Giustizia: subirono torture nel carcere di Asti, governo pronto a risarcire due detenuti di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 2 dicembre 2015 Dopo che la Corte europea dei diritti umani, lo scorso 23 novembre, aveva dichiarato ammissibile il ricorso di due detenuti sottoposti a torture nel carcere di Asti 11 anni fa, lo Stato italiano ha proposto una composizione amichevole di 45.000 euro per ciascuno dei due ricorrenti. Il 10 dicembre 2004 due detenuti vennero denudati, condotti in celle di isolamento prive di vetri nonostante il freddo intenso, senza materassi, lenzuola, coperte, lavandino, sedie, sgabello, razionandogli il cibo, impedendogli di dormire, insultandoli e sottoponendoli nei giorni successivi a percosse quotidiane anche per più volte al giorno con calci, pugni, schiaffi in tutto il corpo e giungendo, nel caso di uno dei due, a schiacciargli la testa con i piedi. La vicenda giudiziaria ebbe inizio a seguito di due intercettazioni del 19 febbraio 2005 nei confronti di alcuni operatori di polizia penitenziaria sottoposti a indagine per altri fatti. Si arrivò quindi al rinvio a giudizio degli indagati dopo oltre sei anni dai fatti, il 7 luglio 2011. Il 30 gennaio 2012 si arrivò alla sentenza di primo grado e la Corte di Cassazione chiuse processualmente il caso il 27 luglio dello stesso anno. Per nessuno dei responsabili si arrivò a condanna, in quanto non esistendo il reato di tortura, si procedette per reati di più lieve entità arrivando, nel caso di due, a prescrizione, mentre per altri due indagati l’assoluzione arrivò per motivi procedurali. Il giudice comunque mise nero su bianco che i fatti, pur qualificandosi come tortura ai sensi della Convenzione Onu contro la tortura, non potevano essere perseguiti come tali poiché in Italia non esiste una legge che riconosca il reato di tortura. Antigone si costituì parte civile nel procedimento collaborando con l’avvocata Simona Filippi, difensore civico dell’associazione, a predisporre i ricorsi alla Corte europea dei diritti umani. Alla stesura e alla presentazione degli stessi collaborò anche Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia. "Quella della Corte europea è una decisione di importanza enorme che riguarda la tortura in un carcere italiano. Il Governo ammette sostanzialmente le responsabilità e si rende disponibile a risarcire i due detenuti torturati ad Asti. Come aveva scritto a chiare lettere il giudice di Asti nella sentenza del 2012, si era trattato di un caso inequivocabile, e impunito, di tortura" ha dichiarato Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. Mentre per l’avvocata Filippi: "La decisione dello stato italiano di proporre una transazione è un dato positivo, in quanto rappresenta l’ammissione che nel carcere di Asti vennero commessi atti di tortura. Marchesi ha invitato ancora una volta "l’Italia a introdurre il reato di tortura nel codice penale, definendo la fattispecie in termini compatibili con la Convenzione Onu contro la tortura e la Convenzione europea dei diritti umani". Giustizia: perché gli avvocati penalisti incrociano le braccia fino a venerdì 4 dicembre di Monica Bruna targatocn.it, 2 dicembre 2015 "Chiediamo al Governo l’auspicata riforma del processo penale". Fino a venerdì 4 dicembre anche gli avvocati penalisti del Foro di Cuneo incroceranno le braccia. L’astensione dalle udienze è stata indetta a livello nazionale dalla dall’Unione delle Camere Penali Italiane con delibera dello scorso 3 novembre. Le motivazioni che hanno dettato tale forte segnale di protesta, finalizzato a proclamare in maniera inequivoca il disagio dell’intera avvocatura, sono di estremo rilievo e di forte attualità, ce le spiega l’avvocato Dora Bissoni, Presidente della Sezione distaccata di Cuneo Camera Penale Vittorio Chiusano di Torino: "Riteniamo necessario intervenire a fronte della paventata realizzazione di riforme, attualmente già in discussione in Parlamento, che implicano l’immotivata contrazione dei principi costituzionalmente garantiti che regolano il processo penale. Fra queste la paventata modifica dell’art. 146 bis att. c.p.p. che comporta l’indiscriminata dilatazione dell’utilizzo del cosiddetto "processo a distanza", per cui all’imputato detenuto è inibito di partecipare al proprio processo, se non tramite videoconferenza. Ne deriverebbe nel nome del risparmio, un’immotivata e grave contrazione dei principi che regolano un processo democratico, con drastiche conseguenze in ordine al pieno esercizio di difesa". I penalisti italiani si battono anche perché, continua l’avvocato Bissoni, "nel rispetto della Legge, si intervenga al fine di evitare la spettacolarizzazione dei processi e l’alimentazione dei circuiti mediatici che finiscono per consegnare all’opinione pubblica giudizi preconfezionati, attraverso l’esibizione e la gogna degli arrestati e la diffusione dei materiali di indagine, prima ed al di fuori di qualsivoglia controllo processuale" e richiedono a gran voce, che il Governo adotti l’auspicata riforma del processo penale "anche procedendo, seriamente, ad una razionale - e concreta - depenalizzazione, senza destituire di valore giuridico il sistema delle impugnazioni e l’istituto della prescrizione. Che, in realtà, si rivela uno dei pochi mezzi effettivi per controllare l’irragionevole e sproporzionata durata del processo che, negli anni, ha portato l’Italia ad essere tra gli stati più sanzionati a livello Europeo." Ma non solo. "È ormai indifferibile una seria e radicale riforma del CSM, e operare un profondo riassetto ordinamentale che preveda una separazione della carriera del giudice da quella dei magistrati requirenti quale inderogabile presupposto della sua Terzietà" e di razionalizzare e meglio dislocare le risorse "al fine di rimediare con urgenza alle situazioni di collasso degli Uffici Giudiziari nei quali la mancanza dei minimi supporti organizzativi e materiali finisce con il costituire un gravissimo danno nei confronti di tutti i cittadini ed un inammissibile vulnus allo stesso diritto di difesa ed alla dignità della funzione difensiva". Giustizia: l’Ucpi risponde alle dichiarazioni del Vicepresidente del Csm sull’astensione camerepenali.it, 2 dicembre 2015 Il recupero della credibilità del processo non dipende unicamente da una maggiore efficienza, ma anche e soprattutto dalla qualità della giurisdizione. Il Vicepresidente del Csm Legnini ha osservato che l’astensione degli avvocati penalisti non contribuirebbe alla credibilità del sistema giudiziario che invece verrebbe rafforzata dal dialogo costruttivo. Nel farlo ha richiamato l’impegno a rendere il processo più efficiente e innovativo per recuperarne la credibilità. Forse è sfuggito al Vicepresidente Legnini che il recupero della credibilità del sistema giustizia non riguarda solo l’efficienza, ma anche e soprattutto la qualità del processo ed è proprio alla base delle ragioni dell’astensione decisa dagli avvocati penalisti italiani. L’Ucpi, che non ha mai rinunciato al dialogo sulle riforme del processo penale, denuncia tuttavia come fortemente negative le riforme con cui si introducono nel nostro sistema penale leggi di stampo autoritario e in contrasto con principi e valori costituzionali indeclinabili quali contradditorio, immediatezza e diritto di difesa. È proprio reclamando il diritto a partecipare personalmente al processo, di fronte al giudice e accanto al proprio difensore, e contrastando il dilagare della legislazione emergenziale e più in generale il varo di norme che risultano contrarie ai principi di un processo democratico e liberale, che si contribuisce al recupero della credibilità del sistema giustizia. Analogo sforzo andrebbe operato anche attraverso una profonda riforma del Csm finalizzata a debellare finalmente le logiche correntizie che hanno sin qui guidato l’operato dell’organo di governo autonomo della magistratura. È anche su questa riforma che si gioca l’immagine della magistratura e di conseguenza la credibilità del sistema giudiziario italiano: vogliamo credere che il Vicepresidente del Csm si impegnerà a fondo per contribuire al cambiamento. Giustizia: bonus per il lavoro dei detenuti, nuove regole di compensazione al via di Matteo Ferraris Il Sole 24 Ore, 2 dicembre 2015 Il bonus consiste in un credito d’imposta. La norma che lo prevede è l’articolo 3 della Legge n. 193/2000 che agevola le imprese che assumono, per un periodo di tempo non inferiore a trenta giorni, lavoratori detenuti o internati. Sono agevolate anche le assunzioni dei detenuti ammessi al lavoro esterno (ex articolo 21 della legge 26 luglio 1975, n. 354), ovvero detenuti semiliberi provenienti