Il carcere rieduca se il lavoro è vero di Francesco Seghezzi e Michele Tiraboschi Avvenire, 30 dicembre 2015 Un forte impegno ideale e progettuale quello di chi ha collaborato agli Stati Generali sulla esecuzione della pena promossi dal Ministero della Giustizia. I lavori sono praticamente terminati. Molti gli esperti e gli addetti ai lavori coinvolti. Fatica tuttavia ancora a decollare il dibattito pubblico sulla situazione dei detenuti nelle carceri. Ancor più oggi, in una situazione di crisi economica e occupazionale che pare relegare gli “ultimi” in un limbo di indifferenza e sofferenza. Il ministro della Giustizia Orlando, proprio sulle pagine di Avvenire, lo scorso 18 dicembre ha ripreso le parole del recente messaggio per la giornata della Pace in cui il pontefice affronta in un importante passaggio il tema delle condizioni delle carceri. È positivo il dato, ricordato dal ministro, sugli aspetti “quantitativi” della capienza delle carceri, è importante però guardare anche alla qualità dei periodi di detenzione e quello che accade una volta scontato il periodo di pena. Lo stesso Papa ha centrato l’attenzione sulla “finalità rieducativa della sanzione penale”. Ma come avviene oggi questa rieducazione, se avviene? Ci aiutano alcuni numeri, in primis quelli sulla recidiva, ossia su quanti ex-carcerati tornano a delinquere una volta scontata la pena. I dati ufficiali sulla recidiva dicono che il 68,5% degli ex-detenuti commettono reati dopo essere usciti di prigione, numeri più realistici parlano dell’80% e oltre. Al contrario i detenuti che durante il periodo in carcere hanno la possibilità di lavorare, hanno una percentuale di recidiva inferiore al 10%. Con il lavoro si aprono importanti opportunità di socializzazione e reinserimento, ma si apre anche un percorso individuale della scoperta di sé, della propria identità, e della relazione con l’altro. Da sempre si riconosce come il lavoro possa rispondere alle esigenze rieducative della esecuzione della pena che l’articolo 27 della nostra Costituzione sancisce. Il problema si pone però guardando i numeri di coloro che lavorano oggi nelle carceri italiane. Su una popolazione carceraria di 53.623 persone, solo 2.324 hanno una opportunità di conoscere il lavoro vero (poco più del 4%). Sono circa 12.000 invece i detenuti che lavorano alle dipendenze dell’amministrazione carceraria senza tuttavia grandi possibilità di professionalizzazione e imparare un mestiere. Altissimo il tasso di disoccupazione, oltre il 95%. Per lavoro vero intendiamo un lavoro del tutto corrispondente a quello di una persona libera con un datore di lavoro esterno (in Italia spesso una cooperativa sociale): un mestiere, insomma, che impone specifiche mansioni a cui corrisponde una equa retribuzione. Al contrario la maggior parte dei detenuti che oggi lavorano è ‘assuntà dalla amministrazione carceraria per svolgere, per poche ore, quelle mansioni interne alla prigione poco o nulla qualificanti chiamate ancora con nomi più che novecenteschi come lo spesino, lo scopino e lo scrivano. Lavori pagati non con un vero salario, ma con una misera mercede e che poco hanno a che fare con il mercato del lavoro che i detenuti incontreranno una volta scontata la pena. Dietro alla necessità di risolvere questa grave situazione, che ha conseguenze sia sui detenuti che, a causa della recidiva, sull’intera società, vi è una idea della persona e del lavoro che è oggi ancor poco diffusa. Spesso il detenuto è definito unicamente per il suo sbaglio, per il reato commesso. E il carcere è unicamente il luogo fisico in cui si è condannati a scontare la pena. Un luogo quindi che serve unicamente a impedire il contatto tra il mondo esterno e colui che ha sbagliato, in chiave di protezione della società in contraddizione con il bene e la centralità della persona stessa. Se, per tutti noi, il lavoro è uno degli aspetti centrali della vita e della nostra crescita attraverso una identità professionale e non sono una variabile economica, ciò, a maggior ragione, vale per il detenuto. Negare il diritto al lavoro non equivale infatti a sanzionarlo per il delitto che ha commesso ma privarlo uno degli aspetti salienti della vita: la relazione con le persone e con la realtà. Nulla a che vedere con la rieducazione di quello che spesso si ritiene un malvagio o un primitivo. Si tratta dell’educazione della persona, di tutte le persone, attraverso il lavoro. Anche e a maggior ragione quelle persone che hanno sbagliato e che vedono nel lavoro una occasione di recupero del senso della vita e di riscatto sociale nella relazione con gli altri. Per questo il lavoro da prospettare ai detenuti deve essere un lavoro vero, non occasioni fittizie e di dubbia qualità. Tanto meno ipotesi di lavoro in cambio di sconti di pena che, oltre a essere di dubbia legittimità rispetto ai princìpi costituzionali di retribuzione sufficiente, finirebbero per snaturare quella dimensione educativa e formativa propria del lavoro inteso non solo come scambio, ma come relazione tra persone. Esistono molte esperienze interessanti nel nostro Paese, soprattutto grazie a quelle cooperative sociali animate da persone che ogni giorno impegnano tempo, pazienza e risorse per consentire ai detenuti italiani, tra mille ostacoli e difficoltà, una possibilità in più di incontrare il lavoro vero. Un primo sforzo potrebbe essere quello di iniziare a guardare a ciò che già accade e, forti dei risultati, favorire la massima diffusione dei modelli virtuosi in una ottica di sistema anche attraverso coraggiose sperimentazione. Su tutte i percorsi di apprendistato e alternanza scuola lavoro anche in considerazione del basso livello di scolarizzazione dei detenuti. L’anno della Misericordia da poco aperto dal Papa potrebbe essere l’occasione migliore per fare qualcosa di concreto per chi in passato ha sbagliato e sta pagando, affinché la pena non sia una vessazione inutile e non continui oltre le mura del carcere. “E se dietro le sbarre ci foste voi?”. Intervista a Nadia Bizzotto (Comunità Giovanni XXIII) di Giovanna Pavesi letteradonna.it, 30 dicembre 2015 Intervista a Nadia Bizzotto, che dall’incontro con Don Oreste Benzi, da anni segue i detenuti. “I carcerati vanno amati, non sono gli errori che hanno commesso. Gli ergastolani? Persone come noi”. Gli occhi di Nadia hanno incrociato centinaia di sguardi: quelli rassegnati degli emarginati, persi in una vita che non è stata sempre clemente con loro, quelli disperati di chi non ha più nulla e quelli di chi si è perso. La casa di Nadia è in Umbria anche se lei è nata in Veneto. A portarla nella terra di San Francesco è stato un percorso che sembrava già tracciato quando, a 21 anni, un brutto incidente stradale l’ha costretta su una sedia a rotelle. “Credo di essere nata sapendo che avrei avuto un destino particolare”, dice lei, che parla di una vita intrecciata a quella degli ‘ultimì, che spesso la collettività non vuole vedere. Un angelo custode per caso. Nadia Bizzotto la sua strada, dopo tanto vagare, l’ha trovata grazie a Don Oreste Benzi, fondatore della Comunità Papa Giovanni XXIII, che dagli anni Settanta accoglie chi vive ai margini della società. Una Comunità che iniziò a seguire negli anni Novanta, quando l’associazione di Don Benzi era tra le popolazioni in guerra nella ex Jugoslavia: “Non riuscivo a capire perché delle persone “normali” andassero in mezzo a questi popoli (su entrambi i fronti, ndr) solo per stare con loro. Non comprendevo questa follia ma ne ero affascinata”. Il suo primissimo contatto diretto con l’associazione fu una sera alla Capanna di Betlemme, dove la notte trovano riparo e cibo caldo tutti i senzatetto della stazione di Rimini. Da quel momento, il legame si è fatto indissolubile: Nadia ha trascorso sei mesi con una comunità di romanì in un campo nomadi e ha passato decine di notti in strada tra ragazze costrette a prostituirsi. Oggi è responsabile di una delle tante realtà d’accoglienza dell’associazione, ma grazie ad alcuni progetti è diventata portavoce dei “cattivi e colpevoli per sempre”: i detenuti. Domanda: Come si redime un assassino? Risposta: Domanda difficile. Noi partiamo dal presupposto che l’uomo non sia il suo errore. Una persona resta una persona, con una sua dignità che mantiene in quanto portatore di un valore umano unico. Se al male si aggiunge altro male lo si moltiplica. Un assassino non si può redimere con la punizione. Chi ha commesso dei reati va fermato per evitare che ne compia altri e per cercare di fargli capire dove ha sbagliato, ma credo che chi ha fatto del male vada prima di tutto amato. Credo sia necessario concentrarsi sul bene che manca e che c’è dentro ogni persona, anche quella che ha compiuto i gesti più efferati. D: E quando un “peccatore” si sente amato che cosa succede? R: Quando un detenuto si rende conto che non è soltanto l’errore che ha commesso ma che porta dentro anche qualcosa di buono e che addirittura può diventare una risorsa per gli altri, allora è portato a fare una revisione critica dei suoi gesti. Questo non accade con l’isolamento, con le punizioni, le torture, le botte. Don Oreste diceva: “Quando uno ha compreso il male che ha fatto, ogni giorno di galera in più è un giorno sprecato per il bene dell’umanità”, perché l’essere umano è sempre una risorsa. Per tutta la società. D: Quanto riesce a rieducare il carcere in Italia? R: Il carcere, nelle modalità in cui oggi viene fatta scontare la pena, non rieduca. Chi termina la sua pena dietro le sbarre nell’80% dei casi torna a delinquere. Alcuni mi hanno detto: “Sono entrato che ero un povero Cristo, esco che sono un delinquente incallito”. Punire per il solo gusto di punire non giova alla sicurezza della società, perché riporta fuori delle persone che si sono incattivite, che si ritrovano imbruttite e che quindi, una volta uscite, tornano ad essere dei criminali. D: Come si recuperano le vite dei detenuti? R: Nelle nostre strutture, quando accogliamo persone in misura alternativa al carcere, capita molto spesso che decidano di rimanere nonostante abbiano scontato la loro pena, perché sono stati a fianco di bambini in difficoltà o giovani con problemi di tutti i tipi. In quelle occasioni hanno potuto dare. Quando si riscoprono risorsa per gli altri allora scatta in loro il desiderio di cambiare vita. Infatti, per chi finisce la pena fuori (per esempio nelle nostre strutture), la recidiva non supera il 10% che è lontana dalla statistica nazionale (80%, ndr). La comunità lancia il messaggio “meno carcere, più sicurezza”, che sembrerebbe paradossale ma invece è questione di logica: tanto carcere non ossigena la sicurezza della collettività. Che utilità ha una pena per cui un uomo passa 20 ore al giorno in una cella a non fare niente? D: “C’è chi la definisce l’angelo custode” dei detenuti: pensa di esserlo veramente? R: Questo ‘titolò mi è stato dato a Spoleto negli anni scorsi da Carmelo Musumeci (ergastolano che da anni si batte per i diritti dei detenuti, ndr), che ancora oggi mi chiama “l’angelo”. Penso che alcuni detenuti mi chiamino così perché sono stata una delle prime persone a entrare in carcere e a prendere le loro parti. Siccome i detenuti, quando parlano del carcere si riferiscono sempre a un girone dell’inferno, questa persona “buona”, che viene da fuori e che si dà totalmente a loro, viene identificata come un angelo. In realtà c’è anche chi, scherzando, mi chiama “diavolo custode” (ride, ndr), perché ho il mio bel caratterino che mi permette di tener testa a loro e di non averne assolutamente paura, sia in termini di sicurezza che di rapporto personale. D: Lei si sente un angelo? R: Io non credo di essere buona, né buonista. Mi prendo cura di situazioni che in tantissimi ignorano. Il mio ruolo non è di dama di carità o di quella buona per forza. Credo solo che loro, come tutti, abbiano diritto a una speranza e a una possibilità e farò di tutto e per potergliela dare. D: Riuscirebbe a immaginare la sua vita senza i “suoi” ragazzi? R: Mi faccio un giorno di galera a settimana perché non posso smettere, perché come diceva Don Benzi: “Chi ha visto non può più far finta di non aver visto”. D: Ha mai pensato di dire basta? R: A volte vorrei scappare da tanto dolore, da quei volti che settimana dopo settimana ritrovo sempre lì, senza che per loro mai nulla sia cambiato, senza che nessuna prospettiva si sia aperta. Però rimango qui e continuerò ad essere la loro testimonianza fuori, per quelli che non sanno, perché non c’è nulla di più facile che aver paura di ciò che non si conosce. D: Lei segue e si occupa di tanti ergastolani. Com’è stato il suo primo incontro con loro? R: Sono entrata nelle carceri in cui altri membri della Comunità portavano avanti progetti di incontro e colloquio con i detenuti. L’8 giugno del 2007 Don Oreste venne per la prima volta nel carcere di Spoleto. Fino a quel momento non avevo mai incontrato ergastolani: conoscevo l’alta sicurezza, persone condannate a pene molto lunghe ma non mi era chiaro cosa fosse veramente un ‘fine pena maì. Entrai da loro pensando che in Italia l’ergastolo non lo scontasse nessuno, che prima o poi escono tutti. D: E invece? R: Invece trovai di fronte a me centinaia di persone in carcere da oltre 30 anni che ci dissero non sarebbero mai uscite vive da lì. Non avevo mai visto i loro volti di uomini: quel giorno erano lì, davanti a me ed erano persone come noi. D: Chi sono quindi questi ergastolani? R: Persone che raccontano storie umanissime, fatte di drammi immensi, che non chiedono sconti né si proclamano innocenti. Vogliono soltanto una speranza e qualcuno che porti fuori la loro voce. Finché una persona non parla con loro, e con i detenuti in generale, ha l’idea del cattivo, del mostro, del delinquente, quasi dell’alieno che non ci riguarda. In realtà, quello che io ho sempre trovato sconvolgente entrando in carcere, è stato scoprire che dietro quelle mura e quelle sbarre ci sono delle persone assolutamente normali, come noi. D: Si spieghi meglio. R: Io non escludo che se avessi avuto una storia diversa, una vita diversa e delle possibilità diverse, non potrei essere stata al posto loro. Io sono nata nel miracoloso Nord-Est, ho avuto una famiglia normale e sono cresciuta bene, ma se fossi nata in Sicilia? Forse non sarei la brava volontaria che va aiutare gli ergastolani. Probabilmente avrei un padre, un fratello, uno zio in galera e sarei la parente di un detenuto. Il carcere non è un mondo a parte, non è vero che lì ci stanno soltanto gli orchi, i mostri. D: Lei ha contatti con detenuti le cui storie sono intrecciate con quelle di pericolose organizzazioni criminali. Ha mai avuto paura? R: No, assolutamente. Il carcere cambia e plasma l’uomo, quindi chi incontri dentro non è mai quello che hai visto sui telegiornali. Mi è capitato di passare tante ore in mezzo a loro: talvolta le guardie carcerarie, che avrebbero dovuto riaprirmi, si dimenticavano della mia presenza e capitava che io stessi anche più del tempo dovuto con i detenuti, che non sono proprio degli ex boyscout. Non mi sono mai sentita in pericolo e non ho mai avuto paura. Chi mi cerca è dentro da almeno 15 anni, per cui il legame con le bande criminali all’esterno è abbastanza reciso. D: Ma le è mai capitato di provare rabbia per i gesti che hanno compiuto i detenuti? R: Questa è la domanda che mi mette più in crisi perché mi costringe a dire una cosa che mi è costata tanto. Quando