Direttore Dottor Salvatore Pieruccio, frequentano le varie attività che questo istituto offre. La scuola, la redazione di Ristretti Orizzonti, laboratori di lavoro tipo di scrittura, di falegnameria, insomma fanno qualcosa di costruttivo e in più occupano anche queste giornate che molto spesso sono tristi e buie. La cosa che bisogna che Le precisi è che durante queste attività, questi uomini sono in contatto con tutti i detenuti come me, cioè detenuti comuni. Prendiamo per esempio la realtà della redazione di Ristretti Orizzonti. Come sa noi tre volte a settimana incontriamo gli studenti, circa seimila l’anno e non solo, organizziamo convegni invitando 600 persone esterne, organizziamo seminari con i giornalisti, insomma siamo a contatto con il mondo esterno, siamo liberi di poterci confrontare con la società che molto spesso crede che il carcere non le appartenga, nella nostra attività siamo costantemente in contatto con il mondo esterno. Ecco, quello che io mi chiedo è perché è stato deciso che queste persone debbano partire per andare in posti dove si rischia una regressione della persona, perché sono carceri che di umano non hanno proprio niente, perché caro Vescovo? Io ho un vissuto molto complicato e oggi sto provando a ricostruirmi una vita con la consapevolezza del male che ho recato in tutti questi miei anni vissuti immoralmente. Se oggi, con grande difficoltà, ho deciso di intraprendere questo percorso di cambiamento è perché inizio a comprendere cose che prima, accecato dalla troppa rabbia, non riuscivo a vedere. Vede, caro Vescovo, i miei compagni stanno facendo lo stesso lavoro che faccio io e cioè si mettono in discussione, allora mi chiedo perché non far proseguire questo percorso di cambiamento? Stiamo parlando di uomini che la loro grossa condanna già la stanno subendo perché molti di loro, quasi tutti, hanno l’ergastolo ostativo, quindi difficilmente potranno riabbracciare la libertà, un figlio, la propria moglie o una madre anziana. Perché, Caro Vescovo, di fronte a una condanna così disumana l’essere umano deve aggiungere altra sofferenza? Perché non ci si accontenta mai? Io provo a immaginare le loro famiglie, i loro figli, il cambiamento radicale che dovranno subire, per esempio negli altri carceri saranno concesse solo due telefonate e i colloqui Skype non esistono, invece qui a Padova si cerca di umanizzare una pena, di renderla meno sofferente di quello che già la rende l’essere privati della libertà. Mi ricordo questi uomini quando iniziarono a scendere le prime volte nella redazione, mi creda Signor Vescovo, non riuscivano a comunicare, erano impacciati nei movimenti, avevano perso quei tratti che caratterizzano ogni essere umano perché non riuscivano ad esprimersi, e questo era causato da tanti anni di carcerazione rinchiusi senza la possibilità di confronto se non tra di loro, invece oggi con molta fatica hanno ripreso ad esprimersi con un vocabolario che differentemente da prima supera i cento vocaboli. Da quasi un anno sono costretti a vivere nel limbo più assoluto senza sapere cosa ne sarà di loro, e le loro famiglie vivono ancora peggio, perché anche se hanno i propri mariti, i genitori lontani da casa da tanti, troppi anni, le famiglie non smettono mai di amarli. Papa Francesco nella messa domenicale ha detto che un genitore deve benedire il proprio figlio al primo risveglio e a fine giornata, questi uomini non lo possono fare perché devono pagare degli errori fatti tanti e tanti anni fa, ma perché infliggere altro dolore? Caro Vescovo, il mio scritto non vuole convincerla in una causa che io e la redazione abbracciamo fortemente, voglio solamente porre a lei queste domande e le chiedo esplicitamente che se non riuscisse a darmi delle risposte, allora mi aiuti, ci aiuti a cercarle dalle persone che da anni gestiscono le carceri, spesso in maniera poco umana. Ci aiuti a far comprendere che l’uomo può sbagliare, ma è anche in grado di redimersi se gli viene tesa una mano. Concludo salutandola con una forte stretta di mano e con la speranza di poterla incontrare nuovamente nella nostra redazione. L’anno della misericordia sia un miracolo per noi che siamo rinchiusi in queste sezioni-ghetto di Domenico Vullo Ristretti Orizzonti, 31 dicembre 2015 Monsignor Claudio Cipolla, sono il detenuto Domenico Vullo, ristretto presso l’istituto di pena Due Palazzi. Le scrivo in quanto da diversi mesi mi trovo nell’attesa di essere trasferito o declassificato. Mi ritrovo in questo istituto da circa tre anni dove da subito mi sono adoperato per migliorare il mio percorso detentivo, studiando tenacemente mi sento cambiato. La mia declassificazione servirebbe al mio miglioramento, nonché al recupero del calore della mia famiglia. Che questa misericordia della Porta Santa sia un augurio verso coloro che non credono nel redimersi di una persona, Il cammino di catecumenato che frequento con impegno ha cambiato il senso della mia vita, spingendomi ad assumere una responsabilità di uomo, di padre, non solo verso la mia famiglia ma anche verso il mio prossimo. Sono certo che la sua voce arriva più alta alle persone competenti come l’istituzione che non sembra ascoltare le parole di papa Francesco, che più volte ci ha ricordati nelle sue preghiere. Quest’anno nella misericordia sia un miracolo per tutti noi che siamo rinchiusi nel ghetto di queste sezioni. Vivo nell’attesa che ci sia un evento fortunato per noi e per le nostre famiglie la ringrazio di avermi ascoltato e letto questo umile scritto. Le auguro un sereno anno nuovo e di rivederla ancora. Sia Lei, Vescovo, a chiedere un atto di coraggio verso di noi di Giovanni Zito Ristretti Orizzonti, 31 dicembre 2015 Monsignor Claudio Cipolla, sono l’ergastolano Giovanni Zito, detenuto presso il Due Palazzi. Rivolgo il mio appello alla Sua cortese attenzione in quanto ormai da diversi mesi temo con ansia di essere trasferito chissà dove. In questi ultimi tempi si parla della misericordia di Dio e dell’apertura della porta Santa che Lei simbolicamente ha voluto dentro questo istituto di pena. Il mio desiderio è quello di poter essere declassificato in quanto sono ristretto presso la sezione di Alta Sicurezza, che non significa mandarmi a casa o avere la libertà, ma vivere la mia detenzione come i detenuti comuni, avendo più occasioni di partecipare ad attività trattamentali e continuare il mio cammino di ravvedimento. Perché questo ergastolano scrive al vescovo? perché sono un uomo che con tutti i propri errori sta cercando disperatamente di sopravvivere. Sono detenuto dal 1996 ed ero quasi un giovane adulto quando avvenne il mio arresto. Da allora la mia vita non ha trovato pace, ho scontato 10 anni di tortura in regime di 41 bis e dopo essere stato declassificato da quel terribile regime mi ritrovo sepolto in un’altra sezione, dove si parla poco o nulla della mia vita, se vita si può definire un fine pena mai. Desidero voltare pagina, ma più cerco di uscirne vivo e più le istituzioni non vogliono ascoltare, ecco perché il mio grido silenzioso si posa sulla Sua persona, a Lei Monsignore che si è rivolto a questa sezione in cui siamo 24 naufraghi aggrappati con tutta la nostra tenacia, a Lei che ha toccato la povertà, la fame degli uomini, il dolore devastante della vita, dove l’indifferenza uccide il prossimo lasciandolo solo. Noi della sezione di Alta sicurezza osiamo chiedere al nostro Vescovo che agisca affinché cessi questa specie di limbo di angosciante attesa nei nostri confronti e ci sia un atto di coraggio e clemenza perché siamo anche noi figli di Dio. C’è un versetto della Bibbia che recita: un pastore ha cento pecore e ne perde una, non lascia forse le altre novantanove per recuperare la centesima? Ecco io desidero che noi tutti possiamo essere recuperati con un atto di misericordia e vivere nella pace. Solo Lei Monsignore può gridare più di noi e farsi ascoltare dalle istituzioni competenti, Lei che veglia su questo gregge che vogliono far smarrire chissà per quali destinazioni. Non siamo più quei giovani di un tempo, adesso siamo uomini maturi e responsabili della vita, siamo padri, nonni, e tanti di noi non abbiamo più neanche i genitori vivi. La nostra vita sta finendo dentro le mura della prigione e ne siamo coscienti, ed è per questo che non osiamo chiedere di più se non solo un atto di considerazione per noi e le nostre famiglie, che sono coloro che soffrono di più seguendoci per tutta l’Italia. Abbiamo scontato più di vent’anni di carcere con dolori e sofferenze per i nostri figli che sono cresciuti senza un padre vicino anno dopo anno. Anche Papa Francesco più volte quest’anno si è ricordato di noi ergastolani, che sia Lei vescovo a chiedere un atto di coraggio verso di noi. Non voglio tediarla più di tanto e la prego di scusarmi se oso chiederle aiuto, ma La prego faccia un appello per questi detenuti congelati in questa sezione di Alta Sicurezza affinché possano rimanere qui e proseguire il loro percorso. Il rischio di un trasferimento interromperebbe il percorso che stiamo facendo qui a Padova di Antonio Papalia Ristretti Orizzonti, 31 dicembre 2015 Caro Padre Vescovo Claudio, nell’occasione dell’apertura della porta Santa qui in carcere per l’anno del giubileo della misericordia di Dio, noi detenuti della sezione AS1, per la maggior parte condannati alla pena dell’ergastolo, approfittiamo per fare a Lei, quale massima rappresentanza religiosa della città di Padova, richiesta di un suo intervento, non per chiedere la libertà, ma affinché si metta fine alla sofferenza in cui stiamo vivendo da quasi un anno. Siamo appesi ad un filo perché la sezione AS1 verrà chiusa e non sappiamo ancora quale sia il nostro destino, siamo in attesa da circa un anno di una eventuale declassificazione che a tutt’oggi non arriva, lasciando noi e le nostre famiglie in balia di un mare in tempesta. Già soffriamo per la pena senza fine che stiamo scontando, a questa si aggiunge anche il rischio di un trasferimento che interromperebbe il percorso che stiamo facendo qui nel carcere di Padova e saremmo costretti ad iniziare tutto daccapo rischiando di vanificare tutto ciò che abbiamo fatto sino ad oggi. Caro Padre Vescovo Claudio, in nome di Dio e dell’anno della misericordia chiediamo a Lei di intervenire in nostro aiuto, chiedendo a chi di dovere la grazia di essere declassificati, cosicché possiamo proseguire il percorso che ognuno di noi sta facendo. Grazie per quanto potrà fare per tutti noi. Auguriamo buon Natale a Lei Eccellenza e a tutta la sua diocesi. I detenuti del 7° blocco lato A della Casa di Reclusione di Padova La speranza è che si possano aprire le porte dei cuori di chi può fermare questi trasferimenti di Letterio Campagna Ristretti Orizzonti, 31 dicembre 2015 Carissimo Monsignor Claudio Cipolla, sono uno dei ventiquattro detenuti ristretti nella sezione di Alta Sicurezza AS1, mi chiamo Letterio Campagna e mi trovo in codesto istituto da quattordici mesi, dopo avere passato due anni e tre mesi nel circuito di 41bis. Ringrazio il nostro buon Dio di avermi fatto arrivare qui, poiché c’è la possibilità di usufruire del collegamento Skype con la propria famiglia. Non vedo di persona mia moglie e i miei figli da quattro anni e mezzo, perché abitano lontani e non è facile sostenere economicamente il viaggio. Sono un credente, frequento assiduamente un percorso di catecumenato e non mi perdo una Santa messa, mi sento vicino al Nostro Dio e la mia fede cresce di giorno in giorno. Ho ritrovato la speranza che avevo perduto durante la mia detenzione al 41bis, confortandomi nella preghiera. Adesso da un momento all’altro io e tutti i detenuti di questa sezione verremo trasferiti in altri carceri, con l’incognita di non sapere a cosa andremo incontro. Monsignore, sia io che tutti i miei compagni, ci rivolgiamo a Lei perché possa rivolgere una parola agli organi competenti, perché possano ascoltare le parole del Santo Padre, Papa Francesco. Siamo nell’anno del Giubileo, nell’anno della misericordia e del perdono, sono state aperte tante Porte Sante in tutto il mondo e in noi vive la speranza che si possano aprire anche le porte dei cuori di chi può fermare questi trasferimenti. Molti di noi aspettano una declassificazione da questo circuito di Alta Sicurezza, aspetto e convivo tutti i giorni con l’ansia che da un momento all’altro non potrò più vedere mia moglie attraverso Skype, per questo mi appello alla Sua misericordia, le Sue parole avranno una considerazione maggiore rispetto alle parole di un condannato, pongo tutte le mie speranze su di Lei, che Dio la benedica e Le auguro un buon anno pieno di pace e serenità. Tanti saluti da uno dei tanti umili servi di Dio. Quel santo cancello… di Angelo Meneghetti Ristretti Orizzonti, 31 dicembre 2015 Ho un fine pena un po’ lungo, esattamente il "31.12.9999", sono un ergastolano detenuto presso la Casa di reclusione di Padova. Domenica 27 dicembre per me è stato un giorno speciale perché ho potuto partecipare ad un evento che sarà unico nella mia vita, a cui a diversi ergastolani e tanti detenuti non è stato consentito di partecipare (la chiesa è piccola). Dico evento unico perché non riuscirò mai a scontare la mia pena, ma se vivessi così a lungo, avrei diverse possibilità di essere presente ad eventi così particolari. Il vescovo di Padova, Claudio Cipolla, ha aperto la Porta della Misericordia, facendo sì che la chiesa del carcere sia una chiesa giubilare. Partecipando a quella Santa Messa, ho incontrato degli ergastolani "ostativi", ci siamo salutati velocemente con una stretta di mano. Raramente ci incontriamo, appartengono alla sezione differenziata "AS1", tranne quei pochi di loro che sono ammessi a frequentare le scuole e lì invece ci possiamo incontrare. Quelle facce di quegli ergastolani "ostativi", le ho incontrate la prima volta venti anni fa nel carcere di Cuneo, ed erano sempre situati al reparto differenziato, in quanto sottoposti al "brutale" regime del 41 bis. Li ho conosciuti che erano uomini, io ero un ragazzo, adesso io sono uomo (ho quasi cinquant’anni), e loro non sono più uomini, sono anziani (certi hanno raggiunto la terza età da diversi anni). Ovviamente, un ergastolano ostativo terminata la santa messa, mi ha detto: "Angelo, beato te che ti stai incamminando per quel "Santo Cancello", e hai la possibilità di accedere in diversi luoghi di questo carcere". Gli ho ricordato che, anche se posso accedere in qualche luogo del carcere e alla redazione di Ristretti Orizzonti, abbiamo però lo stesso fine pena e non saremo mai uomini liberi. Comunque, gli ho suggerito di non perdere la speranza, e se il vescovo ha aperto la Porta Santa, vedrai che prima o poi quel cancello di quella sezione differenziata in cui ti trovi (Alta Sicurezza), sarà il cancello della Misericordia, e voi differenziati sarete in mezzo ai detenuti comuni. Con rammarico mi ha risposto: "Ci vorrebbe un miracolo per essere declassificati". Ho ribattuto con il mio solito sorriso dicendogli: "Il vescovo ha celebrato l’Anno Santo qui in carcere, davanti a noi, vuoi che non sia l’anno dei miracoli?". Anche se il vero Miracolo sarebbe che tutti gli ergastolani avessero "un fine pena certo", come gli altri detenuti, in modo da continuare ad avere speranza che un domani potremmo tornare liberi e riprendere a vivere quei pochi giorni che ci restano, con i nostri familiari. Natale e capodanno 2015: Diario di un detenuto. Prima puntata di Lorenzo Sciacca Ristretti Orizzonti, 31 dicembre 2015 Oggi è il 24 dicembre 2015, è mezzogiorno e ho appena finito di passare il carrello con il vitto per i miei compagni, niente di speciale, riso con il sugo, delle verdure bollite e una fettina a testa di tacchino. Stamattina al risveglio, come sempre, ho portato il caffè al mio compagno di cella Piero - ergastolano - e gli ho detto "Buongiorno, anche quest’anno sta finendo Piero" mi ha risposto: "Cosa cambia Lorenzo, 2015, 2016 poi ci sarà il 2017, ormai sono quasi 20 anni che gli anni si ripetono sempre tutti uguali". Non te l’ho detto Piero, ma hai ragione, gli anni qui dentro sono sempre uguali, i giorni si ripetono e non si stancano mai di ripetersi, sempre con la loro stupida banalità, senza speranze, perché i sogni non sono speranze, per noi i sogni sono solo delle utopie, un modo per rimanere aggrappati a quella vita che non viviamo più da tempo. Ma iniziamo l’ennesimo giorno, magari avremo qualche novità, chissà! Mi ricordo che mia madre in questo giorno ribaltava letteralmente la casa per fare le pulizie, io farò la stessa cosa, le pulizie natalizie. Sicuramente la mia cella è molto più piccola, ma per la quantità di cose che abbiamo è paragonabile a una vera casa. Vestiti, pentole, detersivi, cibo, scarpe, tutto è apparentemente in ordine, ma quando apro qualche armadio, ad esempio quello dei miei vestiti, tutto è ammassato, compresso, deformato, allora oggi tiro fuori tutto dalla cella, anche i materassi, devo dare una bella pulita anche a queste arrugginite brande di ferro. Insomma ribalto la nostra casa. Nel frattempo i compagni che sento più vicini e con cui passo più tempo assieme stanno cucinando per stasera. È appena passata la posta ed è entrato Piero con un po’ di lettere e cartoline di auguri, io niente. Vedo il suo imbarazzo sul suo volto nei miei confronti perché non ho ricevuto niente, ma percepisco anche una grande gioia sul suo viso, sono contento per lui, ma non vi nascondo che anche a me sarebbe piaciuto ricevere qualche cartolina, anche un dépliant di pubblicità natalizie mi avrebbe fatto piacere. Comunque Lorenzo è ora di mettersi in moto e di tenere la mente più lontana possibile dalla libertà, questo pensiero non ti riguarda. Sono le dodici e mezza e c’è la chiusura delle celle, non pensavo che ci avrebbero chiuso, pensavo che in questi giorni di festa ci avrebbero lasciati "liberi" in sezione. Ho provato a chiedere all’agente se mi potesse lasciare aperto visto che ho messo tutto fuori, ma mi ha risposto "Non posso Sciacca, è una questione di sicurezza". Non capisco cosa ci sia di insicuro, a chi dovrei fare del male? Comunque ora sono chiuso e stupidamente ho dimenticato fuori il secchio con l’acqua calda e in cella ho solo acqua fredda. Vabbè aspetterò l’apertura dell’una per riprenderla. Guardando il telegiornale capisco che fuori si sta vivendo con il terrore. Le persone evitano i posti affollati per paura di qualche attacco terroristico. Paradossalmente in questo periodo l’unico posto sicuro è proprio questo, il carcere. Faccio veramente molta fatica a dare una spiegazione a questi atti terroristici, addirittura ho sentito che in qualche Paese fanno scendere dai pullman dividendo i cristiani dai mussulmani e poi i cristiani li giustiziano, ma c’è stato un episodio dove i mussulmani per salvare i cristiani si sono scambiati i vestiti. Mi ha molto colpito questo gesto di enorme solidarietà. Io non sono credente, ma lo stesso penso che uccidere invocando il volere di un Dio sia una cosa schifosa. Visto che sono chiuso approfitto per sistemarmi i vestiti in maniera decente e quando finirà questa mezz’ora di sicurezza riprenderò a pulire. 24 dicembre, ore 17 I miei compagni sono scesi a messa, in teoria dovrebbe essere la "vostra" (dei cittadini liberi) messa che farete a mezzanotte. Prima è entrato un mio compagno chiedendomi perché non andassi a messa, gli ho risposto che non credo più da tempo, a sua volta mi ha chiesto a cosa credo, nelle persone gli ho risposto, ma detto tra noi questo è un periodo in cui sto perdendo anche questa fiducia. Ormai tante, troppe persone promettono, si riempiono la bocca invocando delle giuste cause, ma poi tutto si esaurisce quando hanno ottenuto ciò che volevano ottenere. Prendiamo per esempio i buoni cristiani, quelle persone che sono delle persone fedeli, persone che ogni giorno pregano, alla domenica vanno a messa per confessarsi e per la comunione, professano il bene, ma poi se gli chiedi cosa ne pensano dell’ergastolo alcune rispondono anche che è sempre troppo poco, altre chiedono la pena di morte… beh allora di fronte a questo rimango basito, inizio a chiedermi in cosa devo avere fiducia e in chi. Ho notato che nella nostra sezione, diversamente dagli altri anni, non hanno messo l’albero di natale, non che mi dispiaccia, diciamo che rimango indifferente, ma questo mi fa capire come piano piano le istituzioni vogliono toglierci anche lo spirito che certe feste dovrebbero portare. Penso che qualcuno si poteva degnare di mettere qualcosa di colorato, una scritta di auguri… insomma qualcosa che facesse ricordare alle persone che nel mondo ci sono anche loro, che anche a loro gli è rimasto il diritto della gioia del Natale. Ma ripeto che non sono dispiaciuto e molto onestamente neanche stupito, ormai conosco questi posti, conosco come cercano di annientare una persona, non farla sentire un essere umano ma solo un numero, un fascicolo. 24 dicembre, ore 19.30 Gli agenti hanno appena chiuso le celle e come tutti mi ritrovo già a letto. La cena è andata bene. Abbiamo fatto 4 risate, poi però è calato un velo di tristezza sulla tavola, ma era inevitabile che accadesse. Alcuni dei miei compagni hanno iniziato a raccontare dei lontani Natali passati con la propria famiglia. Io non amo molto rendere partecipi gli altri dei miei ricordi, ma nella mia mente anch’io sono andato a ritroso, ho pensato a mio figlio. Il Natale 2006 è stato l’ultimo che sono riuscito a passare assieme a lui, poi la sua vita è stata strappata da un brutto male. Era stato proprio bello quel Natale, anche se già aveva iniziato i cicli di chemioterapia, era bello ed era felice. Sono passati tanti anni, ma mi manca come sempre. Quando i miei compagni raccontavano i loro Natali in famiglia le espressioni di malinconia sui loro volti erano evidenti, anche se sorridevano i loro occhi erano lucidi a pensare alla propria madre che cucina, ai loro figli in attesa della mezzanotte per aprire i regali. Piero sono quasi 20 anni che non passa un Natale in famiglia, lui è una persona molto silenziosa e riservata, ma io lo conosco e so quanto soffre. Verso le sei, ad uno a uno, si sono alzati dalla tavola per andare a telefonare alla propria famiglia, dieci minuti ciascuno, io no, io non ho più una famiglia. Ancora una volta ho provato un pizzico d’invidia per quei pochi minuti concessi per sentire la propria famiglia, una vera miseria, ma anch’io avrei voluto tanto chiamare qualcuno, sentire una voce familiare, ma non posso, mi sarei accontentato di chiamare anche l’avvocato per sentire una voce diversa dalle solite e sentirmi fare gli auguri, ma sono certo che anche lui sarà con la sua famiglia a festeggiare e nel suo studio regnerà il gelo come oggi regna nel mio cuore. Va bene Lorenzo, forza un altro giorno è giunto al termine, ora mi guarderò Un posto al sole, sono certo che anche in questa telenovela festeggeranno il Natale, ma non posso perdermi la puntata. Buonanotte. 