dalla detenzione e lo svolgimento di attività formative. Secondo le indicazioni del decreto interministeriale n. 148 del 24 luglio 2014, il bonus è utilizzabile in compensazione (ex articolo 17, D.Lgs. n. 241/97) solo tramite F24 telematico, attraverso il canale telematico dell’agenzia delle Entrate, pena il rifiuto dell’operazione di versamento. Per l’effettiva operatività resta ancora da attendere il nuovo codice tributo ma residua ancora un po’ di tempo: le nuove disposizioni decorrono dal 1° gennaio 2016 e da tale data sarà soppresso il codice tributo 6741. Il nuovo provvedimento e il nuovo codice tributo si rendono necessari proprio per recepire le indicazioni fornite con il citato decreto del ministro della Giustizia, di concerto con il ministro dell’Economia e delle Finanze e del ministro del Lavoro e delle Politiche sociali. Tale regolamento ha adottato un’estensione della misura nel rispetto, però, di un limite di budget disposto dal ministero di Grazia e Giustizia. Il provvedimento in commento trae origine proprio dalle esigenze di verifica connesse all’utilizzo del bonus. L’agenzia delle Entrate opererà le seguenti verifiche: - verificherà ciascun modello F24 ricevuto, - controllerà l’entità dell’importo del credito d’imposta utilizzato, - accerterà la capienza rispetto al credito residuo (pari al bonus complessivamente assegnato al netto dell’agevolazione fruita e delle rettifiche eventualmente trasmesse dal ministero di Grazia e Giustizia). Nel caso in cui l’importo del credito utilizzato risulti superiore al beneficio residuo, il relativo modello F24 sarà scartato e i pagamenti ivi contenuti si considereranno non effettuati. Dalla formulazione adottata nel provvedimento sembra che lo scarto del modello dovrebbe essere integrale. Suggeriamo, pertanto, la trasmissione di un modello F24 interamente dedicato al recupero del bonus, così da limitare le conseguenze negative di eventuali scarti dettati dalla procedura di verifica. Al fine di consentire l’attività di verifica, entro il 31 dicembre di ogni anno il Dap del ministero di Grazia e Giustizia trasmette all’agenzia delle Entrate l’elenco delle imprese beneficiarie e l’importo del credito per l’anno successivo. L’elenco, però, potrà essere oggetto di variazioni (integrazioni o revoche), trasmesse sempre in forma telematica. La presenza di variazioni comporta effetti per il contribuente perché In tali casi il modello F24 potrà essere presentato telematicamente all’agenzia delle Entrate solo a partire dal terzo giorno lavorativo successivo a quello di comunicazione delle variazioni e delle revoche da parte del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria all’agenzia delle Entrate, che può avvenire entro 15 giorni dalla modifica effettiva. Da ultimo viene previsto un regime transitorio che dispone la compensabilità dei crediti d’imposta maturati fino al 31 dicembre 2015, non ancora interamente utilizzati in compensazione. Essi possono essere fruiti dalle imprese, a decorrere dal 1° gennaio 2016, secondo le nuove disposizioni. Giustizia: procura Ue, il rischio "guscio vuoto" di Andrea Orlando (Ministro della Giustizia) Il Sole 24 Ore, 2 dicembre 2015 Ancora una volta l’Europa rischia di perdere un’occasione. L’Italia questa volta non intende associarsi rassegnandosi alla routine. Prevale la logica, tanto più dopo i fatti di Parigi, di tornare a fare le cose "come una volta": ognuno con le proprie regole, ognuno solo con le proprie paure. Io credo che la risposta dovrebbe essere di segno opposto, quella dell’integrazione. Chi ha colpito Parigi voleva e vuole colpire l’Europa, ma il terrorismo non è più "quello di una volta". Si sviluppa in una dimensione sovranazionale e può essere colpito soltanto con strumenti di cui i singoli Stati, anche i più grandi e i più forti, non possono disporre. Nonostante resistenze e riserve, si profila un passo avanti nell’ambito della prevenzione grazie a progetti finalizzati a intensificare lo scambio di informazioni e la cooperazione tra le forze di polizia e di intelligence. Non altrettanto si può dire nel campo della giustizia penale. Eppure i trattati offrono la via da percorrere: all’articolo 86 prevedono la possibilità di istituire una Procura europea per indagare e portare a giudizio le frodi che danneggiano le finanze dell’Unione. Il bilancio dell’Ue è finanziato da tutti gli Stati membri e quasi il 93% torna ai cittadini europei sotto forma di erogazioni dirette o indirette (i "fondi" nei settori dello sviluppo, dell’agricoltura, della ricerca, della formazione ecc.). Oggi la repressione delle "frodi comunitarie" è affidata alle autorità giudiziarie e di polizia dei singoli Stati. Tuttavia, le differenze tra i sistemi nazionali fanno sì che troppo spesso tale azione di contrasto vari molto, per intensità ed efficacia, da uno Stato all’altro. Da qui l’idea di creare un organo che tuteli questo bene comune in modo uniforme su tutto il territorio comunitario. Un progetto ambizioso, frutto di un’idea di Europa che a noi piace perché in grado di produrre istituzioni più forti, capaci di conquistare la fiducia dei cittadini. È per questo che, da quando nel 2013 la Commissione europea ha presentato una proposta normativa concreta per l’istituzione del Pubblico Ministero Europeo, l’Italia è stata subito tra i più convinti sostenitori. Sia chiaro: non è facile mettere insieme i sistemi penali e le tradizioni di tanti Stati, spesso tra loro diversissimi. Né è facile, poi, armonizzare questo progetto con le strutture e le regole già esistenti, anche nel nostro Paese. Ma se il fine è creare un organo efficace nel reprimere le frodi, siamo convinti che il progetto meriti ogni sforzo per superare le differenze nazionali. Perciò al progetto "Procura europea antifrode" abbiamo dato un assoluto rilievo nel programma e nell’azione della nostra Presidenza di turno del Consiglio dell’Unione nel 2014, aspirando a coniugare la ricerca di un consenso ampio con la tutela dei capisaldi irrinunciabili di questo ambizioso dossier. Sin dall’inizio del negoziato, però, si sono delineate due differenti visioni: da un lato chi, come noi, in un’ottica di maggiore integrazione mira a creare un organismo forte, dotato di poteri di indagine efficaci da utilizzare in un quadro di regole e garanzie solido e il più possibile armonizzato; dall’altro, la maggioranza degli Stati membri, preoccupati di conservare al massimo le prerogative, le competenze e i sistemi nazionali. Così, abbiamo assistito al progressivo svuotamento di mezzi e fini rispetto non solo alla proposta iniziale, ma anche alle mediazioni nel frattempo intervenute, alle quali avevamo dato il nostro assenso in nome di un approccio realistico. Giustizia: Consulta, ancora una fumata nera di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 2 dicembre 2015 Giovanni Pitruzzella rinuncia alla candidatura alla Corte costituzionale. Nella fumata nera di ieri, la ventottesima, è stato l’unico della terna proposta da Pd, Fi, Ap, Sc a perdere voti (22) mentre gli altri due - Augusto Barbera (Pd) e Francesco Paolo Sisto (Fi) - hanno guadagnato qualche preferenza in più rispetto alla scorsa settimana, ma senza riuscire a sfondare il quorum dei 571 voti. Politicamente, un’altra débacle della cosiddetta maggioranza del Patto del Nazareno, alla quale sono mancati un’altra volta un centinaio di voti. E tuttavia, malgrado l’ennesima fumata nera, la terna sarebbe stata riproposta tale e quale - stando alle dichiarazioni di Guerini, Brunetta, Schifani subito dopo i risultati - anche al prossimo scrutinio - cioè oggi, visto che si è deciso di rivotare alle 19,00 - se l’attuale presidente dell’Antitrust non avesse deciso in serata di fare un passo indietro. "Prendo atto che non ci sono le condizioni di serenità e di contesto politico per affrontare una nuova verifica parlamentare" ha scritto in una nota Pitruzzella, ritirando la sua disponibilità. Tanto più che la prospettiva di votazioni a oltranza rischiava di bruciarlo ancora, quanto meno fino al 4 dicembre, quando il Gup di Catania dovrà decidere sull’indagine per corruzione giudiziaria nei suoi confronti. I 5 Stelle cantano vittoria. "Fuori uno. Se vogliono discutere con noi facciano in modo che Pitruzzella non sia l’unico nome a cambiare" ha scritto su Twitter Danilo Toninelli, freddando gli entusiasmi di chi pensava che bastasse vuotare una casella e offrirla a Franco Modugno, candidato dei pentastellati, per sbloccare la situazione. M5S continua infatti a chiedere un passo indietro su Barbera e Sisto - o almeno su uno dei due - troppo esposti sul fronte dell’Italicum e quindi troppo poco "terzi" per fare i