sono entrata in carcere, l’unica cosa che desideravo era di non avere a che fare con coloro che avessero usato violenza sulle donne. Era un limite mio: riuscivo a capire tante cose, cercavo di comprendere i contesti socio-culturali in cui altri detenuti erano cresciuti, ma questo tipo di reato limitava molto la mia apertura nei loro confronti. D: Poi cos’è successo? R: Poi mi è capitato di sentire delle testimonianze di persone che avevano compiuto questo tipo di reato e li ho dovuti incontrare, almeno negli incontri collettivi. In quelle occasioni mi sono resa conto di aver percorso il passaggio che spesso si fa fuori, ovvero escludere categoricamente tutti i delinquenti dalla mia testa. Lasciarlo in un altro angolo della mia mente. Ma dovendo affrontare quella situazione ho dovuto pensare che molto spesso ci sono dei problemi psichiatrici e psicologici. Non c’è una scusante sempre, perché c’è in ogni caso una responsabilità personale per il male che una persona ha scelto di fare, tuttavia ho cercato di capire. Non so se ho provato rabbia: sicuramente ho avuto maggiori difficoltà ad andare oltre. Mi sono sforzata di pensare di non avere davanti quello che l’uomo aveva fatto ma di vedere chi era la persona in quel momento. D: Li ha mai giudicati? R: Cerco di non farlo. Non sono un giudice quindi non ho il compito di giudicare quanto una persona debba stare in carcere, né sono un educatore che deve stabilire se e quando è stata completamente rieducata. Il mio ruolo è diverso: io cerco di poter lavorare sulla persona che è oggi, cercando di capire l’umanità e la fragilità che ci sono state dietro a determinati atti e perché hanno portato a quel gesto. D: Cosa le ha lasciato Don Benzi? R: Devo a Don Benzi il fatto di aver trovato la mia strada dopo tante vicissitudini e dopo tante pene della mia anima. È sempre grazie a lui se oggi mi occupo di questi ‘cattivì: in realtà sono convinta che questo tipo di poveri, intesi come povertà umana, siano proprio ‘l’eredità’ che mi ha lasciato lui. Don Oreste mi ha lasciato questi poveri da difendere. D: Come ha trascorso questo Natale? R: Questo è stato uno dei Natali più felici della mia vita perché, dopo 25 anni, Carmelo (Musumeci, uno degli ergastolani ostativi che segue, ndr) ha ottenuto l’irrilevanza della sua collaborazione che significa che tutto il suo fascicolo è chiaro e quindi ogni sua collaborazione con la Giustizia non servirebbe a niente. Dopo 25 Natali Carmelo ha passato queste festività con la sua famiglia. Questa piccola conquista, dopo anni di lotte e sacrifici, è stato un piccolo risultato per me. Resta sempre l’inquietudine e la tristezza per chi il Natale anche quest’anno se l’è passato dentro. Questo tormento però mi permetterà di non smettere di lottare per loro. D: Che cosa sognava di fare da grande? R: A volte me lo chiedo anch’io se è questo ciò che desiderassi da bambina. La vita mi ha riservato delle cose assolutamente imprevedibili e che da piccola certamente non immaginavo. Sognavo tanta serenità, familiarità, pace interiore, quiete e una vita gratificante. Ogni mattina mi sveglio con la voglia di fare qualcosa. La mia è una vita che mi fa sentire viva, per cui sì, in qualche modo era questo quello che volevo. Certo, nei sogni di Nadia bambina non c’era questo, c’era la voglia di girare il mondo ad esempio, ma so di aver realizzato comunque il sogno di una vita piena. D: Lei è una persona felice? R: Sono felice perché sento di essere sempre serena. Ogni tanto ci sono delle cose che ci rendono felici, come ci sono delle cose che ci rendono profondamente tristi, ma questo fa parte della vita. Essere felici sempre è impossibile: la vita non è questo: è gioia ma è anche tanta sofferenza. Inoltre, credo non si possa mai essere completamente felici finché non lo sono tutti. Istat: giustizia; 4,5 mln cause pendenti, boom furti in casa, diminuiscono i detenuti Ansa, 30 dicembre 2015 Giustizia, criminalità e sicurezza - nell’annuario Istat 2015 - confermano uno spaccato del Paese preoccupante, anche se con qualche segnale positivo. Il carico dell’arretrato nel settore civile, pur registrando un calo del 3,3%, costituisce un vero e proprio ‘tappò con 4 milioni e mezzo di cause da smaltire, e nel settore penale le cose non vanno meglio con l’aumento dei reati che più destano allarme sociale, come i furti in casa, o il sovraffollamento delle carceri, una piaga non ancora superata. In particolare, per il contenzioso civile, i dati rilevati dall’Istat e relativi al 2013, segnalano una contrazione delle pendenze del 3,1% nei tribunali e del 9,6% presso le corti di appello. Nonostante ciò, le cifre reali sono ancora da brividi: i procedimenti civili in attesa del primo grado sono 4.501.021 (-3,3% rispetto al 2012). Gli uffici più intasati sono i tribunali con 3.157.893 procedimenti in stand by (70,2% del totale), seguono gli uffici del giudice di pace con 1.296.075 fascicoli (28,8% del totale) e le corti d’appello con 47.053 (1% del totale). Si marcia meglio nei Tar anche se servono pur sempre quasi 4 anni per l’esito di un giudizio amministrativo. Il picco dei 671.288 ricorsi pendenti del 2008 si è più che dimezzato: a fine 2013 i ricorsi giacenti erano 298.221, e la durata media era scesa a 3,8 anni mentre era di 9,6 nel 2008. Sempre grandi, pur se in calo, le cifre della “mala” economia dolosa o figlia della crisi: nel 2014 il numero di titoli di credito protestati rispetto al 2013 ha segnato un -22,9%, ma il valore complessivo sfiora la ragguardevole cifra di 2 miliardi di euro, quanto l’aumento della spesa pubblica in sicurezza e cultura deciso dal governo Renzi dopo gli attentati di Parigi. Difficile, su questo fronte, anche il contrasto penale: quasi il 20% dei procedimenti per bancarotta, a causa del taglio della prescrizione, viene archiviato quando ancora è in Procura. La mappatura della tipologia dei reati di cui si ha notizia - quasi tre milioni - indica un aumento dei reati contro il patrimonio, per lo più vandalismi, e un calo di quelli contro la persona. Nel dettaglio, l’Istat rileva che nel 2013, sono stati 2.892.155, circa 48 ogni mille abitanti, i delitti denunciati dalle forze di polizia all’autorità giudiziaria, in aumento del 2,6% rispetto al 2012. Diminuiscono gli omicidi volontari consumati (-4,9%) e, al loro interno, quelli di tipo mafioso (-23,5%), tornano ai livelli del 2011. In calo anche i tentati omicidi (-7,9%), le lesioni dolose (-4,6), le violenze sessuali denunciate (-4,3%) e lo sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione (-10,4%). Truffe e frodi informatiche registrano un deciso aumento (+20,4%), in crescita estorsioni (+6,3%), rapine (+2,6%) e furti (+2,2%) e per quelli in abitazione l’Istat rileva che hanno segnato +48,6% nel periodo 2010-2013. Gli uomini mantengono il primato della delinquenza: su un totale di 300.381 persone iscritte nel casellario giudiziale centrale nel 2014, la percentuale di uomini è sempre nettamente maggiore, qualunque sia il reato commesso. Sono uomini l’82,2% dei condannati per delitto, percentuale che supera il 90% per omicidio volontario (96,5%) e droga (92,3%). Stabile il ricorso a misure alternative alla detenzione: alla fine del 2014 sono 25.756 tra affidamento in prova al servizio sociale, semilibertà, detenzione domiciliare, libertà vigilata, libertà controllata, semidetenzione, in aumento dell’1,7% rispetto all’anno precedente. Le misure più applicate sono l’affidamento in prova al servizio sociale (46,6%) e la detenzione domiciliare (36,7%). Su 100 misure alternative in corso nel 2014, otto riguardano le donne e 15 gli stranieri. Nelle carceri si contano 53.623 persone alla fine del 2014, novemila in meno rispetto al 2013 (-14,3%) una deflazione in linea con gli ultimi dati del Ministero della giustizia che al 30 novembre 2015 conta 52.636 detenuti. Il trend decrescente è dovuto, segnala l’Istat, al “maggior accesso alle misure alternative” e alla “forte limitazione degli ingressi in carcere per i reati di gravità minore”. Tra il dicembre 2010 e la fine del 2014, 15.814 detenuti sono stati mandati ai domiciliari. Quasi un detenuto su tre è straniero (32,6%), uno su quattro è tossicodipendente, il 27,1% svolge un’attività lavorativa, nella maggior parte dei casi alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. L’indice di affollamento delle carceri (rapporto tra detenuti presenti e posti letto previsti) è in forte discesa nel 2014, passa da 131 dell’anno precedente a 108. Rimane però una forte differenza territoriale: sono solo otto (comprese le due province autonome di Trento e Bolzano) le regioni con un indice di affollamento inferiore a 100. La regione con il maggiore sovraffollamento è la Puglia (138 detenuti per 100 posti letto regolamentari), seguono Lombardia, Friuli-Venezia Giulia e Veneto, con valori tra 129 e 127. Quando la giustizia è vendetta di Mauro Mellini Il Tempo, 30 dicembre 2015 Parlare di errore giudiziario in Italia è, si può dire, espressione impropria. Prevale, ormai il concetto di “giustizia di lotta”, che deve “soddisfare” l’esigenza di non lasciare i delitti “senza un colpevole” come dimostra l’inchiesta de Il Tempo di oggi. I Celti quando taluno veniva ucciso, se non potevano fornire ai congiunti del morto il “sollievo” di uccidere l’assassino, uccidevano uno schiavo. Meglio di niente. Lo scrupolo di evitare, anzitutto, che una pena ingiusta vada a sommarsi all’ingiustizia di un delitto non riesce ad imporsi. Lo “scandalo” è l’assoluzione d’aver lasciato “senza autore” il delitto, stoltezza che purtroppo si legge a commento di ogni assoluzione. La “novella” varata anni fa al codice di procedura penale che stabilisce che la condanna dell’imputato possa intervenire quando la colpevolezza “è provata al di là di ogni ragionevole dubbio” (mutuando l’espressione in uso nel diritto e nella prassi giudiziaria anglosassone) avrebbe dovuto provocare una sorta di terremoto giudiziario, facendo diminuire assai sensibilmente le condanne rispetto alle assoluzioni. Non c’è stata una sola sentenza riformata o annullata in applicazione di tale “novità”. Non è successo niente. La “novità” era fumo negli occhi. Occhi, del resto, per lo più, chiusi per non vedere. Ci sono poi motivi “speciali” sui quali i giudici hanno addirittura orrore di fronte alla tentazione di assolvere. Ci sono “esigenze” di lotta, ad esempio, alla mafia, che “impongono” di non “delegittimare” un pentito, anche se palesemente bugiardo. Magari per non “mettere in discussione” altre sue “testimonianze” a fondamento di altre sentenze. Non dico altro dell’abuso dei pentiti e del pentitismo, perché mi porterebbe, come mi ha portato nella mia attività di avvocato e di pubblicista, molto lontano. C’è un senso della giustizia che, invece di diventare più acuto e scrupoloso, regredisce in senso di vendetta. E con esso regredisce la civiltà della nostra Società. Boom di innocenti in cella anche nel 2015 di Luca Rocca Il Tempo, 30 dicembre 2015 La top ten degli errori giudiziari dell’anno. Quattro milioni arrestati ingiustamente negli ultimi 50 anni. In compenso dal 1998 al 2014 gli inquirenti riconosciuti colpevoli sono solo quattro. Milioni di persone incarcerate ingiustamente, migliaia le vittime di errori giudiziari, centinaia di milioni di euro per risarcire chi, da innocente, ha subìto i soprusi di una giustizia letteralmente allo sfascio. I numeri che descrivono il penoso stato del nostro sistema giudiziario non lasciano scampo e immortalano uno scenario disastroso a cui nessun governo è riuscito, finora, a porre rimedio. Il sito errorigiudiziari.com, curato da Valentino Maimone e Benedetto Lattanzi, ha messo in rete i 25 casi più eclatanti del 2015 di cittadini innocenti precipitati nella inestricabile ragnatela della malagiustizia italiana. Casi che contribuiscono a rendere il panorama del nostro impianto giudiziario, come certificano più fonti (Unione Camere Penali, Eurispes, Ristretti Orizzonti, ministero della Giustizia), più fosco di quanto si pensi. Se dall’inizio degli anni 90 gli italiani finiti ingiustamente dietro le sbarre sono stati circa 50mila, negli ultimi 50 anni nelle nostre carceri sono passati 4 milioni di innocenti. E se nell’arco di tempo che va dal 1992 al 2014 ben 23.226 cittadini hanno subìto lo stesso destino, per un ammontare complessivo delle riparazioni che raggiunge i 580 milioni 715mila 939 euro, i dati più recenti attestano che la situazione non accenna a migliorare. Come comunicato dal viceministro della Giustizia Enrico Costa, infatti, dal 1992, anno delle prime liquidazioni, al luglio del 2015 “è stata sfondata la soglia dei 600 milioni di euro” di pagamenti. Per la precisione: 601.607.542,51. Nello stesso arco di tempo, i cittadini indennizzati per ingiusta privazione della libertà sono stati 23.998. Nei primi sette mesi del 2015, inoltre, le riparazioni effettuate sono state 772, per un totale di 20 milioni 891mila 603 euro. Nei 12 mesi del 2014, invece, erano state accolte 995 domande di risarcimento, per una spesa di 35,2 milioni di euro. Numeri che avevano fatto registrare un incremento dei pagamenti del 41,3 per cento rispetto al 2013, anno in cui le domande accettate furono 757, per un totale di 24 milioni 949mila euro. In media lo Stato versa circa 30 milioni di euro all’anno per indennizzi. I numeri a livello distrettuale riferiti ai risarcimenti per ingiusta detenzione collocano al primo posto Catanzaro con 6 milioni 260mila euro andati a 146 persone. Seguono Napoli (143 domande liquidate pari a 4 milioni 249mila euro), Palermo (4 milioni 477mila euro per 66 casi), e Roma (90 procedimenti per 3 milioni 201mila euro). Nel 2014 è stato registrato un boom di pagamenti anche per quanto riguarda gli errori giudiziari per ingiusta condanna. Dai 4.640 euro del 2013, che fanno riferimento a quattro casi, si è passati a 1 milione 658mila euro dell’anno appena trascorso, con 17 casi registrati. La liquidazione, infatti, è stata disposta per più di 1 milione di euro per un singolo procedimento verificatosi a Catania, e poi per altre 12 persone a Brescia, due a Perugia, una a Milano e l’ultima a Catanzaro. Dal 1992 al 2014 gli errori giudiziari sono costati allo Stato, dunque al contribuente italiano, 31 milioni 895mila 353 euro. Ma il ministero della Giustizia, aggiornando i dati, ha certificato che fino al luglio del 2015 il contribuente ha sborsato 32 milioni 611mila e 202 euro. La legge sulla responsabilità civile dei magistrati è stata varata la prima volta nel 1988 e modificata, per manifesta inefficacia, solo nel febbraio di quest’anno. I dati ufficiali accertano che dal 1988 al 2014 i magistrati riconosciuti civilmente responsabili dei loro sbagli, con sentenza definitiva, sono stati solo quattro. Secondo l’Associazione nazionale vittime errori giudiziari, ogni anno vengono riconosciute dai tribunali 2.500 ingiuste detenzioni, ma solo un terzo vengono risarcite. Stefano Livadiotti, nel libro “Magistrati, l’ultracasta”, scrive che le toghe “hanno solo 2,1 probabilità su 100 di incappare in una sanzione” e che “nell’arco di otto anni quelli che hanno perso la poltrona sono stati lo 0,065 per cento”. Dodici casi di ordinaria ingiustizia di Andrea Ossino Il Tempo, 30 dicembre 2015 Accuse senza prove, perizie sbagliate, rapine mai fatte, così si può finire in carcere da innocenti. Per 5 anni hanno creduto fosse un narcotrafficante internazionale. W.U., quarantenne residente