25 dicembre La prima persona che mi ha fatto gli auguri di buon Natale è stato l’appuntato che stamattina alle sette e un quarto è venuto ad aprirmi per andare a prendere il latte da passare ai miei compagni, l’ho ringraziato e contraccambiato. Devo rimangiarmi una cosa che ho scritto ieri… quando sono uscito, non vedendo l’albero di Natale come gli altri anni mi è mancato, ho sentito qualcosa di diverso dentro di me. Ho provato a chiedere all’appuntato come mai quest’anno nessuno avesse pensato di mettere qualche decorazione, mi ha risposto che i volontari gli altri anni portavano qualche decorazione, quest’anno non hanno portato niente. Peccato! Poi passando il carrello per le celle i miei compagni facevano gli auguri a me e a tutta la mia famiglia, quale se non ce l’ho? Ma loro non lo sanno. Ad ogni cella consegnavo il solito bicchiere di latte, ma diversamente dagli altri giorni ho dato anche delle crostatine che di solito l’amministrazione dà solamente alla domenica, ma oggi è festa, quindi una bella crostatina per rallegrare l’umore di questa giornata di festa è quello che ci voleva… quando sono arrivato alla fine, nel carrello, mi sono avanzate 8 crostatine, devono essersi sbagliati, ho deciso di fare l’omertoso e di non dire niente, sono passato in quelle celle che sono povere, ma essendocene molte, più di 8, sono tornato nella mia cella e in quella del mio amico Raffaele a riprendere le nostre, Raffaele dormiva ancora, ma so che capirà e che se ne farà una ragione se passerà un Natale senza crostatine. Comunque sono ripassato con le nuove crostatine. È stupefacente di quanto i detenuti si accontentano di così poco, mi hanno ringraziato con un sorriso per delle banalissime crostatine. Poi l’agente ha aperto tutti, stamattina un quarto d’ora prima, alle 8. La sezione ha preso vita, tutti quanti si stringevano la mano, si baciavano augurando un buon Natale a loro e alla propria famiglia. C’è stato un momento che avrei voluto tanto gridare a tutti che non ho famiglia, che la mia famiglia ha deciso di mollarmi perché io ho deciso di non essere più il Lorenzo di un tempo. Questo ha comportato la mia scelta di cambiamento, ma sono certo che i miei genitori se fossero stati ancora vivi avrebbero rimproverato i miei fratelli e mi sarebbero stati vicino e sarebbero stati anche molto contenti, soprattutto mia mamma. Avrei potuto telefonare, fare un colloquio, ricevere qualche pensiero per Natale… insomma sentirmi vivo e importante per qualcuno. Ma basta fare ipotesi, Lorenzo, basta, la realtà non è questa, la realtà è che tu hai deciso, hai fatto una scelta importante e cioè quella di provare a fare e ad essere altro nella tua vita, a ragionare in maniera diversa, a comprendere il male che hai sempre recato, e continuare a sognare ti fa solo male, e poi hai ancora tanti anni da scontare. È sera e come tutte le altre sere sono sotto alle mie gelide lenzuola. In questa notte di Natale vorrei tanto riprovare il calore dell’amore, ma non mi è concesso, non è concesso a nessuno riprovare determinate emozioni, è una cosa che deve appartenere solo agli esseri umani e i reclusi non lo sono, i reclusi sono solo dei pezzi di carne che camminano, non hanno diritto di provare delle belle emozioni, devono espiare le loro colpe nella maniera più crudele possibile, e appena qualcuno si accorge che un detenuto sta tentando di riprovare dei sentimenti, spesso viene fatto il possibile perché tutto ritorni alla "normalità", cioè al nulla completo. Quella parte buona di me, quella parte che sa amare, devo tenerla nascosta, non posso farla uscire allo scoperto, me la toglierebbero con prepotenza e io voglio tenermela stretta. Chiacchierando con Raffaele dopo cena mi ha detto "Lorenzo speriamo che passano in fretta queste feste, continuo a pensare alla mia famiglia, ma non è pesante solo per questo pensiero costante, il fatto è che il carcere è morto in questi giorni, non possiamo neanche uscire all’aria perché fa freddo e i giubbotti che ci fanno passare sono senza cappuccio e neanche troppo imbottiti". Un compagno che ha sentito questa sua frase si è intromesso e ha risposto "per me sono giorni comuni, non facevo niente prima e non faccio niente neanche in queste feste". È vero! Io noto la differenza perché sono sempre in qualche attività, mattina scuola, pomeriggio redazione e quando salgo nella sezione me ne vado in palestra, ma molti miei compagni, quasi tutti, sono sempre qui, fanno avanti e indietro in questo lungo e sporco corridoio, alcuni stanno appoggiati ai caloriferi a scaldarsi le ossa, altri passano giornate intere sotto le coperte imbottiti di tranquillanti, mi devo ritenere fortunato? Un prescelto? Non so darmi delle risposte a queste domande, ma so che una volta ero come loro, passavo giornate nell’ozio, me ne stavo sdraiato sulla mia branda a pensare, a sognare quella rapina che mi avrebbe sistemato la vita. Invece ultimamente sognavo una vita fuori da qui, con persone che amo, ma come già vi ho detto non voglio più sognare, fa solamente male e sono stanco di soffrire. Domenica 27 Ieri è stata una giornata triste, una giornata caratterizzata da tanti ricordi, ricordi belli, ma inevitabilmente in questi posti tutti i ricordi sono amari, a volte sorridi ma dai tuoi occhi scorre qualche lacrima, quindi ho preferito vivermi la giornata sdraiato a letto a fissare il soffitto pensando a quei pochi attimi di gioia della mia vita. Sono stati veramente pochi, pochi ma belli. Oggi il Papa ha detto che è la giornata delle famiglie, anche se non sono credente ascoltare la sua messa è molto piacevole, mette pace a questa mia anima inquieta. Ha detto che i genitori devono benedire i propri figli al mattino al primo risveglio e alla sera prima di dormire. La prima cosa che mi è venuta in mente sono i detenuti ristretti al regime di tortura del 41bis. Loro i propri figli non possono neanche toccarli, possono solo vederli attraverso un vetro. Immagino le scene di bambini piccoli appoggiare le loro minuscole manine sui vetri cercando di toccare il proprio padre, provo a immaginare le emozioni di dolore, ma anche di rabbia che prova un padre a vedere il viso innocente del proprio figlio piangere. Anche se non si vivono personalmente queste cose si riesce lo stesso a immaginarle, e quando le immagini devi sempre pensare che è molto peggio di quello che pensiamo. Lo stesso pensiero oggi riesco a rivolgerlo anche ai genitori che piangono su una lastra di marmo il proprio figlio o un figlio che piange il proprio genitore… il male è brutto, non penso che esista un male peggiore di un altro o anche un dolore, ognuno ha il suo dolore, ma non per questo penso che sia giusto che si trasformi il proprio dolore in vendetta. Far pagare il male con altro male non credo che sia la soluzione per sentirsi meglio, non ti sentiresti mai appagato di fronte alla sofferenza di chi ti ha recato del male, è una soddisfazione apparente, ma con il tempo ti logora. Ora direi che sia giunta l’ora di provare a prendere sonno… questo istante è il momento più brutto della giornata perché ho sempre il terrore di iniziare a ricordare troppo, ma anche di tornare a sognare, a fantasticare, farlo significherebbe addormentarsi con un sorriso, ma al primo risveglio la realtà ti sbatte in faccia nuovamente queste vecchie sbarre e tutti i sogni si frantumano in un attimo e questo è sempre doloroso. Lunedì 28 dicembre È sera tardi, è mezzanotte passata e non riesco a prendere sonno. Questa è l’ultima settimana del 2015, dovrei tirare le somme? È questa la domanda che non mi sta facendo dormire. Dovrei dividere le cose belle che mi sono capitate da quelle meno belle? Beh essendo un componente della redazione di Ristretti Orizzonti devo dire che ho fatto molto, non negli ultimi mesi, quelli li metterò nelle cose meno belle. Ho partecipato come tutti gli anni al progetto con le scuole. Ogni anno vengono a trovarci 5-6000 studenti per conoscere il carcere, per dare un volto a quelle persone che dai media vengono il più delle volte identificate come dei mostri, ma entrando gli studenti capiscono che non siamo dei mostri. Ad ogni incontro mi sono sempre sentito un passo più vicino alla società, la stessa società che ho sempre disprezzato. Raccontare ai ragazzi il peggio della propria vita non è per niente piacevole, dopo anni può anche diventare monotono, ma quando iniziano le loro domande, un po’ fatte per curiosità e un po’ per voler comprendere una scelta di vita come la mia, la monotonia svanisce per lasciare spazio a quella riflessione che inevitabilmente una domanda si porta con sé. Quest’anno scolastico, come ricordo principale, mi porterò dietro una lettera che mi scrisse una studentessa. In questa lettera mi scrisse molto onestamente che non credeva al mio cambiamento, diceva che una persona che ha fatto una scelta e che ha portato avanti questa scelta per anni e anni, non può cambiare. Assolutamente non è così, e questa sua affermazione ha dato alla mia voglia di riscatto una forza maggiore. Io sto cambiando, con fatica, ma sto cambiando. Certo non è per niente semplice, non so bene cosa deve scattare dentro a una persona, ma so che in me qualcosa si è azionato e, in buona parte, è grazie a questi ragazzi, a questo progetto. Quindi sono molto soddisfatto di questo mio anno scolastico, sono soddisfatto. Poi abbiamo, come ogni anno, abbiamo tenuto il seminario con i giornalisti a gennaio il tema è stato "Prima di giudicare la mia vita metti le mie scarpe" (cit. Luigi Pirandello). Tra i tanti ospiti c’era anche Giuseppe Ferraro, insegnante di Filosofia morale all’università di Napoli Federico II, il suo intervento è stato "La pena come diritto di ripensare a se stessi e riallacciare i legami recisi". Certo può sembrare un paradosso leggere la parola "pena" associandola a un diritto, ma deve essere così se vogliamo incominciare a pensare a una pena riflessiva, una pena che porta la persona alla comprensione del gesto commesso, e solo adottando una pena con il diritto di ripensare si può ricucire quella lacerazione che inevitabilmente un reato comporta nei confronti con la società, ma non solo. Un reato incide fortemente anche sulla vita familiare del detenuto, ma il detenuto se ne rende sempre conto quando attraversa queste barricate di cemento armato, mai prima, e su questo dovremmo iniziare a chiederci il perché di questo numero spropositato di recidivi che abbiamo nel nostro Paese. Ma ora è tardi e sento che è il momento buono per dormire senza sognare. Martedì 29 dicembre Oggi è stato concesso di scendere in redazione. Sono contento di uscire un po’ dalla sezione, ma subito sono ritornate le solite lunghe attese prive di senso dietro a questi cancelli. Per attraversare 4 cancelli ho aspettato 20 minuti e ad ogni agente che si presentava dietro a un cancello sempre la solita domanda "Dove devi andare?" "In redazione appuntato" "devi aspettare". Se in questo momento, che sono in redazione, decidessi di tornare in sezione i minuti di attesa si ridurrebbero a due, forse tre, ma non di più, non è un paradosso? Ieri sera ho fatto bene ad approfittare di quel momento per dormire, non ho sognato, la mia mente si è spenta in un attimo, niente sogni e niente ricordi e stamattina mi sento in forma. Quest’anno è stato un anno di lotte dure nella redazione, dure e faticose. Un giorno qualcuno che comanda si è svegliato e ha deciso che gli uomini che vivono da decenni nelle sezioni dell’Alta Sicurezza dovevano essere trasferiti, ma la redazione ha dato subito vita a una campagna per cercare di bloccarli, non con tutti ci siamo riusciti e ancora con queste poche persone che sono tuttora qui tutto è incerto. Provo a immedesimarmi in quei miei compagni che sono stati trasferiti da un carcere come questo di Padova, che considero meno peggio di altri perché offre delle opportunità, in carceri dove la vita è spenta, la vita viene depositata alla matricola al tuo primo ingresso assieme alla tua dignità e potrai riprendertela solo quando uscirai. E chi ha l’ergastolo? Beh mi dispiace ma se la può scordare, tutto gli viene confiscato. Ma penso anche ai miei compagni che sono ancora qui e sono in attesa di sapere come si chiuderà tutta questa vicenda. Vivono giorno per giorno in attesa, in attesa di qualche appuntato che si presenti alle 3, le quattro di mattina di fronte al cancello della propria cella per svegliarli con la classica frase "Sveglia, preparati la roba sei partente". Questa frase l’ho sentita centinaia di volte, molte volte rivolta a me, ma ancora di più rivolta a qualche mio coinquilino di cella e ho sempre detto e sentito la solita frase "Ma dove devo andare?" e sempre la solita risposta "non lo so, muoviti che c’è la scorta pronta". I primi pensieri dei detenuti sono sempre rivolti alla propria famiglia e allora la prima cosa che il detenuto fa è di cercare di far sapere alla propria moglie o al proprio genitore che non è più in quel carcere e che appena arriverà nel nuovo istituto gli farà sapere. Il più delle volte non si riesce a far avere questa informazione. Personalmente è capitato a mia madre di presentarsi di fronte al cancello del carcere di San Vittore, arrivava da Catania, e ritrovarsi una guardia dirle "suo figlio è stato trasferito". Ero stato trasferito in Basilicata, ma non avevo avuto modo di avvisare la mia famiglia. Dov’è l’umanità? La stessa umanità che noi detenuti dovremmo ritrovare grazie a una pena riflessiva, dov’è? Oppure esistono due umanità differenti, una per gli uomini liberi e una per il reclusi? Preferisco non rispondere. Finalmente è iniziato l’iter parlamentare in Commissione Giustizia alla Camera una proposta di legge per gli affetti in carcere. Questa proposta è nata grazie alle iniziative della redazione di Ristretti Orizzonti e a qualche nostro "alleato" che comprende che non c’è umanità in un sistema penitenziario dove come prima cosa ti viene negato di mantenere un rapporto decente con i tuoi cari. Ora dovete solo sperare che questa proposta non subisca i soliti intoppi della burocrazia ostruzionistica di qualche partito. Dico dovete perché io non voglio più sperare, rimango solo in attesa, ma non per questo non darò il mio contributo, lo darò sempre, anche in quelle cose che a mio parere saranno delle utopie. Il concetto di rieducazione nel nostro Paese viene applicato con un pensiero che non è per niente rieducativo, si pensa che il detenuto più soffre e più capisce di avere commesso degli errori. Mi chiedo come si può ragionare così quando i nostri Padri costituenti hanno provato il carcere e proprio per dare un giusto senso, la giusta direzione a una pena carceraria hanno scritto l’art.27. Un evento che ogni anno mi dà delle grosse soddisfazioni è il nostro convegno annuale. È sempre molto bello prepararlo, lavorarci e godere dei risultati alla fine. Quest’anno il tema era "La rabbia e la Pazienza". Ancora di più, oggi, capisco che devo avere molta pazienza, sarà perché mi è stato rigettato il continuato e quindi la mia pena si è definita con i miei 30 anni di condanna, ma questo lo metterò nella lista dei brutti momenti. È stato un bel convegno, 700 persone, 600 esterni, magistrati, politici, giornalisti, professori, tutte persone della società esterna. È sempre molto emozionante ritrovarsi con un microfono di fronte a tante persone per portare le proprie riflessioni basate sul vissuto personale, ma ancora più emozionante, quest’anno, è stato ascoltare le parole di Lucia Annibali, avvocato, sfregiata dal suo ex compagno con l’acido. A vedere il suo volto sfigurato dalla rabbia di quell’uomo ma avvolto da un sorriso fantastico, non esistono parole che possano descrivere l’emozione che ho provato. Il suo racconto è stato molto toccante, ma la sua lucidità nel farlo ancora di più. Ripercorrere quei giorni di tanti interventi sul suo corpo, trovare la forza per avere pazienza. Provo a immaginare la forza che questa donna ha avuto ad entrare in un carcere, un carcere dove ci sono persone che potrebbero essere il suo ex compagno, è stato molto significativo e ancora mi sento in dovere di ringraziarla per questa forza che ha dimostrato di possedere. Da tutti si può imparare e soprattutto tutti possono imparare qualcosa per se stessi, ma anche da poter donare agli altri. Le persone mi stanno insegnando che quello che si impara e quello che si vive non bisogna mai custodirselo gelosamente, ma bisogna avere il coraggio e la forza di donarlo anche agli altri, bisogna rendere partecipe il prossimo, anche chi ti ha fatto del male. Queste sono le vere lezioni di vita che portano un essere umano a riflettere, ascoltare il dolore dell’altro e comprenderlo. Orlando sfida le toghe: "Prima in pensione, serve una nuova leva di giovani magistrati" di Liana Milella La Repubblica, 31 dicembre 2015 L’intervista. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando: "Abbiamo fatto provvedimenti di sinistra come il falso in bilancio, l’anticorruzione e l’auto-riciclaggio". "Il 2016 sarà l’anno decisivo per le unioni civili". E sulle carceri: "Nei prossimi sei mesi si raggiungerà la parità tra detenuti e posti disponibili". Toghe in pensione? "Sì al rinnovamento". Il carcere? "Traguardo storico, parità tra detenuti e posti letto". Il bilancio sulla giustizia? "Ho fatto cose che mai nessuno aveva fatto prima". Il Guardasigilli Andrea Orlando passerà il Capodanno a Spezia, la sua città. Da lì risponde a Repubblica. È sicuro di aver fatto cose di sinistra sulla giustizia? Direi proprio di sì, non solo perché abbiamo affrontato questioni su cui tutti scommettevano che sarebbero rimaste nel cassetto, cose che di per sé non sono ne di destra ne di sinistra, ma sicuramente sono spinose. Penso al falso in bilancio, all’auto-riciclaggio, al complesso delle norme anticorruzione. Ma su temi come il carcere, il caporalato, gli eco-reati, le unioni civili, la tutela delle vittime dei reati, abbiamo dato un chiaro segno politico. Dedicarsi all’efficienza della macchina può apparire un dato neutro, ma un processo lungo, soprattutto nel civile, penalizza i più deboli". È di sinistra mandare in pensione anticipata toghe famose come Guariniello e Pomarid? Lei è ancora favorevole? "L’accesso di nuove generazioni anche in magistratura è essenziale". È di sinistra dilaniarsi per mesi sulle coppie di fatto? "Nel governo ci sono posizioni diverse. Quindi parlo come parlamentare e come dirigente politi Della sinistra del Pd vero? "Non ho esitazioni nel riconoscermi nell’orizzonte del socialismo europeo". Va bene, torniamo alle stepchild adoption... "In questo caso il segretario del mio partito ha detto parole chiare e di sinistra, appunto. Perché riconoscere diritti e tutele a chi non ne ha significa questo. Da Guardasigilli ho già ricordato come una messa in mora ci venga dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Al Parlamento nella sua autonomia il compito di dare una risposta che non eluda il problema". Lasci perdere il politichese. Per capirci, lei è per dare la possibilità a due gay di unirsi e adottare bambini o no? "Lei ha la memoria corta. Proprio con Repubblica ho già risposto affermativamente alla domanda. Comunque il giustiziese non è meno criptico del politichese". Quando diventeranno legge le unioni civili? "Il 2016 sarà l’anno decisivo". È stato di sinistra fare una legge anticorruzione in cui è chiaro il compromesso al ribasso? "Che le leggi, in una maggioranza composita, siano un compromesso è inevitabile. Che sia al ribasso è assolutamente infondato. L’Onu ha certificato che l’Italia ha pienamente attuato le convenzioni internazionali e nei prossimi mesi i dati ci diranno che la legge funziona". Avrebbe potuto essere molto più dura. Come sulla prescrizione, tuttora bloccata al Se nato, ha influito l’anima centrista del governo? "Che significa più dura? Abbiamo le pene più alte d’Europa per i reati contro la pubblica amministrazione. L’Anm ci ha criticato per questo. Non vedo come si dovesse fare di diverso anche se lo scopo della legge non è quello di essere dura, ma efficace. E credo che l’anticorruzione lo sia. Sulla prescrizione ci sono opinioni diverse, ma alla ripresa troveremo una soluzione definitiva. Tuttavia ricordo che l’aumento delle pene per la corruzione ha già comportato di conseguenza anche un aumento dei tempi di prescrizione per quei reati". Le carceri. I suicidi continuano. I detenuti lamentano maltrattamenti. Dov’è la svolta? "Il primo passo consiste nel risolvere il problema del sovraffollamento. Do un dato inedito: entro sei mesi arriveremo, per il calo dei detenuti in attesa di giudizio e l’apertura di nuovi istituti, all’equilibrio tra numero dei detenuti e posti disponibili". E sarebbe? "Saremo tra i 52 e i 53 mila". Il presidente dell’Anm Sabelli le rimprovera di non aver fatto nulla sull’organizzazione. "Da 25 anni non si faceva quanto abbiamo fatto noi. Solo una cifra, la legge di stabilità prevede un concorso per mille cancellieri, oltre alla mobilità di altri mille dal resto della Pa, di cui 500 già al lavoro negli uffici". Da giorni lei cita il decreto per le vittime dei reati. Perché è così importante? "La vittima è la figura più strumentalizzata del dibattito sulla giustizia. In nome di essa si chiedono pene esemplari e interventi repressivi. Eppure è la meno tutelata, durante e dopo il processo. Stiamo cancellando questa vergogna". Per restare al filo rosso della sinistra, perché non si chiede a De Luca di rispettare la Severino? "Non mi pare che abbia deciso di non rispettarla. Si sta difendendo in sede giurisdizionale, dove la legge viene applicata". Primarie per i sindaci. Hanno ancora senso? "Credo di sì. Purché siano un’occasione di confronto tra progetti e idee e non solo uno scontro tra personalità. Ma servono anche altri luoghi di selezione e di elaborazione politica. Per questo vedo come fondamentale la riflessione che si svolgerà il mese prossimo