giudici costituzionali. Ma per il Pd Barbera non si tocca. "Ormai siamo all’ultimo miglio" diceva ieri il vicesegretario Dem Lorenzo Guerini. "Barbera è una personalità di spessore indiscutibile" aggiungeva il presidente Matteo Orfini. "È la candidatura giusta per la Corte" rincarava la dose Luigi Zanda, capogruppo dei senatori democratici. Insomma, candidatura blindata. Un po’ meno quella di Sisto, anche se ieri ha fatto il maggior balzo in avanti (arrivando a 527 voti) e se continua ad avere il sostegno di Fi. La rinuncia di Pitruzzella lascia scoperto il fianco centrista e spiazza in particolare Ap perché al momento il partito di Angelino Alfano non ha un’altra candidatura da spendere. Salvo coltivare quella di Gaetano Piepoli che anche ieri ha raccolto i voti dei dissidenti di Per l’Italia-Centro democratico, arrivando a ben 82 preferenze. Ipotesi però improbabile. Fino a ieri sera, in casa Ap ci si interrogava se astenersi sui due candidati rimasti in gara per prendere tempo e valutare con il Pd una nuova terna o comunque un nuovo nome di area centrista. La partita è "politica" osservava Fabrizio Cicchitto (Ncd) sostenendo che "intorno alla Corte si gioca una partita non banale e non da poco né dettata da ragioni personali su questo o quel nome: la minoranza del Pd vuole a tutti i costi che ci sia una Corte in cui sicuramente Renzi non abbia la maggioranza, per tentare da lì di far saltare tutto, cioè legge elettorale e riforma costituzionale". Parole che indirettamente sembrano confermare la tesi sostenuta dai 5 Stelle - ma non solo - che il premier voglia garantirsi l’ingresso a palazzo della Consulta di tre persone favorevoli alle sue riforme. Di qui il braccio di ferro con i 5 Stelle e il niet a votare il loro candidato Franco Modugno (ieri in ascesa con 156 voti) nonché a prendere in considerazione (almeno fino a ieri) candidature alternative a Barbera altrettanto autorevoli - e per di più gradite anche a M5S - come quella del presidente dei costituzionalisti italiani Massimo Luciani. Cerca di sparigliare Sinistra italiana, presentando (su Twitter) quattro nomi nuovi "autorevoli" come Silvia Niccolai, Giuditta Brunelli, Federico Sorrentino e Mario Dogliani, per superare "l’irresponsabile" braccio di ferro della maggioranza, mentre la Lega continua a chiamarsi fuori da ogni accordo o confronto sia con il Pd che con Fi e sostiene di aver votato scheda bianca. Fino a poco prima del voto odierno sono previste riunioni di partito e incontri per creare un’alleanza ampia. I Dem vorrebbero recuperare i voti del Centro democratico andati a Piepoli. Ma non sembrano neanche decisi a impiccarsi al nome di Sisto se ciò dovesse essere di ostacolo a una fumata bianca. Il sottinteso è che se i 5 Stelle fossero disposti ad accettare almeno Barbera in cambio di Modugno, l’ex presidente della commissione Affari costituzionali potrebbe anche saltare. Dal quartier generale grillino non arrivano segnali espliciti di disponibilità, ma voci di corridoio dicono che la prospettiva di un’alternativa a Sisto (da Guzzetta alla Sandulli) potrebbe essere considerata dai pentastellati una buona ragione per votare Barbera (ovviamente insieme a Modugno). Giustizia: Consulta, tris di Renzi perde pezzi di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 2 dicembre 2015 Parlamento. Un’altra fumata nera per i giudici costituzionali. Si ritira Pitruzzella, Sisto traballa. Il Pd vuole insistere su Barbera. 5 Stelle sulla riva del fiume. Mattarella ancora non interviene. Un altro buco nell’acqua, un’altra decisione di insistere. Il Pd non riesce a eleggere Augusto Barbera come 13 giudice costituzionale. Manca da un anno e cinque mesi. I democratici si consolano con il fatto che in una settimana il costituzionalista renziano ha guadagnato nove voti, restando però 26 voti sotto la soglia minima per guadagnare la Consulta. Nascondono l’ennesima fumata nera parlandosi addosso: grande fiducia in Barbera, "il candidato giusto". Insisteranno con lui ancora stasera, quando le camere riunite faranno il 29esimo tentativo di ricomporre il plenum della Corte, alla quale mancano in tutto tre giudici. La terna che doveva sigillare l’accordo tra la maggioranza e Forza Italia, escludendo solo M5S e Sinistra italiana, ha però già perso un pezzo, il candidato dei centristi Giovanni Pitruzzella. Affondato da una vecchia inchiesta catanese non ancora chiusa, il presidente dell’Antitrust ieri è stato l’unico a scendere nel pallottoliere; ha perso 22 voti e si è ritirato. "Anche a tutela dell’Istituzione che presiedo", gli è sovvenuto. Saltata una tessera, ballano anche le altre del mosaico renziano. Balla Francesco Paolo Sisto, il candidato di Forza Italia che ieri ha raccolto 16 voti in più rispetto al debutto della settimana scorsa, ma che resta lontanissimo dai 571 voti necessari per essere eletto. Si aggrappa Barbera, al quale potrebbero essere andati anche i voti dei 28 parlamentari leghisti, che ufficialmente hanno votato scheda bianca. La voce di corridoio, riferita ieri dal Corriere, racconta di una trattativa per far eleggere dal Pd un componente del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa gradito ai leghisti. Trattativa smentita dal Carroccio, ma all’apertura delle urne si sono contate 25 schede bianche in meno rispetto all’ultimo scrutinio. Se Barbera ha guadagnato qualche voto leghista, vuol dire che ne ha persi altri nel Pd. In effetti il candidato del Movimento 5 Stelle Franco Modugno ha guadagnato 16 voti, e contemporaneamente il candidato dei centristi in dissenso dalla maggioranza, Gaetano Piepoli, è cresciuto di 26 voti. Al Pd, così, la prova di forza non è riuscita. Il richiamo alla disciplina di partito neanche, sterilizzato dal voto segreto. Sono calati i voti dispersi, ma sono diminuiti anche i parlamentari votanti. Nel silenzio del capo dello stato, che è intervenuto per richiamare le camere all’adempimento del loro dovere solo in un momento di stasi delle votazioni, sembra che un cambiamento di schema sia indispensabile per arrivare a una soluzione. L’addio di Pitruzzella può favorirlo, a meno che il Pd non pensi di sostituire un centrista con l’altro, imbarcando Piepoli. Una concessione sul campo che Renzi non è disponibile a fare per il prescelto grillino. "Non possono imporci il nostro candidato", ripetono dal Pd. Pur essendo Franco Monaco un costituzionalista stimato e assolutamente accettato dai democratici. I renziani hanno apprezzato il silenzio assoluto del professore sulle riforme del governo, Italicum compreso. L’intera partita è infatti leggibile alla luce delle prossime decisioni che dovrà prendere la Consulta, sulla legge elettorale e magari anche sulla legge di revisione costituzionale. Il governo non vuole rischiare sentenze negative. "Si va avanti con Barbera", ha promesso la voce ufficiale del gruppone democratico, prima ancora che fosse formalizzata la fumata nera. "Fuori uno, ma non basta", è stato invece il commento dei 5 Stelle fermi sulla riva del fiume. Il silenzio di Mattarella è un aiuto a Renzi e non potrà durare in eterno. Se Barbera dovesse logorarsi ancora si imporrebbe un cambio di candidatura. Per il momento è ancora stallo e Sinistra italiana, che fin qui non ha votato per il candidato dei grillini Modugno, ha provato a fare quattro (ottimi) nomi - Silvia Niccolai, Giuditta Brunelli, Federico Sorrentino, Mario Dogliani - nel tentativo assai difficile di trovare un varco. Giustizia: ora scegliamo con il sorteggio i tre giudici della Consulta di Michele Ainis Corriere della Sera, 2 dicembre 2015 T’indigni, t’intossichi, t’arrabbi. Ma poi rifletti. E allora ti ritorna alla mente una vicenda, sepolta fra le pagine della nostra storia costituzionale. Nel 1946 i siciliani ottennero, primi fra tutte le popolazioni regionali, il loro statuto. In quel testo c’era (c’è) il battesimo di un’Alta corte, con funzioni di tribunale costituzionale. E infatti l’Alta corte operò dal 1948 al 1955, macinando decine di sentenze. Nel 1956, però, la Consulta tenne la sua prima udienza pubblica. Un bel pasticcio: due organi gemelli, come se l’Italia avesse un doppio presidente. La soluzione? Semplice: nel frattempo l’Alta corte era rimasta orfana di tre giudici, il Parlamento non provvide mai a sostituirli. Sicché la prima fu cancellata in via di fatto, senza che nessuno si prendesse il disturbo d’abrogare i 7 articoli dello statuto siciliano che ne regolano il funzionamento. "A pensar male si fa peccato, ma spesso s’indovina" diceva Giulio Andreotti. Domanda: e se fosse questa la recondita intenzione dei killer acquattati in Parlamento, che impediscono d’eleggere i 3 giudici mancanti? Dopo un