a Frosinone, ha visto crescere le sue due gemelline da dietro le sbarre. Non è riuscito a stare vicino alla sua famiglia nei momenti di difficoltà. Tutto questo perché si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato. Era stato arrestato nel 2010, mentre era all’aeroporto di Capodichino, a Napoli. La Dda partenopea lo aveva fermato insieme ad altre 30 persone perché risultava aver avuto contatti con la fidanzata di un uomo che faceva parte di un’organizzazione criminale dedita al narcotraffico. Il legale dell’uomo, Francesco Galella, è riuscito però a dimostrare che quelle telefonate che provavano come tale “Biggy” cedesse e ricevesse stupefacenti, non erano riconducibili al suo assistito. W.U. è quindi stato assolto e adesso chiede allo stato 500 mila euro. Una cifra che non gli potrà mai risarcire gli anni persi, ma almeno gli consentirà di rifarsi una vita dignitosa. Terni. Accusati senza prove di una truffa milionaria. Accusati di associazione a delinquere finalizzata alla truffa, Pio Maria Deiana, Carlos Luis Delanoe e Carmelo Conte, sono stati assolti dal tribunale di Terni perché il fatto non sussiste. Era il 2005 quando i tre indagati cercarono di acquistare una squadra di calcio, la Ternana, e Villa Palma, un luogo dove poter avviare una fondazione. L’affare non andò in porto perché vennero arrestati prima che la filiale di una banca concedesse loro un prestito di 100 milioni di euro sulla base di una fidejussione di 400 milioni di dollari di una banca brasiliana. Proprio la fidejussione li fece finire sul banco degli imputati, dal quale dovettero assistere alla sfilata dei testimoni eccellenti: dall’ex presidente del Coni di Terni, Massimo Carignani fino all’ex sindaco di Terni, Paolo Raffaelli. Grazie ai teste e alle perizie capaci di dimostrare la veridicità della fidejussione e la limpidezza dell’operazione finanziaria, la corte di Terni li assolse sottolineando che i 3 erano stati reclusi ingiustamente per 6 mesi. Adesso chiedono di essere risarciti. Omicidio. In cella a 16 anni per una perizia sbagliata. Una perizia sbagliata lo aveva condotto in cella quando aveva16 anni. Sulla sua testa una pesante accusa: aver ucciso il padre. Per questo motivo Luca Agostino aveva trascorso 113 giorni in carcere. Il padre, Cosimo, era stato ucciso con tre colpi di arma da fuoco il 24 febbraio del 2010. Luca era stato arrestato insieme al fratello maggiore, Vincenzo. La perizia non lasciava spazio a dubbi: sulle mani del ragazzo era presente polvere da sparo. Neanche la testimonianza del fratello reo confesso, grazie al quale era stata trovata anche l’arma del delitto, aveva convinto gli inquirenti milanesi. Poi i consulenti del giudice e quelli della procura arrivano a una conclusione unanime: “i risultati delle operazioni peritali appaiono compatibili con le dichiarazioni rese dai tre soggetti presenti al momento dell’omicidio”. A scagionarlo definitivamente una conversazione in carcere con il fratello: “Vincenzo esprime sorpresa e rabbia verso il fratello quando apprende che Luca potrebbe aver toccato la pistola e risultare perciò positivo alla prova dello Stub”. Adesso Luca è stato risarcito: 24mila e 300 euro. Roma. Medico condannato. Ma salvò un detenuto. Ha chiesto un milione di euro per ingiusta detenzione. Una cifra a sei zeri che comunque non potrà mai ripagarlo del torto subito. Alfonso Sestito, cardiologo del Policlinico Agostino Gemelli di Roma è stato assolto con formula piena. Secondo gli inquirenti avrebbe scritto una falsa perizia. Un documento che avrebbe consentito la liberazione di un detenuto e che sarebbe stato “richiesto” dall’avvocato Marco Cavaliere, condannato a tre anni di carcere. Così il medico aveva dovuto trascorrere quindici giorni agli arresti domiciliari e, dal febbraio del 2013, era stato costretto a non allontanarsi dalla Capitale. Nel corso del processo, il legale del dottore è riuscito a dimostrare che grazie a quella perizia, l’imputato avrebbe salvato la vita al paziente, il detenuto Carmine Buongiorno. Così l’uomo è stato assolto dall’accusa di falso. Adesso Alfonso Sestito, dopo aver chiesto di essere risarcito, è in attesa del pronunciamento del giudice. Cagliari. Sei mesi in cella per una rapina mai fatta. Per un anno è stato detenuto ingiustamente, trascorrendo anche 6 mesi all’interno di un penitenziario. Claudio Ribelli, secondo l’accusa, avrebbe rapinato una donna puntando un coltello alla gola del figlio. Magro il bottino ottenuto: 100 euro e una piccola collana d’oro. Il ventottenne sardo era finito nel carcere di Buoncammino, a Cagliari, perché la vittima affermava di averlo riconosciuto. Erano in due i complici che nel 2010 avevano rapinato la donna. Il primo, Pierpaolo Atzeni, è stato condannato a scontare 5 anni e 4 mesi di reclusione. Il presunto complice, Claudio Ribelli, è invece stato assolto e la Corte d’appello di Cagliari ha stabilito che lo Stato gli corrisponda 91.082 euro come riparazione per ingiusta detenzione. Del resto le telecamere di una stazione di servizio che avevano immortalato la scena del crimine avevano ripreso il complice scagionando Ribelli. Adesso l’operaio sardo cerca di rifarsi una vita nonostante abbia trascorso 6 mesi in una cella di 4 metri per 4 priva di acqua calda, riscaldamento e pavimento, insieme ad altri 5 detenuti. Ingegnere russo. Tentato omicidio. Ma il marito aveva mentito. Anche in Sicilia, nel 2015, è stato riconosciuta una riparazione per ingiusta detenzione. Ad Elena Khalzanova infatti sono stati dati 38mila euro. Era stata assolta due anni fa, nel luglio del 2013, dopo essere stata accusata di aver tentato di uccidere il marito. Ma secondo la corte di Catania, i 18 giorni di galera e i 286 giorni di arresti domiciliari affrontati da Elena, ingegnere russo di 59 anni ed ex direttore di una fabbrica della marina militare sovietica, non valgono neanche 40 mila euro. Elena era stata accusata di voler uccidere il marito - avrebbe tentato di soffocarlo con un cuscino - per impossessarsi dell’eredità. Ma l’unico testimone che la accusava era proprio la vittima. Durante il processo le sue testimonianze sono però state ritenute “incoerenti e contraddittorie e come tali non meritevoli di credito”. A causa di presunte violazioni anche il Consolato generale della Federazione russa a Palermo aveva seguito il caso. Urbanistica. Accusato di corruzione. Prosciolto dopo 6 anni. Dante Galli al momento del suo arresto lavorava come dirigente dell’ufficio urbanistica di Pietrasanta, in provincia di Lucca. Il 31 gennaio del 2006 però aveva perso tutto. Era stato arrestato insieme al sindaco Massimo Mallegni e a numerosi politici, funzionari e imprenditori. Sulla sua testa pesava un’accusa importante: corruzione. Dopo aver ottenuto gli arresti domiciliari ha dovuto affrontare un maxi processo nel corso del quale fortunatamente era tornato a piede libero. Il suo incubo è terminato dopo sei anni. Il 2 aprile del 2012. Il tribunale di Firenze non ha avuto dubbi: Galli è stato prosciolto da ogni accusa e deve essere risarcito per tutte quelle settimane trascorse tra il carcere e gli arresti domiciliari. Adesso pronuncia parole felici, si dichiara sereno, ma nessuno potrà mai cancellare l’esperienza vissuta, la perdita della libertà e della dignità professionale. Adesso all’uomo è stato riconosciuta l’ingiusta detenzione. Il politico però non ha fatto sapere a quanto ammonta. Mafia. Per i pm era un boss. Scagionato a 70 anni. Il suo nome gli è costato 3 anni e 11 mesi da scontare agli arresti domiciliari. Ma Beniamino Zappia non era il boss della mafia italo-canadese e adesso deve essere risarcito. Una vicenda che inizia il 22 ottobre del 2007, quando la Dia di Roma arresta l’uomo accusandolo di associazione a delinquere di stampo mafioso. Gli inquirenti pensano infatti sia il tramite tra le cosche agrigentine e quelle canadesi legate ai fratelli Rizzuto di Montreal, credano che i boss si siano serviti di lui per infiltrarsi negli affari d’oro relativi alla costruzione del ponte sullo stretto di Messina. Così lo arrestano insieme ad altre 18 persone. Complice il suo nome e la sua fedina penale non proprio immacolata, Zappia viene recluso a San Vittore, poi a Roma e ancora a Benevento e Secondigliano. Nel 2008, ormai 70enne, viene trasferito in regime di carcere duro. Poi i dubbi, la concessione degli arresti domiciliari nel maggio del 2010 e infine la sentenza. Il 23 novembre del 2012 viene assolto perché il fatto non sussiste. Rapina. Un anno di detenzione. Ma i testimoni lo salvano. Una detenzione durata ben 351 giorni e un indennizzo di 100 mila euro, pari a 235 euro al giorno. Manolo Zioni, romano, quando aveva 22 anni era stato accusato di aver messo a segno 3 rapine, tutte compiute tra l’agosto e il settembre del 2010, in zona Pineta Sacchetti, nella Capitale. Nonostante Alessandro Rossi, un rapinatore già in stato di detenzione, avesse ammesso di aver compiuto anche i colpi contestati a Zioni, i giudici non gli credono. Nessun testimone lo riconosce e allora viene disposta una perizia sulle immagini riprese dalle telecamere. Il rapinatore, quello vero, aveva un diamante tatuato sul collo. Manolo Zioni invece solo una macchia sulla pelle. Così il ragazzo viene rimesso in libertà e dopo 20 giorni viene assolto per non aver commesso il fatto. L’imputato viene risarcito, ma non è di certo un santo. Così lo scorso giugno è stato fermato nuovamente. In zona Primavalle avrebbe gambizzato un uomo, un personal trainer di 35 anni con cui aveva un debito in sospeso. Spaccio. 58 euro per ogni giorno incolpato ingiustamente. Lo stato gli ha dato 23 mila euro. Ogni giorno che ha trascorso in carcere vale appena 58 euro. E in cella Alberto Vitulo ha trascorso ben 13 mesi. Spaccio di sostanze stupefacenti. Questa l’accusa sostenuta dagli inquirenti di Cavarzere, in provincia di Venezia. L’uomo, 53 anni, era stato arrestato il 28 ottobre del 2008. L’operazione dei carabinieri aveva sgominato una banda di neofascisti accusati di trafficare stupefacenti. In pratica l’associazione avrebbe portato la cocaina dal Sudamerica per poi rivenderla nelle piazze di spaccio del Veneto. Alberto Vitulo, secondo l’accusa, avrebbe gestito il traffico nell’area del rodigino. Alla fine l’uomo è stato assolto. Misero il risarcimento ottenuto e sentenziato dalla Corte d’appello di Venezia. Ma i giudici hanno motivato l’ingiusta detenzione in carcere spiegando anche che Vitulo, originario di Cavarzere, avrebbe contribuito colposamente all’emissione e al prolungamento della misura cautelare a suo carico, omettendo di fornire agli inquirenti alcun chiarimento in merito al comportamento che gli veniva contestato. Montesilvano. Vicesindaco “truffatore” Ma era una menzogna. Un calvario giudiziario durato ben 8 anni. L’avvocato Marco Salvini, quando aveva solo 32 anni, aveva dovuto trascorrere anche 98 giorni in regime di arresti domiciliari. La vicenda che risale al 2007 lo ha visto accusato di associazione per delinquere, truffa e corruzione. Adesso chiede un risarcimento per il torto subito, per la libertà privata, per la reputazione persa in un paese, Montesilvano (provincia di Pescara), dove le voci corrono velocemente, specialmente se un processo dura più di 8 anni, soprattutto se l’avvocato Marco Salvini, al momento dell’arresto, era anche il vicesindaco di Montesilvano. La sua vita è cambiata radicalmente prima di essere assolto, prima di uscire a testa alta dall’inchiesta Ciclone, quella che nel 2007 lo ha condotto in braccio alla giustizia. Ora crede ancora nel sistema giudiziario. Un sistema capace anche di assolvere e di risarcire per il danno subito. Adesso l’uomo attende le motivazioni della sentenza e si appresta a chiedere un corposo risarcimento. Trento. In galera 156 giorni per un errore di calcolo. Quella lunga fedina penale non gli è stata certo d’aiuto. Luigi Aiello in ogni caso è stato detenuto 156 giorni di troppo, per un errore di calcolo. Adesso è stato risarcito. Dall’errore commesso dai giudici ne era scaturito anche un secondo, questa volta commesso da Aiello. L’uomo infatti aveva una complessa vicenda giudiziaria che grazie alle leggi, e ai numerosi soggiorni in carcere, lo aveva costretto a scontare gli ultimi 5 anni e 8 mesi agli arresti domiciliari. Lui però, durante l’ultimo periodo, era andato in Spagna. Quando era tornato, dopo alcuni mesi, era dunque stato arrestato e condannato a un ulteriore anno di reclusione. Mentre stava scontando i suoi giorni in galera i suoi legali si erano accorti dell’errore. Conti alla mano, la Corte d’appello di Trento aveva accolto la sua richiesta di ingiusta detenzione: 40mila euro. Adesso l’uomo sta affrontando gli altri processi a suo carico e presto saprà se gli verrà riconosciuta una seconda ingiusta detenzione. Il pescatore Massimiliano Olivieri: “ho fatto 7 mesi dentro per l’errore di un pm” intervista a cura di Luca Rocca Il Tempo, 30 dicembre 2015 La storia di un pescatore arrestato per narcotraffico. Con la cocaina lui però non c’entrava nulla. Lo avevano dipinto come un pericoloso narcotrafficante, per sei mesi e mezzo è stato rinchiuso in carcere e infine assolto perché innocente. Ma Massimiliano Olivieri, pescatore 34enne di Livorno, è solo una delle “vittime eccellenti” del nostro fallace sistema giudiziario. Arrestato nel maggio del 2012 perché trovato in possesso di 213 chili di cocaina purissima, fin da subito Massimiliano ha implorato pm e giudici di ascoltarlo, spiegando che gli zaini con dentro la droga, con cui l’avevano sorpreso i carabinieri già appostati, non erano suoi; che ne aveva aperto uno solo perché, notandoli su un gommone spiaggiato a Calambrone (Pisa), si era incuriosito e aveva tirato fuori un panetto di 5 chili. Niente da fare. Nonostante i tabulati telefonici, le analisi del computer e l’esame del dna dei mozziconi di sigarette trovati in zona escludessero ogni suo coinvolgimento in organizzazioni criminali, Massimiliano è stato sbattuto per mesi in galera. L’arresto è stato prima convalidato da un giudice e dal tribunale del Riesame di Firenze. Poi è arrivato il rinvio a giudizio, ma solo per spaccio e non per traffico internazionale di droga. Infine, nell’aprile scorso, il “presunto colpevole” è stato assolto da ogni accusa nonostante il pm avesse chiesto una condanna a 4 anni di carcere. Il suo avvocato, Massimo Gambaccini, che dal suo assistito non ha voluto un centesimo, sta ora predisponendo l’istanza di risarcimento per ingiusta detenzione. Più di sei mesi in carcere da innocente. Un’esperienza da non augurare al peggior nemico. “Ero uscito di casa tranquillo, come ogni giorno, e mi sono ritrovato in carcere per quasi sette mesi. L’impatto è stato durissimo. Per fortuna ho un carattere forte, che mi ha permesso di affrontare a modo mio anche la galera. Sapevo di non aver fatto niente, che tutto si sarebbe risolto nel migliore dei modi. E così è andata. Ma mi hanno fatto patire”. La sua innocenza appariva chiara fin dall’inizio, anche se il pm ha chiesto 4 anni di carcere. “Era assolutamente chiara. Mi hanno sequestrato il cellulare, il computer, hanno perquisito la mia casa, il gommone è stato analizzato dal Ris di Roma, eppure nulla è emerso a mio carico. I magistrati si sono subito resi conto che non ero un narcotrafficante, ma volevano farmi pagare il possesso di quei cinque chili di cocaina. Io credo che, nel momento in cui si sono accorti che non ero la persona