sull’assetto del partito. Una discussione da cui dipende anche l’esito delle sfide che abbiamo di fronte". Mancano i braccialetti elettronici, i detenuti non vanno ai domiciliari di Martino Villosio Il Tempo, 31 dicembre 2015 Vanificata la riforma degli arresti prevista dal decreto svuota carceri. L’ennesimo capitolo nella saga di un pasticcio sempre più conclamato è stato scritto lo scorso 23 dicembre. Sette tifosi del Legia Varsavia, arrestati meno di due settimane prima per gli scontri alla vigilia della partita di Europa League con il Napoli al San Paolo, quel giorno hanno ottenuto dal Tribunale dal Riesame gli arresti domiciliari subordinati all’applicazione del braccialetto elettronico. Peccato che gli strumenti non fossero disponibili. E loro siano rimasti in carcere. Per l’avvocato Riccardo Polidoro, responsabile dell’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali, che ha portato alla luce il caso, "hanno partecipato a una lotteria, ma non hanno vinto". La stessa sorte toccata ultimamente a un detenuto di Milano, mandato ai domiciliari dal Gip il 19 dicembre ma obbligato a trascorrere il Natale in carcere. O a quello di Gorizia rimasto dietro le sbarre durante le festività. È lo scandalo sempreverde dei braccialetti elettronici, trasformati in strumento essenziale per legge ormai due anni fa senza che fosse ampliata, contestualmente, la dotazione dei "pezzi" a disposizione del Viminale. Una questione vecchia almeno quanto il governo di Matteo Renzi, su cui adesso i parlamentari del Movimento Cinque Stelle chiedono di fare definitiva chiarezza in un’interrogazione depositata a fine anno, firmata da 16 senatori grillini e indirizzata al ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Il 22 febbraio 2014, lo stesso giorno in cui il premier prestava giuramento, entrava in vigore la legge 10/2014 di conversione del decreto svuota-carceri voluto dal guardasigilli uscente Annamaria Cancellieri. In virtù del quale, ricordano gli M5S nella loro interrogazione, "qualora il magistrato volesse applicare una misura di controllo diversa dal braccialetto elettronico, dovrebbe congruamente motivare in merito". L’applicazione della cavigliera elettronica in caso di domiciliari è diventata cioè una misura ordinaria. Già a giugno 2014 il capo della Polizia Alessandro Pansa lanciava però l’allarme in una circolare al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria: con le nuove norme la scorta di 2.000 pezzi disponibili si sarebbe esaurita già a fine mese. Da allora nulla è accaduto. Per questo, denunciano i grillini rivolti al governo, "si sta verificando in tutta Italia che i provvedimenti dei magistrati che consentono la scarcerazione del detenuto non possano trovare applicazione". "Una situazione vergognosa", dicono ancora gli M5S, "che trova la sua genesi nella convenzione stipulata dal ministero della giustizia con Telecom, nella quale si prevede un numero di braccialetti del tutto insufficiente a coprire il fabbisogno (11.000 detenuti che dovrebbero passare al regime di detenzione domiciliare) della platea interessata". La convenzione del 2001, rinnovata poi nel 2011 senza bando di gara, è stata in realtà stipulata dal ministero dell’Interno. Per aumentare le scorte di braccialetti, adesso, servirebbe un nuovo bando di cui però non si ha traccia. Il capo della Polizia Pansa, nella circolare del giugno 2014 al Dap, spiegava anche che il bando di gara europea non sarebbe arrivato prima di aprile 2015. Un’attesa che si è prolungata in realtà fino ad oggi. "Nessuna colpevole inerzia può essere ricondotta al ministero dell’Interno per non aver avviato una nuova gara per l’affidamento del servizio", spiegava a luglio 2014 il Viminale. Motivando la mancata pubblicazione di un nuovo bando con la necessità di attendere una sentenza della Corte di Giustizia Europea, a cui il Consiglio di Stato aveva subordinato la decisione sulla validità del contratto con Telecom del 2011. Contratto che in precedenza, nel 2012, era stato annullato dal Tar dopo un ricorso di Fastweb. La sentenza della Corte Ue, come verificato dal Tempo, nel frattempo è arrivata a settembre 2014 seguita, due mesi dopo, da quella del Consiglio di Stato che ha riaffermato la validità del contratto tra Telecom e ministero dell’Interno. Anche così, forse, si spiega la mancata pubblicazione del bando di gara per i nuovi braccialetti. A mancare, però, sono soprattutto i soldi per finanziarlo. "Allo stato attuale servirebbero almeno una dotazione di 5.000 braccialetti", spiega l’avvocato Polidoro. "Bisogna porre fine alla mancata applicazione del codice procedura penale, ad evidenti disparità di trattamento in un’incresciosa situazione tanto paradossale, quanto palesemente illegale". Stefano Rodotà: una falsa democrazia anticipa il nuovo regime di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 31 dicembre 2015 Intervista a Stefano Rodotà. "Il premier Renzi governa come se ci fossero già l’Italicum e la nuova Costituzione. Il presidente Mattarella non distoglierà lo sguardo da questa situazione. Il bipolarismo crolla ma non c’entra il populismo. I partiti non sanno più leggere la società". "Il populismo è una spiegazione troppo semplice. I partiti tradizionali non riescono più da tempo a leggere la società. Non è populismo, è crisi della rappresentanza". L’intervista con Stefano Rodotà comincia dal giudizio sui risultati elettorali in Francia e Spagna. "In entrambi i casi il bipolarismo va in crisi. Ma in Francia il fenomeno assume tinte regressive. Lì il Front National coltivava da tempo il disegno di sostituirsi ai due grandi partiti in crisi, ed è stato facilitato dalla rincorsa a destra di Sarkozy e Hollande, che hanno finito per legittimare Le Pen. In Spagna Podemos ha interpretato un movimento reale, quello degli Indignados, e ha predisposto uno strumento di tipo partitico per raccogliere il fenomeno. Il risultato pare essere un’uscita in avanti dal bipolarismo". Renzi benedice la nuova legge elettorale italiana e sostiene che da noi non potrà succedere. "Non coglie il senso di quello che sta succedendo e con la sua risposta non fa che aumentare la distanza tra il partito e la società. Sostanzialmente dice: "A me della rappresentanza non importa nulla, a me interessa la stabilità". Ma con un governo che rappresenta appena un terzo degli elettori ci sono enormi problemi di legittimazione, di coesione sociale e al limite anche di tenuta democratica". In Spagna e Francia si è votato con sistemi elettorali non proporzionali. Di più, lo "spagnolo" è stato a lungo un modello per i tifosi del maggioritario spinto. I risultati dimostrano però che l’ingegneria elettorale da sola non basta a salvare il bipolarismo. Può fallire anche l’Italicum? "L’ingegneria elettorale è un modo per sfuggire alle questioni importanti. In questi anni non solo è stato invocato il modello spagnolo, ma anche quello neozelandese e quello israeliano. Sembrava di stare al supermarket delle leggi elettorali. Tutto andava bene per mortificare la rappresentanza, sulla base dell’idea che ciò che sfugge agli schemi è populismo. Invece è una legittima richiesta dei cittadini di partecipare ed essere rappresentati. Il nuovo sistema italiano, l’abbiamo spiegato tante volte, presenta il rischio di distorsioni spaventose. Può aprire la strada a soluzioni pericolose, ma anche ad alternative interessanti. Penso per esempio alla stagione referendaria che abbiamo davanti: dal referendum costituzionale, a quelli possibili su Jobs act, scuola e Italicum". Il primo referendum, quello sulle trivellazioni, il governo ha deciso di evitarlo. Renzi è meno tranquillo di quanto dice? "È possibile, del resto le previsioni sul referendum costituzionale sono difficili, ancora non sappiamo esattamente come si schiereranno le forze politiche. Di certo la partita non è chiusa. E vorrei ricordare che nel 1974 una situazione elettorale che sembrava chiusa fu sbloccata proprio da un referendum, quello sul divorzio. I cittadini furono messi in condizione di votare senza vincoli di appartenenza politica e l’anno dopo si produsse il grande risultato alle amministrative del partito comunista". In questo caso il presidente del Consiglio sta politicizzando al massimo il referendum, anzi lo sta personalizzando: sarà un voto su di lui ancora più che sul governo. "Il fatto che abbia deciso di giocarsi tutto sul referendum costituzionale apre una serie di problemi, il primo è la questione dell’informazione. C’è già un forte allineamento di giornali e tv con il governo, la riforma della Rai non potrà che peggiorare le cose. Renzi ha già impropriamente politicizzato tutto il percorso della riforma, il dibattito parlamentare è stato gestito in modo autoritario. In teoria quando si scrivono le regole del gioco il cittadini dovrebbero poter votare slegati da considerazioni sul governo, in pratica non sarà così. Il gioco è chiaro: se dovesse andargli male, Renzi punterà alle elezioni anticipate con un messaggio del tipo: o partito democratico o morte, o me o i populisti". La strategia è evidentemente questa. Il ballottaggio serve a chiedere una scelta tra il Pd e Grillo, al limite Salvini. E se fosse un calcolo sbagliato? L’Italia non è la Francia, "spirito Repubblicano" da far scattare ne abbiamo poco. "Può essere un calcolo sbagliato. l’Italia non è la Francia per almeno due ragioni. Il Movimento 5 Stelle non fa paura come il neofascismo del Front National. E la mossa dei candidati socialisti in favore di quelli di Sarkozy è stata seguita perché lì la dialettica politica restava aperta. Da noi al contrario si rischierebbe l’investitura solitaria, rinunciare significherebbe consegnarsi pienamente a Renzi. L’appello al voto utile non credo funzionerà anche perché l’Italia non solo non è la Francia, ma non è più neanche l’Italia di qualche anno fa. Renzi non può chiedere il voto a chi quotidianamente delegittima, negando il diritto di cittadinanza alle posizioni critiche. Infatti si comincia a sentire che il vero voto utile, quello che può servire a mantenere aperta la situazione italiana, può essere quello al Movimento 5 Stelle. Sono ragionamenti non assenti dall’attuale dibattito a sinistra, mi pare un fatto notevole". Sulle riforme costituzionali la sinistra spagnola va all’attacco, Podemos ha cinque proposte puntuali. Perché in Italia siamo costretti a sperare che non cambi nulla? "Proposte ne abbiamo fatte per uscire dal bicameralismo in maniera avanzata, per favorire la rappresentanza e la partecipazione, non escludendo la stabilità. Sono state scartate, nemmeno discusse. Alcuni di noi avevano denunciato il rischio autoritario della riforma costituzionale, siamo stati criticati, poi abbiamo cominciato a leggere di rischi plebiscitari, "democratura" e via dicendo. Troppo tardi, ormai lo stile di governo di Renzi è già un’anticipazione di quello che sarà il sistema con le nuove regole costituzionali e la nuova legge elettorale. Il parlamento è già stato messo da parte, addomesticato o ignorato, com’è accaduto sul Jobs act per le proposte della commissione della camera sul controllo a distanza dei lavoratori. Lo stesso sta avvenendo sulle intercettazioni". Dobbiamo considerare un’anticipazione anche il modo in cui è stata gestita l’elezione dei giudici costituzionali? "È stata data un’immagine della Consulta come luogo ormai investito dalla lottizzazione, cosa che ha sempre detto Berlusconi. Un altro posto dove viene rappresentata la politica partitica, più che un’istituzione di garanzia. Lo considero un lascito grave della vicenda. La Corte dovrà prendere decisioni fondamentali, mi auguro che le persone che sono state scelte si liberino di quest’ombra, hanno le qualità per farlo". L’altra istituzione di garanzia che finisce nell’ombra di fronte a questo stile di governo è il presidente della Repubblica. "Sulle banche il presidente Mattarella ha giocato un ruolo attivo. Le sue mosse possono essere considerate irrituali, ma di fronte al rischio per la tenuta del sistema bancario e per il rapporto tra cittadini e istituzioni ha fatto bene a intervenire. Stiamo scivolando verso una democrazia scarnificata, rinunciamo pezzo a pezzo agli elementi sostanziali - la rappresentatività, i diritti sociali e individuali - in cambio del mantenimento di quelli formali - il voto, la produzione legislativa. La situazione è grave ma le conclusioni un po’ affrettate per il momento me le risparmierei. Se questo orientamento proseguirà non credo che il presidente della Repubblica distoglierà il suo sguardo". Cucchi. Carabiniere inchiodato dalla moglie: hai raccontato che avevate picchiato quel drogato di Giovanni Bianconi e Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 31 dicembre 2015 Una lite familiare al telefono registrata dalla procura inguaia uno degli indagati. Il militare si infuria quando la donna gli ricorda le confidenze sul pestaggio del giovane. La lite tra ex coniugi sui soldi da versare per il mantenimento dei figli, registrata dalle microspie della polizia, è divenuta una delle principali prove a carico nella nuova indagine sulla morte di Stefano Cucchi. Raffaele D’Alessandro, uno dei carabinieri indagati per il "violentissimo pestaggio" a cui secondo la Procura di Roma fu sottoposto il trentunenne romano arrestato il 15 ottobre 2009 e morto dopo una settimana di detenzione, il 26 settembre scorso parla al telefono con la ex moglie Anna Carino. La lite familiare e l’accusa. Nei giorni precedenti fra i due (entrambi di origine campana) c’era stato uno scambio di sms in cui la donna aveva scritto a D’Alessandro, sempre a proposito dei figli: "Prima o poi dovrai cacciare la tua parte...cosa che fino ad adesso sta a provvede qualcun’altro! Poi ti lamenti che non li vedi x via della partita la domenica e il catechismo!!ma sii contento che fanno ste cose e so felici.. preoccupati di più se non li vedi se t’arrestano!!". Un riferimento, quello alla possibilità di finire in carcere, che l’ex marito mostra di non gradire quando parla con la Carino. La quale ribatte che era stato lui stesso a raccontare, a lei come ad altre persone, "di quanto vi eravate divertiti a picchiare quel drogato di merda", cioè Cucchi. Quando la donna dice questa frase D’Alessandro perde completamente le staffe, sospettando - a ragione, visto che l’indagine a suo carico era stata aperta da mesi e lui stesso era stato interrogato a luglio dal pubblico ministero di Roma Giovanni Musarò - di avere il telefono intercettato. La rabbia del carabinieri. Di qui lo sfogo contro la ex moglie, le urla e gli improperi lanciati nel tentativo di farla passare per pazza. Dopo questa telefonata, come riferiscono gli investigatori della Squadra mobile nell’informativa finale sull’indagine-bis relativa alla morte di Stefano Cucchi, il carabiniere D’Alessandro chiamò altre persone per riferire quanto accaduto e spiegare - a loro ma anche a chi intercettava le conversazioni, sospettano gli investigatori - "che a suo parere la donna diceva alcune cose solo per istigarlo e per ottenere più soldi". Ma secondo i magistrati romani la realtà è un’altra. La ex moglie di D’Alessandro (interrogata come pure la madre e il nuovo convivente di lei, tutti al corrente di questa vicenda) ha confermato che l’ex marito le parlò ripetutamente dell’arresto di Cucchi e delle percosse subite dall’arrestato: "Mi disse che, la notte dell’arresto, Stefano Cucchi era stato pestato da lui e da altri colleghi della Stazione di Appia di cui non mi ha mai fatto il nome". Le mosse della procura. Dall’indagine-bis è emerso che il nome di D’Alessandro, insieme a quello del collega ora co-indagato Alessio Di Bernardo, non compare sul verbale d’arresto di Cucchi, nonostante i due avessero partecipato, in abiti borghesi, all’operazione. E la telefonata tra D’Alessandro e Anna Carino - insieme al racconto di un ex detenuto secondo il quale Cucchi, in carcere, gli rivelò di essere stato picchiato dai carabinieri in borghese - è uno degli elementi che la Procura ha portato a sostegno dell’accusa nei confronti degli appartenenti all’Arma. Gli inquirenti hanno chiesto al giudice dell’indagine preliminare di fissare un incidente probatorio per affidare a una nuova perizia medica l’eventuale connessione tra le percosse subite da Cicchi e le cause della sua morte. L’udienza per affidare l’incarico è stata fissata per il prossimo 29 gennaio, ma i familiari di Cucchi hanno già annunciato che - se non cambia qualcosa - non parteciperanno perché a loro giudizio uno dei medici individuati dal giudice non offre sufficienti garanzie di essere "al di sopra delle parti". Omicidio Garlasco, ecco la lettera di Alberto Stasi dal carcere di Gabriele Moroni Il Giorno, 31 dicembre 2015 Il giovane scrive: "Dovevano consegnare un responsabile all’opinione pubblica. la sentenza era piena di grossolani errori, io so di essere innocente". Una lettera dal carcere di Bollate. Alberto Stasi scrive al cronista del nostro giornale che ha seguito la sua vicenda, affidandogli pensieri e riflessioni. Lo fa riempiendo, a stampatello, sei facciate di foglio protocollo. Non è solo una lettera: è un memoriale, l’appassionata, lucida autodifesa del commercialista trentaduenne che la Cassazione ha definitivamente condannato a sedici anni di reclusione per l’omicidio della fidanzata Chiara Poggi, il 13 agosto del 2007, a Garlasco. Si è cercato il colpevole per il colpevole, sostiene Stasi, e da un processo mediatico è uscito il verdetto di condanna. Per questo non si sente un detenuto ma un "prigioniero". "Mi sembra - scrive Stasi - che in casi come il mio si voglia a tutti i costi consegnare un colpevole all’opinione pubblica, senza però preoccuparsi se colui che viene indicato come tale sia effettivamente il colpevole e non una vittima di errate decisioni e aspettative. Non dimenticherò mai le parole di un ex magistrato, che alla domanda su cosa pensasse dei processi mediatici rispose: il peggio possibile. Disse che tale fenomeno condizionava sensibilmente il magistrato che si trova a decidere su un fatto già giudicato mille volte in Tv da colleghi togati, giornalisti ed esperti vari poiché l’animo umano ha la tendenza a uniformarsi e una sentenza già scritta dai media è dannosissima". "La mia speranza, ancora oggi, è che tutti si possano rendere conto della condizione in cui vengono a trovarsi persone che come me, a causa di questa malsana tendenza a condizionare i processi celebrandoli, prima e male in tv, si trovano a essere giudicati in modo errato rispetto a quella che è la realtà. Ho saputo che nel mio caso la tematica è stata affrontata anche nella requisitoria del procuratore generale in Cassazione, il quale ha evidenziato come la mia vicenda processuale sia stata oggetto di una perniciosa forma di spettacolarizzazione attraverso quei processi televisivi che inquinano la capacità di giudizio degli spettatori, tra i quali, forse nessuno ci pensa, rientrano anche i giudici, togati e popolari, di questa vicenda. Sta di fatto che ora mi trovo in carcere. Devo dire che avevo atteso la sentenza della Cassazione con l’intima (vana) speranza di un epilogo secondo giustizia e di un ritorno ad una vita normale, se così poteva essere chiamata dopo l’incubo vissuto per più di otto anni. Tale speranza era in me rafforzata dal fatto che il procuratore generale in Cassazione aveva chiesto l’annullamento dell’unica condanna che avevo riportato e la conseguente mia assoluzione, evidenziando, devo dire con apprezzabile e non comune onestà intellettuale, quello che io e la mia difesa avevamo sempre detto". Cosa è intervenuto a cambiare il suo destino giudiziario, dopo due assoluzioni? Nulla, secondo l’ex bocconiano. "La sentenza che mi aveva condannato l’anno scorso portava con sé grandi e grossolani errori, in quanto non vi erano elementi che facessero di me un colpevole. I fatti e le carte hanno sempre provato la mia innocenza e le nuove perizie fatte l’anno scorso avevano ulteriormente rafforzato questa verità. Questo era il processo; io ho sempre saputo di essere innocente. Non nascondo comunque di avere temuto l’assurdo epilogo che oggi sto vivendo, visto l’incomprensibile iter processuale che ho dovuto vivere. In ogni caso, ho preso atto della decisione e, nel pieno rispetto della stessa, ho deciso di costituirmi immediatamente, senza nemmeno attendere l’ordine di carcerazione. Devo dire che chi mi era vicino in quel tragico momento ha fatto in modo che io non dovessi anche prestare il fianco ad ulteriori speculazioni, come io stesso ho sempre cercato di fare. Del resto, in situazioni come questa, le persone vengono esibite come trofei alzati in cielo dopo una vittoria. È sempre stato così e sempre sarà, da Sacco e Vanzetti a Tortora. Ma le persone non sono trofei e non c’è nulla di cui lodarsi nel recludere un innocente". Una riflessione su cosa significhi essere in una cella. "Non è facile per un innocente che attendeva i giorni della sentenza con la speranza di ritornare davvero libero, entrare in carcere. Sto cercando di inserirmi nella realtà carceraria. Il lavoro svolto dagli educatori, dai volontari e dalla direzione penitenziaria è encomiabile. La vita di un detenuto non è solo una condizione fisica, ma è anche (e soprattutto) una condizione mentale: il corpo può essere ristretto, la mente no. Non mi sento un detenuto. Mi sento un prigioniero. Non so nemmeno dire ora cosa provo perché il precipitare degli eventi è stato talmente fulmineo che mi è risultato difficile anche solo rendermene conto. Anni di calvario e indicibili pressioni, il carico emotivo dell’attesa, lo shock per la decisione, l’impatto con un ambiente, quello carcerario, a me del tutto estraneo". La volontà di resistere. "Comunque, nonostante le circostanze, niente e nessuno potrà mai cancellare la verità o negare la mia dignità, quindi non mi arrendo, voglio farcela. Non voglio cedere allo sconforto, se non altro per le persone che amo e che non mi hanno mai lasciato solo. Benché io sia esausto, mi auguro di trovare la forza necessaria per resistere e ricominciare, passo dopo passo, giorno dopo giorni, quella forza che solo un innocente in cuor suo può avere in questa situazione. La mia storia, la mia vita, non si esaurisce nella tragedia che ho subito e sto vivendo; voglio continuare a credere che altri capitoli attendano di essere ancora scritti". Dopo otto anni. "Questi otto anni mi hanno lasciato