anno e mezzo, dopo 28 votazioni andate a vuoto, il sospetto è più che legittimo. Così, senza esporsi né contarsi, la politica si sbarazzerebbe d’un intralcio che annulla le leggi del governo, boccia i referendum dell’opposizione, s’azzarda perfino a riscrivere le norme elettorali. Delitto perfetto. E oltretutto consumato all’ombra del voto segreto: tutti colpevoli, nessun colpevole, come nei Dieci piccoli indiani di Agatha Christie. In questo caso, tuttavia, il delitto è già stato commesso. Perché l’impotenza di cui dà prova il Parlamento gli rovescia addosso un’onda di discredito, quando le nostre istituzioni avrebbero urgenza, viceversa, di recuperare credito da parte della cittadinanza. Perché quelle 28 giornate trascorse a scrutinare schede potevano spendersi in modo più proficuo, discutendo le norme che occorrono al Paese. Perché mentre là fuori rimbombano gli spari servirebbe unità tra le forze politiche, non disgregazione. Perché intanto questa giostra assassina fucila le persone, i candidati ufficiali con la loro storia, la loro reputazione. E perché infine ha già azzoppato la Consulta, amputandola della sua componente più "politica" (i 5 giudici d’estrazione parlamentare). Non è un dettaglio irrilevante: nella miscela dosata dai costituenti, a questi ultimi tocca il compito di riequilibrare le interpretazioni dei giudici togati. Difatti ogni Costituzione ospita regole politiche, a differenza del codice stradale. La via d’uscita? Non lo scioglimento delle Camere, come a suo tempo minacciò Cossiga: sarebbe un rimedio peggiore del male. Ma una situazione disperante reclama soluzioni disperate. L’articolo 135 della Costituzione stabilisce che la Consulta sia integrata con 16 cittadini estratti a sorte, quando giudica sulle accuse contro il capo dello Stato. Ecco, sorteggiateli i tre giudici mancanti. E non ne parliamo più. Giustizia: Rita Bernardini "chiudiamoli in conclave per eleggere i tre giudici" di Antonio Rapisarda Il Tempo, 2 dicembre 2015 "Non si rendono conto di quello che stanno combinando in un momento così difficile, anche dal punto di vista internazionale, in cui uno Stato dovrebbe dare prova di reggere sulle cose fondamentali. E invece sono sciagurati, se ne fregano". Rita Bernardini ha partecipato per sette giorni alla "staffetta" dei Radicali ancora in sciopero della fame per "proporre" ai parlamentari di completare le nomine alla Consulta con votazioni ad oltranza. Metodo che conferma davanti all’ennesimo nulla di fatto. Ancora una fumata nera per la Consulta. Numero ventotto. "È una vita che lottiamo per lo stato di diritto. Perché abbiamo una convinzione profonda: dove c’è strage di diritto c’è strage di popoli. Può sembrare eccessiva, però qui sicuramente non si sta rispettando ciò che è previsto dalla Costituzione; ed evidentemente i parlamentari non riescono a comprendere, e questo è ancora più preoccupante, che cosa significa non avere nel plenum un organismo importante come quello chiamato a giudicare la costituzionalità delle leggi". Cosa non comprendono? "Abituati alla logica partitocratica e spartitoria non riflettono su chi è importante inviare lì per competenze, capacità, esempio anche di una vita spesa nella salvaguardia dello stato di diritto. No, per loro sono posti, caselle da riempire, potere. E quindi si comportano, letteralmente, da sciagurati". Non è la prima volta che un’elezione dei membri della Corte risulta "complicata". "Mi ricordo che nel 2002 Pannella dovette fare uno sciopero della sete. Dovette rischiare la vita con questi imbambolati che ritenevano l’iniziativa di Pannella esagerata per i giudici della Corte costituzionale. Ed è così che uno Stato poi precipita nella barbarie anche dal punto di vista del rispetto dei diritti umani". Vi piacciono i nomi della terna proposti? "Ne avrei proposti altri. Quando eravamo in Parlamento, nella scorsa legislatura, mettemmo addirittura i curriculum perché volevamo che la discussione fosse aperta, che si discutesse sui nomi, non che si andasse semplicemente a votare a seguito di un sms ricevuto dal gruppo parlamentare. Mettemmo nell’urna, e fummo rimproverati per questo, i curriculum, tra gli altri, di Carlo Nordio, di personalità cioè di un certo spessore, che hanno dimostrato equilibrio nella loro attività accademico-professionale". Cosa proponete di fare? "Bisognerebbe laicizzare la discussione. Ad esempio, si fanno dei nomi e il Parlamento interroga i candidati per capire come questi intendano esercitare questo mandato. Laicizzare, poi, significa anche spiegare perché si sceglie un nome piuttosto che un altro. Oggi invece passa tutto sulla stampa, "quello vuole questo perché vicino a quello o a quell’altro partito"...". Chiedete che i parlamentari votino a oltranza. Anche per questo siete in sciopero della fame. "Non è una protesta è una proposta. Visto che non hanno senso della responsabilità bisogna trattarli come i bambini che disobbediscono. Elezioni a oltranza: lo hanno proposto anche il presidente della Repubblica e quelli di Camera e Senato. Li rinchiuderei là dentro fino a che non tirano fuori i nomi. Basta che li si minaccia che non faranno il week-end e vedrete che decideranno in fretta". Giustizia: Salvini (Lega) "terrorismo, le carceri in Italia sono una bomba a orologeria" La Presse, 2 dicembre 2015 "Le carceri in Italia sono una bomba a orologeria, alla faccia della prevenzione del terrorismo. Non voglio portare male, ma quando un agente controlla 200 persone, due terzi delle quali straniere, questi sono i dati di oggi a San Vittore, altro che prevenzione anti terrorismo". Lo ha detto il leader della Lega Nord Matteo Salvini, al termine di un incontro con le rappresentanze sindacali della polizia penitenziaria nella casa circondariale di San Vittore a Milano. "Se ci sono dieci detenuti che si alzano nella maniera sbagliata qui o in qualche altro carcere, finisce male", ha aggiunto il leader del Carroccio. "Per evitare che mi dicano ‘Salvini sciacallo, porti rogna, sei un gufò- ha aggiunto il segretario della Lega Nord -, segnalo che con un agente che controlla fino a 200 detenuti, la stragrande maggioranza dei quali stranieri, può succedere di tutto. Altro che prevenzione dell’Isis". "Se domani, Dio non voglia, a Milano piuttosto che a Lecce a Brescia o a Pavia qualcuno decide di fare la rivoluzione, noi possiamo arrenderci", ha aggiunto Salvini, che poi è tornato sugli annosi problemi che affliggono la polizia penitenziaria. "Gli agenti hanno a disposizione auto con oltre 300mila chilometri, si devono comperare le divise, dormono con il bagno in comune sul pianerottolo - ha sottolineato il leader del Carroccio. Che qualcuno faccia qualcosa prima che succeda qualcosa di grave". Per risollevare la situazione "bisogna assumere, ci sono meno di 40mila agenti, sono più i detenuti degli agenti, che bisogna retribuire" adeguatamente. Tra le priorità, per Salvini, anche quella di "cambiare i mezzi e le dotazioni, dare una gerarchia e un’unità di corpo e di comando alla polizia penitenziaria, che dipende direttamente dal ministero della Giustizia, e quindi non ha un capo". Giustizia: Istituti penali per minorenni, al Sud si punta sulla formazione professionale di Rossella Fallico Quotidiano di Sicilia, 2 dicembre 2015 Rapporto Antigone: nel 2015 in tutta Italia risultano detenuti 449 ragazzi, perlopiù maschi. Al Nord sono in buona parte stranieri. Nelle quattro strutture della Sicilia sono presenti 124 ragazzi, quasi la metà si trovano a Catania. Nel 2015 i ragazzi detenuti sono 449, ovvero 20 volte di meno che nel 1940, quando erano 8.521, nel 1975 erano 858. I dati attuali indicano un numero stabile negli ultimi quindici anni: in particolare le ragazze sono 39 e i maschi sono 410; gli stranieri detenuti sono 204, di cui 31 femmine e 173 maschi. Questo quanto emerge dal terzo rapporto dell’associazione Antigone "Ragazzi fuori", che ha analizzato gli istituti penali minorili italiani in collaborazione con l’Isfol. Un dato che emerge dal rapporto è la notevole disomogeneità della popolazione detenuta nelle diverse strutture penitenziarie. Negli istituti del Nord e del Centro ci sono pochissimi ragazzi italiani, spesso peraltro trasferiti dagli istituti del Sud. Al contrario negli II.PP.MM. del Sud e delle Isole si trovano pochissimi stranieri, anche questi spesso trasferiti dagli istituti sovraffollati del Nord. Quanto agli italiani, si tratta quasi sempre di ragazzi che provengono dalla stessa regione in cui si trova l’istituto: in Sicilia, dove di II.PP.MM. ce ne sono ben 4, ciascuno finisce per servire aree diverse della stessa regione. Le strutture dell’Isola si trovano a