che cercavano, e dunque che la loro operazione era andata male, hanno pensato che qualcuno dovesse comunque pagare. E invece ero innocente, mentre ancora oggi i veri colpevoli non sono stati scovati”. Ha più volte chiesto di essere rimesso in libertà in quei sette mesi. Inutilmente. “Dopo due mesi ho anche chiesto i domiciliari, ma me li hanno negati. Il giorno in cui mi hanno arrestato dovevo andare a prendere mia figlia a scuola, e invece l’ho rivista in carcere dopo molte settimane. Mi hanno rifiutato anche il patrocinio gratuito perché, secondo loro, vista la mia attività illecita, da qualche parte i soldi ce li dovevo avere. Ma non avevo e non ho un centesimo, tanto che non ho ancora pagato il mio avvocato, che non finirò mai di ringraziare”. Quanto le è capitato è colpa della legge, dei magistrati, della sfortuna? “Di certo sono stato anche sfortunato, ma sono anche convinto che sette mesi di carcere preventivo sarebbero stati troppi anche se fossi stato colpevole”. Ora attende il risarcimento dei danni? “Tre giudici mi hanno assolto per non aver commesso il reato. Penso di averne diritto”. Tribunale del riesame: sì ai domiciliari ma solo se a Natale si trova il braccialetto di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 30 dicembre 2015 Tribunale di Napoli - Sezione VIII Collegio A - Ordinanza 23 dicembre 2015 n. 5701. Via libera alla scarcerazione da sostituire con i domiciliari, ma solo se in quattro giorni, dal 23 dicembre al 27, si trovano i braccialetti elettronici. È quanto ha deciso il Tribunale del riesame di Napoli, con l’ordinanza 5701 del 23 dicembre, prevedendo il ripristino automatico della misura restrittiva se la “ricerca” dei dispositivi elettronici non andava a buon fine. Eventualità più o meno scontata vista la scadenza stretta: quattro giorni coincidenti con il Natale, Santo Stefano un sabato e una domenica. Restano dunque in carcere sette tifosi polacchi condannati a tre anni per direttissima per resistenza a pubblico ufficiale e lesioni, reati consumati in occasione di una partita di calcio. L’ordinanza si innesta nell’annosa querelle sulla “penuria” di braccialetti che ha costretto molti detenuti a restare in carcere. Sul tema è intervenuta la Corte di Cassazione che, con la sentenza 39529 del 25 agosto 2015, ha invertito la rotta affermando che non è possibile condizionare la scarcerazione alla disponibilità dei dispositivi elettronici. Concetto ribadito con la sentenza 39529 del 1° ottobre. In entrambi i casi la Suprema corte ha disposto l’immediata scarcerazione anche in assenza dell’introvabile “cavigliera”, aprendo in teoria le porte del carcere a migliaia di detenuti in “lista d’attesa”. I giudici della Cassazione hanno sottolineato l’impossibilità di mantenere in cella chi è stato giudicato adatto agli arresti domiciliari; il braccialetto, hanno, infatti precisato i giudici, non è una misura coercitiva ulteriore e non serve a evitare la fuga ma solo a “testare” la capacità dell’imputato di autolimitarsi assumendo l’impegno di utilizzarlo. È di ieri la notizia di un’interrogazione parlamentare sul punto per iniziativa di 16 senatori che ricordano come l’articolo 275, in seguito alla modifica introdotta dalla legge 47/2015 sulle misure cautelari, preveda ormai l’assegnazione del braccialetto come misura ordinaria. I senatori chiedono di sapere quali misure si intendono adottare per rendere affettiva la riforma e porre rimedio ad una situazione che affida alla sorte la tutela di un diritto. A sostegno dell’iniziativa parlamentare si è schierato l’Osservatorio carceri dell’Unione camere penali che chiede di estendere l’interrogazione, rivolta al ministero della Giustizia, anche al ministero dell’Interno. In attesa di una risposta promette battaglia Mario Papa difensore di fiducia degli “ultras”: “L’ordinanza di conferma la misura estrema nel momento in cui motiva, come imposto dall’ultima riforma, l’adeguatezza di quella meno afflittiva: un paradosso che sottoporrò al giudizio della Cassazione e poi della Cedu”. La valutazione sul merito creditizio non ha immediata rilevanza penale di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 30 dicembre 2015 Corte di cassazione, Terza sezione penale, sentenza 29 dicembre 2015 n. 51073. Un conto è la valutazione sul merito creditizio, un conto è la consapevolezza dell’utilizzo del credito per attività illecita. Solo in quest’ultimo caso può essere necessaria l’applicazione di una misura di prevenzione come la confisca. A chiarirlo è la Corte di cassazione con la sentenza n. 51073 della Prima sezione penale depositata ieri. La pronuncia ha annullato, con rinvio, l’ordinanza con la quale il tribunale di Brindisi aveva confermato la confisca preventiva di un complesso immobiliare acquisito, con contestuale concessione di mutuo per importo pari al prezzo (con iscrizione di ipoteca volontaria per il doppio della somma), da una società a responsabilità limitata. Al capitale sociale di quest’ultima partecipava per il 50% la moglie di un contrabbandiere di lungo corso al quale in passato la Guardia di Finanza aveva anche sequestrato considerevoli somme di denaro. La Corte di cassazione sottolinea che, per l’opponibilità del diritto di garanzia del terzo sul bene oggetto di confisca, deve esistere una situazione di buona fede attestata da elementi come: • l’estraneità a ogni fatto di collusione o compartecipazione all’attività criminale; • una credibile inconsapevolezza delle attività svolte dal soggetto colpito dalle misure di prevenzione; • un errore scusabile sull’apparente situazione del soggetto sanzionato con la misura preventiva. Tocca al terzo, come la banca, provare la mancanza di collegamento del diritto di credito con l’attività illecita della persona oggetto della misura e il suo affidamento incolpevole, provocato da una situazione di apparenza oggettiva che rende tollerabile l’ignoranza o il difetto di di diligenza e attenzione. La considerazione del merito creditizio si muove su un piano diverso. Infatti, sottolinea la sentenza, “la valutazione ex post della decisione assunta dalla banca in ordine alla concessione di finanziamenti e dell’istruttoria che l’aveva preceduta non interessa di per sè al giudice penale o della prevenzione: in effetti la “colpa” della banca nel concedere un finanziamento ad un determinato soggetto in situazioni “anomale”, che possono fare fortemente dubitare della possibilità di recuperare il credito, attiene al canone generico di una buona gestione bancaria e non a quello specifico della buona fede richiesta in materia (...); si tratta, quindi, di questione riservata, se del caso, all’attività ispettiva della Banca d’Italia”. L’ordinanza contestata invece aveva messo l’accento sulla necessità, proprio con riferimento al merito del credito, che tutti i soggetti abilitati a fornirlo adottino strumenti interni di controllo e di valutazione centrati sul richiedente. Un’attenzione, dall’evidente possibile rilevanza penale in caso di carenze, giustificata dal collegamento funzionale che esiste tra il denaro erogato dalla banca a chi ne fa richiesta e quello raccolto tra i risparmiatori. Le banche, infatti ricordava l’ordinanza, non operano con denaro proprio, ma svolgono una funzione di rilievo costituzionale nel collocamento ottimale delle risorse monetarie. Tuttavia, avverte ora la Cassazione, “questo inquadramento non riguarda, di per sè, la buona fede del terzo rispetto alla confisca di prevenzione, che ha a che fare con la collusione e partecipazione all’attività criminosa e con la consapevolezza di tale attività”. Certo, chiosa la Corte, la buona fede può mancare anche per un atteggiamento colposo da parte dell’istituto di credito, ma si tratta pure sempre di un colpa collegata al tema della collusione e partecipazione all’attività criminale. La violazione delle regole della buona tecnica bancaria, allora, rilevano solo se indice di una consapevolezza o di una colpevole ignoranza dell’attività illecita sottostante alla richiesta di finanziamento. Anche la storia clinica del paziente assume rilievo per la “colpa” del medico di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 30 dicembre 2015 Corte di Cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 16 novembre 2015 n. 45527. La Cassazione - con la sentenza della Sezione IV, 1° luglio 2015 - 16 novembre 2015 n. 45527, Cerracchio, interviene sulla portata dell’articolo 3 della legge 8 novembre 2012 n. 189, la legge “Balduzzi” in tema di responsabilità del medico, secondo cui “l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve”. L’articolo 3 della legge n. 189 del 2012, per come costruita, appare porre un limite alla possibilità per il giudice di sancire la responsabilità del medico che abbia rispettato le linee guida e le best practices: nel senso che potrebbe pur sempre essere riconosciuta la responsabilità penale del medico per omicidio e lesioni personali che si sia attenuto ad esse, ma ciò solo allorché invece avrebbe dovuto discostarsene in ragione della peculiare situazione clinica del malato e questo non abbia fatto per “colpa grave”, quando cioè la necessità di discostarsi dalle linee guida era macroscopica, immediatamente riconoscibile da qualunque altro sanitario al posto dell’imputato. La legge Balduzzi - Si tratta però di chiarire i limiti e i presupposti applicativi della nuova disciplina. In proposito, qui la Corte afferma che il novum normativo, pur trovando terreno di elezione nell’ambito dell’ “imperizia”, può tuttavia venire in rilievo anche quando il parametro valutativo della condotta dell’agente sia quello della “diligenza”, come nel caso in cui siano richieste prestazioni che riguardino più la sfera della accuratezza di compiti magari particolarmente qualificanti, che quella della adeguatezza professionale. In tal modo, si dissente dal diverso orientamento (in tal senso, Sezione IV, 24 gennaio 2013, Pagano, nonché, Sezione IV, 11 marzo 2014, Carlucci), secondo cui, invece, il disposto dell’articolo 3 della legge n. 189 del 2012 potrebbe valere solo quando debba giudicarsi della perizia del medico, e non quando si discuta della sua imprudenza o della sua negligenza. Quindi, esemplificando, la disposizione non potrebbe trovare applicazione se il paziente ha avuto una reazione avversa ad un farmaco, nonostante l’intolleranza risultasse in cartella, che però è stata letta velocemente dal medico prescrivente: qui non entrano in discussione le linee guida, ma solo la negligenza che ha caratterizzato la condotta del medico. È proprio da queste diverse premesse concettuali che è stato risolto il caso esaminato. Si trattava di una vicenda processuale in cui un medico di continuità assistenziale - ex guardia medica- era stato chiamato a rispondere della morte di un paziente per una sindrome coronarica acuta. Il giudice di primo grado lo aveva mandato assolto, per carenza dell’elemento soggettivo, valorizzando la circostanza che il medico aveva tenuto conto, rispetto a una sintomatologia identica, di quanto diagnosticato pochi giorni prima dai medici del pronto soccorso, i quali avevano concluso per una sospetta colica addominale; per l’effetto, il giudicante non aveva ritenuto gravemente colposo il fatto che il medico non avesse disposto immediati accertamenti e il ricovero del paziente. Al contrario, la corte di appello lo aveva condannato censurando l’erroneità della diagnosi che non era stata caratterizzata da una “autonoma “ valutazione dei sintomi, che avrebbero dovuto condurre a diagnosticare un infarto in atto, a prescindere da quanto in ipotesi era emerso durante il precedente ricovero. La Cassazione, dopo avere precisato il proprium dell’attività diagnostica, nei termini di cui sopra, ha annullato con rinvio la decisione di condanna, per una più pertinente rivalutazione dei profili della colpa alla luce del novum normativo di cui all’articolo 3 della legge 8 novembre 2012 n. 189, che limita la rilevanza penale alle condotte improntate a colpa grave. In sostanza, secondo la Cassazione, nella effettuazione della diagnosi, il medico deve procedere ad una valutazione autonoma dei sintomi, nel cui apprezzamento rientra però anche la conoscenza della storia clinica del paziente e, quindi, le precedenti terapie e ricoveri a cui è stato sottoposto. Di guisa che nel giudicare del comportamento del medico non può non considerarsi che questo può avere fatto affidamento anche sulla diagnosi precedentemente fatta da altri sanitari, in presenza di sintomi non modificati. Reati contro la persona: la realizzazione del delitto di atti persecutori. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 30 dicembre 2015 Reati contro la persona - Atti persecutori (Stalking) - Eventi alternativi - Integrazione del reato - Mutamento delle abitudini di vita della persona offesa - Non essenziale - Discrimen con il reato di lesioni. Il delitto di atti persecutori, cosiddetto stalking, (articolo 612-bis cod. pen.) è un reato che prevede eventi alternativi, la realizzazione di ciascuno dei quali è idonea a integrarlo; pertanto, ai fini della sua configurazione non è essenziale il mutamento delle abitudini di vita della persona offesa, essendo sufficiente che la condotta incriminata abbia indotto nella vittima uno stato di ansia e di timore per la propria incolumità. Per poter intendere realizzato il suddetto stato di ansia e timore, tuttavia, non si richiede l’accertamento di uno stato patologico, ma è sufficiente che gli atti ritenuti persecutori abbiano un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima, considerato che la fattispecie incriminatrice di cui all’articolo 612-bis cod. pen. non costituisce una duplicazione del reato di lesioni (articolo 582 cod. pen.), il cui evento è configurabile sia come malattia fisica che come malattia mentale e psicologica. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 11 novembre 2015 n. 45184 Atti persecutori - Stalking - Natura di reato abituale - Configurabilità - Descrizione in sequenza dei comportamenti tenuti - Collocazione temporale - Effetti derivati alla persona offesa. Ai fini della rituale contestazione del delitto di “stalking” - che ha natura di reato abituale - non si richiede che il capo di imputazione rechi la precisa indicazione del luogo e della data di ogni singolo episodio nel quale si sia concretato il compimento di atti persecutori, essendo sufficiente a consentire un’adeguata difesa la descrizione in sequenza dei comportamenti tenuti, la loro collocazione temporale di massima e gli effetti derivati alla persona offesa. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 23 aprile 2015 n. 17082 Reati contro la persona - Delitti contro la libertà individuale - Atti persecutori - Reato necessariamente abituale - Configurabilità. Il delitto di atti persecutori, in quanto reato necessariamente abituale, non è configurabile in presenza di un’unica, per quanto grave, condotta di molestie e minaccia, neppure unificando o ricollegando la stessa a episodi pregressi oggetto di altro procedimento penale attivato nella medesima sede giudiziaria, atteso il divieto di bis in idem. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 24 settembre 2014 n. 48391 Reati contro la persona - Atti persecutori - Compimento di parte della condotta in epoca antecedente all’entrata in vigore della norma incriminatrice - Configurabilità del reato - Limiti. È configurabile il delitto di atti persecutori (cosiddetto reato di “stalking”) nella ipotesi in cui, pur essendo la condotta persecutoria iniziata in epoca anteriore all’entrata in vigore della norma incriminatrice, si accerti la commissione reiterata, anche dopo l’entrata in vigore del Dl 23 febbraio 2009, n. 11, convertito dalla legge 23 aprile 2009 n. 38, di atti di aggressione e di molestia idonei a creare nella vittima lo “status” di persona lesa nella propria libertà morale, in quanto condizionata da costante stato di ansia e di paura. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 8 maggio 2014 n. 18999 Reati contro la persona - Atti persecutori - Parte della condotta commessa in epoca anteriore all’entrata in vigore della norma incriminatrice - Configurabilità del reato - Limiti. Si configura il delitto di atti persecutori (cosiddetto reato di “stalking”) nella ipotesi in cui, pur essendosi la condotta persecutoria instaurata in epoca anteriore all’entrata in vigore della norma incriminatrice, si accerti, anche dopo l’entrata in vigore del Dl 23 febbraio 2009, n. 11, convertito dalla legge 23 aprile 2009 n. 38, la reiterazione di atti di aggressione e di molestia idonei a creare nella vittima lo “status” di persona lesa nella propria libertà morale in quanto condizionata da costante stato di ansia e di paura. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 6 marzo 2013 n. 10388. Babbo Natale in carcere arriva in ritardo di Emanuela Cimmino Ristretti Orizzonti, 30 dicembre 2015 Babbo Natale è arrivato in ritardo in carcere, giusto in tempo per fermarsi per il Cenone di Capodanno. Con la sua slitta trainata dalle renne ha bussato al block house,l’assistente di polizia penitenziaria di turno gli ha chiesto i documenti, Babbo Natale è arrivato da molto lontano, sulla sua carta d’identità c’è scritto residenza Rovaniemi. Dopo aver volato sul Brasile, Argentina, Perù, ha fatto tappa in Indonesia, Birmania, Nuova Zelanda, ha lanciato doni dal camino, è entrato dalla cantina e dalla soffitta, si è impigliato con la cinta del pantalone sui rami di un albero in Sud Africa e si è perso nella giungla. Durante una pausa in un pub di San Francisco ha aperto una scatola di cartone, di colore gialla, per lui tante lettere, i mittenti questa volta non sono i bambini, ma persone adulte che vivono in carcere, dove il Natale è un giorno come gli altri, dove la solitudine e la mancanza del calore familiare rendono più difficile affrontare i giorni di festa. Babbo Natale legge la scrittura tremante di Alì che proviene da un paese dove c’è la guerra civile, Alì non riesce a sentire i familiari che vivono in un villaggio, ogni volta che prova a contattarli telefonicamente, cade la linea, vorrebbe dire loro che sta bene, nonostante la detenzione, che ha imparato a scrivere ed a leggere in italiano, che dopo le feste parteciperà ad un corso di falegnameria; Andrew è di origine albanese ha interrotto i rapporti con ogni componente della famiglia dal momento del suo arresto all’aeroporto, non conosce l’Italia e non sa cosa raccontare ai suoi figli che erano molto bravi in geografia, vorrebbe recuperare i legami ed avere il coraggio di dire la verità; Jii è cinese, sua moglie vive in Italia, in una regione diversa da dove si trova il carcere nel quale è recluso, inizierà a fruire di un permesso premio sperando che qualcuno possa accompagnare la moglie che non guida. E poi c’è Gennaro che vorrebbe tanto per dono mangiare la pizza con le scarole; Antonino vorrebbe vedere la neve, lui proviene dal mare; Joseph vorrebbe che la sua richiesta di affidamento terapeutico venisse accolta, vuole davvero intraprendere un percorso riabilitativo, l’alcol è stata la causa di tutto, per l’alcol ha rubato, ha perduto soldi e vissuto per molto tempo in stazione, ma prima occorre cercare una comunità. Ionel rumeno è quotidianamente preoccupato per il fratello che si è allontanato da casa e non si hanno sue notizie, vorrebbe un miracolo, una lettera, un telegramma di consolazione; Martin ha molto da fare, dovrà stare in carcere per altri vent’anni, il giorno di Natale ha compiuto dieci anni che è recluso, non si dà pace per ciò che ha fatto, vorrebbe se non il perdono della famiglia della vittima, almeno poter chiedere scusa, allora era immaturo, facilmente condizionabile, ora grazie ad un percorso psicologico di rielaborazione, si sente più maturo e forte, capace di fare scelte individuali. Babbo Natale chiude la scatola, non riesce ad essere indifferente a richieste di persone che nonostante i loro sbagli, mostrano di provare sensazioni, hanno sogni, paura, speranza; uomini che lavorano su di Sé ed il cambiamento. Babbo Natale si alza, si rimette in volo. Si ferma nel villaggio di Alì, incontra i genitori anziani, dice loro che il figlio ha imparato a scrivere e leggere in italiano, che non riesce a contattarli, scatta loro una foto ricordo, prima di andare via, Babbo Natale lascia sul tavolo la lettera del figlio, c’è l’indirizzo del carcere, così potranno almeno scriversi. Seconda tappa in Albania a casa di Andrew, Babbo Natale regala ai bambini delle cartoline delle città principali d’Italia, prima di andare via parla con Irina la moglie di Andrew, Irina è a conoscenza del presente del marito ma finge di non sapere per il bene dei figli, scoppia in lacrime e consegna a Babbo Natale un messaggio. Per la moglie di Jii, Babbo Natale trova qualcuno che possa accompagnarla quando il marito fruirà del suo primo permesso, Rose gli sussurra nell’orecchio una parola che tradotta in italiano vuol dire “Io ci sarò”. Gennaro aveva chiesto la pizza con le scarole, in casa Esposito, la moglie e la madre stanno preparando di tutto per quando faranno colloquio il 31 dicembre, la sorella Anna nel salutare Babbo Natale gli lascia nella tasca un piccolo oggetto; Babbo Natale cerca per Joseph una comunità, dove si lavora sulla dipendenza, Michele il responsabile consegna nelle sue mani un dono, quello dell’accoglienza; per Ionel Babbo Natale gira molti villaggi, suo fratello minore era semplicemente scappato di casa per amore di una ragazzina italiana conosciuta in chat, ora è ritornato; infine c’è Martin che chiede di poter parlare con la famiglia della vittima, non è per niente facile, ma coincidenza vuole che la cugina della vittima sta frequentando un Master in Mediazione, la mediazione con Martin non sarà immediata, ma non è detto che non ci sia. Resta Antonino che ha chiesto la neve, per lui Babbo Natale può fare poco, ma è fiducioso nelle temperature che stanno scendendo. Il poliziotto fa entrare Babbo Natale, una volta passato in portineria, arriva al transito. Accompagnato dagli educatori e dall’Ispettore di reparto, Babbo Natale nella sala polivalente incontra i detenuti. Incontra Ali al quale consegna la foto dei suoi genitori anziani, intanto l’agente addetto alla posta gli porta una lettera, è quella della sua famiglia, la carta ha il profumo del pane, il profumo di casa; Babbo Natale guarda dritto negli occhi di Andrew lo abbraccia e gli lascia nella tasca il messaggio di Irina”Tieni duro”, la moglie vuole fargli capire che la sua famiglia c’è nonostante i suoi silenzi; a Jii Babbo Natale dice che incontrerà Rose e che sarà meglio dare un taglio ai capelli per presentarsi “presentabile”; consegna poi a Gennaro un ciuccio, la sorella lo renderà zio; conforta Ionel del rientro a casa del fratello che davano per scomparso; dà una piccola speranza a Joseph, c’è una comunità che può accoglierlo ma prima deve intraprendere in carcere un percorso di preparazione; anche per Martin c’è una piccola speranza ma ha il suo tempo, intanto dovrà proseguire con i colloqui psicologici. In fondo alla sala polivalente c’è seduto Antonino che come un bambino aspetta il suo dono, sta per andarsene, deluso, quando Roberto l’educatore alza gli occhi verso la finestra ed esclama” Fuori nevica”. Babbo Natale è arrivato in carcere in ritardo, ma ha portato ad ognuno dei doni. È arrivato in ritardo, ma giusto in tempo per fermarsi per il Cenone di Capodanno. “I cani dentro”, la Pet Therapy in Carcere dall’Associazione Do Re Miao Ristretti Orizzonti, 30 dicembre 2015 L’Associazione Do Re Miao! di Livorno promuove il benessere fisico, emotivo e psicologico di diverse tipologie di utenti attraverso le Attività Assistite dagli Animali, ovvero la cosiddetta Pet Therapy. Da 3 anni svolgiamo con successo attività di questo genere in alcuni istituti di pena della regione, centrandole su diverse tematiche: sostegno e integrazione dei soggetti più emarginati, progetti con soggetti tendenti all’autolesionismo, con detenuti tossicodipendenti o di sostegno alla genitorialità in carcere. e nostre attività si sono svolte principalmente negli Istituti di Pisa (ormai da 3 anni), Livorno - Sezione distaccata di Gorgona Isola, San Gimignano, Lucca, e siamo in attesa di iniziare anche negli istituti di Livorno, Massa e Massa Marittima. Segnaliamo un evento che si terrà a Pisa il 7 febbraio 2016 grazie al contributo della Fondazione Pisa: una mostra fotografica sul progetto di Pet Therapy svolto nell’anno 2015 presso la Casa Circondariale di Pisa. Nel progetto oggetto della mostra, tra le molte proposte operative è stata offerta ai detenuti partecipanti la possibilità conseguire un attestato che certificasse l’acquisizione di specifiche competenze nella gestione dei cani; per alcuni di loro è stato inoltre rilasciato dalla Direzione il permesso di incontrare a colloquio i propri cani, accompagnati all’interno dell’Istituto dagli operatori dell’associazione Do Re Miao!. A ulteriore stimolo per l’elaborazione del vissuto emozionale abbiamo chiesto ai partecipanti di scrivere le loro impressioni tenendo una sorta di “diario” o chiedendo loro di esternare pensieri e considerazioni tramite interviste estemporanee. I momenti di scambio, relazione e comunicazione con i nostri cani (abilitati e certificati per svolgere attività assistite) e i cani di proprietà sono stati catturati dall’obiettivo della fotografa Maria Cristina Germani, autorizzata dalla Direzione e dalle persone detenute a documentare attraverso un reportage fotografico gli attimi più significativi e toccanti del percorso. In seguito a tutto ciò, nostra intenzione è di allestire una mostra fotografica per esporre alcune delle immagini più rappresentative del percorso svolto, come prova dell’efficacia di questi programmi nel contesto detentivo; a corredo delle stampe aggiungeremo alcuni estratti degli scritti e delle testimonianze delle persone detenute. Sarà disponibile, inoltre, un catalogo della mostra, edito da Haqihana. La mostra (concepita come “evento itinerante”) sarà allestita in almeno tre contesti diversi: presso la Stazione Leopolda a Pisa, presso l’Accademia della Chitarra di Pontedera e all’interno della Casa Circondariale di Pisa, in modo da renderla fruibile anche alle persone detenute. A corredo dell’evento avremo ospiti alcune personalità di rilievo sensibili alle tematiche della finalità rieducativa della detenzione e del rapporto uomo-cane: Giuseppe Ferraro - Docente di Filosofia Morale presso l’Università di Napoli; Lino Cavedon - psicologo, esperto in Attività Assistite dagli Animali (Pet Therapy); Luca Spennacchio - educatore cinofilo, esperto in zoo-antropologia; Fabio Prestopino - Direttore della Casa Circondariale Don Bosco di Pisa; Alessandra Truscello - Funzionario Giuridico Pedagogico presso la Casa Circondariale Don Bosco di Pisa; Carlo Alberto Mazzerbo - direttore della Casa Circondariale di Massa Marittima. Crediamo che questo sia un evento culturalmente ed emotivamente molto importante, sia per i detenuti che per gli operatori che in questi anni hanno creduto in tale progetto, perciò ci farebbe molto piacere diffondere l’evento e permettere la partecipazione a tutti coloro che sono sensibili e interessati all’argomento. Per qualsiasi ulteriore richiesta potete contattarci all’indirizzo email info@doremiao.it o telefonicamente al numero 3803289556. Emilia-Romagna: un detenuto su due è straniero “colpa delle leggi sulla droga” di Marcello Radighieri La Repubblica, 30 dicembre 2015 I dati del Ministero della Giustizia: media superiore a quella italiana. L’associazione Antigone: “Soprattutto giovani in attesa di giudizio”. Quasi un detenuto su due. In Emilia-Romagna gli stranieri dietro le sbarre sono tanti. Per essere precisi, e guardando ai dati disponibili sul sito del Ministero della Giustizia, aggiornati al 30 novembre, ben 1.326, il 46% della popolazione carceraria regionale. Un dato ancora molto distante dalla media nazionale, che si attesta sul 33%. E che è frutto, secondo Patrizio Gonnella dell’associazione Antigone, di leggi come la Fini-Giovanardi: tre reclusi per reati di droga su quattro, ad esempio, sono di origine straniera. Differenze nord-sud. A ben guardare, è una situazione comune a tutto il nord. Lombardia e Piemonte, per esempio, hanno praticamente le stesse percentuali di stranieri sulla popolazione carceraria totale. Veneto e Liguria, invece, sono rimaste a livelli più alti, e tutt’ora si aggirano sul 53-54%. Il Friuli si avvicina invece al dato italiano (34%), mentre in Trentino si raggiunge il record del 68%. Dati che secondo Gonnella sarebbero da imputare al fatto che “nelle regioni meridionali c’è più criminalità autoctona” e alla maggiore incidenza di stranieri al nord. Ma i numeri sono in calo. Si tratta, in ogni caso, di percentuali che si ridimensionano di anno in anno. Ancora nel 2013, secondo un rapporto realizzato dall’Istituto Cattaneo e pubblicato pochi giorni fa dalla Città Metropolitana, in Emilia-Romagna i detenuti stranieri sfioravano quota 2mila: il 53% del totale. E a Bologna non erano italiani sei persone su dieci, mentre ora la percentuale si aggira sul 50%. Stiamo quindi parlando di una contrazione importante, che conferma un trend avviato già da qualche anno (proprio il dato 2013 fa eccezione in questo senso). E che deriva, in gran parte, dagli interventi normativi introdotti a livello nazionale dopo le condanne impartite dall’Europa a causa del sovraffollamento carcerario. “Colpa della Fini-Giovanardi”. Interventi che, come spiega Gonnella, da un lato hanno portato ad un minore ricorso alla custodia cautelare e, dall’altro, hanno incentivato un uso maggiore di misure alternativi alla detenzione. “Gli stranieri hanno beneficiato particolarmente di quest’ultimo aspetto, dato che mediamente sono colpiti da pene più brevi”. Secondo il ritratto tracciato da Gonnella, infatti, l’immigrato tipo recluso nelle carceri italiane è “sostanzialmente giovane”, frequentemente “dentro in attesa di giudizio” o comunque condannato per “reati di lieve entità”. Soprattutto prostituzione e droghe. Tanto che, afferma, Gonnella, quasi tre detenuti per reati di droga su quattro sono stranieri. “Se noi intervenissimo sulla legge Fini-Giovanardi diminuirebbe drasticamente la percentuale di detenuti stranieri”. Campania: chiude oggi l’Opg di Secondigliano, ritardi nelle altre Regioni di Lara Sirignano Ansa, 30 dicembre 2015 La legge è del 2012 e segna una rivoluzione nel trattamento penitenziario dei detenuti affetti da malattia di mente, prevedendo la chiusura dei vecchi ospedali giudiziari e la loro sostituzione con le Rems, residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria. A distanza di quasi quattro anni dalla svolta legislativa, di fatto, però, gli Opg italiani hanno continuano a “ospitare” carcerati perché le Regioni, che