moltissime cose che mi porterò sempre dentro: la perdita di Chiara, con cui avrei voluto una vita insieme, la morte di mio padre, che è sempre stato al mio fianco, le tante difficoltà e ingiustizie, non ultimo l’allontanamento da mia mamma, che ora si ritrova da sola. Però in questi giorni tra tutti i miei pensieri ne prevale uno: un forte dubbio di non vivere in uno stato di diritto". "In questa situazione, comunque, ringrazio Dio perché almeno una cosa me l’ha lasciata: la solidarietà, l’affetto, l’amore, l’amicizia di tantissime persone. Innanzitutto di persone che non mi conoscono e che mi scrivono da tutta Italia. Ricevo tantissime lettere di conforto e vorrei ringraziarli di cuore per l’immensa umanità che mostrano nei miei confronti; anche queste dimostrazioni sono un aiuto per non mollare. E poi ci sono le persone care che mi sono sempre state vicine in questi otto anni: mia mamma, i miei parenti più stretti, i miei amici e i miei avvocati. Tutti loro non mi hanno mai lasciato solo e, anche ora che non ho la possibilità di vederli tutti, fanno in modo di trasmettermi la loro vicinanza. È proprio il loro immenso affetto che mi dà la forza di vivere ogni giorno e di lottare. Per questo li voglio ringraziare con tutto il cuore". La conclusione: "Con queste poche pagine, affido i miei pensieri, i pensieri di un uomo di cui fuori si parla tanto, ma senza mai sapere cosa davvero prova". Misure cautelari: il decorso del tempo attenua le esigenze di cautela di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 31 dicembre 2015 Corte di Cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 26 novembre 2015 n. 46960. Secondo la Cassazione (Sezione VI, 13 novembre 2015- 26 novembre 2015 n. 46960, Proc. Rep. Trib. Lecce in proc. D’Alema), in tema di misure coercitive disposte per il reato associativo di cui all’articolo 74 del dpr 9 ottobre 1990 n. 309, in presenza di condotte esecutive risalenti nel tempo, la sussistenza delle esigenze cautelari deve essere desunta da specifici elementi di fatto idonei a dimostrarne l’attualità, in quanto il decorso di un arco temporale significativo può essere sintomo di un proporzionale affievolimento del pericolo di reiterazione. Infatti, anche per i reati per i quali vige la presunzione relativa di cui all’articolo 275, comma 3, del Cpp (esistenza delle esigenze cautelari e adeguatezza della misura cautelare carceraria), la distanza temporale tra i fatti ed il momento della decisione cautelare, quale circostanza tendenzialmente dissonante con l’attualità e l’intensità dell’esigenza cautelare, comporta l’obbligo per il giudice di motivare sia in relazione a detta attualità sia in relazione alla scelta della misura. Ciò valendo, in particolare, proprio per il reato di cui all’articolo 74 citato perché l’associazione ivi sanzionata non presuppone necessariamente l’esistenza di una struttura organizzativa complessa, essendo, al contrario, una fattispecie "aperta", idonea a qualificare in termini di rilevanza penale situazioni fortemente eterogenee, oscillanti dal sodalizio a vocazione transnazionale all’organizzazione di tipo "familiare"; con la conseguenza che, in un panorama così variegato, il giudice deve valutare ogni singola fattispecie concreta, ove la difesa rappresenti elementi idonei, nella sua ottica, a scalfire la presunzione relativa operante per il reato de quo, ovvero a dimostrare l’insussistenza di esigenze cautelari o la possibilità di soddisfarle con misure di minore afflittività. La decisione - Quindi, nella specie, secondo la Corte, correttamente e motivatamente il giudice del riesame, aveva annullato la misura della custodia in carcere, tra l’altro proprio per il reato associativo, ritenendo prive di concretezza e di attualità le esigenze cautelari, in quanto la contestazione si riferiva ad un’attività illecita marginale e comunque racchiusa in un arco temporale risalente nel tempo. L’affermazione è convincente, ove si consideri che, in tema di misure cautelari, il riferimento in ordine al "tempo trascorso dalla commissione del reato" di cui all’articolo 292, comma 2, lettera c), del Cpp, impone al giudice di motivare sotto il profilo della valutazione della pericolosità del soggetto in proporzione diretta al tempo intercorrente tra tale momento e la decisione sulla misura cautelare, giacché ad una maggiore distanza temporale dai fatti corrisponde un affievolimento delle esigenze cautelari (cfr. Sezioni unite, 24 settembre 2009, Lattanzi). Per l’effetto, ai fini dell’apprezzamento del rischio di recidiva, è necessario indicare gli elementi concreti sulla base dei quali è possibile affermare che l’indagato/imputato, verificandosene l’occasione, potrà commettere reati della stessa specie, mentre non assolve a tale obbligo la motivazione che valorizzasse il tempo trascorso esclusivamente per scegliere una misura cautelare meno afflittiva (cfr. Sezione III, 19 maggio 2015, Sancimino, nonché, Sezione IV, 28 marzo 2013, Cerreto). Ergo, ne deriva che la necessità di uno specifico apprezzamento in punto di "attualità" impone una "motivazione rafforzata", per giustificare positivamente l’esigenza di cautela, in caso di fatto risalente nel tempo. Ma è convincente anche alla luce del novum normativo introdotto dalla legge 16 aprile 2015 n. 47, laddove, quanto all’esigenza cautelare del pericolo di fuga (articolo 274, comma 2, lettera b), del Cpp) ed a quella del pericolo di recidiva (articolo 274, comma 2, lettera c), del Cpp ) è stata prevista l’"attualità", oltre che la concretezza del pericolo, non dissimilmente a quanto già previsto per l’esigenza cautelare correlata al pericolo di inquinamento probatorio (articolo 274, comma 2, lettera a), del Cpp). Infatti, se la concretezza significa esistenza di elementi "concreti" (cioè non meramente congetturali) sulla cui base possa argomentarsi il rischio cautelare, il requisito dell’attualità impone un ulteriore sforzo motivazionale, risultando necessario che il rischio cautelare si basi su riconosciute "occasioni prossime favorevoli", accreditanti o il rischio della fuga o quello della reiterazione del reato: ed è chiaro che tale sforzo motivazione deve essere particolarmente stringente proprio rispetto a vicende risalenti nel tempo. Traduzione atti processuali: il diritto all’assistenza dell’interprete. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 31 dicembre 2015 Atti processuali - Traduzione degli atti - Omessa nomina dell’interprete per conferire con il difensore - Nullità a regime intermedio - Condizioni. In tema di nomina di interprete per conferire con il difensore, la violazione degli articoli 104, comma quarto bis, e 143 cod. proc. pen. può configurare una nullità ex articolo 178, comma primo, lettera c), cod. proc. pen. solo se determina un’effettiva lesione del diritto di assistenza dell’imputato, il quale ha l’onere di precisare il pregiudizio concretamente subito, allegando l’impossibilità di sviluppare argomenti o deduzioni, ovvero altra lacuna difensiva determinata dalla specifica carenza di informazione sul contenuto dell’accusa. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 13 luglio 2015 n. 30127. Atti processuali - Interprete - Articolo 143, comma secondo, cod. proc. pen. - Dispositivo di sentenza letto in udienza - Diritto dell’imputato alloglotta alla traduzione del dispositivo - Traduzione - Obbligo - Esclusione. In tema di assistenza linguistica, non sussiste il diritto dell’imputato alloglotta alla traduzione del dispositivo della sentenza letto in udienza, trattandosi di atto non ricompreso tra quelli per i quali l’articolo 143, comma secondo, cod. proc. pen., anche nel testo vigente introdotto dall’art. 1, comma primo, lett. b) d. Lgs. 4 marzo 2014, n. 32, prevede tale obbligo. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 8 maggio 2015 n. 19195. Atti processuali - Traduzione degli atti - Diritto all’assistenza dell’interprete - Applicabilità ad atti e attività precedenti all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 32 del 2014 (Attuazione della direttiva 2010/64/UE sul diritto all’interpretazione e alla traduzione nei procedimenti penali) - Possibilità - Esclusione. Il diritto all’assistenza dell’interprete, nei casi e nei termini previsti dall’articolo 104, comma quarto-bis e dall’articolo 143, comma primo, cod. proc. pen., nella formulazione introdotta dal D.Lgs. 4 marzo 2014, n. 32, non è configurabile in relazione ad atti e attività compiuti antecedentemente alla data di entrata in vigore della citata modifica normativa. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 23 giugno 2014 n. 27067. Atti processuali - Traduzione degli atti - Assistenza linguistica - D.Lgs. n. 32 del 2014 (Attuazione della direttiva 2010/64/UE sul diritto all’interpretazione e alla traduzione nei procedimenti penali) - Ordinanza di applicazione di misura cautelare personale nei confronti di straniero alloglotta - Assistenza di interprete durante l’udienza di convalida - Necessità di successiva traduzione dell’ordinanza - Esclusione. Anche a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 32 del 2014 la traduzione scritta dell’ordinanza applicativa di misura cautelare personale, emessa all’esito di udienza di convalida alla quale lo straniero alloglotta in stato di fermo o arresto abbia partecipato con la regolare assistenza di un interprete, non è necessaria in quanto l’indagato è stato reso edotto degli elementi di accusa a suo carico ed è posto in grado di proporre ricorso al tribunale del riesame. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 20 novembre 2014 n. 48299. L’analista non può gestire il capitale di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 31 dicembre 2015 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 30 dicembre 2015 n. 51092. Esercizio abusivo di attività di intermediazione finanziaria per l’analista che fornisce un servizio di investimento gestendo i capitali del cliente. La Cassazione con la sentenza 51092 depositata ieri, respinge il ricorso di un analista finanziario che, pur non essendo iscritto all’elenco tenuto dall’Ufficio cambi, dal proprio studio operava sui conti correnti dei clienti aperti presso una banca londinese utilizzando direttamente le password fornite dagli interessati. Diversa la versione fornita dal ricorrente che dichiarava di avere tenuto un "low profile", limitandosi a fornire raccomandazioni non personalizzate tramite un suo sito web, senza sconfinare nell’attività professionale e nella gestione concreta dei portafogli. Secondo il ricorrente sarebbe stata irrilevante anche la presenza di una delega rilasciata in suo favore per agire sui conti. La Consob avrebbe, infatti, precisato che la norma di settore dei mercati finanziari non prevede la figura specifica della delega, essendo al contrario applicabile la disciplina generale della rappresentanza, prevista dal codice civile (articoli 1387 e seguenti). Per la Cassazione però è corretta la ricostruzione della Corte d’Appello. Dagli atti del processo emergeva l’esistenza di una struttura ben organizzata, attraverso la quale l’imputato offriva la propria consulenza ad una platea indifferenziata di soggetti privati "reclutati" attraverso il suo sito web o tramite amici e colleghi. Nel corso di una perquisizione erano stati trovati molti prospetti e numeri di telefono: contatti ai quali era stata offerta una piattaforma finanziaria. L’imputato lavorava dallo studio e, una volta raggiunto un accordo personalizzato con il cliente, operava per gli investimenti sui conti, anche disattendendo le indicazioni del titolare della password. Irrilevante anche il riferimento alla raccomandazione Consob in merito alla delega, perché nel caso in questione si trattava di una delega di fatto alla gestione dei conti. Non passa neppure la tesi della non abitualità della condotta. A deporre in senso contrario c’era una struttura informatica composta da più computer e il sito web dal quale "pescare" possibili clienti. La Cassazione ricorda che ai fini del reato pesa "l’attività di consulenza - prestata al fine di reperire un proficuo programma di investimento, accompagnata dal mandato cliente - la quale non è prodromica all’esercizio di attività di intermediazione finanziaria, consentita solo ai soggetti debitamente autorizzati, ma ne è parte integrante e come tale è disciplinata". La Cassazione conferma la condanna anche a carico della moglie dell’analista. La donna, benché non citata da alcun testimone, aveva agevolato l’attività del marito. L’attività delittuosa si svolgeva nella casa coniugale e lei forniva un supporto nel reclutamento dei clienti e aveva anche un incarico operativo e logistico: andava all’ufficio postale per aprire conti correnti. Infine sul conto corrente dell’imputata erano state eseguite transazioni in favore della banca inglese usata per le relazioni con i clienti. I diritti umani di Renzi non prevedono l’amnistia di Barbara Alessandrini L’Opinione, 31 dicembre 2015 "No, non vedo sul tavolo elementi per parlare di amnistia in Italia nel 2016". Più esplicito di così, in occasione della conferenza di fine anno dedicata al bilancio dell’attività governativa e alla presentazione delle misure previste per l’anno successivo, il Premier Matteo Renzi non avrebbe potuto essere. Ormai appare una sorta di copione quello in cui nel nostro Paese ciclicamente un Santo Padre si mobilita per chiedere il provvedimento di clemenza e la politica risponde picche. Anche Papa Francesco ha da subito intrapreso questa strada di buon senso che pochissimo ha a che vedere con il buonismo pietoso, ma rappresenta un rimedio estremo e necessario a riportare il Paese in uno stato di legalità carceraria in attesa che delle riforme strutturali possano normalizzare una situazione molto critica. Ma anche il Pontefice non ha avuto successo benché il Paese sia esposto ciclicamente alle scudisciate della Cedu per violazione della giurisprudenza europea che vieta trattamenti i disumani e degradanti della dignità umana negli istituti penitenziari; trattamenti che i rimedi interni adottati dal governo per sottrarsi alle pesanti more europee non sono riusciti in alcun modo a "compensare". Senza contare che le misure prese per far la quadra di una distribuzione contabile di quei tre metri quadrati di spazio necessari ad ogni detenuto perché la situazione carceraria italiana rientri nei parametri previsti dall’Europa, sono stati raggiunti troppo spesso a costo di inumani trasferimenti forzati che avviliscono qualsiasi percorso di recupero e rieducativo intrapreso da detenuti allontanati improvvisamente dal loro carcere e da famiglie che quasi mai possono permettersi lunghi viaggi per le visite. È vero, più esplicito di così Renzi non avrebbe potuto essere. Perché l’azione di governo è da sempre troppo impegnata a rispondere alla pancia e alle pressioni forcaiole, vendicative e ottusamente punitive dell’opinione pubblica. Il rischio di vedersi percepiti dalla parte dei delinquenti è troppo alto. Eppure, se solo, in nome di un sano pluralismo non meramente verboso, anche ai piccoli giornali venisse riconosciuto il diritto di domandare, l’occasione sarebbe stata utilizzata per chiedere al Premier se oltre ai diritti civili che il Governo affronterà presto vi sarà mai la revisione di quella forma di tortura e vessazione votata ad annichilire la funzione rieducativa della pena prevista dalla Carta costituzionale che è l’ergastolo ostativo, l’ergastolo senza possibilità di revisione della pena, e la sua declinazione nel regime di rigore del 41 bis, applicato in spregio sia ad ogni richiamo sulla necessità di riportare l’esecuzione della pena nell’alveo della Costituzione e consentire l’accesso al trattamento rieducativo sia alla giurisprudenza delle Corti europee nel cui ambito sono svariate le sentenze e le pronunce che ne inquadrano la sostanziale illegittimità. A partire dagli articoli della Cedu che parlano di divieto di pene inumane e degradanti, all’equo processo, alla legalità penale, qualità della legge e prevedibilità (generalmente i condannati al momento della condanna all’ergastolo non sanno che verranno sottoposti all’ostativo o al 41 bis!), fino alla sentenza Vinter/Regno Unito del 2013 che qualifica l’ergastolo senza possibilità di revisione della pena come violazione dei diritti umani e alla pronuncia successiva, Trablesi in Belgio in cui la Corte ha giudicato contrario ai diritti umani condizionare l’accesso al reinserimento in società o ai benefici penitenziari alla collaborazione con la giustizia, alla forzatura autoaccusatoria o della delazione. Un vero ricatto/baratto che per infinite ragioni è soggetto a trasformarsi in delazione opportunistica e falsa, ma che penalizza e condanna alla morte lenta, alla prospettiva della definitiva negazione del sé chiunque non avendo informazioni da consegnare, si vede precluso ogni accesso ai benefici. Eppure recentemente anche il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, come anche il capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria Santi Consolo si sono espressi pubblicamente per l’abolizione dell’ergastolo ostativo proprio mentre è all’esame del Parlamento la norma di delega che dovrebbe ridurre gli automatismi e le preclusioni ai benefici penitenziari. Si farà? Ed è pensabile continuare lasciando che qualunque misura a garanzia dell’individuo e della sua dignità umana resti imbrigliata tra i sacri timori e terrori che si tratti di concessione alla criminalità oppure bisogna semplicemente attendere che la prevista crescente mole dei ricorsi che verranno fatti in Europa ci costringa a correre ai ripari facendola finalmente finita con le misure emergenziali di detenzione ancora in vigore? Magistratura 2016. Troncare e sopire, ma solo per giustizia di Renato Balduzzi Avvenire, 31 dicembre 2015 È difficile per noi, il giorno di San Silvestro, sfuggire alla tentazione di fare bilanci dell’anno trascorso e di formulare auspici per il prossimo. Stanti i limiti di spazio della rubrica, mi limiterò ai secondi e, nello spirito della medesima, mi lascerò i-spirare dal celebre "troncare, sopire": mentre però nel dialogo manzoniano l’invito del conte zio al padre provinciale è finalizzato a negare giustizia, anzi a perpetrare un sopruso (il trasferimento da Pescarenico a Rimini di padre Cristoforo), qui proverò a ribaltare la prospettiva. L’augurio alla magistratura tutta è di saper troncare ogni collegamento improprio e non trasparente con gli altri poteri dello Stato, in particolare con quelli espressione di indirizzo politico: al magistrato si chiedono costituzionalmente sulla sostanza dell’indipendenza e dell’imparzialità, sia l’apparenza delle medesime. E per contro a lui si chiede di saper sopire (come peraltro quotidianamente la stragrande maggioranza dei magistrati fa) ogni profilo di interesse personale e familiare, insieme a ogni tentazione di considerarsi come casta a sé stante, corpo privilegiato. Ai "vertici" della magistratura, da poco rinnovati, al primo presidente della Cassazione, Giovanni Canzio e al suo aggiunto, Renato Rordorf, l’augurio è quello di saper sopire le divergenze interpretative all’interno della giurisdizione di legittimità (anche quelle giustificabili dall’oscurità e dalla frettolosità, quando non dalla sciatteria o dalla malizia, del legislatore), così da far emergere pienamente il ruolo pensoso e riflessivo della Suprema Corte: l’unità e la certezza nell’interpretazione e applicazione delle leggi sono un bene prezioso per i cittadini, forse il più auspicato e desiderato. Al Csm e ai suoi componenti (tutti!) l’augurio è quello di saper troncare legami, anche legittimi, con le esperienze pregresse di ciascuno, così da essere e al tempo stesso da apparire il garante dei garanti, in modo da valorizzare la parte migliore della magistratura e correggere sapientemente singoli episodi di malcostume che anche in essa si verificano e possono verificarsi. Ai mezzi di informazione e ai loro operatori vorrei infine augurare di saper troncare ogni eventuale corto circuito con interessi economici o di parte, e insieme di saper sopire la tentazione dello scoop a tutti i costi, imparando a distinguere tra caso e caso ed evitando di precostituire assoluzioni o condanne, responsabilità o irresponsabilità. Sopire, troncare, allora; troncare, sopire. Ma affinché la giustizia si possa affermare, sempre. Perché amore e diritto restano distinti Giovanni Verde Il Mattino, 31 dicembre 2015 Tempo di Natale. Con i nipotini guardo alla televisione splendidi documentari sulla vita degli animali. Una lotta continua per la sopravvivenza e per la perpetuazione della specie, nella quale l’accoppiamento, che è la maniera in cui si manifesta l’amore tra gli animali, recita la parte essenziale e chi non accetta le regole è emarginato. Tra le mani ho un libro (di Stefano Rodotà) sul diritto d’amore e penso all’uomo, a cui è stata concessa un’intelligenza capace di rielaborare i dati sensibili che apprende tramite l’esperienza e di andare oltre; e, quindi, attraverso il pensiero di dettare le regole per disciplinare le leggi della sopravvivenza e della conservazione della specie. La mente corre all’onnipotenza del diritto, ossia alla più alta creazione dell’uomo, a ciò che ha determinato l’ambiente che ci ha permesso di affermare la nostra supremazia sugli altri essere viventi. E mi chiedo, sollecitato dalla lettura del libro, se l’amore ha qualcosa a che vedere con il diritto. Per dare una risposta occorre riflettere a come opera l’uomo attraverso il diritto: vieta, proibisce, comanda, impone comportamenti (è il diritto interdittivo o impositivo), riconosce, protegge, agevola, favorisce (è il diritto premiale). L’amore, tuttavia, soprattutto quello che nasce quando scocca la scintilla tra due persone, dovrebbe essere preservato dalle ingerenze del diritto: è una zona che il diritto può soltanto contaminare. Non a caso nel diritto canonico si legge che "amor non est in provincia iuris". Quando il diritto ha regolato l’amore lo ha fatto per proibire, per vietare. E poiché la storia del pensiero umano è costellata di pregiudizi e di errori, spesso si è espresso, indebitamente interferendo con l’amore, con regole violente e crudeli (tipiche di una società maschilista e superstiziosa) e ha imposto divieti e proibizioni sanzionate con ancora più violente sanzioni afflittive. La storia