Palermo, Catania, Acireale e Caltanissetta. Ad Acireale al 17 marzo 2015 erano presenti 19 detenuti, di cui 3 stranieri (due del Gambia e uno dalla Romania) e 5 maggiorenni (solo uno di loro ha più di 21 anni); a Caltanissetta nel corso dell’anno 2014 (ultimo dato disponibile), nell’IPM sono entrati complessivamente 22 detenuti - di cui 18 di nazionalità italiana e 4 di nazionalità straniera (2 egiziani e 2 libici) - con una media di 12 presenze; a Catania i detenuti presenti al 16 marzo 2015 erano 50, tra di loro, 8 sono padri. I ragazzi stranieri erano 15; infine a Palermo al 16 settembre 2015, erano presenti in IPM 33 detenuti, di cui 21 definitivi e 12 in misura cautelare. Nel corso del 2015 si sono registrati 36 ingressi: 32 italiani (di cui 18 maggiorenni e 10 minori) e 4 stranieri (tutti minorenni). Essere detenuti in un carcere non sempre equivale ad isolarsi in toto culturalmente e socialmente dal resto del mondo. Nel Belpaese ci sono tre ragazzi che frequentano l’università: uno a Potenza fa Scienze agrarie, uno a Catania fa Scienze infermieristiche e uno frequenta il Politecnico di Torino. Sono 175 i minori che frequentano la scuola, in particolare 60 ragazzi frequentano quella superiore e 115 fanno le medie. Non mancano le iniziative extracurriculari, ovvero corsi di sport, di lettura e scrittura creativa, musica ed informatica. A Catania, e più in generale negli II.PP.MM. siciliani, molte attività sono organizzate da associazioni impegnate sul terreno del contrasto alle mafie. Sono moltissimi e vari in tutti gli II.PP.MM. i progetti di attività culturali promosse in collaborazione con diversi tipi di enti pubblici e privati presenti sul territorio. Altri i progetti che puntano soprattutto all’educazione civica: il "Progetto "Ora tu cuntu" a Palermo ha promosso un ciclo di incontri con scrittori siciliani con l’obiettivo di consentire ai giovani detenuti di approfondire la conoscenza della cultura ed in particolare della letterature siciliana; nel 2014 si è attivato in IPM di Caltanissetta, grazie alla disponibilità di un docente di musica, un laboratorio musicale che si svolge settimanalmente; a Catania è stato attivato un protocollo d’intesa con una biblioteca comunale che, oltre ad offrire il servizio di prestito libri, organizza un laboratorio di scrittura creativa. Al Sud c’è maggiore attenzione alla formazione professionale: per esempio a Nisida, in provincia di Napoli, si svolgono corsi per pizzaioli e corsi di panificazione; a Bari corsi di 600 ore per ebanista, cartapestaio e ceramista; a Catania corsi di 300 ore per informatici ed elettrotecnici, ma anche corsi di pasticceria siciliana, cucina e rosticceria siciliana. Al Nord invece i corsi svolti non sono riconosciuti e non danno diritti a nessun titolo professionale. Fa eccezione Milano, dove i ragazzi hanno la possibilità di frequentare corsi riconosciuti di formazione professionale anche all’esterno. Sono attivi 3 corsi di formazione professionale, tutti realizzati nell’ambito del Piano Straordinario per il lavoro in Sicilia - Opportunità Giovani: il corso per "Commis di cucina" o quello di "Espero in arti grafiche e computerizzate" gestiti dal Cesam di Palermo, il Corso per "Giardinaggio ed orticultura" gestito dall’associazione Euro di Palermo. Giustizia: precari in Procura, l’incredibile storia dei magistrati a partita Iva di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 2 dicembre 2015 I magistrati onorari in sciopero dal 7 all’11 dicembre. Magistrati. E precari. Un binomio inconcepibile per un potere dello Stato. Ma possibilissimo in Italia dove i magistrati onorari dei tribunali civili e penali sono precari. Come gli infermieri, i ricercatori, gli insegnanti, i fornitori di servizi, i borsisti, i part-time. Cottimisti a ore, a prestazione: tanto lavori, tanto guadagni. Ma puoi anche ricevere un’indennità fissa. I cottimisti della giustizia italiana sono praticamente tutti avvocati, possono essere pagati con una busta paga - come un dipendente - o lavorano con la partita Iva - come fanno i consulenti. Ricevono un’indennità di 73 euro netti al giorno, che può essere raddoppiata se il lavoro dura più di 5 ore. Si può arrivare a redditi da 1700 euro mensili senza nessuna tutela sociale, né diritto alla malattia o alle ferie. Per lavorare, bisogna pagarsi contributi e tasse, come se fossero partite Iva. Il lavoro di queste 3.600 donne e uomini rappresenta il 72% delle attività delle procure della Repubblica, il 100% delle udienze monocratiche. La giustizia italiana si regge su queste persone che lavorano a tempo pieno, ma non sono considerati lavoratori. Ufficiosamente sono impegnati a reggere le sorti della giustizia italiana, ufficialmente sono trattati da hobbisti della legge. "Si va in udienza anche per 12 ore - racconta Paola Bellone, vice procuratrice onoraria a Torino, autrice del libro inchiesta Precari (fuori) legge (Round Robin) e attivista del Movimento 6 Luglio - sbrighiamo anche 50 fascicoli al giorno, facciamo processi per stalking, omicidi colposi, infortuni sul lavoro, maltrattamenti in famiglia, spaccio, truffe, lesioni, rapine". Questioni fondamentali per il diritto, e la società, affidati a liberi professionisti che dovrebbero occuparsene in due o tre udienze a settimana. "Invece l’impegno è quotidiano" sostiene Bellone. E ci mancherebbe: fare il magistrato è una professione delicatissima. Oggi chi decide sulla vita delle persone è un precario, una "falsa partita iva" iscritta alla cassa nazionale forense che fattura a una Procura della Repubblica, come se fosse un’azienda. C’è anche chi fa il magistrato part-time. Quando smette la toga, prende quella da avvocato. Il governo Renzi ha preparato un disegno di legge che riforma la magistratura onoraria. Il Ddl aumenta le loro competenze, impone l’incompatibilità con altri lavori, dunque prevede un vincolo di esclusività, ma mantiene l’occasionalità. Nel salario si distingue la retribuzione in una quota fissa e una incentivante. E si prevede un incarico quadriennale rinnovabile tre volte. Insomma precari a vita, con o senza la partita Iva, che amministrano la giustizia. Anzi, permettono la sua esistenza. Visto che nell’orizzonte del governo tutto è logico, a queste norme discutibili se ne è aggiunta un’altra: nella legge di stabilità c’è un taglio di 14 milioni di euro per il prossimo biennio al fondo per le indennità. "È una decisione incomprensibile, per la stessa commissione giustizia senato dicendo che il muovo disegno di legge aumenta le loro competenze. Noi non chiediamo una stabilizzazione nella magistratura, ma di svolgere le nostre funzioni con le garanzie tipiche di tutti i lavoratori" sostiene Paola Bellone. Per questo ieri i magistrati hanno protestano in un sit-in al ministero della giustizia in via Arenula a Roma e dal 7 all’11 dicembre entreranno in sciopero. I tribunali andranno nel caos per cinque giorni. La prospettiva, per i professionisti atpici della giustizia, è lavorare gratis e pagarsi (con quali soldi) anche i loro diritti. La tenuità del fatto è riconosciuta anche per il concorso di reati di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 2 dicembre 2015 Corte di cassazione, sentenza 27 novembre 2015 n. 47039. Il reato permanente non impedisce l’applicazione della nuova causa di non punibilità per tenuità del fatto. E neppure il concorso formale di reati. Sono questi i due punti chiave della sentenza n. 47039 della Cassazione depositata il 27 novembre. In discussione c’era la realizzazione di un abuso edilizio per la costruzione di una tettoia su terreno di proprietà comunale. Il tribunale di Asti aveva concesso la tenuità del fatto e quindi stabilito di non dovere procedere nei confronti dell’imputato. Di fronte al ricorso da parte del pubblico ministero (giudicato fondato sotto altri aspetti, peraltro), la Cassazione chiarisce il perimetro di applicazione di alcune delle condizioni che impediscono di riconoscere il nuovo articolo 131 bis del Codice penale. Il Pm aveva da un parte messo in evidenza la natura permanente della violazione urbanistica, aspetto peraltro condiviso dalla Cassazione, dall’altra ne aveva tratto conclusioni sulle quali la Corte dimostra forti perplessità. Per l’accusa, infatti, la condotta permanente deve essere collocata nella nozione di abitualità del comportamento che impedisce il riconoscimento della tenuità del fatto. La sentenza però sottolinea che il reato permanente è caratterizzato non tanto dalla reiterazione della condotta, quanto piuttosto dalla durata nel tempo della stessa. A essere protratti sono così gli effetti di offesa al bene giuridico protetto, rendendo peraltro possibile che