avrebbero dovuto realizzare i nuovi centri, sono in ritardo coi tempi. Dopo lungaggini burocratiche e resistenze politiche, le cose stanno per sbloccarsi e oggi chiude i battenti definitivamente il primo ospedale psichiatrico giudiziario italiano, quello di Secondigliano, in Campania. Gli ultimi detenuti ricoverati verranno trasferiti nell’ultima residenza sanitaria costruita dalla Regione, a San Nicola di Baronia. Gli enti locali hanno ricevuto circa 50 milioni di euro per edificare ed organizzare i nuovi centri che, per legge, non possono ospitare più di 20 persone. In Italia al momento ce ne sono 22, un numero insufficiente ad assorbire i 689 detenuti con problemi psichici ospiti degli opg alla data dell’uno aprile di quest’anno, giorno in cui formalmente i cosiddetti manicomi giudiziari hanno smesso di esistere non potendo più accogliere nuove persone e gli eventuali nuovi condannati o destinatari di misure cautelati. I detenuti ricollocati nelle Rems sono circa 455, restano ancora ricoverate negli opg, in attesa del completamento dei centri, 167 persone. Tra le Regioni “virtuose”, seppure in ritardo rispetto alla legge, prime a dotarsi di Rems in Italia, l’Emilia Romagna, la Sicilia e il Lazio. Fanalino di coda il Veneto, che è stato commissariato per la realizzazione dei programmi di attuazione della legge. E ora diffidato a costruire le strutture, pena il peso dei costi sulle casse dell’ente locale. “Siamo davanti a una svolta anche culturale - dice Roberto Piscitello, magistrato e direttore generale dei detenuti e del trattamento del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - perché gli internati con problemi mentali saranno trattati soltanto da un punto di vista sanitario e non penitenziario. Ci troviamo davanti all’abbandono del concetto di custodia tradizionale, tanto che le strutture sono di diretto controllo del Servizio Sanitario Nazionale e non del Dap”. In ambienti giudiziari si vedono, invece, più le ombre che le luci di una riforma che, dicono alcuni magistrati, “non ha tenuto conto della realtà”. “Ora ci troviamo a dover gestire anche casi di detenuti ritenuti pericolosi - spiegano - che non possiamo mandare in carcere e neppure nelle Rems perché sono sature”. Abruzzo: chiusura degli Opg, Regione a un passo dal commissariamento primadanoi.it, 30 dicembre 2015 Mentre nei giorni scorsi anche gli ultimi internati dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Secondigliano sono stati trasferiti alla Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems) allestita dalla Regione Campania, l’Abruzzo, ancora inadempiente, è a un passo dal commissariamento. La denuncia arriva dal presidente regionale dell’associazione Antigone, Salvatore Braghini che ha anche presentato tale situazione alla V Commissione del Consiglio regionale alla presenza del presidente Mario Olivieri. “La Regione Abruzzo - spiega l’associazione Antigone, che porta avanti insieme al comitato regionale StopOPG la battaglia per risolvere il problema - è stata diffidata dal Ministero della Salute quale atto preliminare al commissariamento, perché non ha ancora provveduto alla rimodulazione del programma per il superamento degli OPG (continuando a mantenere attiva la delibera di istituzione della Sicurezza a Ripa Teatina), e non si è dotata dell’Organismo di monitoraggio sul superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, anche per avere finalmente dati ufficiali sul numero di persone abruzzesi e molisane con la misura di sicurezza dell’internamento e che verrebbero ospitate nella Rems”. Il presidente regionale di Antigone ha esposto in audizione le molteplici problematiche di ordine sanitario nelle carceri abruzzesi: carenza di personale, insufficienza di apparecchiature elettromedicali, un elevato numero di ricoveri in ospedale con oneri per l’amministrazione in termini di personale di scorta, mezzi e sicurezza (come dimostrato dalla recente evasione dal carcere di Pescara). Per Antigone si potrebbe ovviare a molti problemi attraverso la dotazione di apparecchiature informatiche adeguate (moderni ecografi e apparecchi radiografici, almeno nei grandi istituti come Sulmona) e mediante il ricorso alla telemedicina. L’avvocato Braghini ha posto anche il problema della mancata messa a norma dei locali, dal momento che l’amministrazione sta predisponendo ancora gli elaborati tecnici ma diversi locali non sono a norma. In alcuni Istituti andrebbe potenziato il servizio infermieristico (è il caso di Teramo, Sulmona e L’Aquila) per problemi connessi alla distribuzione della terapia, che avviene in sezione a causa dell’ingente numero di visite mediche e specialistiche richiedenti la presenza dell’infermiere. Un problema comune a tutti gli Istituti è legato, inoltre, alle protesi dentarie: queste non rientrano nei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) e pertanto sono precluse alla quasi totalità della popolazione carceraria, tanto che i detenuti vanno avanti ad anti infiammatori o antibiotici ed a diete forzate, con ulteriori problemi per la salute. “La Regione - chiede Antigone - dovrebbe stanziare dei fondi appositi in modo che ogni ASL possa provvedere almeno a un numero di 10 protesi annuali nei grandi/medi Istituti (Sulmona, Teramo, Pescara, Lanciano) e almeno 5 negli altri”. Inoltre, risulta insufficiente l’assistenza psichiatra: “atteso il forte disagio correlato alla detenzione, mentre per i detenuti disabili non vi sono strutture adeguate. Anche questo spiega il perché dei numerosi scioperi della fame, atti di autolesionismo, forme di protesta, violenze e aggressioni tra detenuti e verso la polizia penitenziaria e finanche i suicidi”. Napoli: Barone (Antigone); a Poggioreale abbiamo (ancora) un problema di trasparenza di Gaia Bozza fanpage.it, 30 dicembre 2015 Quanti sono i detenuti problematici, sieropositivi o tossicodipendenti e come vengono assistiti nel carcere di Poggioreale? Esistono dei dati “trasparenti” sui reclusi? In un’intervista a Fanpage, Mario Barone, presidente dell’Associazione Antigone Campania, parla delle ombre che ancora esistono nella casa circondariale napoletana. Nel carcere di Poggioreale ci sono stati dei miglioramenti. Antonio Fullone, nuovo direttore della casa circondariale napoletana al centro degli scandali negli anni scorsi (per sovraffolamento e sistematici pestaggi, sui quali è in corso un’inchiesta), sta provando a imprimere un nuovo corso. Il numero dei detenuti, anche grazie ai provvedimenti di legge adottati l’anno scorso, è sceso sensibilmente. Ma tra i problemi, ce n’è ancora uno importante: la trasparenza. Soprattutto nella sanità penitenziaria; soprattutto in relazione ai detenuti tossicodipendenti che sono in trattamento con gli psicofarmaci. Detenuti problematici, spesso, o che si trovano dietro le sbarre per problemi legati all’uso di droga e quindi nemmeno dovrebbero trovarsi lì, in uno Stato normale. Quanti sono questi detenuti? Cosa e in quali quantità viene loro somministrato? Quanti hanno anche patologie psichiatriche? E quanti di essi sono sieropositivi o hanno l’Aids (e in questo caso, in carcere non potrebbero proprio starci)? Quanti medici e infermieri ci sono che possano assistere queste persone? Tutte domande, poste da Antigone Campania durante la visita ispettiva di una settimana fa; domande che non hanno trovato risposta. Fanpage.it ne parla con Mario Barone, presidente dell’associazione in Campania e membro dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione in Italia. Come si è svolta la visita presso il carcere di Poggioreale? “La visita si è svolta in un clima di grande collaborazione con il personale dell’amministrazione penitenziaria: da quando Antigone venne - nel Marzo 2014 - ascoltata in formale audizione dalla Commissione Libertà civili del Parlamento europeo proprio sul problema Poggioreale, abbiamo registrato crescenti aperture nei nostri confronti”. Qual era lo scopo della visita? “Visitiamo Poggioreale almeno una volta l’anno per verificare, dall’interno, i miglioramenti del carcere che si era guadagnato la fama di essere il peggiore d’Europa. Nel corso della visita, ci siamo concentrati, in particolare, sul reparto Venezia contente i detenuti c.d. protetti e sul “Torino”, quest’ultimo in corso di ristrutturazione: è stato motivo di soddisfazione vedere operai al lavoro che mettevano in pratica le critiche all’edilizia penitenziaria da noi sollevate negli ultimi anni”. Quali sono state le criticità riscontrate? “Poggioreale ha problemi di spazi: i cortili per i passeggi non sono adeguati sia per le ridotte dimensioni per il loro stato fatiscente, all’interno gli spazi di socialità sono inesistenti. Passando dal piano strutturale a quello relativo ai diritti, Antigone ha serissimi problemi a ricostruire gli standard di tutela della salute dei detenuti con problemi di dipendenza”. Per quale motivo non ci sono dati consultabili sulla somministrazione di psicofarmaci e sulla popolazione detenuta con problemi di droga? “Facciamo un passo indietro: prima del Marzo del 2014, non accedevamo ai dati relativi alla salute dei detenuti: con l’insediamo del dott. Di Benedetto, quale Direttore Sanitario di Poggioreale, abbiamo incominciato ad avere un quadro chiaro della tutela della salute in Istituto. Quanto agli psicofarmaci, Antigone ha di recente avviato un percorso collaborativo con il competente D.s.m. che - sono certo - darà presto i suoi frutti; sui problemi di droga, devo constatare che il Dipartimento farmacodipendenze dell’Asl Napoli 1 è rimasto silente alle nostre richieste”. Quali conseguenze porta questa difficoltà a reperire dati? “Non conosciamo a Poggioreale quanti detenuti sono classificabili come “dipendenti”, quanti dipendenti sono portatori di Hiv, quanti sono portatori di patologie psichiatriche; il deficit di conoscenza riguarda anche la tipologia di sostanze riscontrate nei detenuti e il tipo di trattamento ad essi riservato; del resto, sarebbe interessante conoscere quanti medici e infermieri sono a disposizione del Servizio. La conseguenza è una sola: esiste un buco nero nelle nostre conoscenze di Poggioreale, ed è un grave vulnus per il controllo democratico delle carceri del Paese”. Esiste un problema di trasparenza, secondo lei? Perché ? “Esiste un problema di trasparenza: ci sono segmenti del mondo carcerario ancora permeati della vecchia cultura penitenziaria; a Poggioreale perfino la Polizia Penitenziaria - con la quale storicamente non siamo stati mai teneri - si mostra trasparente: evidentemente, ci sono segmenti della sanità penitenziaria bisognosi di “Glasnost”. Il tutto in un clima internazionale di ripensamento del rapporto tra droghe e politiche criminali: nel 2016 ci sarà Ungass e Barack Obama, negli Stati Uniti, ha lanciato un segnale preciso, concedendo la grazia a 95 detenuti per reati connessi alla droga”. Come si può risolvere questa situazione? “Una democrazia contiene, per fortuna, degli anticorpi: si chiamano interrogazioni consiliari e parlamentari”. Siracusa: muore detenuto straniero di 29 anni, avviso di garanzia per un medico di Gaetano Scariolo Giornale di Sicilia, 30 dicembre 2015 C’è un indagato nell’inchiesta per la morte dello scafista senegalese di 29 anni deceduto in una cella del carcere di contrada Cavadonna. Ieri è stata compiuta l’autopsia sul corpo senza vita del migrante ma al termine dell’esame non sarebbero stati riscontrati segni di violenza. Non si esclude, a questo punto, che possa essere rimasto vittima di un malore che lo ha condotto alla morte. La Procura intende, comunque, alzare il velo sugli ultimi istanti di vita del senegalese, a cominciare dal momento in cui si è sentito male fino ai soccorsi che, secondo alcune fonti investigative, gli sarebbero stati prestati da un medico della struttura penitenziaria. E su di lui, per il momento, si sarebbero focalizzate le attenzioni degli inquirenti che, però, attendono il completamento di altri esami prima di mettere la parola fine a questa vicenda. Infatti, sono previsti gli accertamenti istologici, che, secondo i magistrati, consentiranno di scavare a fondo nelle cause della morte del ventinovenne. Trani: detenuto morto in carcere, il medico condannato presenta appello traniviva.it, 30 dicembre 2015 Gregorio Durante si spense in cella la notte di Capodanno del 2011. Per il Gup del Tribunale di Trani non ci sono dubbi: Gregorio Durante, il detenuto leccese di 33 anni morto la notte di Capodanno tra il 2011 e il 2012, sarebbe stato ucciso da una intossicazione da Fenobarbital contenuto in un farmaco che assumeva per l’epilessia, “agevolata dalla contestuale presenza della polmonite” insorta nell’ultima settimana di vita. Lo dice la sentenza depositata nei mesi scorsi dal gup Luca Buonvino, che ha condannato a 4 mesi (pena sospesa) solo uno dei cinque medici finiti alla sbarra per concorso in omicidio colposo. Si tratta di Francesco Monterisi, il medico che coordinava l’équipe del carcere e che - sostiene la sentenza - “non poteva non essersi reso conto del progressivo deterioramento delle condizioni organiche” di Durante. È inoltre convinzione del gup che “l’omissione contestata abbia rappresentato un decisivo contributo causale all’evento e che il comportamento alternativo - rappresentato dalla richiesta di ricovero in ospedale, accompagnata da una chiara rappresentazione del quadro clinico - sarebbe stato possibile e, quanto ad efficacia, avrebbe impedito, con elevata probabilità logica, l’exitus in data 31 dicembre del paziente”. Da parte sua - sostiene ancora il gup Buonvino nella sentenza - “non vi fu abbandono del malato o plateale disinteresse nei confronti” del detenuto, “ma superficialità e colpevole inerzia sì”. Il caso di Durante venne paragonato dai familiari a quello di Stefano Cucchi. Eppure, dopo il deposito delle motivazioni della sentenza l’avvocato Carmine Di Paola, che difende Monterisi, ha presentato ricorso in Appello basandosi su un assunto sconvolgente: il detenuto simulava - spiega in sintesi nel ricorso - la sua condizione di malessere, finendo con il non mangiare al solo scopo di ottenere gli arresti domiciliari ed evitare la reclusione fino ad aprile 2015. Anzi il legale sostiene che non vi fu alcuna superficialità o colpevole inerzia da parte del medico nei confronti del detenuto che - scrive - “sino a tutto dicembre aveva dato plurime dimostrazioni di volere percorrere la strada della simulata malattia mentale per sottrarsi all’esecuzione della pena”. Per questo nulla si potrebbe imputare al dottor Monterisi e ai giudici d’Appello l’avvocato ha chiesto l’assoluzione del suo assistito o, in subordine, la non menzione della condanna nel certificato penale. Roma: Sappe; salvata la vita a detenuto colpito da attacco cardiocircolatorio Agenparl, 30 dicembre 2015 Se non fosse stato per il tempestivo intervento di un Assistente Capo di Polizia Penitenziaria, del medico e dell’infermiere di turno un detenuto del Nuovo Complesso del carcere di Roma Rebibbia avrebbe potuto morire per un attacco cardiocircolatorio. È accaduto la sera di Natale nel penitenziario romano e a dare la notizia è il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria SAPPE. “Si è trattato di momenti di estrema tensione, comunque gestiti al meglio dal medico e dall’infermiere di turno e dalla Polizia Penitenziaria che è costretta a lavorare in pessime condizioni operative”, denuncia il Segretario Generale del Sappe Donato