recente della civiltà occidentale è materiata di un lento e faticoso sforzo per liberarci dai pregiudizi e dagli errori. Ed è una storia che riguarda, per ora, una parte limitata della popolazione mondiale (si pensi alle moltitudini dei cultura islamica). Come è possibile, allora, che il codice canonico affermi l’indipendenza dell’amore dal diritto se lo stesso codice è costruito su di una regola che costringe l’amore nell’indissolubile legame matrimoniale? Non c’è contraddizione, perché quel codice non disciplina l’amore, ma soltanto il rapporto tra due persone, che può avere trovato, ma non necessariamente, la sua occasione nell’amore. E lo fa nella prospettiva di garantire con le regole la sopravvivenza e la conservazione della specie (ciò che in natura è affidato alle sue leggi spesso crudeli). Non diversamente operano i codici statali, quando regolano matrimonio, filiazione, successione. Le leggi intervengono, qui, non per proibire o vietare, ma per autorizzare, per proteggere, per favorire. E nel farlo, danno vita a un’istituzione - ossia il matrimonio - alla quale aderisce inevitabilmente una qualche forma di stabilità, perché un’istituzione assolutamente liquida sarebbe intrinsecamente contraddittoria, ricollegandole privilegi e favori, nella misura in cui alla stessa si riconosce un valore sociale: quello della creazione della famiglia, che costituisce il primo nucleo al quale è affidato lo sviluppo della società e la stessa sopravvivenza della specie (e di ciò è traccia nella nostra Costituzione: articoli 29 e 30). I diritti e i doveri che vengono riconosciuti per questa via non nascono dall’amore, spesso gli sono indifferenti o addirittura costituiscono un peso (quanti sono i matrimoni senza amore, conclusi per ragioni di convenienza o che si trascinano per consuetudine o per necessità, quando oramai la scintilla iniziale si è spenta!). Insomma non esiste un diritto d’amore (e collegarlo al diritto alla salute mi sembra un’evidente forzatura), ma esiste e deve essere riconosciuta la libertà d’amore e la battaglia per abbattere divieti e proibizioni (di quelle di cui è ricca tanta letteratura che ci ha commosso nel corso degli anni) è una battaglia giusta secondo l’evoluzione del pensiero nel mondo occidentale. Diversa è la pretesa di estendere le leggi che riconoscono, favoriscono e proteggono il rapporto tra due persone e lo istituzionalizzano. Questa pretesa non ha nulla a che vedere con l’amore. È la rappresentazione di un’esigenza o di un bisogno che chiede riconoscimento e tutela. E la collettività organizzata deve valutare se vi siano i presupposti per dare veste giuridica alla pretesa. È un’operazione non priva di costi e che comporta scelte. L’estensione di una legislazione premiale a persone che non possono naturalmente (e non accidentalmente) concorrere alla continuazione della vita ha costi per la collettività, che deve essere disposta a farsene carico. La creazione di un vincolo equivalente a quello della filiazione tra un bambino e due genitori (giuridici) dello stesso sesso se soddisfa il desiderio di genitorialità degli adulti nulla sa di ciò che avviene per il bambino, che non essendo in grado di scegliere o di valutare finisce con l’essere trattato alla stregua di un oggetto e non di un soggetto giuridico. Anche questa è una scelta delicata, dove la soluzione va ricercata tra quelle che soppesano adeguatamente i rischi e i vantaggi per il minore. Il diritto segue l’evoluzione del pensiero umano. Il diritto, per questa ragione, è costellato di episodi bui, è pieno di violenze di cui ci dobbiamo vergognare. Quando si interviene per regolare d’autorità i sentimenti il pericolo di sbagliare è grande. Sarebbe contraddittorio pensare, da un lato, che il matrimonio intrappola l’amore e chiedere, dall’altro lato, che si creino regole per proteggere l’amore, qualsiasi amore. Forse la cultura d’oggi ci impone di correre questo pericolo e di cadere nella contraddizione. Se così è, facciamolo. A patto di essere consapevoli, senza ipocrisie, che non si tratta di riconoscere diritti innati, ma di dare protezione a bisogni ed esigenze alla cui base c’è l’io e nulla o quasi nulla oltre l’egoismo delle persone. Processo al giudicante di Pietro Tony (ex magistrato) Il Foglio, 31 dicembre 2015 Stasi, Mannino, Penati, Sollecito. Certe sentenze sono culturalmente mostruose. E non è solo colpa del sistema giudiziario, ma anche di giudici poco illuminati. Subcultura, insensibilità e ignoranza. Qualche giorno fa nel commentare sul Foglio la sentenza Stasi scrissi che l’intera vicenda - caratterizzata da una pronuncia conclusiva di condanna da parte della Cassazione, preceduta da ben due assoluzioni oltre che da una richiesta di annullamento da parte dello stesso pm di udienza - non poteva che apparire culturalmente mostruosa. E attribuivo le dirette responsabilità di tutto ciò non già ai decidenti ma da una parte al sistema processuale malato e dall’altra all’inadeguatezza della cultura giudiziaria dei nostri giorni. Perché troppo spesso approssimativa o parziale quanto a valutazione di prove/indizi e troppo spesso disarmante per quanto povera dei valori necessari a rendere credibile ed efficiente il sistema Giustizia. Povera di sensibilità giudiziaria perché di questo si tratta: conoscenza e osservanza solo formale del significante, ossia dei grafèmi delle singole norme ma - nonostante gli sforzi del legislatore nel precisare casistiche e intendimenti - non anche del loro significato più profondo. Il che vuol dire scarsa attenzione alla realtà, perché non esistono norme isolate, essendo ciascuna di esse inserita in una rete normativa di contesto costituzionale che ne decifra il senso, comprese naturalmente quelle dell’"al di là di ogni ragionevole dubbio", della "sussistenza e adeguatezza delle esigenze cautelari" o "del concreto pericolo di fuga". Il che vuol dire assenza/insufficienza di attenzione dialettica per opinioni e giudizi diversi dal proprio, per un diritto penale "minimo" e inclusivo, per una logica anche falsificazionista ossia controfattuale e infine per il rispetto di dignità e diritti fondamentali della persona. Questione di cultura insomma, nient’altro che di cultura. La prova? Vicende scandalose come quella di Stasi e Mannino e Carnevale e Penati e Sollecito e tante altre! E ancora le cifre da capogiro sborsate dallo stato per riparazione di ingiuste detenzioni (dal 1991 oltre 580 milioni di euro per più di 23 mila persone ingiustamente detenute in cautelare, nel solo 2014 oltre 35 milioni di euro)! Ne parlo perché sabato scorso, sempre sul Foglio, il professore Guido Vitiello ha criticato codesti miei distinguo tra liturgia e celebranti visto che sarebbe "proprio il sistema processuale a lasciare ai magistrati margini così spaventosi di discrezionalità e di arbitrio irresponsabile da magnificare anziché comprimere l’elemento soggettivo". Non posso non scriverlo! Professore Vitiello, ho la rispettosissima sensazione che stiamo dicendo la stessa cosa, che tra i "margini così spaventosi…" di cui parla Lei continui a proliferare l’anemica e appassita cultura di formalismo stantio e insensibilità giudiziaria di cui parlo io. Andiamo con ordine. Quanto al sistema processuale, ormai solo nel nostro paese qualcuno, forse, crede che l’impugnabilità di una sentenza assolutoria da parte del pm sia cosa buona e giusta. Per il resto è tutta questione di cultura - anche se anemica e appassita, professore mio. Come l’aringa che resta aringa anche dopo l’affumicatura. Mi spiego, anzi spiego a me stesso data l’ovvietà della cosa. L’acquisizione critica di cognizioni tratte da studio ed esperienza determina quell’arricchimento delle facoltà intellettuali che comunemente si chiama "cultura". Naturalmente c’è chi si arricchisce di più e chi di meno, chi parte ciuco e chi destriere, chi si blocca e chi accelera, chi vibra appassionatamente e chi si anemizza e appassisce. La per me indimenticabile Iagoda - una giovane rom che con le sue sole forze dal campo nomadi di Cascina Gobba era arrivata a insegnare alla Sorbona, un vero talento naturale - soleva dire che gli insegnamenti scolastici compresi quelli universitari danno solo rudimenti preparatori, l’intelaiatura destinata ad accogliere e incorniciare una cultura che solo esperienza e studio faranno sbocciare, una tela - proseguiva - tutta intessuta di sensibilità più sottili di fili di seta. Ecco cosa manca troppo spesso e anche nella magistratura, la sensibilità figlia di studio postuniversitario e di esperienza. Mancanza che a Napoli si riassume diversamente per lamentarsi di qualsiasi improprio affidamento alle mani dei guaglioni. Perché non basta mandare a memoria tutti i commi della normativa nazionale, né basta non essere cattivi, irresponsabili, disonesti. Mi ripeto, non è solo questione di norme. Nei "margini così spaventosi" di cui così bene Ella tratta, occorrerebbero sensibilità e cultura e a questo mi riferivo nel commentare la sentenza Stasi. Non è questione di nomenclatura significante ma di modelli culturali idonei a individuare il significato delle parole della legge. Se fossero stati più "sensibili" e meno autoreferenziali, codesti magistrati del processo Stasi avrebbero valutato la complessiva vicenda - fin nei precordi delle opinabilità evidenziate dalle difese e dallo stesso pm di udienza, e soprattutto dai colleghi dei precedenti gradi di giudizio - avrebbero considerato il loro libero convincimento non come libertà di certezza morale, del "secondo me è così", ma solo libertà da regole legali prestabilite come quelle del tariffario criticato da Voltaire (De la procédure criminelle et de quelques autres formes). Così facendo, non avrebbero potuto non paralizzarsi per la non rara evidenza di margini di inconoscibilità e per quel principio dell’al di là di ogni ragionevole dubbio (art.533 cpp) proclamato ad ogni piè sospinto ma non sempre considerato. E sarebbe stata paralisi piena, per quella ragionevolezza loro imposta - nella cornice del ragionevole dubbio e in presenza di ben due sentenze di assoluzione - dall’art. 192,c. 1 cpp: "Il giudice valuta la prova dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati", e dall’art. 546 lett. e cpp che regola i requisiti di ogni sentenza: "La sentenza contiene… l’enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie". Con qualche sottile filo di seta in più nemmeno altri fatti - non importa se contrari o meno alla lettera della legge ma sicuramente inopportuni e incolti - si sarebbero verificati: un procuratore della Repubblica in piena funzione - e per fama persona dabbene - non avrebbe chiesto di essere nominato consulente di un governo profondamente radicato nel suo circondario né per le stesse ragioni avrebbe potuto autorizzarlo un Csm avveduto, come invece è successo. Con qualche sottile filo di seta in più non sarebbe stato possibile assistere qualche giorno fa a uno spettacolo televisivo - mi riferisco al processo di Bari sulle escort - incentrato soprattutto sullo svisceramento della privacy di persone non indagate, sulla consistenza delle loro culottes e sulla risonanza di nomi in qualche modo coinvolti (nomi che il pm di udienza, di fronte all’esitazione dei testi a pronunciarli - anche perché era ben chiaro a tutti di chi si parlava - con l’evidente orgoglio della propria inflessibilità chiedeva di pronunciare a voce alta e distintamente). E sempre di modelli culturali carenti e di insensibilità professionale si tratta quando si manda cautelarmente in carcere non il feroce bruto pericoloso per l’incolumità delle persone ma il funzionario corrotto neutralizzabile con una misura di interdizione dal lavoro. Quando si tollera la crocifissione mediatica di soggetti appena e qualche volta nemmeno indagati. Quando, nell’ambito del solito procedimento di durata irragionevole, il gip presso il tribunale di Napoli continua per mesi a vietare i colloqui - come noto rigorosamente controllati e dunque insospettabili di inquinamento probatorio - tra marito e moglie, dimenticando che il mantenimento delle relazioni familiari è essenziale per un qualsiasi futuro reinserimento. Quando un giudice di sorveglianza, come è recentemente accaduto a Venezia, nega a un condannato sotto accertamenti cardiologici la prosecuzione degli arresti domiciliari già in corso - ben ammissibile ex Dl 146/2013, cd "decreto svuota-carceri" - e per l’effetto lo fa tornare in carcere, nonostante i pareri favorevoli ai domiciliari espressi da pm, carabinieri e servizi, e lo nega in quanto - solo secondo il suo pensiero, rispettabile ma solo suo - sussisterebbe fumus di mancato ravvedimento e dunque pericolo di recidiva. Quando, con un sistema Giustizia non proprio sempre adeguatissimo, centinaia di magistrati si distraggono e gratificano per incarichi fuori-ruolo ed extragiudiziari - che sarebbero gestiti bene o forse meglio da professionisti di altre discipline quali università, avvocatura, eccetera - anziché esercitare a tempo pieno le loro funzioni istituzionali. Quando, per gli incarichi direttivi, al Csm continuano arrogantemente a imperversare le ineffabili nomine a "pacchetto politico". Nei corsi universitari di Giurisprudenza mancano cattedre… di fili sottili. A Parigi esiste da sempre l’Ecole normale supérieure e dà ottimi risultati nonostante risulti solo al trentatreesimo posto nelle graduatorie di similari europee. Da noi finalmente da qualche anno è nata la Scuola Superiore della Magistratura, ma pare vivacchi tra velenosissime polemiche - le mailing list associative sarebbero a rischio di intasamento - in quanto gestita anch’essa con le solite perniciose logiche correntizie. Pessimismo della ragione ma ottimismo della volontà, egregio professore Vitiello! Dobbiamo sperare che la promessa riforma del sistema Giustizia possa affrontare e risolvere anche questi problemi. Csm, puniti e impuniti nel paese capovolto di Antonio Ingroia Il Fatto Quotidiano, 31 dicembre 2015 L’Italia alla rovescia colpisce ancora. E lo fa attraverso il Consiglio superiore della magistratura, che ne è una diretta emanazione. In un Paese normale, in uno Stato di diritto come lo avevano sognato i padri costituenti, il Csm dovrebbe tutelare autonomia e indipendenza della magistratura anche e soprattutto dagli altri poteri, a cominciare dal più invasivo di tutti, il potere politico. E così fu negli anni gloriosi di un "altro" Csm, che seppe sfidare governi e presidenti della Repubblica. Anche se non sempre fu così, come ci ricordano le tante umiliazioni e bocciature che Falcone e Borsellino subirono soprattutto dal Csm. Ma nell’Italia di oggi sempre più alla rovescia, il Csm è sempre meno sede della difesa della magistratura e sempre più luogo in cui prevale la politica degli interessi forti. Solo in un Paese alla rovescia può accadere che, nonostante il palese conflitto di interessi, il procuratore di Arezzo, che contemporaneamente è consulente del governo e indaga sul crac di Banca Etruria di cui all’epoca era vicepresidente il padre di un ministro del governo stesso, possa essere assolto dal Csm, con sentenza anticipata a mezzo stampa prima ancora di essere pronunciata e prima ancora che sia avviata l’istruttoria. Con la grottesca motivazione che rimanda alla "autocertificazione" da parte dello stesso procuratore dell’assenza di conflitto di interessi. E solo in un Paese alla rovescia può accadere che quello stesso Csm, così indulgente verso Rossi, divenga intransigente verso un ben diverso magistrato, che dalla politica non riceve né consulenze né gratifiche, ma solo insulti ed attacchi, e cioè il procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi, rinviato a giudizio per aver osato criticare aspramente i giudici che avevano mandato assolto il generale Mario Mori, accusato di favoreggiamento per il mancato arresto del capomafia Bernardo Provenzano. Difficile vincere il sospetto che oggi tutto ciò che è renziano gode di impunità, mentre coloro che mantengono indipendenza e schiena diritta, senza contiguità più o meno mascherate, vengono ostacolati e talvolta anche puniti. E con speciale severità quando si tratta di magistrati come Teresi, che indaga, col pool di Palermo di cui è coordinatore, su segreti di Stato e potenti come quel generale Mori, già capo dei servizi segreti ai tempi di Berlusconi e amico in modo trasversale di tanti politici e magistrati. Ovviamente, mentre l’assoluzione del procuratore di Arezzo viene propagandata dall’intera stampa nazionale, del perseguitato Teresi, che ha semplicemente espresso un’opinione critica, garantita a tutti dalla Costituzione, si occupa solo il Fatto Quotidiano. Hai visto mai che a qualcuno venga in mente di paragonare i due casi e pensare che il Csm, di cui è vicepresidente il renziano Legnini, adotti due pesi e due misure? Questo smaccato doppiopesismo è lo specchio di un Paese alla rovescia, sempre più ingiusto anche nelle aule di giustizia e in seno a quel Csm che, invece di garantire, attraverso l’autonomia e indipendenza giudiziaria, l’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, avvalora e sostiene la pretesa di ingiustizia e prepotenza che viene dalla politica. E così si infittisce, anche fra i magistrati, la lista degli impuniti che meriterebbero sanzioni e dei puniti che meriterebbero protezione. Per la carriera di un magistrato il solo rinvio a giudizio disciplinare è già una punizione, e Teresi rischia solo per questo di essere estromesso da concorsi ad importanti incarichi direttivi. E ciò a prescindere dall’esito di un procedimento avviato in virtù di un rinvio a giudizio pasticciato e forse nullo, oltre che contrario alla richiesta di archiviazione del Pg della Cassazione che il procedimento aveva avviato. Così come Nino Di Matteo, anch’egli punito dal Csm che non lo ha voluto nominare alla Procura nazionale antimafia, e per di più condannato a morte dalla mafia, che sa fare tesoro degli isolamenti istituzionali dei magistrati più esposti. Ma il Csm e la politica continuano la loro opera, impuniti. E sono certo che al Csm la passeranno liscia anche per il pasticcio della doppia notifica dei due atti di rinvio a giudizio di Teresi, uno contraddittorio rispetto all’altro. Certo, se non fossimo in un Paese alla rovescia, dovremmo poter contare sul garante di tutti noi, che è anche presidente del Csm, e cioè sul presidente Mattarella che dovrebbe intervenire per porre riparo ad un indecoroso pasticcio politico-istituzionale causa di ennesima ingiustizia. Basterebbe, intanto, che nel suo discorso di fine anno spendesse qualche parola in favore del lavoro del pool di Palermo, così rompendo un silenzio istituzionale che dura dai tempi di Napolitano, ed il conseguente isolamento di uomini onesti e coraggiosi, di legge e di giustizia come Teresi e Di Matteo. Ma non c’è da nutrire troppe illusioni. Viviamo in un Paese alla rovescia. Referendum, l’Anm correntizzata boicotta se stessa di Bruno Tinti Il Fatto Quotidiano, 31 dicembre 2015 Alcuni magistrati non correntizzati hanno proposto un referendum (in realtà 4) in cui si chiede all’Anm di attivarsi affinché: 1) Cessi l’attività di supplenza del magistrato quando manca il personale amministrativo, quantomeno per sette giorni (una sorta di sciopero "bianco"); 2) Un terzo dei contributi versati dai soci sia destinato a coprire le maggiori spese di assicurazione conseguenti alla nuova normativa sulla responsabilità civile; 3) Il Csm introduca i carichi esigibili, da intendersi come misura del lavoro sostenibile dal magistrato, così come avviene per i magistrati amministrativi. 