questo elemento possa essere oggetto di valutazione da parte dell’autorità giudiziaria nella decisione sul beneficio. Beneficio che sarà tanto più difficilmente rilevabile quanto più tardi è cessata la permanenza del comportamento. Il secondo passaggio riguarda il concorso formale tra reati. All’imputato era infatti stata contestata sia una violazione alla disciplina urbanistica sia una infrazione a quella paesaggistica, entrambe conseguenza della medesima condotta. Il concorso formale, nella lettura della Cassazione, è allora caratterizzato da un’unicità di azione od omissione ed è così impossibile collocarlo tra le ipotesi di "condotte plurime, abituali e reiterate" ricordate dal terzo comma dell’articolo 131 bis tra le cause che impediscono la concessione della non punibilità. Per quanto riguarda invece il concetto di "reati della stessa indole", anch’essa causa impeditiva al beneficio, la Cassazione mette in evidenza due possibili interpretazioni. Innanzitutto, "il fatto che la disposizione rivolga l’attenzione al soggetto che abbia "commesso più reati" consentirebbe di includere il concorso formale se si intendesse l’espressione come riferita al risultato della condotta". Cosa che invece andrebbe esclusa se il riferimento fosse all’unica azione od omissione che ha poi avuto come conseguenza la violazione di una pluralità di disposizioni. Ed è quest’ultima la soluzione preferita dalla Cassazione che ricorda come l’articolo 81 del Codice penale non appare riferibile a situazioni come quelle che il legislatore che ha introdotto la tenuità del fatto considera indice di quella abitualità che impedisce la dichiarazione di non luogo a procedere. Apologia di reato la propaganda Isis sul web di Silvia Marzialetti Il Sole 24 Ore, 2 dicembre 2015 Corte di cassazione, Prima sezione penale, sentenza 1° dicembre 2015 n. 47489. Un sito Internet liberamente accessibile ha una potenzialità diffusiva indefinita, tanto da poter essere equiparato alla stampa. È la motivazione con cui la prima sezione penale della Cassazione ha confermato l’aggravante di terrorismo nei confronti di un italo-marocchino, indagato a Torino per aver diffuso su due siti web privi di vincoli di accesso un documento di propaganda allo Stato islamico (sentenza 47489 del 1° dicembre 2015). Proprio per questa potenzialità diffusiva, la Cassazione aggiunge che tutti "i nuovi mezzi di manifestazione del pensiero" quali forum, blog, newsletter, newsgroup, mailing list e social network possono essere soggetti a sequestro preventivo, non godendo delle garanzie costituzionali previste per la stampa. Bocciando la tesi difensiva che puntava a dimostrare l’insussistenza della lesione all’interesse giuridico sulla base di un’accezione di Stato islamico territoriale ("territorio che si estende su parte della Siria e dell’Iraq"), differente da quella in vigore nel nostro ordinamento, in linea con numerose risoluzioni dell’Onu ("organizzazione terroristica internazionale"), la Cassazione rileva che "ai fini dell’affermazione della giurisprudenza italiana è sufficiente che nel territorio dello Stato si sia verificato l’evento o si sia compiuta, in tutto o in parte, l’azione, perché possa ritenersi estesa la potestà punitiva dello Stato a tutti i compartecipi e a tutta l’attività criminosa". Infondata - secondo i giudici - anche la tesi del ricorrente secondo cui il documento diffuso via web avrebbe sollecitato soltanto un’adesione "ideologica" dei potenziali lettori allo Stato islamico e non ai suoi metodi terroristici. Una posizione, quella della fattispecie ideologica, che la Cassazione respinge, facendo riferimento alla lingua utilizzata dall’indagato - l’italiano - e ai lettori cui il documento è indirizzato: un pubblico di soggetti radicati sul territorio nazionale. Rivelatore anche il passaggio del documento citato dai giudici, in cui si definisce "obbligatoria" l’adesione al Califfato sulla base di una corretta interpretazione religiosa. Segnali che, secondo la Cassazione, contrasterebbero con quanto sostenuto dalla tesi difensiva: e cioè la mancanza di un pericolo concreto. In merito al reato di associazione con finalità di terrorismo internazionale, Piazza Cavour ricorda infine che la giurisdizione italiana interviene anche "in caso di cellula operante in Italia per il perseguimento della finalità di terrorismo internazionale sulla base dell’attività di indottrinamento, reclutamento e addestramento al martirio di nuovi adepti, da inviare all’occorrenza nelle zone del teatro di guerra, e della raccolta di denaro destinato al sostegno economico dei combattenti del Jihad all’estero". Discrimine tra rapina e furto con strappo. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 2 dicembre 2015 Reati contro il patrimonio - Furto con strappo - Rapina propria - Presupposti per la configurabilità del delitto di rapina propria e discrimen con il delitto di furto con strappo. Deve ritenersi ricorrere il delitto di rapina propria in luogo di quello di furto con strappo quando l’azione violenta in origine esercitata sulla cosa, per la particolare adesione o connessione della cosa medesima al corpo del possessore e per la resistenza da questi opposta, si estenda necessariamente alla persona del soggetto passivo; sussiste, infatti, l’estremo della violenza alla persona sia che essa venga usata alla stessa direttamente, sia che, insistendo sulla cosa, essa si traduca in una violenza che investe comunque il soggetto passivo. • Tribunale Bari, sezione II, sentenza 20 gennaio 2015 n. 86. Reati contro il patrimonio - Sottrazione con strappo della borsa detenuta dalla persona offesa - Integrazione del reato di furto con strappo. La condotta delittuosa consistita nella sottrazione con strappo, in danno della persona offesa, della borsa nella disponibilità della stessa (nella specie contenente una modesta somma di denaro e le chiavi di casa) integra il delitto previsto e punito dall’articolo 624 bis, comma 2, c.p.. In circostanze siffatte deve, invero, dirsi realizzato l’impossessamento della borsa e del suo contenuto con sottrazione della stessa alla persona offesa, compiuta mediante strappo, così come previsto dalla richiamata norma codicistica. • Corte d’Appello Taranto, sentenza 4 giugno 2014 n. 647. Reati contro il patrimonio - Furto con strappo - Differenza tra rapina e furto con strappo - Diversa direzione della violenza - Violenza che può investire direttamente la persona che detiene la res ovvero essere esercitata esclusivamente sulla res - Ipotesi quest’ultima in cui si ravvisa il furto con strappo - Irrilevanza del fatto che dalla sua esecuzione ci sia una ripercussione sulla persona. La differenza tra rapina e furto con strappo è costituita dall’orientamento e dalla finalità della violenza impressa dall’autore del fatto. In particolare, si rileva come il criterio differenziale tra il delitto di rapina e quello di furto con strappo è costituito dalla diversa direzione della violenza che può investire direttamente la persona che detiene la res ovvero essere esercitata esclusivamente sulla res. In quest’ultimo caso si ha furto con strappo, anche se dalla sua esecuzione, a causa della relazione fisica fra persona e res può derivare qualche ripercussione, indiretta ed involontaria, sulla persona. • Tribunale Trento, sentenza 8 aprile 2014 n. 305. Reati contro il patrimonio - Rapina - delitto di rapina propria - Sussistenza dello stesso in luogo del reato di furto con strappo - Azione violenta in origine esercitata sulla res - Particolare adesione o connessione della res medesima al corpo del possessore - Resistenza del possessore - Violenza estesa alla persona del soggetto passivo - Sussistenza dell’estremo della violenza alla persona - Reato di furto con strappo - Configurabilità - Violenza immediatamente rivolta verso la res e solo in via del tutto indiretta verso la persona che la detiene - Reato di rapina - Res sottratta particolarmente aderente al corpo della possessore - Opposizione istintiva da parte di quest’ultimo - Finalità - Contrastare la sottrazione per vincere la resistenza -Superamento della forza di coesione relativa al normale contatto della res con la sua persona. Ricorre il delitto di rapina propria in luogo di quello di furto con strappo allorché l’azione violenta in origine esercitata sulla res, per la particolare adesione o connessione della res medesima al corpo del possessore e per la resistenza da questi opposta, si estenda necessariamente alla persona del soggetto passivo. Ed infatti, in tale ipotesi, sussiste l’estremo della violenza alla persona sia che essa venga usata alla stessa direttamente, sia che, insistendo sulla