Capece. “Hanno salvato la vita al detenuto, e a loro andrebbe il pubblico riconoscimento dell’opinione pubblica, che spesso ha sul carcere e su chi in esso lavora un pregiudizio negativo”. “La situazione nelle carceri resta allarmante: altro che emergenza superata!”, aggiunge il leader del Sappe. “Dal punto di vista sanitario è semplicemente terrificante: secondo recenti studi di settore è stato accertato che almeno una patologia è presente nel 60-80% dei detenuti. Questo significa che almeno due detenuti su tre sono malati. Tra le malattie più frequenti, proprio quelle infettive, che interessano il 48% dei presenti. A seguire i disturbi psichiatrici (32%), le malattie osteoarticolari (17%), quelle cardiovascolari (16%), problemi metabolici (11%) e dermatologici (10%). Altro che dichiarazioni tranquillizzanti, altro che situazione tornata alla normalità”. Conclude Capece: “La Polizia Penitenziaria continua a tenere botta alle emergenze penitenziarie. Ma è sotto gli occhi di tutti che servono urgenti provvedimenti per frenare la spirale di violenza che ogni giorno coinvolge, loro malgrado, appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria nelle carceri italiane e le costanti problematiche del settore”. Al via un progetto di educazione ambientale per i detenuti di Enna Giornale di Sicilia, 30 dicembre 2015 Realizzeranno divano con bottiglie plastica, arrederà la città. I detenuti della Casa Circondariale “Luigi Bodenza” di Enna realizzeranno un divano con bottiglie di plastica, che doneranno alla città e che sarà posizionato in piazza Bovio. L’iniziativa rientra nel progetto di educazione ambientale “Uso e riuso: per un ambiente pulito” che l’Ato Rifiuti Enna Euno sta conducendo nella provincia. L’obiettivo è quello di orientare le persone che vi sono rinchiuse all’acquisizione di conoscenze sulla questione dei rifiuti: come ridurre la loro produzione e mettere in atto abitudini e comportamenti corretti attraverso la pratica della raccolta differenziata. Oltre ai detenuti sono coinvolti, tra gli altri, la scuola - con alunni, insegnanti e genitori, cittadini nell’ottica di “progetto di comunità di cittadinanza attiva e buone pratiche”. Tra le iniziative nel carcere il riciclo creativo con il laboratorio “Scarta la carta” per la fabbricazione dalla carta straccia nuova carta per biglietti d’auguri, buste per regali o per rivestire scatole di cartone e trasformarle in ceste natalizie. L’Ato Enna Euno ha lasciato ai detenuti un vademecum su “Come realizzare un foglio di carta” e una compostiera che verrà posizionata nel giardino della Casa Circondariale ed utilizzata per produrre dagli scarti alimentari, compost utile per l’orticoltura, che presto verrà praticata dai detenuti. Salerno: artigianato e cultura per i detenuti del carcere di Vallo della Lucania di Marco Santangelo giornaledelcilento.it, 30 dicembre 2015 La crisi economica ha portato, in tutta Italia, alla chiusura di numerose strutture pubbliche. Tra queste anche le carceri. Ma, mentre il penitenziario di Sala Consilina è stato chiuso, la casa circondariale di Vallo della Lucania resiste senza difficoltà. Anzi, si differenzia per il progetto di attività intraprese al fine di riabilitare i detenuti. Arte, cultura e artigianato sono le iniziative svolte quotidianamente. Un programma confermato dalla direttrice del carcere, Maria Rosaria Casaburo. Da quest’anno è stato fatto edificare anche un forno per le pizze. A seguire, corsi per piazzaiolo e ristorazione. Inoltre, i carcerati, hanno lavorato per la ristrutturazione della chiesa, del cancello d’ingresso e dipinto le pareti. Corsi di disegno e di cucina. Come se non bastasse, ogni anno, i lavori di artigianato vengono presentati a Napoli in un’apposita mostra. Non mancano tra le iniziative le attività legate alla cultura letteraria, poetica e teatrale. Sessismo, Italia al palo di Davide Angelilli e Noemi Fuscà Il Manifesto, 30 dicembre 2015 Violenze sulle donne. Aumentano gli stupri. Più femminicidi al nord, meno al sud. Come si chiude quest’anno la lotta contro il femminicidio in Italia? Leggendo l’ultimo rapporto Istat sulla violenza contro le donne in Italia, sembra che il paese stia facendo passi in avanti per eliminare questa terribile piaga. Purtroppo, invece, la situazione è in realtà drammatica e non pare in miglioramento. Se per chi legge le cifre senza voler darne una lettura politica e sociale è possibile gioire, da una prospettiva politica e femminista la questione cambia radicalmente. È vero: negli ultimi cinque anni il numero di aggressioni è diminuito, specialmente per la categoria studentesse (forse perché il lavoro dei gruppi femministi nelle scuole e nelle università funziona), ma i dati ci raccontano anche altro. Se l’ultimo libro di Riccardo Iacona, “Utilizzatori Finali” (Chiarelettere, 2014) è un racconto crudo e amaro del sessismo dilagante nella società italiana, i dati dicono che il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni hanno subito violenza nella vita, che sia fisica, sessuale o psicologica. Sono poi in aumento le violenze più gravi, quelle che lasciano ferite, che fanno vivere nella totale paura: gli stupri. Per quanto riguarda il femminicidio, sempre secondo l’Istat, sono stati 152 circa nel 2014, i dati dicono che è in aumento al Nord e in diminuzione al Sud. Secondo il primo dirigente di Polizia, Maria Carla Bocchino, nel primo semestre del 2015 le violenze sono calate del 5%, mentre per quanto riguarda quelle culminate in omicidio, i recenti dati del Viminale parlano di 74 donne uccise, cinque in meno dei primi sei mesi dell’anno precedente. Sicuramente la crescente attenzione verso il problema in qualche modo ha mosso le donne, che hanno cominciato a reagire. Ma c’è ancora molto da fare, e le istituzioni non sembrano andare nella giusta direzione. Rispetto ai centri antiviolenza si apre un nuovo fronte di battaglia. La nuova Legge di Stabilità introduce a livello nazionale il Codice Rosa, anche se con un altro nome e con linee guida ancora da definire, ma intanto impone il modello a tutte le regioni. Fino ad ora utilizzato solo dalla regione Toscana a Grosseto, questo nuovo codice del triage crea un percorso a parte per chi ha subito violenza di genere. Si tratta di una collaborazione tra il Ministero della Salute, quello della Giustizia e quello degli Interni, una collaborazione istituzionale che dice di mettere in piedi una vera e propria Task Force antiviolenza. Attraverso il lavoro di personale medico, socio-sanitario e degli operatori delle forze dell’ordine, si dovranno identificare le vittime di violenza per avvisare direttamente gli uffici della Procura della Repubblica. Una volta accertata la violenza, quindi, la denuncia partirebbe anche senza il consenso della vittima. Il problema cruciale è che questa nuova forma di procedere non lascia spazio di decisione alle vittime, sminuendo invece l’importanza che siano proprio le donne le protagoniste principali per la costruzione di una soluzione. Ottimi segnali in questo senso arrivano dalle organizzazioni più avanzate a livello internazionale. Il nuovo paradigma del confederalismo democratico in Kurdistan mette al centro della trasformazione sociale l’emancipazione della donna. La redistribuzione del lavoro domestico, come la centralità delle combattenti nella guerriglia curda, sono manifestazioni del consolidamento di una nuova filosofia politica. Una tensione teorica in cerca di un paradigma postcapitalista, in cui entra anche la Jinealogia: una nuova scienza delle donne (in curdo, Jin significa donna), che smonti il concetto dell’homo oeconomicus (pilastro della razionalità economica occidentale) come attore dominante delle relazioni sociali. Girando il mappamondo, in America Latina, i movimenti sociali hanno già da tempo interiorizzato e riformulato i valori e le teorie del femminismo storico, facendo del continente un laboratorio a cielo aperto di esperienze comunitarie dove la donna ha rotto le catene del patriarcato. In Venezuela, poi, la Rivoluzione Bolivariana ha prodotto una Costituzione che, oltre ad utilizzare un linguaggio femminista, riconosce la centralità del lavoro domestico (generalmente svolto dalle donne) per il funzionamento sociale dell’economia. Assumendo, di conseguenza, la necessità di valorizzarlo come fonte di benessere sociale, nonostante sia escluso dalla sfera mercantile della produzione capitalista. Tornando al vecchio continente, per le strade di Madrid, lo scorso 7 settembre, una marcia di almeno duecentomila persone, con organizzazioni arrivate da tutto il paese, ha rivendicato la necessità di fare della lotta contro la violenza di genere una questione di Stato. Dai Paesi Baschi alla Catalogna, la rivendicazione femminista è sempre più centrale nei programmi delle sinistre indipendentiste. Anche il programma economico di Podemos propone una riforma del sistema di welfare chiaramente ispirata a una visione di economia femminista, per rompere l’attuale divisione sessuale del lavoro: che posiziona le donne al lavoro riproduttivo e gli uomini alle attività produttive. Merito dei movimenti sociali dello Stato spagnolo, capaci di costruire una narrazione femminista contro la violenza di genere, evidenziando in primo luogo le cause sociali ed economiche della subordinazione della donna, e quindi della violenza maschilista. La tragedia della pena di morte: disperato è pure il boia di Fulvio Scaglione Avvenire, 30 dicembre 2015 La pena di morte è una di quelle iatture che, non appena si comincia a darle per sconfitte, rispuntano, rialzano la testa, trovano inaspettati alleati. I numeri, tutti gli anni, dimostrano questa amara realtà. Nel 2015 sono stati “soltanto” 17 i Paesi ad applicare la pena capitale, mentre nel 2014 erano stati 22, come nel 2013. E in calo sono anche i Paesi che mantengono la condanna a morte nell’ordinamento giudiziario: 37 a fine giugno 2015, contro i 39 del 2013. Però le esecuzioni aumentano: 3.511 nel 2013 e 3.576 nel 2014, mentre nel 2015 erano già 2.229 nei primi sei mesi, secondo i dati di “Nessuno tocchi Caino”. Il fenomeno si spiega con lo spuntare, appunto, di nuovi Paesi disposti a servirsi della pena di morte e con l’accresciuta inclinazione di altri a servirsene senza vergogna. Nella prima categoria possiamo mettere Egitto e Nigeria, e basta nominarli per capire perché: Paesi investiti dalla turbolenza politica e dalla bufera del terrorismo, quello salafita e jihadista in Egitto e quello stragista anti-cristiano di Boko Haram in Nigeria, e chiaramente impreparati alla sfida. I risultati di decenni di ricerche mostrano che la pena capitale non funziona come deterrente alla criminalità, anzi: laddove è stata abolita, omicidi e reati di sangue tendono a diminuire. Ma questo importa poco a quei Governi che, prima ancora che a vincere la sfida della violenza, si preoccupano di fare la faccia feroce, di non essere considerati deboli o cedevoli. Il circolo dei Paesi che ammettono e praticano l’omicidio di Stato è sempre quello, da anni. La Cina, dove le esecuzioni si contano a migliaia, o meglio: si conterebbero se il loro numero non fosse un segreto di Stato. L’Iran, che nel 2014 ha “confessato” 289 esecuzioni. ma che secondo Amnesty International ne avrebbe praticate almeno il doppio, in pratica due al giorno. E poi Arabia Saudita, Iraq, Pakistan. Tra le democrazie liberali gli Usa (28 esecuzioni, in calo rispetto alle 35 del 2014 ma comunque più numerose che nella Corea del Nord), seguiti a distanza da altri due Paesi della stessa categoria: Giappone e Taiwan. Qui l’ambito è del tutto diverso, qui siamo alle prese con una questione culturale. È pur vero che tutti gli indicatori della pena di morte negli Usa sono in rapida discesa, dal numero degli Stati che l’ammettono a quelli che effettivamente la praticano, fino alle esecuzioni davvero portate a termine. Ma è altrettanto vero che nella folta schiera dei candidati a succedere a Barack Obama, solo uno, il democratico Martin O Malley, ha fatto dell’abolizione della pena di morte un cardine del suo programma, mentre un altro candidato dello stesso partito, Bernie Sanders, sostiene le stesse posizioni ma con meno ardore. Purtroppo il candidato democratico più forte e accreditato, Hillary Clinton, si è dichiarata favorevole a mantenerla, sostenendo a fine 2015 e di fronte a tutti gli americani, l’esatto contrario di quel che sosteneva nel 2000 quando correva per il seggio senatoriale della progressista New York. La questione sarebbe meno spinosa se non riguardasse la grande democrazia che stabilisce i trend culturali e politici che poi influenzano il mondo intero. Che succederebbe se gli Usa fossero abolizionisti e chiedessero ai loro amici e alleati di diventarlo? Forse Arabia Saudita e Pakistan, i due Paesi che stanno cercando in ogni modo di rimontare la classifica del maggior numero di esecuzioni, userebbero la pena di morte con più moderazione. È chiaro che sauditi e pachistani hanno preoccupazioni analoghe a quelle di egiziani e nigeriani: il terrorismo, la violenza, il settarismo… Ma in Arabia Saudita la gamma delle infrazioni alla legge islamica a cui può essere applicata la pena capitale è così vasta, ed è così spesso usata contro gli oppositori politici, che la scimitarra delle decapitazioni in piazza è ormai diventata uno strumento di controllo sociale. Il che non impedisce a una gamma ancor più vasta di politici occidentali di affacciarsi a Riad, stringere mani, dispensare sorrisi, firmare contratti e nemmeno fiatare su quel che avviene. E il Pakistan? La pena capitale è in vigore da un anno appena e già le cifre dei messi a morte diventano da record anche se, com’è ovvio, il Paese non ha intaccato alcuno dei suoi problemi, men che meno quello dell’islamismo rampante o delle province ribelli. Ennesima conferma che mettere a morte le persone, siano pure Caino, sa solo di disperazione. Anche quella del boia. Pena di morte. Pakistan e Arabia, ingiustizia è fatta di Loretta Bricchi Lee Avvenire, 30 dicembre 2015 La pena capitale sta lentamente perdendo consensi negli Stati Uniti, ma non si può dire lo stesso per altri Paesi, come Arabia Saudita e Pakistan, che, silenziosamente, stanno incrementando il ricorso alla pratica disumana. Cina e Iran sono gli esempi più lampanti di una violazione continua dei diritti umani. L’esatto numero di esecuzioni in Cina è ignoto, visto che Pechino lo considera un secreto di Stato, ma si parla di una media annua di 2.400 condannati, il triste record mondiale. Per contro, le esecuzioni della Repubblica islamica - che mette a morte anche donne e minorenni - rappresentano il livello più elevato pro-capite. Anche Teheran man- tiene il secreto sull’operato del boia, ma secondo Amnesty International si conterebbero almeno 694 esecuzioni nei primi sei mesi del 2015. L’America, essendo l’unica nazione dell’emisfero occidentale a procedere con le esecuzioni, è da sempre sotto i riflettori nell’ambito della discussione sulla necessità di eliminare la pena di morte. Ma le polemiche e l’indignazione che sempre più accompagnano gli “omicidi legalizzati” nel Paese sembrano aver dato risultati, tanto che il direttore del Centro d’informazione sulla pena di morte, Robert Dunham, ha sottolineato che “l’uso della pena di morte sta diventando progressivamente raro e isolato negli Stati Uniti”. Altrove, invece, le esecuzioni sono in netto aumento, e passano sotto silenzio. È il caso, si