4) Siano introdotte norme che prevedano la sospensione dei termini per il deposito dei provvedimenti giudiziari durante le ferie. La competenza a organizzarlo spetta all’Anm di cui, da decenni, si sono impadronite le correnti. L’unico non correntizzato che, alle ultime elezioni, è riuscito ad entrare nel Comitato direttivo centrale (Cdc) quello che dovrebbe gestire questa cosa, è schifato da tutti gli altri, non è mai riuscito nemmeno a far discutere delle costanti violazioni dello Statuto che impunemente sono commesse; insomma è stato sterilizzato. Così, a distanza di 15 giorni dal referendum (si terrà il 17 gennaio), questo Cdc di correntocrati non ha indicato dove si andrà a votare e non ha predisposto le convocazioni per gli addetti ai seggi né le schede (che, trattandosi di referendum con 4 quesiti sono piuttosto complesse). Naturalmente si possono non approvare i quesiti e dunque si potrà esprimere il proprio dissenso sia votando no (il quesito è formulato in modo positivo) sia astenendosi in modo da far mancare il numero legale; ma quello che il Cdc non può fare è violare lo Statuto che lo obbliga a promuoverlo se sottoscritto da più di 300 associati; e qui sono stati quasi 1.000. E traccheggiare fino a pochi giorni prima dalle date fissate in modo da boicottarlo è un modo tipico di giuristi-legulei per violare la legge facendo finta di rispettarla. Eppure c’è almeno uno dei quesiti referendari che è veramente importante: il limite massimo di lavoro esigibile dai magistrati. Siano iper responsabilizzati se commettono errori, abbiano ferie uguali a quelle di ogni altro lavoratore; ma gli si dica quanto devono lavorare. Perché questo è il problema: un magistrato non ha orario di lavoro. Un medico sì, timbra il cartellino quando entra e quando esce e, come lui, tutti gli altri lavoratori pubblici. Ma un magistrato no, sta in ufficio quanto gli sembra necessario. Sembra comodo ma è una sciagura perché lo fa diventare il capro espiatorio della crisi della giustizia: lavorate troppo poco. In realtà non è vero, tutti lavorano dalle otto alle nove ore al giorno, ma non si può dimostrare. I promotori del referendum pensano a una cifra secca: X provvedimenti all’anno. A me pare poco fattibile: ci sono sentenze e sentenze; alcune richiedono mesi, altre molti mesi; e poi i Pm che fanno le indagini, come si fa a quantificare il loro lavoro? Mi sembrerebbe più ragionevole stabilire anche per i magistrati un orario. E le urgenze? Mah, un turno notturno pagato a parte? Comunque la gravità della questione non sta nei problemi proposti dal referendum: ognuno voterà come vuole. Sta nella concezione proprietaria che le correnti hanno dell’Anm: quello che noi non vogliamo che si faccia non si deve fare; e nella pavidità dei correntizzati: quello che le correnti non vogliono non lo vogliamo nemmeno noi. Che non è proprio onorevole per un magistrato. Puglia: sovraffollamento delle carceri, Regione maglia nera La Repubblica, 31 dicembre 2015 Carceri sovraffollate in Puglia: è la situazione peggiore che esiste in Italia. Ci sono mediamente 138 detenuti per 100 posti letto. Il triste primato è solitario. Seguono, a ruota, Lombardia, Friuli Venezia Giulia e Veneto, con valori tra 129 e 127. Lo racconta l’Istat, nell’annuario 2015. Una situazione imbarazzante. Nonostante i numeri generali lasciavano immaginare che il bicchiere fosse mezzo pieno, non mezzo vuoto. Nelle patrie galere si contano 53mila 623 detenuti alla fine del 2014, 9mila in meno rispetto al 2013. Il trend decrescente è dovuto al "maggior accesso alle misure alternative" e alla "forte limitazione degli ingressi in carcere per i crimini di gravità minore". Tant’è che tra il dicembre 2010 e la fine del 2014, 15mila 814 galeotti sono stati mandati ai domiciliari. Quasi un detenuto su tre è straniero (32,6%), uno su quattro è tossicodipendente, il 27,1% svolge un’attività lavorativa, nella maggior parte dei casi alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. Anche l’indice di affollamento delle celle è in forte discesa nel 2014: passa da 131 dell’anno precedente a 108. Ma sono solo otto (comprese le due province autonome di Trento e Bolzano) le regioni con un indice di affollamento inferiore a 100. A fare eccezione è proprio la Puglia, dove peraltro il 30 per cento dei cittadini percepisce il "rischio criminalità". In questa speciale classifica, il primo posto del podio lo conquista la Lombardia (37,2%), a cui si accodano Lazio (36,2%), Umbria (34,3%) e Veneto (33,6%). La Campania risulta in quinta posizione con il 33,3%. Tra le prime dieci, figura questa regione. Quanto al "quoziente di delittuosità generico", calcolato rapportando il totale dei delitti alla popolazione, il Sud (Puglia inclusa) questa volta si colloca "ben al di sotto rispetto alla media italiana". Tuttavia, avverte l’Istat, "nella lettura del dato territoriale è opportuno tenere presente la differente propensione alla denuncia nelle diverse aree del Paese, soprattutto per quanto riguarda i reati considerati meno gravi dalle vittime". Napoli: sette detenuti polacchi restano in carcere per l’assenza di braccialetti elettronici camerepenali.it, 31 dicembre 2015 A seguito della manifestazione dell’Unione Camere Penali Italiane, sedici Senatori hanno rivolto un’interrogazione scritta al Ministro sulla mancanza di braccialetti elettronici. L’Unione Camere Penali Italiane, con il suo Osservatorio Carcere, nel sostenere l’iniziativa parlamentare, di sedici senatori nei confronti del Ministro della Giustizia, suggerendone l’estensione anche al Ministro dell’Interno, evidenzia come nella stessa si faccia riferimento a quanto da tempo sostenuto dai penalisti. Scrivono i Senatori: "Si apprende da fonti di stampa della recente astensione dalle udienze proclamata dalle Camere Penali di tutta Italia … Si sta verificando che i provvedimenti dei magistrati che consentono la scarcerazione non possano trovare applicazione, in quanto sono esauriti i braccialetti elettronici disponibili … Si riscontra, quindi, il paradosso che, pur vantando un provvedimento favorevole alla scarcerazione, il detenuto non possa essere scarcerato, perché manca il dispositivo che dovrebbe controllarlo durante la sua detenzione domiciliare e, in virtù del decreto legge n.146 del 2013, convertito con modificazioni, dalla legge n.10 del 2014, qualora il magistrato volesse applicare una misura di controllo diversa dal braccialetto, dovrebbe congruamente motivare in merito, visto che il novellato articolo 275 bis del codice di procedura penale prevede che l’assegnazione del braccialetto sia la misura ordinaria. Tutto questo comporta la totale disapplicazione della misura meno afflittiva, che non potrà essere posta in esecuzione fino a quando non sarà messo a disposizione un braccialetto già in uso, con improvvisate liste di attesa che non seguono alcun criterio, dando luogo ad evidenti disparità di trattamento, venendosi a configurare, in pratica una sorta di lotteria … Gli interrogandi ritengono che tale situazione sia indegna di un Paese che vuole definirsi civile e che è stato nei secoli culla del diritto e dei diritti. Si chiede di sapere quali misure intenda assumere al fine di porre rimedio a questa situazione, a giudizio degli interrogandi medioevale, che affida alla sorte quello che dovrebbe essere un diritto previsto dai principi fondamentali nazionali ed internazionali di qualsiasi ordinamento che voglia definirsi civile" (Bucarelli, Taverna, Airola, Puglia, Scibona, Girotto, Cappelletti, Castaldi, Paglini, Mangili, Donno, Bulgarelli, Santangelo, Bottici, Montevecchi, Moronese). La sorte, a cui fanno riferimento i Senatori, non è venuta incontro a 7 tifosi polacchi incriminati a Napoli per gli incidenti avvenuti prima e dopo la partita con la locale squadra di calcio. La Sezione Riesame del Tribunale, che in riforma dell’impugnata ordinanza aveva, il 23 dicembre scorso, sostituito nei confronti degli imputati la misura cautelare della custodia in carcere con quella degli arresti domiciliari con il controllo del braccialetto elettronico, aveva subordinato la scarcerazione alla disponibilità e applicabilità del dispositivo di controllo entro 4 giorni dal deposito del provvedimento. La mancanza del braccialetto non ha consentito la scarcerazione. I 7 polacchi hanno partecipato ad una lotteria, ma non hanno vinto. L’Unione Camere Penali, nell’evidenziare come il nostro Paese si esponga, in questo modo, anche a pessime figure in campo internazionale, ribadisce la necessità di un immediato intervento del Governo che possa porre fine ad una situazione tanto paradossale, quanto palesemente illegale, derivante dalla mancata applicazione di una norma del Codice di Procedura Penale e dalle evidenti disparità di trattamento. La Giunta dell’Ucpi L’Osservatorio Carcere Ucpi Rimini: inneggia all’Isis, detenuto egiziano espulso dall’Italia e rimpatriato Corriere della Sera, 31 dicembre 2015 Espulso dall’Italia un detenuto egiziano 32enne per avere inneggiato all’Isis e agli attentati di Parigi auspicando un’altra strage. L’uomo è stato denunciato e gli agenti della Questura di Rimini hanno eseguito l’espulsione con rimpatrio in Egitto. Il provvedimento è stato emesso dal prefetto riminese, Giuseppa Strano. Disponendo l’espulsione del 32enne il prefetto di Rimini ha condiviso appieno la proposta del questore della città romagnola, Maurizio Improta. Durante il periodo di detenzione in carcere lo straniero era stato sottoposto a monitoraggio, avendo manifestato importanti e non trascurabili segnali di radicalizzazione islamista. Un episodio, in particolare, era stato rilevato dal personale della Digos che da tempo controllava i suoi "movimenti": il 13 novembre l’egiziano, mentre trasmettevano la notizia della strage di Parigi, con rabbia e ad alta voce aveva urlato davanti agli altri detenuti "Li dobbiamo far fuori tutti, prima i francesi poi anche gli italiani", mimando il gesto della pistola. L’uomo allontanato risulta essere presente sul territorio nazionale fin dal settembre 2004, data nella quale è stato foto-segnalato dalla Questura di Ragusa perché richiedente asilo politico. È stato titolare, dal 2007 al 2013, della carta di soggiorno in quanto familiare di cittadino europeo, avendo contratto nel 2007 matrimonio con un’italiana. Il titolo di soggiorno era stato poi revocato dal questore di Rimini, nell’ottobre 2013, alla luce delle evidenze e della personalità criminale del soggetto. L’8 settembre di quest’anno lo straniero è stato poi sottoposto a fermo dai carabinieri di Rimini per rapina aggravata in concorso. L’egiziano ha alle spalle precedenti di polizia per rissa, lesioni personali (ha colpito un cittadino pakistano alla testa con una cazzuola), estorsione continuata in concorso ai danni di due fratelli ristoratori, diversi episodi di detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti; lesioni aggravate (ha ferito con coltello un cittadino italiano), violazione di domicilio, rapina aggravata e lesioni aggravate. Nei giorni scorsi ha però ottenuto un provvedimento di scarcerazione da parte del Gip presso il Tribunale di Rimini che ha sostituito la misura cautelare in carcere con quella dell’obbligo di dimora. La polizia però non ha perso le sue tracce, Digos e Ufficio immigrazione di Rimini, in stretto contatto con il personale dell’Antiterrorismo di Roma e Bologna e con la Direzione centrale della polizia di frontiera, hanno predisposto subito dopo la scarcerazione l’accompagnamento in Questura dell’egiziano, mentre veniva tenuta sotto stretto controllo la sua abitazione e le sue frequentazioni. Il Questore di Rimini ha quindi proposto l’espulsione e contestuale trattenimento presso il Cie al prefetto di Rimini, che ne ha ordinato l’allontanamento dal territorio nazionale. L’accompagnamento è avvenuto senza alcuna turbativa. L’uomo, dopo la prevista udienza di convalida, è stato condotto dal personale dell’Ufficio Immigrazione, della Digos e della Squadra Mobile di Rimini al Centro di identificazione ed espulsione di Torino dove è stato trattenuto fino quando con un volo di una compagnia aerea egiziana è stato rimpatriato, scortato da personale della polizia egiziana. Cagliari: Sdr; filtra l’acqua nelle celle del carcere di Uta, non finiti i lavori nelle stanze sardiniapost.it, 31 dicembre 2015 "È trascorso oltre un anno dal trasferimento dei detenuti dal vecchio carcere di viale Buoncammino a Cagliari al Villaggio Penitenziario di Uta, tuttavia in alcune stanze dei diversi edifici, non essendo state adeguatamente completate, filtra acqua". Lo denuncia Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", evidenziando nel resoconto annuale le principali carenze registrate negli edifici della casa circondariale articolata in 15 sezioni e "in cui operano 360 agenti rispetto ai 420 previsti in organico. Attualmente il numero dei ristretti ammonta a 560 presenze, con una capienza regolamentare di 549 detenuti, ma con quella tollerabile prevista fino a 950". "A fronte di spazi enormi disponibili, le sale colloqui sono più piccole di quelle dell’ottocentesco penitenziario cagliaritano così come dispone di meno spazio il centro diagnostico dove sono ricoverati i detenuti ammalati - aggiunge Caligaris - Le celle ospitano ormai tre detenuti, la presenza di tossicodipendenti è del 40%, c’è solo un campetto per giocare a calcio e non è difficile trovare chi rimpiange Buoncammino". Altre criticità evidenziate riguardano i collegamenti di trasporto pubblico nei giorni festivi, gli spazi d’attesa all’aperto per "i familiari, giovani e anziani, che sono costretti a sostare sotto il sole o la pioggia o al vento anche con neonati o bambini in braccio. L’auspicio - sottolinea la presidente dell’associazione - è quello di un maggior coinvolgimento delle istituzioni per ridurre il malessere sociale e garantire il diritto alla salute non sempre all’altezza delle aspettative dentro le carceri della Sardegna". Firenze: a Sollicciano visita di parlamentari, consiglieri regionali e comunali della Sinistra gonews.it, 31 dicembre 2015 "Abbiamo trovato una struttura con gravissime carenze e in condizioni ancora inaccettabili per un paese civile. Ma abbiamo trovato, a cominciare dal lavoro della polizia penitenziaria, una volontà positiva di cambiamento, non solo nell’organizzazione, ma anche e soprattutto nella costruzione di percorsi in grado di preparare i detenuti al reinserimento nella società. Continueremo a seguire con attenzione la situazione di Sollicciano e non mancherà, in nessuna sede, il massimo dell’impegno affinché vedano la luce le buone iniziative messe in cantiere negli ultimi mesi". Così le parlamentari di Sel-Sinistra Toscana, sen. Alessia Petraglia e on. Marisa Nicchi, commentano il sopralluogo che hanno effettuato questa mattina presso il carcere fiorentino di Sollicciano insieme ai consiglieri regionali di Sì-Toscana a Sinistra, Tommaso Fattori e Paolo Sarti, e ai consiglieri comunali di Firenze riparte a sinistra Tommaso Grassi, Donella Verdi e Giacomo Trombi. "Ancora una volta - proseguono - dobbiamo purtroppo constatare di aver trovato una situazione molto difficile in termini di vivibilità, sia per i detenuti che per i lavoratori. Umidità, infiltrazioni, impianti di riscaldamento guasti rimangono all’ordine del giorno, con conseguenze negative sulla salute di chi opera all’interno del carcere, che rimane un mondo a sé, avulso dalla città ed estraneo all’esterno. Abbiamo trovato particolarmente grave la presenza di madri detenute con i propri figli, costrette a rimanere in carcere perché dopo due anni di annunci e rinvii ancora manca l’Icam, il centro di custodia attenuata dove accogliere le detenute con bambini fino a sei anni. Al contempo apprezziamo come la riorganizzazione della polizia penitenziaria sia andata ad affiancarsi al lavoro dell’area trattamentale guidata dal dottor Politi che ringraziamo per averci accompagnato oggi". "Su questa vicenda - sottolineano in particolare i consiglieri comunali - chiederemo di conto alla Giunta comunale e alla Società della Salute. Allo stesso tempo è necessario che il Comune si faccia promotore di relazioni diverse tra la città e il suo carcere, promuovendo progetti e iniziative in grado di favorire un legame tra il dentro e il fuori, preparando chi oggi è detenuto ad un reinserimento pieno nella nostra comunità una volta scontata la pena". "A livello nazionale - aggiungono Petraglia e Nicchi - è necessario che il Parlamento continui e trovi maggiore coraggio quando si confronta con il tema della detenzione. La nuova legge sulla messa in prova, seppur timida, è un piccolo passo in avanti. È incomprensibile e gravissima, a questo riguardo, la chiusura di Renzi ad una possibile amnistia, esclusa tout court ieri nella conferenza stampa di fine anno, come a voler strizzare l’occhio al giustizialismo che punisce e non riabilita, come chiede invece la nostra Costituzione e come deve accadere in ogni paese civile". Catanzaro: per l’iniziativa "Spes contra spem" delegazione di Radicali in visita al carcere uscatanzaro.net, 31 dicembre 2015 Nell’ambito dell’iniziativa "Spes contra spem", che in Calabria ha visto alcuni militanti radicali impegnati nella visita di tutte le carceri del territorio calabrese. "Spes contra spem": speranza, contro ogni speranza. Sperare e lottare anche quando le condizioni sembrano disperate. Nell’ambito dell’iniziativa "Spes contra spem", che in Calabria ha visto alcuni militanti radicali impegnati nella visita di tutte le carceri del territorio calabrese, nella giornata di ieri abbiamo visitato, come delegazione di radicali (presenti Giuseppe Candido, Antonio Giglio - Consigliere comunale di Catanzaro, iscritto da anni al Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito - Emilio Quintieri, Rocco Ruffa) la Casa Circondariale "Ugo Caridi" di Catanzaro,accompagnati dal personale della polizia penitenziaria, e dalla direttrice del carcere dott.ssa Angela Paravati. Verificate, come sempre, le condizioni della struttura, e ascoltati i detenuti. Confermato, rispetto all’ultima visita (effettuata l’1 gennaio scorso) il dato positivo sul sovraffollamento. Rispetto alle condizioni rilevate durante la visita effettuata a fine marzo 2014, quando ancora le presenze (484) erano maggiori della capienza regolamentare dichiarata di 617 che, in realtà, era di 329 perché erano ancora indisponibili i 288 posti del padiglione nuovo, al momento la situazione è decisamente migliorata. Nella struttura, ieri, durante la visita, erano presenti 570 detenuti (di cui 320 comuni e 250 di alta sicurezza, 0 in regime di 41-bis), tutti uomini; un numero inferiore rispetto alla capienza regolamentare dichiarata di 627 posti; ma a questi, vanno sottratti 72 posti dell’ultimo piano del nuovo padiglione perché ancora inutilizzati. Praticamente la struttura è al completo. 136 sono i detenuti stranieri; 8 i tossicodipendenti in terapia con metadone. Ci sono diverse sale attrezzate come palestra, un campo sportivo, il teatro e c’è un laboratorio dentistico contre odontoiatri che vi lavorano a turno; per quanto riguarda le cure mediche alcuni detenuti lamentano tempi di attesa lunghi. Negativo il dato sulla quasi completa impossibilità di lavorare: solo 145 di loro possono farlo e lavorano alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria. Per tutti gli altri ci sono solo socialità, passeggio, e alcuni lavoretti interni al carcere, che li tengono "impegnati" per sei ore al giorno. Il resto del tempo i detenuti lo passano nelle celle che, ad eccezione di quelle del nuovo padiglione, sono umide, e hanno il water nello stesso angusto loculo dove c’è pure la cucina e il lavabo. Problemi di umidità anche nelle docce, che nei vecchi padiglioni sono tutte in comune. Nell’area sanitaria sono presenti, nei vari turni di lavoro, 10 medici che garantiscono un servizio h24, con la possibilità di fare viste specialistiche con la presenza settimanale del cardiologo, dermatologo, diabetologo, infettivologo, neurologo, ortopedico, urologo, otorinolaringoiatra ed è presente il defibrillatore. Su una pianta organica di 401 agenti di polizia penitenziaria, effettivi in servizio ce ne sono appena 293, di cui48 impegnati nel nucleo traduzioni. E su 547 detenuti sono 7 gli educatori che lavorano nella struttura. Detenuti in attesa di giudizio: 107, di cui 66 appellanti, 45 ricorrenti, 38 in posizione mista. Zero suicidi nel 2015. Frequenti, anche se diminuiti rispetto al recente passato, gli atti di autolesionismo, 14 nel 2015; 12 i detenuti che usufruiscono di permesso premio. Siamo rimasti stupiti - si legge ancora - dallo smantellamento, avvenuto nel totale silenzio da parte del Dap, del Reparto Alta Sicurezza AS2, in cui, da anni, erano ospitati detenuti per motivi politici (Brigate Rosse, Anarchici). Nel mese di dicembre, gli 8 detenuti sono stati tradotti dalla Polizia Penitenziaria in altra Casa circondariale, fuori Regione. Negativo il fatto che non ci siano più progetti per fare lavorare i detenuti all’esterno: si ritorna, quindi, alla vecchia concezione del carcere, dove i progetti di reinserimento e di recupero - fondati su idee di civiltà, giuridica e non - sono prossimi allo zero a causa del disinteresse della maggior parte della Politica e delle amministrazioni. Il carcere viene visto come un ghetto, - concludono i Radicali - una struttura da isolare e dimenticare; l’argomento "carcere" e "detenuti" è malvisto anche dalla gran parte dell’opinione pubblica, che preferisce affrontare il tema parlando alla pancia dei cittadini". Enna: i detenuti della Casa Circondariale "Luigi Bodenza" per l’Ambiente guidasicilia.it, 31 dicembre 2015 Anche la Casa Circondariale "Luigi Bodenza" di Enna partecipa al progetto di Educazione Ambientale "Uso e riuso: per un ambiente pulito" voluto dal Legale Rappresentante di Enna Euno, Antonino Di Mauro, che la Società d’Ambito sta conducendo nella provincia di Enna. Condotto dalla biologa Rosa Termine, il progetto vede coinvolti, all’interno del carcere, alcuni detenuti, in una fattiva collaborazione tra Enna Euno, la Scuola (con alunni, insegnanti e genitori), liberi cittadini e la Casa Circondariale stessa, nell’ottica di "progetto di comunità di cittadinanza attiva e buone pratiche" dove la parola d’ordine è "condivisione", con l’obiettivo di contribuire a far rimanere i detenuti aggrappati al loro essere Cittadini per quel domani che li ritroverà fuori nella Comunità. Rosa Termine e Isabelle Cannarozzo di Enna Euno, accolti dal Direttore della Casa Circondariale Letizia Bellelli - che ha fortemente sostenuto il progetto -, hanno incontrato i detenuti, alla presenza del Direttore Area Trattamentale Cettina Rampello. L’obiettivo è quello di orientare i ristretti all’acquisizione di conoscenze sulla questione dei rifiuti: come ridurre la loro produzione e mettere in atto abitudini e comportamenti corretti attraverso la pratica della Raccolta Differenziata. Tutto ciò nell’ottica di una coscienza ecologica che consenta di gestire, ognuno nel proprio ambito, le risorse sia dal punto di vista energetico sia dei materiali; etc. Al fine di promuovere uno stile di vita ecosostenibile, si è poi passati al Riciclo Creativo attivando il laboratorio "Scarta la carta" con la fabbricazione di nuova carta dalla carta straccia, utile per esempio per fare biglietti augurali, per realizzare delle buste da regalo o per rivestire scatole di cartone (usate come imballaggi e che normalmente finirebbero nella pattumiera) e trasformarle in ceste natalizie. Enna Euno ha, quindi, lasciato ai detenuti un vademecum su "Come realizzare un foglio di carta" e una compostiera che verrà posizionata nel giardino della Casa Circondariale ed utilizzata per produrre dagli scarti alimentari, compost utile per l’orticoltura che presto verrà praticata dai detenuti. I detenuti hanno successivamente incontrato Antonella Mondello per acquisire la tecnica di riciclare le bottiglie di plastica per realizzare arredi urbani come il divanetto, progettato nell’edizione 2014/15 di "Uso e riuso: per un ambiente pulito" dal figlio Lorenzo, alunno di Scuola Primaria dell’Istituto "F. P. Neglia" di Enna diretto da Maria Silvia Messina. Il divano, che realizzeranno i detenuti, verrà utilizzato per arredare piazza Bovio. Questa piazza rientra nel percorso di progettazione partecipata "Castello e... dintorni - Accessibilità, Sicurezza, Valorizzazione, Fruizione", avviato ad Enna da Cecilia Neri, che ha visto la produzione di una serie di bozzetti per arredare alcune aree della Città con materiale riciclato. I prodotti realizzati dai detenuti di Enna lasceranno così una testimonianza tangibile del loro impegno e del percorso di consapevolezza fatto. Catania: minori detenuti; spettacolo teatrale a Bicocca con il Centro di Volontariato etneo blogsicilia.it, 31 dicembre 2015 Un momento di svago e di crescita, per chi non ha la possibilità di vivere le feste con la famiglia o gli amici: è quello che il Centro di Servizio per il volontariato etneo e il Coordinamento catanese di Volontariato hanno voluto offrire ai ragazzi reclusi nell’Istituto penale per minorenni di Bicocca, con una mattinata all’insegna del sano divertimento e del contatto con