res, essa si traduca in una violenza che investe ad ogni modo la vittima. Il reato di furto con strappo è, invece, configurabile se la violenza è immediatamente rivolta verso la res e solo in via del tutto indiretta verso la persona che la detiene. Il reato di rapina, dunque, sussiste se la res sottratta è particolarmente aderente al corpo della possessore e questi, istintivamente, contrasta la sottrazione per vincere la resistenza o anche solo per superare la forza di coesione relativa al normale contatto della res con la sua persona. • Corte d’Appello Napoli, sezione VII, sentenza 2 ottobre 2013 n. 4262. Reati contro il patrimonio - Furto con strappo - Circostanze del reato - Accertamento della responsabilità penale - Ammissione dei fatti - Concessione delle circostanze attenuanti generiche. È imputabile per il reato p. e p. dall’articolo 624-bis il prevenuto che in concorso con il minore, si impossessava della collana in oro di un’altra persona, strappandogliela di dosso. Accertata la responsabilità penale del prevenuto per il fatto criminoso commesso in concorso con il minore, al fine di procurarsi un ingiusto profitto, deve ritenersi che la sostanziale ammissione di responsabilità del reo giustifichi la concessione delle circostanze attenuanti generiche che possono stimarsi equivalenti all’aggravante della recidiva contestata. • Tribunale Bari, sezione feriale penale, sentenza 7 agosto 2013 n. 2185. Reati contro il patrimonio - Rapina -Azione delittuosa - Violenza - Esercizio sulla cosa - Estensione al soggetto passivo - Violenza alla persona - Integrazione del delitto di rapina propria - Violenza esercitata sulla cosa e solo indirettamente alla persona - Configurabilità del delitto di furto con strappo. Deve ritenersi configurabile il delitto di rapina propria, e non anche quello di furto con strappo, ogni qualvolta l’azione violenta in origine esercitata sulla cosa, per la particolare adesione o connessione della cosa medesima al corpo del possessore e per la resistenza da questi opposta, si estenda necessariamente alla persona del soggetto passivo. In circostanze siffatte, invero, sussiste certamente l’estremo della violenza alla persona sia che essa venga usata alla stessa direttamente, sia che, insistendo sulla cosa, si traduca in una violenza che investe comunque il soggetto passivo. In tal senso, pertanto, il furto con strappo è configurabile nella sola ipotesi in cui la violenza è immediatamente rivolta verso la cosa e in via del tutto indiretta verso la persona che la detiene, mentre si ha rapina se la cosa sottratta è particolarmente aderente al corpo del possessore e questi, istintivamente, contrasta la sottrazione per vincere la resistenza, o anche solo per superare la forza di coesione relativa al normale contatto della cosa con la sua persona. Nel caso in esame, ove la vittima ha fornito una puntuale e precisa ricostruzione della dinamica dei fatti, spiegando che l’imputato, dopo averle tirato il vestito all’altezza della spalla sinistra, con violenza e forza, le strappava la borsa, facendola rovinare a terra, per poi darsi alla fuga, deve, pertanto, ritenersi integrato il delitto di rapina, poiché un movimento compiuto con tale forza e determinazione da spingere a terra la persona offesa, deve, comunque, ricondursi nella categoria concettuale degli atti violenti sulla persona e non sulla cosa. • Corte d’Appello Napoli, sezione VII, sentenza 3 agosto 2013, n. 3377. Nel 2013 l’assalto dei no-tav non fu terrorismo Il Sole 24 Ore, 2 dicembre 2015 Corte di cassazione, Prima sezione penale, sentenza 1° dicembre 2015 n. 47479 L’assalto al cantiere dell’Alta velocità di Chiomonte, per sabotare i lavori della linea ferroviaria Torino-Lione, fu un atto caratterizzato certamente da "pericolo", ma senza le caratteristiche del terrorismo vero e proprio dal momento che i no-tav, in base a quanto emerso dalle intercettazioni, non volevano colpire operai e forze dell’ordine; inoltre i danni materiali realizzati con questa azione furono "rilevanti" ma non "ingenti". Insomma si trattò di terrorismo più che altro "psicologico", scrive la Cassazione nelle motivazioni depositate ieri (sentenza n. 47479) e relative all’udienza dello scorso 16 luglio che aveva escluso la finalità di terrorismo e non di un’azione "seriamente capace" di far sentire lo Stato "effettivamente coartato" a rivedere le decisioni sulla Tav. La Cassazione ha così respinto il ricorso della Procura di Torino che aveva insistito nel chiedere la configurazione dell’accusa di terrorismo nei confronti di tre no-tav che parteciparono all’assalto di Chiomonte, insieme ad altre 17 persone, la notte tra il 13 e il 14 maggio del 2013, utilizzando razzi, petardi, bombe carta e bottiglie molotov che avevano incendiato un compressore al varco del tunnel dove gli operai stavano lavorando. La Corta ha valorizzato una conversazione intercettata nella quale uno degli imputati sosteneva che anche se erano riusciti a bruciare solo un mezzo del cantiere, l’azione aveva comunque avuto il suo senso "politico" perché "politicamente l’obiettivo era anche quello di non far male a nessuno". Lettere: no alla carcerazione preventiva dell’avvocato Trupiano di Domenico Letizia (Radicali) Roma, 2 dicembre 2015 Il partito Radicale, tramite i suoi singoli esponenti, continua incessantemente nella stesura di molti articoli e dossier sulle condizioni della giustizia, della tortura e delle carceri, non solo riguardanti l’Italia. In quanto esponente del partito, con un ruolo di impegno di "Nessuno tocchi Caino", che terrà il suo VI Congresso nel carcere di Opera a Milano, il 18 e 19 dicembre 2015, rendo noto che in ogni sit-in o in visite ispettive nelle strutture penitenziarie del casertano c’è qualche caso o qualche episodio irrispettoso della dignità umana e vergognoso per uno Stato che si definisce democratico e paladino dei diritti umani. Nella struttura penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere in piena estate, a mancare è stata l’acqua e i detenuti si sono visti costretti a trascorrere le loro giornate senza acqua e in stato costante di sovraffollamento. La battaglia dei radicali per la civiltà denuncia anche il caso di Francesco Mastrogiovanni, l’insegnante di Vallo della Lucania, morto nel salernitano in seguito al trattamento sanitario obbligatorio, un caso che ho seguito dall’inizio e che ha generato tutta una serie di interrogativi in Campania su quelle che sono le condizioni della giustizia e della sanità nel nostro paese. Anche il caso dell’avvocato penalista napoletano Vittorio Trupiano è emblematico. Trupiano era stato indagato per una questione di opinione (nonostante siamo in un sistema che si definisce democratico e costituzionalmente antifascista) avendo portato avanti la tesi di una parziale incostituzionalità dell’articolo 41 bis, riguardo cui aveva promosso la possibilità di un referendum; inoltre, la candidatura del legale a Marano di Napoli nel 2001 vide la sua Lista Trupiano erroneamente collegata in un patto elettorale con boss locali. Il caso di Trupiano è tornato alla ribalta perché nuovamente in detenzione preventiva. Il caso che è di nuovo in detenzione senza indizi evidenti, e per accuse che secondo quanto accertato da noi non hanno riscontri negli eventi fattuali, caso che farà ancora per molto parlare, e non solo a Napoli e in Campania, anche per la trascrizione non integrale delle intercettazioni che lo riguardano, costellate di ammissioni di omissis e di incomprensibilità. La detenzione preventiva dell’avvocato Trupiano è inaccettabile, a maggior ragione, dopo la sospensione temporanea dall’Ordine degli avvocati del 23 novembre 2015, sollecitata da mesi dallo stesso legale per il periodo dell’iter giudiziario, per dare prova dell’impossibilità di reiterazione del presunto reato di concorso esterno in associazione camorristica, rispetto al quale si ha fiducia che chiarirà in pieno la propria innocenza. L’impegno radicale continua su più fronti nell’andare alla radice delle situazioni vessatorie soprattutto nelle carceri, specchio di civiltà di una nazione. Molise: "Genitori in carcere", ok al Protocollo d’intesa tra Regione e Istituti penitenziari Quotidiano del Molise, 2 dicembre 2015 È stato firmato ieri mattina il Protocollo d’intesa tra Regione Molise e l’Amministrazione penitenziaria del carcere di Campobasso relativo al progetto "Genitori in carcere". Il progetto, finanziato con il Fondo Nazionale Famiglia 2014 e approvato con delibera n.101 del 9 marzo 2015, è il prodotto della collaborazione tra l’assessorato regionale alle Politiche Sociali e le Direzioni delle strutture penitenziarie di Campobasso