diceva, dell’Arabia Saudita e del Pakistan, Paesi dove quest’anno è stato messo a morte un numero record di condannati. Nell’ultraconservatore regno saudita - dove ieri è stato decapitato un filippino condannato per omicidio - sono saliti a 153 gli uccisi, quasi il doppio delle 87 condanne capitali eseguite nel 2014: il livello più alto dal 1995, quando le esecuzioni furono 192. L’incremento delle decapitazioni sarebbe dovuto a un’alta percentuale di condanne per droga. Ma punibili con la scimitarra sono anche l’adulterio, la stregoneria e l’apostasia. L’escalation in atto sarebbe legata però, secondo molti, a una lotta tra i poteri dello Stato. Giro di vite anche per il Pakistan che ha reintrodotto la pena di morte lo scorso dicembre in risposta al massacro di 130 studenti portato a termine dai talebani in una scuola a Peshawar. Negli ultimi 12 mesi, quindi, i controversi tribunali militari che comminano le condanne estreme hanno lavorato senza sosta, portando a 300 le esecuzioni: le ultime quattro ieri, con l’esecuzione di “quattro terroristi”. Numeri enormi. Anche se paragonati a quelli degli Stati Uniti, “osservati speciali” sul tema. In America, nel 2015, sono state portate davanti al boia 28 persone, contro il livello massimo di 98 registrato nel 1999. L’ultimo rapporto annuale del Centro d’informazione sulla pena di morte ha mostrato un netto declino di tutti gli indicatori: sette esecuzioni in meno delle 35 del 2014 e portate a termine da solo sei dei 31 Stati in cui la pena capitale è legale. Prevedibilmente, il più attivo nel ricorso al boia è stato il Texas, con 13 esecuzioni, ma anche qui la pratica solleva crescenti dubbi. In tutto il Paese, quest’anno, sono state emesse 49 sentenze di morte - contro le 315 del 1996 - e solo 3 in Texas. È vero che negli ultimi quattro anni ci sono stati problemi nella fornitura dei composti per l’iniezione letale - metodo più utilizzato dalla maggior parte delle amministrazioni che ancora impiegano il boia - a causa della pressione posta dalla Ue alle case farmaceutiche produttrici, concretizzando una sorta di moratoria sulla pena di morte, anche imposta dai giudici incerti sulla validità di protocolli alternativi. È altrettanto vero, però, che sta crescendo il numero (156 dal 1973) di chi viene esonerato dalla pena capitale grazie alle prove del Dna, e che la Corte Suprema americana sembra sempre più propendere per una moratoria. Droghe: Ungass, le richieste delle Ong al Governo di Grazia Zuffa (Forum Droghe) Il Manifesto, 30 dicembre 2015 Si avvicina l’appuntamento della Speciale Assemblea Generale Onu sulle Droghe (Ungass 2016), fissata a New York dal 19 al 21 aprile e si fa più serrato il confronto nella fase preparatoria. Come ha scritto Marco Perduca (Manifesto, 23 dicembre), la partita fra lo schieramento dei conservatori ultra proibizionisti e quello degli “aperturisti” è ancora aperta. Compito delle Ong è di intensificare la pressione nei confronti delle istituzioni nazionali, sapendo che negli equilibri mondiali la posizione dell’Europa delle mild policies (e dei singoli stati europei) è importante. In Italia, Forum Droghe si è mosso fin dal settembre scorso, inviando una lettera aperta al premier Renzi, sottoscritta da molte altre associazioni. Il dibattito del Cartello di Genova alla Conferenza di Milano del novembre scorso ci permette oggi di articolare meglio le richieste al governo italiano, confortati anche da importanti documenti appena pubblicati: in particolare, le raccomandazioni del “gruppo di Budapest”, un cartello di associazioni europee, rivolte alla Ue ( A call for Eu leadership on drug policy); e quelle della Swiss Federal Commission for Drug Issues (Position of the EKDF in connection with the Special Session of the Un General Assembly on Drug Issues), che fonda le sue indicazioni sugli sviluppi delle politiche svizzere e sui relativi risultati positivi. Rinnoviamo dunque l’appello al governo italiano perché non disattenda le aspettative di Ban Ki Moon per un dibattito “aperto e a largo spettro che affronti tutte le opzioni politiche”. È questo il taglio politico che permette una vera discontinuità con un passato di ideologie e vuoti rituali, oggi difeso a spada tratta dal fronte conservatore ultra proibizionista. L’aggettivo “aperto” allude anche a un diverso modo di affrontare la politica delle droghe, non più come questione separata, ma al contrario pienamente inserita e in coerenza con la mission generale delle Nazioni Unite: tesa all’affermazione dei diritti umani, alla difesa della salute, alla promozione del benessere socioeconomico dei popoli, alla riduzione delle ineguaglianze. In questo quadro, le politiche sulle droghe non possono avere come riferimento solo le Convenzioni sulle droghe narcotiche, bensì tutti gli altri documenti e trattati internazionali sui diritti umani, ad iniziare dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, dal Trattato Internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, al secondo protocollo al Trattato Internazionale sui diritti civili e politici, il cui art.1 propone l’abolizione della pena di morte. Allo stesso modo, la politica delle droghe non può far capo solo al Unodc (United Nations Office on Drugs and Crime), ma devono essere coinvolte a pieno titolo anche le agenzie che si occupano di salute e sviluppo (Oms, Unaids, Undp). Non c’è da stupirsi che il fronte “duro” sia così restio a parlare di droghe e diritti umani, essendo oggi perlopiù composto di paesi autoritari e con bassi standard di diritti civili, se non apertamente totalitari. Il fatto che oggi l’America di Obama non sia più alla guida dello schieramento conservatore è la novità che rende più limpido il terreno politico del confronto e dovrebbe spingere sia l’Europa che l’Italia a posizioni più chiare e coraggiose. Chiediamo anche che l’Italia porti l’esperienza fallimentare della legge fortemente punitiva del 2006 a sostegno di un riequilibrio di accento politico e di risorse dal penale al sociale, battendosi per la decriminalizzazione del consumo e per la promozione dei pilastri sociosanitari, in particolare della riduzione del danno. Le Ong sono da tempo in campo. Il Dipartimento Antidroga ha promesso un confronto col governo italiano. A quando? Isis, scoperta fatwa che “regola” i rapporti sessuali con le schiave di Marta Serafini Corriere della Sera, 30 dicembre 2015 In un documento pubblicato dalla Reuters il Califfato stabilisce che tipo di comportamento sessuale tenere con le donne e teorizza la possibilità di abusare di loro. Ma vieta l’aborto e il sesso anale. La fatwa numero 64 dello Stato Islamico porta la data del 29 gennaio 2015. Per oggetto, i “rapporti sessuali con le schiave”. Le pratiche permesse e i comportamenti da tenere. A rivelare il documento è la Reuters, che già il giorno di Natale aveva pubblicato la fatwa numero 68 che autorizza l’espianto di organi dei prigionieri apostati. I documenti sono stati recuperati dalle forze speciali americane in maggio, durante un raid nel quale è stato ucciso Abu Sayaff, leader di Isis, e catturata la moglie Umm Sayaff il cui compito era proprio di gestire le schiave. Il tema di questo nuovo documento sono le schiave, argomento di cui molto è stato scritto, sia dalle organizzazioni non governative che hanno raccolto le testimonianze di centinaia di donne, soprattutto appartenenti alla minoranza yazida, abusate in ogni modo dai miliziani. Violentate e costrette a ogni tipo di pratica molte hanno testimoniato come i carnefici tentassero di giustificare le loro pratiche con precetti di tipo religioso, tanto da portare analisti e osservatori a parlare di teologia dello stupro. Aborto e tipo di rapporti. La fatwa numero 64 inizia con una domanda, rivolta a un ipotetico giurista del Califfato e ha dunque lo scopo di trovare una risposta “ufficiale” che giustifichi il comportamento dei terroristi. “Alcuni fratelli hanno violato le regole nel trattare le schiave. Queste violazioni non sono permesse dalla Sharia, perché queste regole non sono aggiornate ai nostri tempi. Ci sono indicazioni in materia?”. Seguono 15 terribili punti (qui il testo tradotto in inglese) nei quali si scopre che: “Non è possibile per il padrone di una schiava avere rapporti sessuali con lei fino a che non ha avuto il ciclo ed è diventata pulita”. La possibilità di avere schiave e di poter abusare di queste donne viene dunque teorizzata. Ma con dei “limiti”. Al secondo e al terzo punto si legge come “Non è possibile far abortire una schiava che rimanga incinta e non è possibile aver rapporti con lei fino a quando non abbia dato alla luce il bambino”. E ancora: “Se il padrone possiede sia la figlia che la madre non può avere rapporti con entrambi ma solo con una di esse e poi non deve più toccare l’altra”. Stesso comportamento va tenuto con le sorelle. Infine la fatwa 64 informa che non è possibile avere “rapporti anali con le schiave” e “che bisogna essere compassionevoli con lei”. Le ipotesi sulla fatwa 64. Ovviamente, come fa notare Abdel Fattah Alawari, docente di teologia islamica all’Università di Al-Azhar una delle più antiche del Medio Oriente, tutti questi precetti non hanno assolutamente niente a che fare con l’Islam. “L’Islam impone la liberazione degli schiavi, non giustifica in alcun modo la schiavitù. La schiavitù era lo status quo quando è nato l’Islam. Giudaismo, Cristianità, greci, romani, persiani, la praticavano e prendevano le donne dei nemici come schiave sessuali. L’Islam ha lavorato per rimuovere questa pratica”, ha spiegato alla Reuters. Probabilmente il tentativo da parte dei vertici di Isis di dare una giustificazione religiosa ai comportamenti brutali dei miliziani, arriva dopo le critiche mosse dalle Nazioni Unite. Ma anche dopo lo sdegno degli ambienti più conservatori salafiti. Non sono pochi infatti i jihadisti che hanno criticato i filmati terribili che girano nel deep web e che mostrano stupri di gruppo anche su minorenni o la scelta di molti miliziani di scegliersi una bambina come schiava. Inoltre nei territori controllati dallo Stato Islamico si stanno diffondendo velocemente malattie di ogni tipo causate anche al passaggio delle schiave da un uomo all’altro e dalle pratiche sessuali violentissime. Per i vertici del Califfato potrebbe essersi reso necessario limitare queste pratiche non tanto per bontà d’animo, ma per evitare la diserzione, gli attacchi di altri gruppi jihadisti e la diffusione di malattie veneree di ogni tipo. Mauritania: polizia trova droga e armi nel carcere di Alak Nova, 30 dicembre 2015 Gli agenti di polizia giunti da Nouakchott per sedare la rivolta carceraria scoppiata ieri nel carcere di Alak, in Mauritania, hanno trovato nel centro di detenzione armi e droga. Il ritrovamento è avvenuto solo dopo aver sedato la ribellione andata avanti per due giorni. Gli agenti hanno placato la protesta con l’aiuto di idranti e gas lacrimogeni. Sei detenuti considerati alla guida della rivolta sono stati messi in stato di isolamento anche se resta alta la tensione nel carcere per possibili nuove iniziative di protesta dei detenuti Malawi: nomination ai Grammy per la band dei detenuti nel carcere di Zomba di Paolo M. Alfieri Avvenire, 30 dicembre 2015 Ai piedi dell’altopiano che domina la vallata di Zomba, c’è chi è riuscito a sfidare una realtà fatta di emarginazione e privazioni, immaginandosi un finale diverso. Da quel Malawi definito “il cuore caldo dell’Africa” - ma anche Paese più povero al mondo secondo Banca Mondiale - si alzano le voci di chi finora non è mai stato ascoltato. Voci soul, profonde come solo quelle di chi ha visto la propria dignità scalfita ma non annientata da condizioni di vita disumane. Prigione di Zomba: un complesso costruito per 340 detenuti e che oggi ne ospita 2.300. È da qui che arriva la rivelazione delle nomination ai “Grammy Awards” del 15 febbraio a Los Angeles. Perché nella sezione Best World Music Album, accanto ai ‘solitì Gilberto Gil e Angelique Kidjo, quest’anno ci sono loro, gli Zomba music project, una sessantina di detenuti, uomini e donne, che hanno affidato alla musica la loro voglia di rinascita. Celle sovraffollate, cibo insufficiente, una situazione igienica insostenibile: è la realtà delle carceri malawiane di cui eravamo stati recenti osservatori guidati dal missionario monfortano Piergiorgio Gamba. “Con il canto vado oltre queste mura, riesco ad essere ancora me stesso”, ci aveva confidato uno dei detenuti. È questa la scintilla intravista anche dal produttore americano Ian Brennan, che nel 2013 per dieci giorni ha registrato voci e suoni dei detenuti-musicisti di Zomba. Il risultato è I have no everything here (“Non ho tutto qui”). I brani sono 20, dominati da un’at- mosfera blues che si sprigiona non solo da chitarre e percussioni, ma anche da strumenti realizzati con materiale di scarto. Ne sono un esempio i secchi su cui suonano a mò di tamburo alcune detenute. La maggior parte dei detenuti sta scontando condanne all’ergastolo. C’è chi ha ucciso, chi ha rubato. Ma c’è anche chi è dietro le sbarre per accuse discutibili, come stregoneria o questioni legate all’omosessualità. I detenuti devono fare i turni per sdraiarsi sul pavimento di notte. E non di rado bisogna pagare, in soldi o in natura, per un’ora di sonno. C’è questa sofferenza, ma anche speranza, in un disco che vuole parlare al mondo del Malawi: pochi sono i cantanti che hanno finora superato i confini del Paese. La povertà dei mezzi a disposizione - quasi nessuno sa leggere uno spartito per mancanza di un conservatorio - e la carenza di energia elettrica sono tra le cause che impediscono lo sviluppo di una cultura musicale peraltro ricca a livello locale, con il canto e la danza momenti essenziali del quotidiano. Da tempo padre Gamba si batte in difesa dei detenuti. “Da oltre dieci anni in Parlamento giace una riforma che parla di due pasti al giorno e di diritti umani per i carcerati, condizioni che il governo non vuole considerare”, spiega il religioso. Qualcosa però è cambiato con il programma educativo promosso dai missionari monfortani in collaborazione con Prison Fellowship Malawi. “I detenuti più istruiti danno lezioni agli altri e il materiale scolastico arriva dalle donazioni: i risultati sono stati eccellenti - aggiunge padre Gamba -. Le canzoni che hanno ottenuto la nomination ai ‘Grammy’ raccontano i sogni e le preghiere di chi ha finito per accettare la condanna, la disperazione, ma anche la conquista di una dignità personale che nessuna prigione può rubare, un segnale di libertà che viene a poco a poco conquistata”. Non troppo lontano da Zomba, a Ntcheu, “un programma pilota ha consentito agli stessi detenuti di costruire una prigione nella quale vivere in maniera decorosa gli anni per riscattare la propria vita”, sottolinea il missionario. In questi due anni alcuni dei detenuti di Zomba sono stati rilasciati: i fondi raccolti grazie al disco hanno consentito loro di avere una difesa legale. Brennan si è detto schioccato per la nomination ai “Grammy”, soprattutto considerando che il mondo della musica è dominato dalle solite celebrities: “È un grande risultato”, ha ammesso. Nelle loro divise bianche, chitarre alla mano, gli artisti-detenuti sono andati oltre ogni aspettativa. Nessuno di loro il 15 febbraio sarà a Los Angeles. Ma quando per qualche secondo le loro note risuoneranno allo Staples Center, l’obiettivo sarà stato raggiunto.