esperienze di solidarietà. Il Csve ha organizzato uno spettacolo, tenuto nel teatro del carcere, con la partecipazione di Salvo La Rosa e Giuseppe Castiglia. Il presentatore e il cabarettista, davanti a una cinquantina di detenuti, hanno proposto alcuni divertenti skecth e barzellette, mentre gli operatori del Csve hanno curato la proiezione di due video: uno spot di promozione del volontariato realizzato dallo stesso Centro e il cortometraggio "Due piedi sinistri" vincitore della sezione "Sociale" della rassegna Corti in cortile. "Per queste festività - ha spiegato il presidente del Csve, Salvo Raffa - abbiamo voluto improntare le nostre attività all’insegna della solidarietà. A partire dalla Giornata internazionale del volontariato del 5 dicembre, abbiamo costruito un percorso che ci porterà alla fine delle feste con iniziative a favore dei più poveri, dalla raccolta di coperte per i senza fissa dimora fino al foodsharing per chi ha bisogno. Tutte attività maturate grazie alle esperienze e alle proposte delle nostre associazioni. L’evento a Bicocca, in particolare, è scaturito dalla collaborazione con le realtà operanti nell’ambito della Giustizia, a seguito del protocollo d’intesa stipulato con l’Ufficio esecuzione penale esterna: abbiamo voluto quindi raccogliere l’invito - conclude Raffa - a dedicare un momento di spensieratezza a ragazzi che non possono festeggiare come gli altri". Proposta condivisa e supportata dal direttore dell’Ipm, Maria Randazzo, che ha ringraziato il Csve e i volontari. All’incontro erano presenti le associazioni di volontariato Terra Amica, Si.Ro. (Siculo-Romena), Gianfranco Troina e l’associazione culturale Arte al cubo. La svolta che ancora non c’è di Dario Di Vico Corriere della Sera, 31 dicembre 2015 Il 2015 una promessa non l’ha mantenuta: non è stato l’anno della svolta. Ci siamo lasciati alle spalle il tunnel della Grande Crisi ma il funzionamento dell’economia italiana non ha conosciuto quell’accelerazione di cui avrebbe avuto bisogno. È chiaro che stiamo misurando il tutto con uno strumento, il Pil, che ormai si presenta largamente imperfetto non solo perché non misura il reale benessere delle nostre società ma perché sottostima anche il peso che hanno le tecnologie nelle economie moderne. È una discussione - quella sul futuro dell’indicatore Pil - che riflette direttamente i mutamenti dell’economia post recessione e nella quale un buon drappello di esperti si va cimentando, però nemmeno per un nanosecondo può essere strumentalizzata in chiave politica e per di più solo italiana. Noi non siamo ancora ripartiti con la velocità dovuta, punto e accapo. Caso mai può valere la pena ricordare il peso che la sostituzione delle vetture ha avuto nel rilancio del Pil nel 2015 a dimostrazione di quanto il settore automotive influenzi la crescita italiana, assai più dei successi delle nostre multinazionali tascabili. Fortunatamente nel 2016 Mirafiori tornerà a essere un comprensorio produttivo di 18 mila addetti tra diretti e indiretti e da Cassino usciranno i nuovi modelli della Giulia. Auto a parte, l’appuntamento con la crescita non può essere rinviato oltre l’anno che ci attende, perché perderemmo posizioni nella riorganizzazione internazionale delle economie. E l’appuntamento con la crescita non può essere rinviato perché ne pagheremmo i riflessi in termini di disagio sociale. Purtroppo non arriviamo a questo appuntamento nelle condizioni migliori perché strada facendo la legge di Stabilità ha perso gran parte della spinta propulsiva e anche perché il dissesto delle banche locali ha generato ansia in una platea più larga dei pur numerosi risparmiatori danneggiati. Le previsioni di fonte governativa danno come risultato per il 2016 una crescita dell’1,5%, alcune valutazioni più prudenti si fermano a 1,2%, nulla però è scontato. Anche perché il contributo allo sviluppo che viene dalle policy europee è ridotto o addirittura nullo. Nell’articolo che il presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker, ha pubblicato sul Sole 24 Ore di martedì 29 abbiamo apprezzato il vibrante e appassionato invito alla "perseveranza europeista" ma l’autore non ha nemmeno citato il piano che pure porta il suo nome e che nelle intenzioni avrebbe dovuto avere una doppia valenza. Concretizzare la risposta di Bruxelles all’austerità e assestare un colpo al populismo. Non avendo visto né l’una né l’altro dobbiamo far da soli nel ridare fiato agli investimenti. Finora al rendiconto del Pil italiano questa componente è mancata e per recuperare terreno la prima cosa da fare è monitorare quegli investimenti stranieri in Italia già annunciati e sciaguratamente rimasti al palo per ostacoli burocratici o per dissensi di merito. Una task force capeggiata dal vice ministro Carlo Calenda ha iniziato a lavorare a quei dossier e confidiamo in un cambio di passo. Una spinta agli investimenti verrà sicuramente dalla norma sui super ammortamenti al 140% che rende estremamente favorevole acquistare nuovi macchinari colmando così un gap di competitività tecnologica di molte nostre imprese nei confronti della concorrenza europea e asiatica. Ma più in generale sarebbe utile rendere più stringente il dialogo tra governo e imprese proprio sul tema del rilancio degli investimenti. L’esempio numero uno riguarda la filiera del mattone. Una buona parte di quella straordinaria ricchezza delle famiglie, tante volte vantata anche nei consessi europei, è di fatto congelata perché il mercato delle compravendite è caduto rovinosamente e il +8,4% segnalato ieri dall’Istat è ancora troppo poco per poter parlare di una vera inversione di tendenza. Il presidente del Consiglio sostenendo l’idea di tagliare Imu e Tasi ha correttamente individuato la centralità del business immobiliare nel funzionamento dell’economia italiana, ha sempre però pensato alla cancellazione della tassa sulla casa come una sorta di bis degli 80 euro, una misura di sostegno ai consumi e non la prima tessera di un vero intervento per rimettere in carreggiata il mercato immobiliare. Si può dire che Matteo Renzi ha sfiorato il bersaglio ma non l’ha centrato. Eppure da lì bisogna passare per ridare fiducia al ceto medio italiano, la cui ricchezza è per larga parte investita nell’immobiliare, e subito dopo per occuparsi seriamente dell’industria del mattone, notoriamente labour intensive. Da tempo si sente la necessità di disegnare un nuovo modello di business che punti sul riuso, che faccia da sponda al riposizionamento delle aziende di costruzioni e ne faciliti la riorganizzazione dimensionale. Nell’agenda del 2016 un simile impegno merita di essere iscritto tra le priorità. Oltre la paura. Fine d’anno resistendo alla guerra di Marco Impagliazzo Avvenire, 31 dicembre 2015 Antonio Gramsci scrisse che "odiava" il capodanno, convinto "che ogni mattino è capodanno": "non bisogna - diceva - perdere il senso della continuità della vita e dello spirito". Se è vero che nella vita e nella storia esiste la continuità, fa riflettere questa posizione gramsciana di "odio" per il capodanno. Alcuni messaggi, in questa fine d’anno, vorrebbero spingerci a mettere tra parentesi un giorno, additato come pericoloso, per le minacce del terrorismo. Tra gli aspetti che hanno caratterizzato il 2015, c’è infatti il moltiplicarsi di fatti di terrorismo jihadista. Papa Francesco, nel messaggio di Natale "Urbi et Orbi", ha ricordato le vittime delle "efferate azioni terroristiche, particolarmente delle recenti stragi avvenute sui cieli d’Egitto, a Beirut, Parigi, Bamako e Tunisi". Il 2015 è segnato dalle ferite del terrorismo: morti, feriti e distruzioni in varie parti del mondo. Quale la risposta della politica, della società, delle istituzioni, di ciascuno di noi? Nella storia - si sa - i paragoni non reggono. Se dovessimo però cercarne uno per la situazione che viviamo, potremmo trovarlo nel 2001: anno in cui il terrorismo - male antico e mai sopito - riemerse con tanta forza, anche mediatica. Allora, in Occidente, si era impreparati a rispondere. Le reazioni furono di vario tipo, talune scomposte. Alcuni gridarono allo "scontro di civiltà", altri incolparono una religione, anzi la religione in quanto tale. Vennero poi la risposta securitaria e quella delle armi: la guerra del bene contro il male, si disse. Afghanistan prima, Iraq poi. Oggi, dopo tanta storia vissuta nell’ultimo decennio, abbiamo imparato che la guerra non è la soluzione, ed è ingannatrice come l’idea dello "scontro di civiltà" o, peggio, "di religione". Se nel mondo musulmano ci sono responsabilità chiare nel non aver contrastato seriamente il terrorismo sia a livello di Stati che di certa opinione pubblica, dobbiamo anche constatare come, da qualche anno, il terrorismo colpisca i musulmani in particolare (sciiti e sunniti), e che Daesh stia facendo una guerra per il potere, innanzitutto, nelle aree a maggioranza islamica. La guerra in Siria, da quasi cinque anni, sta distruggendo l’intero Paese: è il terreno in cui si sviluppa un terrore che travolge tutto e tutti, nessuno escluso. E addirittura diventa il luogo per l’esportazione del terrore, come con gli attentati di Parigi. La minaccia esiste, non va sottovalutata, ma gli strumenti bellici, non bastano e hanno mostrato i loro limiti. C’è il "fronte interno" delle nostre società. Oggi siamo più spaventati di ieri. La paura è ormai una compagna costante della vita. Ma la paura - si sa - non è una buona consigliera e non aiuta a fare le scelte di lungo periodo che s’impongono in questo momento storico. Dal 2001 le società hanno cominciato a proteggersi meglio, il lavoro di intelligence è cresciuto, anche se, in certi casi, manca il coordinamento internazionale. Certamente tante contromisure sono state prese e hanno evitato guai peggiori. Il problema è però come liberare le nostre società dalla paura (quella che la strategia terroristica impone). Lo si fa, creando legami, motivando e comunicando il gusto e la responsabilità di vivere insieme. C’è bisogno di una rigenerazione della società, specie nelle periferie anonime. Una società più motivata rende più agevole l’integrazione dei "nuovi europei". La casa si costruisce insieme, con il contributo di tutti, partendo da fondamenta comuni e condivise che sono la storia e i valori dell’Europa: il diritto, la solidarietà, l’uguaglianza, la libertà. Oltre ad amare i valori, bisogna però incontrare e amare le persone: questo è un punto di svolta che spesso manca, ma che ricrea una coesione sociale. L’Anno Santo della misericordia lo ricorda e lo insegna a chi crede e a chi non crede,. Perché la misericordia è maestra di vita, a differenza della paura. Su queste basi si potrà lavorare meglio sull’integrazione, vero nodo della pace sociale in Europa, a partire dalle periferie. E poi c’è il grande compito sul "fronte esterno": la pace. La pace che faremo sarà la vera sconfitta del terrorismo. Non a caso la Chiesa apre il primo giorno dell’anno (dal lontano 1968) nel nome della pace. E il capodanno, che altrimenti si può anche arrivare a odiare, così ha più senso. L’Esodo biblico è il dolore dei migranti di Moni Ovadia Il Manifesto, 31 dicembre 2015 Profughi. Stessa schiavitù e persecuzione. Il popolo della Terra promessa non era solo ebreo ma "mucchio selvaggio" di etnie e subalterni. Da questa stessa etica l’antidoto ai disastri del razzismo. Lo spostamento in massa di decine di migliaia, di centinaia di migliaia, di milioni di esseri umani grandi e piccoli, giovani e vecchi, donne e uomini, riceve comunemente su tutti i media la definizione di "esodo biblico". Ma l’Esodo è anche e soprattutto un preciso evento accaduto, o per meglio dire, raccontato nel libro più famoso della storia dell’umanità: la Bibbia. Quale relazione esiste fra gli eventi che oggi definiamo come esodo e quel celebre Esodo? Un tratto comune è quello quantitativo di uno spostamento di massa, un altro tratto che li accomuna è il trattarsi di una massa composita che trascende l’età o il sesso, ma la caratteristica più significativa che accomuna l’esodo biblico di allora con gli esodi biblici di oggi, non viene sottolineato dalla mainstream del pensiero omologato e ridondante del nostro tempo, ovvero il fatto che anche allora, riferisce il biblista, il popolo ebraico scelse la via dell’esodo per sottrarsi a condizioni di oppressione: la schiavitù e la persecuzione attraverso l’ordine dato alle levatrici egizie di sopprimere i maschi ebrei dopo averli portati alla luce e di lasciare in vita solo le femmine. Anche le genti migranti odierne scelgono la via dell’esodo per sottrarsi a schiavitù ed oppressione. Nessuna persona sensata potrebbe contestare il fatto che la fame coatta sia una terrificante forma di schiavitù e che le guerre siano una forma crudele di oppressione alla quale ogni essere vivente ha il pieno diritto di sottrarsi. Eppure già a questo livello una prima differenza ci colpisce. Ci sono molti politici sostenuti da folle di elettori che non riconoscono nella fame una forma di schiavitù e pretendono di creare una discriminazione fra gli esseri umani che scelgono la via dell’esodo per sfuggire alla probabile morte, individuando in essi due categorie di fuggitivi: quelli legittimi, definiti rifugiati politici e quelli illegittimi definiti emigranti economici. Quando ci si riferisce all’Esodo biblico, la sua legittimità non viene sottoposta a questioni di merito. Quei migranti che chiamiamo e tramandiamo col nome di ebrei e che si mossero al seguito di un profeta balbuziente il quale si presentò a loro dichiarandosi investito dal Dio del monoteismo, il Dio dello schiavo e dello straniero, erano un popolo etnicamente omogeneo? Beh! Pare di no. Stando alla definizione del grande Rabbino statunitense e scrittore Haim Potok, riportata nella sua opera Storia degli ebrei, erano una specie di "mucchio selvaggio", c’erano israeliti discendenti di Giacobbe, vari asiatici: mesopotamici accadi, ittiti, transfughi egizi e molti habiru, - termine forse di origine protosinaitica che indicava i fuorilegge a vario titolo -, sovversivi, contrabbandieri, ruffiani, ladri. Tutti coloro definiti "ebrei" seguirono Mosè? Anche in questo caso la risposta dovrebbe essere negativa! La maggior parte di essi preferì negoziare la certezza di una schiavitù accettabile, all’avventura di una difficile e rischiosa libertà. Il coacervo di sbandati che riconobbe la parola vertiginosa del profeta balbuziente, divenne il popolo eletto, eletto perché popolo di schiavi e stranieri che riconosce in quella condizione il valore di un’elezione. Un popolo eletto, eletto dal basso. Un popolo che si aggrega durante l’esodo stesso intorno ad una patria mobile, una legge che propugna una declinazione originaria e inedita di giustizia e di etica e si dirige verso una terra "promessa", la terra del Signore, dove istituire una modalità di vivere come straniero e soggiornante, straniero fra stranieri, dopo essersi liberato dalla nefasta eredità della terra d’Egitto, nazione di idolatria e di schiavitù. Che cosa chiedeva il popolo eletto? Chiedeva di servire il Dio della libertà e dell’anti-idolatria. Questa storia celeberrima fonda una delle linee narrative dell’Occidente e della sua tanto conclamata identità giudaico-cristiana, identità piena di tare e patologie. L’arrivo nella terra abitata da altre genti determinerà, con l’andare del tempo, una deriva di impronta nazionalista. L’abbandono dell’etica dello straniero, capace di vivere in prima istanza come straniero a se stesso, con l’andare del tempo farà fallire il progetto, tremila anni fa nella terra biblica, come oggi nella terra del cosiddetto Sionismo. L’esodo intendeva essere l’avanguardia di un’umanità che sceglieva di fondarsi su un’economia di giustizia, su una società di uguali e liberi fondata sull’ethos di custode della Terra e non di suo Padrone. I migranti di oggi, dal canto loro, non fuggono anch’essi da idolatria e schiavitù nella loro forma più specifica, ovvero la violenza contro l’innocente? E cosa cercano? Cosa chiedono? Una "Terra promessa" dove essere accolti da stranieri come cittadini. Sperano di essere riconosciuti nella loro dignità universale. Essi a torto e/o a ragione vedono nei paesi dell’Occidente la loro terra promessa e con un altissimo e contraddittorio tasso di ambiguità, l’Occidente, seduttivamente, appare come tale. Si tratta però in gran parte di seduzione perversa. L’Occidente è stato per secoli il Faraone colonialista e oggi crea la crisi e prosegue la sua rapina del pianeta e delle sue risorse di cui, inopinatamente, si ritiene proprietario con forme sempre più pervasive del neo-colonialismo. Impone surrettiziamente guerre e violenza, la sua logica di uno sviluppo ipertrofico determina inedite forme di espropriazione, altera le condizioni ecologiche, influisce sul clima devastando lo stato di vastissimi territori e provoca alterazioni destinate a innescare nuove e sempre più tragiche ed inarrestabili ondate migratorie segnate da una crescente disperazione. Una parte del vecchio continente, con sconcertante stupidità e cecità, reagisce ancora ridando la stura al più sconcio e putrescente armamentario nazionalista intriso da residui di logiche nazifasciste, soprattutto in quell’Europa centro-orientale che pure ha sperimentato il cancro di quella peste nera con il suo bagaglio di morte, distruzione, odio e sterminio. Anche un sedicente socialista come Holland, per pure ragioni elettoralistiche, riesce a farsi complice di questo clima. Ovviamente questa pandemia è stata alimentata anche dall’ossessione ideologica e tardo-imperialista degli Stati Uniti che non hanno mai cessato di alimentare l’anticomunismo malgrado l’assenza dei comunisti e persino della loro lingua. Gli Usa non hanno smesso di imporre a tutto l’Est l’estensione della Nato nonostante la fine della guerra fredda ed essa alimenta un insensato revanscismo che rischia di provocare disastri ma soprattutto pregiudica la nascita di un’Europa unita in un’autentica democrazia. L’etica dell’Esodo applicata ai grandi flussi migratori potrebbe diventare, in questo contesto, un prezioso e poderoso antidoto per contrastare un potenziale disastro che si annuncia con sinistra e crescente incombenza. Francia, il vicolo cieco dei diritti di Alain Gresh (traduzione di Marinella Correggia) Il Manifesto, 31 dicembre 2015 La pericolosa svolta securitaria dopo gli attentati. C’era un campo nel quale François Hollande e la sinistra di governo in Francia non avevano ancora abdicato: quello delle libertà, dei principi. Anche se questi ultimi, pur continuamente ribaditi, entravano spesso in contraddizione con le pratiche dello Stato e delle forze di polizia. La sinistra si richiamava alle libertà, ai diritti umani, all’eredità del 1789. E proclamava con forza, in quest’ambito, la sua opposizione non solo all’estrema destra e al Front national, ma anche alla destra pronta a chiedere sempre più sicurezza in nome della lotta contro la delinquenza o contro il terrorismo. Dalla vittoria elettorale nel maggio 2012, François Hollande e il Partito socialista avevano abbandonato via via tutte le loro promesse. Avevano rinunciato a qualunque forma di resistenza al liberismo economico, applicando le ricette di austerità in precedenza condannate, e aggravando le disuguaglianze. Si erano piegati al diktat di Bruxelles, che in campagna elettorale avevano stigmatizzato. E, tradimento finale, avevano lasciato solo il governo greco, frutto di una grande volontà popolare, di fronte a una Commissione europea e a un governo tedesco chiusi nelle proprie certezze. La politica estera di Hollande è stata essenzialmente caratterizzata dall’uso della forza militare come mezzo di risoluzione dei conflitti. Mai in precedenza, dalla seconda guerra mondiale, un governo francese era stato impegnato in tanti teatri di operazione. Dal Mali all’Iraq, dalla Repubblica centrafricana alla Siria, la Francia, malgrado i mezzi limitati, malgrado i proclami di austerità, trova le risorse necessarie a intervenire in armi. Comportandosi sempre da fedele alleata degli Stati Uniti. E quando Parigi ha criticato Washington, è stato per rimproverare al presidente Barack Obama la sua debolezza di fronte a Tehran sul dossier nucleare. Di fronte all’ondata di rifugiati provenienti dalla Siria e dal Medioriente, ingigantitasi nel corso del 2015, la Francia socialista ha dato prova di pavidità, rifiutando di onorare la tradizione di accoglienza e di rispettare il diritto internazionale che obbliga i paesi a proteggere le persone minacciate. È tristemente ironico, del resto, che la grande maggioranza dei rifugiati preferisca la Germania, il Regno unito e l’Europa del Nord: è lontano il tempo in cui la Francia era la seconda patria dei rifugiati armeni, degli ebrei centroeuropei, dei polacchi e degli spagnoli. E gli attentati del 13 novembre 2015, dopo quelli contro Charlie Hebdo e il supermercato kosher nel mese di gennaio, hanno portato il governo a rinnegare l’ultimo baluardo, quello della difesa dei diritti umani, dei grandi principi di una democrazia liberale. Mentre la Corte di cassazione, incoraggiata dalle autorità, criminalizzava la campagna di boicottaggio dei prodotti israeliani nota come Bds (boicottaggio, disinvestimento, sanzioni) - facendo della Francia l’unico paese democratico nel quale si applichi una simile misura -, il governo decideva di proclamare lo stato di emergenza, di prorogarlo per tre mesi e infine di progettarne l’ingresso nella Costituzione. Questa legge del 1955, adottata agli inizi di quella che la Francia rifiutava di chiamare "guerra di Algeria", era stata prevista per liquidare l’insurrezione di un popolo. Si sa che cosa accadde. Ma è la prima volta che la legge è estesa a tutto il territorio nazionale (nel 1955, copriva solo i "tre dipartimenti francesi" di Algeria). Se passerà la riforma della Costituzione (che in gennaio sarà presentata al Congresso, Parlamento e Senato in seduta comune, e dovrà ottenere la maggioranza dei tre quinti dei votanti - un risultato impossibile senza il sostegno della destra), "l’eccezione diventerà la regola", come ha titolato il quotidiano Le Monde, e alle forze di polizia e all’amministrazione saranno accordati poteri esorbitanti in materia di arresti, detenzioni domiciliari, perquisizioni, intercettazioni telefoniche di decine di migliaia di cittadini. Sono state già decise 200 assegnazioni agli arresti domiciliari (anche di militanti verdi), ed effettuate oltre tremila perquisizioni - in gran parte senza alcun risultato rispetto all’obiettivo dichiarato, la "lotta contro il terrorismo". I musulmani sono l’obiettivo privilegiato di questi attacchi e il potere sta incoraggiando un’islamofobia della quale il Front national di Marine Le Pen non è affatto l’unico portatore. Da tempo la destra e settori importanti della sinistra e anche dell’estrema destra, con vari pretesti - lotta all’oscurantismo, laicità, eguaglianza fra i generi - si sono trasformati in cantori di questa nuova forma di razzismo che prende di mira prioritariamente gli immigrati e settori delle classi popolari. Ma è con una misura ben più che simbolica che François Hollande ha chiuso il cerchio delle sue abiure. È la misura che intende privare della cittadinanza i cittadini nati francesi ma che dispongono anche di un’altra nazionalità. Così si trasformerebbero di fatto in cittadini di serie B i figli di immigrati, nati francesi sul territorio nazionale, ma che hanno ancora la cittadinanza dei loro genitori. In passato aveva sostenuto questa misura solo il Front national, raggiunto nel 2010 da Nicolas Sarkozy. Si accentuerà senza dubbio la frattura fra le popolazioni "musulmane" e i francesi "per sangue", e si finirà per legittimare il discorso dell’Organizzazione dello Stato islamico (il Daesh) che incita i musulmani a rifiutare una società che li disprezza. Come dichiarava Henri Leclerc, avvocato, presidente d’onore della Lega dei diritti umani (Ldh) e figura emblematica della sinistra giudiziaria (Médiapart, 24 dicembre 2015): "Fatte le debite proporzioni, ricordiamoci che nel 1933 Hitler si era avvalso degli strumenti legislativi creati dai socialdemocratici. Se un giorno avremo un governo di estrema destra, questo potrebbe trovare strumenti per attuare politiche ultra-securitarie e spaventosamente repressive". Nel risiko mediorientale tutti contro tutti di Chiara Cruciati Il Manifesto, 31 dicembre 2015 L’Iran spara missili vicino alla portaerei Usa nello Stretto di Hormuz. La Turchia crea una milizia sunnita in Iraq e Baghdad minaccia azioni militari. Riyadh attacca Mosca che incrementa le sanzioni ad Ankara. Nel dimenticatoio finisce il dramma dei popoli. Se il 2016 dovrebbe aprirsi con l’ampio tavolo del negoziato siriano, il 2015 si chiude con un tutti contro tutti: non c’è potenza internazionale o regionale che in queste settimane non abbia arduamente lavorato per guadagnare qualche punto in più di influenza diplomatica e militare. Sul campo di battaglia ci sono tutti: russi, statunitensi, turchi, sauditi, iraniani. Ognuno lancia il suo guanto di sfida, non mere scaramucce ma azioni che mandano chiari messaggi ai nemici-amici. Ogni capitale fa a gara a ripetere che l’avversario comune è lo Stato Islamico, ma è palese che in ballo c’è molto di più della dichiarata lotta al terrorismo di matrice islamista: c’è il futuro dell’equilibrio di poteri in Medio Oriente, una regione che uscirà ridisegnata nei confini e nelle sfere di influenza. Se ad aprire il balletto della guerra fredda è stata la Turchia abbattendo un jet russo a fine novembre, chiude l’anno l’Iran: sabato nello Stretto di Hormuz la marina di Teheran ha testato alcuni missili a pochissima distanza dalla portaerei statunitense Truman e dalla fregata francese Provence. Lo ha reso noto, solo ieri, l’esercito di Washington: "Riteniamo che il fuoco così vicino a navi della coalizione e a vascelli commerciali sia un gesto estremamente provocatorio, pericoloso e in contrasto con il diritto internazionale marittimo", ha detto il comandante Raines del Comando Centrale Usa aggiungendo che alle navi presenti nell’area il lancio è stato comunicato solo 23 minuti prima. Uno dei missili è passato ad un chilometro e mezzo di distanza dalla portaerei Usa: difficile pensare ad un errore in un’esercitazione di routine. Per la Repubblica Islamica Hormuz - via di transito strategica per un terzo del petrolio trasportato via mare, ma anche per gli eserciti impegnati tra Siria e Iraq - è territorio iraniano, come lo è Damasco: questo il messaggio che Teheran ha voluto mandare agli Stati uniti in un momento cruciale per il negoziato siriano. L’Iran c’è e non intende essere messo in un angolo, né dal protagonismo russo né tantomeno dalle priorità Usa. Sull’altro fronte a proseguire imperterrita in una politica militare a senso unico è la Turchia, che offusca l’entusiasmo iracheno per la liberazione - quasi completata - di Ramadi rovinando i piani di Baghdad per Mosul. Da tre giorni i leader iracheni non si nascondono più: dopo il successo nel capoluogo dell’Anbar e dopo il lancio di una nuova operazione sulla vicina Fallujah, nel mirino c’è Mosul, comunità in grado di realizzare il progetto di unità nazionale immaginato dal premier al-Abadi. Ma sulla seconda città irachena pesa l’ombra della longa manus di Ankara, il cui obiettivo è opposto: un futuro di frammentazione tra etnie e fedi che renda Baghdad più malleabile e gestibile. La Turchia non si ritira da Bashiqa, base peshmerga a 20 km da Mosul, nonostante le proteste reiterate di nuovo ieri da Baghdad. Il ministro degli Esteri al-Jaafari ha minacciato azioni militari nel caso le truppe turche non abbandonino subito il territorio iracheno: "Se non ci sono altre soluzioni adotteremo quella militare - ha detto lamentando il fallimento dei pacifici mezzi diplomatici - Se saremo costretti a difendere la nostra sovranità, combatteremo". Ma Erdogan non solo fa orecchie da mercante, ma ampia il raggio di azione: secondo l’agenzia stampa turca Trend, la Turchia ha dato vita ad una milizia sunnita irachena da porre sotto i propri comandi, sorta di contraltare alle unità sciite gestite dall’Iran. Ribattezzata Hashed al-Watani (unità di mobilitazione nazionale), sarà utilizzata nella liberazione di Mosul, dicono fonti del governo del Kurdistan iracheno. Erdogan si muove anche sul piano politico: ieri Ankara ha siglato con l’Arabia saudita un accordo per la creazione di un consiglio di cooperazione strategica, ha detto il ministro degli Esteri dei Saud, al-Jubeir. Servirà a coordinare le attività commerciali, economiche ma soprattutto militari tra i due paesi, da tempo allineati sulle stesse posizioni in merito alla questione siriana. Proprio Riyadh è stata protagonista ieri di un nuovo screzio con la Russia: l’Arabia saudita ha accusato Mosca di aver indebolito la lotta all’Isis uccidendo in un raid aereo Zahran Alloush, leader del gruppo salafita anti-Assad Jaish al-Islam. Il gruppo gode del sostegno della petro-monarchia che da anni ne finanzia la leadership e che lo aveva invitato al meeting delle opposizioni di dicembre nel paese, nonostante le proteste di Iran e Russia. Lo stesso Jaish al-Islam, nei giorni scorsi, ha detto di non essere più interessato a negoziare con Damasco, che da parte sua lo aveva già escluso considerandolo gruppo terrorista. Mosca risponde per le rime: a farne le spese è ancora la Turchia che paga l’aggressiva politica anti-russa in Siria. Ieri il governo russo ha pubblicato una lista di lavori a cui compagnie turche non potranno più accedere a partire dal primo gennaio. Tra questi i settori delle costruzioni, dell’architettura e del design, dei lavori pubblici, del turismo. Inoltre, aggiunge il premier Medvedev, alle imprese russe sarà vietato assumere cittadini turchi. La guerra fredda globale che si combatte in Medio Oriente si fa sempre più tesa. Nel dimenticatoio finisce il dramma dei popoli, mentre come avvoltoi le potenze regionali e globali si spartiscono i resti di paesi fatti a pezzi dalle brame neocoloniali internazionali. Ammissione Usa: al-Qaeda, Talebani e Isis sono più forti di Emanuele Giordana Il Manifesto, 31 dicembre 2015 Nel rapporto che il Pentagono ha presentato al Congresso degli Stati Uniti per la fine dell’anno (Enhancing Security and Stability in Afghanistan), i militari americani sono costretti ad ammettere che le cose non vanno bene. "Costretti" sembra un termine appropriato perché lo stile del rapporto mira sia ad assicurare che le forze di sicurezza afghane sono in grado di maneggiare la guerra infinita sia a dare un senso alla scelta di lasciare in Afghanistan quasi diecimila soldati (9.800) anziché i 5.500 che a fine 2016 avrebbero dovuto restare. Una scelta che Obama aveva fatto dopo l’eclatante presa di Kunduz da parte dei talebani tre mesi fa (v. il massacro del raid Nato sull’ospedale di Msf). Seppur obtorto collo, il rapporto dà conto di un peggioramento della guerra infinita: tra gennaio e novembre gli attacchi mortali sono aumentati del 4% e sono aumentati quelli con fuoco diretto (rispetto a mine e Ied); i talebani godono, nonostante tutto, di buona salute, Daesh continua a crescere e Al Qaeda non è affatto scomparsa. Solo il 28% degli afghani si sente nel 2015 "al sicuro", rispetto al 35% nel 2014 e al 45% del 2013. "Collettivamente - conclude il rapporto - terroristi e gruppi insurrezionalisti continuano a presentare una sfida formidabile per gli afgani, gli Usa e la forze della coalizione" (a novembre circa 11.385 uomini). Le poche righe destinate ai seguaci di bin Laden e Al Zawahiri hanno però attirato l’attenzione della stampa americana e soprattutto del New York Times: che il Paese non sia pacificato ci può stare, ma che Al Qaeda sia in forma è un altro discorso visto che, morto Osama, la missione nell’area doveva ritenersi tecnicamente conclusa. Il rapporto invece rende nota la "resilienza" della rete anche se vi dedica poche righe e tende a derubricarla come l’effetto di un’emigrazione verso l’Afghanistan dovuta all’operativo pachistano Zarb e Azb, che da diciotto mesi martella le postazioni degli stranieri (ceceni, uiguri, uzbeki) con domicilio in Waziristan (area tribale del Pakistan) e che sono i maggiori sostenitori del progetto qaedista. Non solo loro però: il rapporto ammette la preoccupazione per la scelta di mullah Mansur (il nuovo leader dei talebani o, almeno, della fazione più forte) di chiamare come suo vice Siraj Haqqani - l’erede della famosa famiglia afghana jihado-qaedista con residenza in Pakistan e forti legami coi servizi locali. Paradossalmente invece il rapporto non fa menzione dei rapporti tra Zawahiri (nemmeno citato) e Mansur. Il primo, dopo la proclamazione a luglio del nuovo leader dei talebani aveva registrato un audio messaggio in cui giurava fedeltà al nuovo capo. E qualche giorno dopo, sul sito dei talebani campeggiava l’accettazione del giuramento da parte di Mansur (è anche vero che la pagina è poi scomparsa). Il rapporto non menziona nemmeno: i movimenti al confine tra Afghanistan e repubbliche ex sovietiche, dove il dispositivo di sicurezza congiunto è stato potentemente rafforzato da Mosca dopo la presa di Kunduz tra settembre e ottobre da parte dei talebani che ha preoccupato i russi. Non è una novità che stiano guardando nuovamente con attenzione all’area da cui se ne sono andati nel 1989 con ignominia. Ed è di ieri la notizia che Mosca fornirà agli afghani 10mila Kalashnikov, l’arma da combattimento per eccellenza e nota in gergo come Ak47. Il Grande Gioco ritorna, per ora il processo di pace langue. Al netto di una riunione con americani, cinesi e pachistani che Kabul ospiterà a giorni ma a cui i talebani non parteciperanno. Turchia: 33 giornalisti in carcere agoravox.it, 31 dicembre 2015 Sono 33 i giornalisti che festeggeranno l’arrivo del nuovo anno in carcere. La Turchia si vanta ancora una volta del numero di giornalisti detenuti. L’ultima arrivata è Beritan Canözer, dell’Agenzia Stampa Jina, tutta al femminile, arrestata il 16 dicembre durante una manifestazione per chiedere la fine del coprifuoco nel Sur, la città vecchia di Diyarbakir. Canözer si trovava là per documentare le proteste contro questa decisione del governo centrale. Dopo il suo arresto, basato su uno dei mille pacchetti sicurezza introdotti dal governo, Canözer è stata portata in carcere per aspettare l’inizio del processo, con l’accusa di "collaborazione con un’organizzazione terrorista". Secondo i giudici e il governo centrale le persone che si definiscono giornalisti sono terroristi o collaboratori di criminali; diamo un’occhiata alle motivazioni di alcune detenzioni. Can Dündar ed Erdem Gül sono stati arrestati il 26 novembre e accusati di "appartenenza a un’organizzazione terroristica armata" e "pubblicazione di materiale in violazione della sicurezza dello Stato" (articoli 314, 328 e 330). Tuttavia nella documentazione che li ha fatti finire in prigione mancano ancora le prove di queste gravi accuse. Dundar e Gul non hanno fatto altro che parlare nel quotidiano per il quale lavorano, Cumhuriyet, del sequestro dei Tir avvenuto il 19 gennaio 2014, pubblicando le interviste con i giudici che sono stati poi denunciati e processati con le stesse accuse e le fotografie del giorno del sequestro, come avevano già fatto altri giornalisti. Il processo di questi due giornalisti ha subito una svolta, portandoli in prigione, dopo la dichiarazione del Presidente della Repubblica Recep Tayyip Erdogan seguita all’abbattimento dell’aereo russo al confine con la Siria da parte dell’esercito turco: "Vi ricordate del caso dei Tir guidati dai servizi segreti e come qualcuno ha tentato di fare un colpo di stato sfruttando questo caso? Quei Tir portavano degli aiuti alle popolazioni turcomanne di Bayirbucak, in Siria. Adesso qualcuno si metterà a dire: "Secondo il Primo Ministro non c’erano delle armi in quei Tir." "E allora? Stavamo portando degli aiuti umanitari in quella zona. Loro sono nostri fratelli in difficoltà. In questo gioco di spionaggio c’è un quotidiano coinvolto. Pagheranno caro quello che hanno fatto. Attraverso i nostri avvocati ho già avviato un procedimento legale". Nel 2012, quando la Turchia si vantava di avere 42 giornalisti in prigione, l’organizzazione non governativa Reporter Senza Frontiere la definiva come il "carcere più grande del mondo per i giornalisti". In seguito i numeri sono scesi leggermente, ma le motivazioni per mettere dentro i lavoratori dell’informazione sono sempre le stesse. Un altro elemento che il governo centrale sfrutta per limitare la libertà di stampa è l’articolo 313 del codice penale, che punisce chi "incita la popolazione per provocare una rivolta armata contro il governo centrale". Infatti Cevheri Guven e Murat Capan, rispettivamente direttore e capo redattore della rivista Nokta, si trovano ancora in carcere con le accuse di "istigazione a delinquere" ed "eversione". La loro vera "colpa" è l’aver pubblicato un fotomontaggio del Presidente della Repubblica nella copertina del ventiquattresimo numero della rivista, in cui Erdogan si fa un selfie davanti alla bara di un soldato morto. Il numero è stato ritirato dalle edicole e la sua distribuzione bloccata; poi Guven e Capan sono stati arrestati. Il 17 dicembre sedici organizzazioni attive nel campo dell’informazione in Turchia e in vari paesi balcanici hanno diffuso una lettera aperta al Presidente Erdogan e al Primo Ministro Ahmet Davutoglu, in cui si dicono "preoccupate del fatto che il suo governo sta aumentando la pressione su alcuni media, perché non seguono una linea editoriale vicina alle politiche del governo. La pressione fiscale, i licenziamenti, gli sgravi fiscali ingiusti nei confronti dei media vicini al governo e le detenzioni prolungate nei confronti dei giornalisti sono alcuni dei mezzi che vengono utilizzati in Turchia per reprimere la libertà di stampa". Tra i detenuti non ci sono solo giornalisti o cittadini turchi. Il 27 agosto sono stati arrestati due giornalisti britannici e l’interprete irakeno Muhammed Ismail Resul, che lavorava per il portale giornalistico Vice News. Resul si trova in carcere in Turchia da circa 4 mesi ed è accusato di "collaborazione con un’organizzazione terrorista". In settembre più di 70 giornalisti e scrittori hanno pubblicato una lettera aperta al Presidente della Repubblica chiedendo la scarcerazione di Resul; tra i firmatari c’erano Elif Safak, Monica Ali e diversi membri del Pen Club, la più antica organizzazione internazionale di letterati. Ben otto giornalisti del quotidiano in lingua curda Azadiya Welat - Ali Konkar, Cengiz Dogan, Deniz Babir, Ensar Tunca, Ferhat Ciftci, Hamit Duman, Nuri Yesil e Seyithan Akyuz - si trovano tuttora in carcere. L’ultimo arrivato tra questi è Babir, arrestato con altri cinque giornalisti l’11 dicembre durante le pause del coprifuoco in località Sur. Mentre gli altri quattro sono stati rilasciati, Babir è stato portato in carcere con l’accusa di "appartenenza a un’organizzazione terrorista". Ormai sono più di tredici anni che la Turchia è governata dal Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp), una realtà politica che si presenta come una ventata contro le oligarchie e la repressione dell’esercito e una nuova svolta popolare in difesa della libertà di scelta ed espressione dei cittadini. Tuttavia i numeri ed i fatti dimostrano che nel mirino dell’AKP ci sono anche tanti giornalisti, accusati e detenuti grazie alle nuove norme introdotte in questi anni. Siria: un poeta contro il baratro di Riccardo Michelucci Avvenire, 31 dicembre 2015 La Siria avrà un futuro di pace perché non si possono sconfiggere le colombe "che continuano a volare istericamente in cielo durante i bombardamenti. Come l’aereo sparisce dal cielo, patria delle colombe, così la tirannia sparirà dalla mia patria, perché le colombe ci sono alleate nel viaggio verso la libertà". La letteratura e la poesia hanno aiutato Muhammad Dibo, giornalista e scrittore siriano non ancora quarantenne, ad affrontare la mostruosa esperienza delle carceri siriane, l’angoscia, l’umiliazione, la tortura. Adesso rappresentano la stella polare delle speranze che nutre per il futuro del suo paese. Arrestato, incarcerato e torturato per aver preso parte fin dal 2011 alla rivoluzione contro il regime di Bashar al-Assad, i suoi compagni di cella l’avevano soprannominato ‘il poeta perfidò perché nei lunghi periodi di detenzione recitava a memoria le poesie del mistico al-Hallaj e del grande poeta arabo al-Mutanabbi. "Farlo mi rendeva felice - ci racconta oggi dal suo esilio a Beirut - perché nei loro visi vedevo il desiderio di libertà e riuscivo, almeno in quei momenti, a farli evadere da un mondo di oppressione verso il mondo dell’amore e della poesia. La bellezza della poesia ci aiutava a dissolvere le tenebre e a resistere al carcere e alla morte". Proprio in questi giorni è arrivato nelle librerie italiane il suo ultimo libro E se fossi morto?, pubblicato dalle edizioni Il Sirente con la traduzione di Federica Pistono, un’opera assolutamente originale, a metà strada tra il romanzo, il trattato politico e il diario intimistico, nella quale Muhammad Dibo ci offre una lunga testimonianza sulla Siria contemporanea, dalle primavere arabe alla successiva repressione, fino agli odierni interventi stranieri. Quale può essere il ruolo degli intellettuali siriani di fronte a quanto sta accadendo? "Gli intellettuali hanno un compito molto importante oggi in Siria, perché devono raccontare alla gente la verità, e devono farlo senza ambiguità. Devono spiegare al popolo la complessità di questo momento e renderlo comprensibile a tutti. Il suo compito oggi appare più importante che in passato, perché in virtù della sua cultura è il solo capace di guardare oltre la superficie, attraverso le tenebre e il caos, di vedere gli errori di un popolo e di affrontare la verità, a qualunque prezzo. L’intellettuale ha inoltre il compito di trasmettere la speranza alle persone, rassicurandole sul fatto che ciò che sta accadendo oggi non rappresenta la fine della storia. In fondo al tunnel c’è la speranza, nonostante tutte le difficoltà, e bisogna lavorare per realizzarla". Ma come può lei nutrire ancora speranza nel futuro? "Quando mi interrogano sul futuro, mi piace rispondere che vedo con pessimismo il futuro a breve termine ma sono molto ottimista per quello a lungo termine. Ciò significa che i prossimi cinque-dieci anni saranno un periodo molto duro per noi siriani, un inferno in cui ci sarà caos e assoluta mancanza di orizzonti. Una fase simile a quella che la Siria ha vissuto tra il 1920 e il 1936. Ma sono sicuro che la Siria riuscirà a rialzarsi con le proprie gambe, troverà la strada verso la libertà e il posto che merita nel mondo, nonostante il disastro di oggi. Ne sono sicuro come sono sicuro del fatto che sto scrivendo queste righe". Lei è caporedattore della testata dissidente "Syria Untold" e collabora con numerose testate internazionali, occupandosi di attivismo civile. Ha quindi uno sguardo privilegiato sull’attualità. Come immagina il suo paese tra dieci o vent’anni? "Personalmente, sto lavorando oggi per la Siria del futuro dal momento che, nonostante la cupa disperazione e la morte, spero che la Siria, tra venti o trent’anni, sia diventato uno Stato unitario, laico e democratico. Mi auguro di raggiungere questo obiettivo, anche dopo un lungo percorso". In che modo l’Occidente dovrebbe affrontare la crisi siriana? "Innanzitutto dovrebbe impegnarsi a non mantenere in piedi la dittatura con il pretesto della lotta al Daesh, perché la sopravvivenza della dittatura implica la continuazione della guerra. Poi credo che la risposta al terrorismo dello Stato islamico non debba essere solo di natura militare, ma sia necessario anche eliminare le cause che hanno prodotto fenomeni come il Daesh". Com’è oggi, la sua vita in esilio? "Sono in Libano perché amo il mio Paese e voglio restargli vicino ma non sono stato io a scegliere l’esilio: è lui che ha scelto me. Non ho scelto il Libano, sono stati la necessità e il caso a trattenermi fino ad ora in questo paese. Ogni mattina mi chiedo cosa ci faccio qui, mentre la vita passa. Resto in Libano perché è il paese più vicino alla Siria, e da qui è possibile aiutare i miei a casa, restare in contatto con ciò che succede e con coloro che escono dal mio paese. La mia famiglia è ancora in patria, ma qui i miei familiari possono venire a trovarmi e io posso comunicare con loro. Sono qui perché rifiuto l’idea di essere un profugo costretto a elemosinare cibo, acqua e protezione, perché l’inferno costruito da Assad costringe il nostro popolo a una vita disumana. E poi, forse sono in Libano anche perché mi sono immerso nel lavoro e non ho pensato a un’altra opzione".