e Larino e dell’Ufficio di Esecuzione penale esterna. "Spesso si è portati a credere che l’applicazione di una misura penale detentiva provochi pesanti conseguenze esclusivamente nella vita del soggetto destinatario del provvedimento - ha spiegato Giovanna Testa, referente del progetto per la casa circondariale di Campobasso - Si dimenticano, però, gli inevitabili gravi contraccolpi ricadenti sulle persone legate al detenuto da vincoli affettivi, specialmente dei figli, trasformandone completamente i rapporti e la vita quotidiana. Nel corso della detenzione, infatti, le relazioni tra genitori e figli subiscono alterazioni che immancabilmente interrompono il corso delle normali e spontanee relazioni affettive, che finiscono con l’essere assoggettate a vincoli, forme, modi e tempi imposti dall’esterno, diventando legami filtrati, o meglio istituzionalizzati. Ciò ha pesanti ricadute sulla condizione esistenziale dei soggetti reclusi, ma ancor più sull’esistenza dei loro figli, che sperimentano la forzata separazione dal genitore e l’impatto, diretto e indiretto, con il sistema penitenziario e i suoi meccanismi. I figli minori spesso hanno difficoltà a comprendere e ad accettare all’improvviso l’allontanamento del genitore da casa in seguito all’arresto, che in alcuni casi può avvenire anche con modalità non proprio adeguate. Ciò comporta l’insorgere di paure, ansie, senso di smarrimento, che possono compromettere anche in modo duraturo il rapporto con il genitore detenuto". È stato sottolineato nel corso dell’incontro come l’istituzione penitenziaria e tutte le altre istituzioni e forze territoriali dovrebbero incrementare i propri sforzi per promuovere il mantenimento delle relazioni affettive, favorendo in modo particolare l’accoglienza dei figli minori all’interno delle strutture penitenziarie, allo scopo di sostenere e valorizzare tutti i momenti di contatto tra il detenuto e i suoi cari. "Prevediamo l’utilizzo di nuove stanze per i bimbi da sfruttare nel momento in cui si svolgono i colloqui - ha dichiarato l’assessore regionale alle Politiche Sociali Michele Petraroia. Allo stesso tempo vogliamo aiutare i genitori sia nella fase in cui sono reclusi, sia quando tornano in libertà. Il progetto ha un budget di 40mila euro e perseguiamo l’obiettivo di una umanizzazione dell’istituto carcerario che deve avere lo scopo di rieducare ma anche quello di offrire una seconda opportunità. Tutti possono sbagliare nella vita e non bisogna accanirsi solo con la repressione. Proprio il legame con i figli può essere una leva per il detenuto genitore nel suo percorso di rieducazione e reinserimento della società. Ringrazio pubblicamente la direttrice del carcere Rosa La Ginestra, persona esperta e molto sensibile a queste tematiche". Il progetto, nello specifico, interviene su vari piani: affrontare situazioni in cui i rapporti familiari sono difficoltosi o pressoché inesistenti, con particolare riferimento ai detenuti di origine locale; preparare la famiglia al rientro nel contesto sociale di appartenenza; attivare una nuova sala colloqui; recuperare la sala colloqui, ora provvisoriamente in uso come spazio ludoteca; rivalutare, se necessario, le modalità e gli orari di effettuazione dei colloqui; migliorare uno spazio di area verde attrezzandolo con panche, tavoli e giochi per bambini; organizzare attività di gruppo di supporto alla genitorialità, condotte da esperti, per consentire ai detenuti-genitori di elaborare e meglio gestire i vissuti familiari; organizzare con cadenza regolare, almeno ogni due tre mesi, iniziative, spettacoli, manifestazioni e cui far partecipare anche i nuclei familiari. Brindisi: detenuto cardiopatico muore in carcere dopo un malore, disposta l’autopsia Corriere del Mezzogiorno, 2 dicembre 2015 La difesa aveva chiesto la sua scarcerazione per motivi di salute, ma a causa di un malore dalle cause ancora da accertare Giancarlo Secondo Rogoli, 59 enne di Erchie, è morto oggi nel carcere di Brindisi. L’uomo era detenuto in virtù di un’ordinanza di custodia cautelare eseguita lo scorso 16 novembre per spaccio, detenzione di un’arma e rapina. Dalle certificazioni presentate dai legali risultava che l’uomo soffrisse di problemi di cuore. Come per prassi il Tribunale ha quindi disposto una perizia medico legale per verificare la compatibilità delle condizioni di salute del 59enne con il regime carcerario concedendo un termine di 15 giorni che sarebbe scaduto domani. Il pm di Brindisi Raffaele Casto ha disposto l’autopsia per accertare le cause della morte. Il conferimento dell’incarico sarà conferito domani al medico legale Antonio Carusi. L’inchiesta avviata dal sostituto procuratore è al momento contro ignoti. I famigliari dell’uomo, potranno nominare un consulente di parte. La difesa di Rogoli, rappresentata dall’avvocato Giuseppe Sorio, aveva nel corso dell’interrogatorio di garanzia presentato certificazione sanitaria chiedendone la scarcerazione. A quanto documentato il 59enne era affetto da problemi cardiaci. Cosenza: terrorismo, anche l’Esercito vigilerà sulla sicurezza in carcere di Rossano Quotidiano del Sud, 2 dicembre 2015 Il prefetto di Cosenza ha confermato la "costante attenzione" sull’istituto penitenziario che ospita alcuni terroristi. Il Sappe: "Il carcere di Rossano è inadeguato per la detenzione dei terroristi islamici". "Il carcere di Rossano è da noi tenuto sotto costante attenzione". Lo ha detto il prefetto di Cosenza, Gianfranco Tomao, a margine della simulazione antiterrorismo in corso e che si svolgerà anche nella giornata di domani. Nel carcere di Rossano sono detenuti alcuni esponenti del terrorismo islamico ed è pertanto considerato sensibile. "Ho chiesto ed ottenuto che ci fosse anche una vigilanza aggiuntiva da parte dell’esercito", ha detto ancora il prefetto. Sul carcere di Rossano c’è anche l’attenzione della Procura di Catanzaro dopo che nei giorni scorsi era stato posto l’accento sulla situazione della struttura del cosentino. Subito dopo gli attentati terroristici a Parigi, alcuni dei detenuti di Rossano avevano festeggiato nelle celle. Cagliari: Caligarsi (Sdr); urge riorganizzazione servizio infermieristico nel carcere di Uta Ristretti Orizzonti, 2 dicembre 2015 "La situazione degli infermieri nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta è inaccettabile per numero e organizzazione. Solo 4 dipendenti sono a tempo pieno, due di loro però solo con funzioni amministrative, troppi infermieri a rotazione con poche ore e incredibili "buchi". È molto alto il rischio non solo di bloccare l’attività degli specialisti ma anche di lasciare le persone detenute senza un’adeguata copertura soprattutto nel caso di emergenze. Inoltre il mancato pagamento delle ore aggiuntive dei mesi di luglio e agosto sta creando un forte malcontento. È urgente dunque una riorganizzazione". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", con riferimento alla sanità penitenziaria nel Villaggio Detentivo di Cagliari, ubicato nell’area industriale di Uta a 23 chilometri dal capoluogo di regione. "I familiari dei detenuti - afferma Caligaris - facendosi interpreti del disagio dei parenti reclusi, hanno espresso forti perplessità in merito all’assistenza infermieristica e medica. In pratica dopo il passaggio alla ASL 8 della Sanità, sono rimasti a tempo pieno gli stessi infermieri che erano stati assunti dal Ministero della Giustizia. Alcuni hanno un contratto a tempo determinato e molti di loro sono prossimi a scadenze. C’è inoltre un gruppo che benché sia a tempo indeterminato, opera in altri reparti e servizi della Asl 8. Ci sono poi altri dell’Azienda Ospedaliera Brotzu che prestano servizi "aggiuntivi", rispetto al loro normale orario di lavoro, in regime di convenzione con la Asl 8. Insomma una girandola di operatori che non garantisce continuità. Durante la notte, nonostante la vastità dell’area, sono in turno soltanto due infermieri, uno dei quali dislocato al Centro Diagnostico Terapeutico". "Uno degli aspetti più problematici - osserva ancora la presidente di Sdr - è rappresentato dall’assenza di reperibilità. Quando un infermiere non si presenta in servizio per qualunque motivo il suo settore rimane scoperto. Di recente poi è stata ridotta di due ore anche la presenza in turno il pomeriggio e talvolta solo due infermieri devono soddisfare le esigenze dell’intero carcere trascurando quindi spesso le necessità ordinarie. Senza una rivisitazione dell’organigramma e una razionale distribuzione del lavoro si profila sempre di più il serio rischio di non rispettare i protocolli di assistenza. Non si può dimenticare che il diritto alla salute viene prima di qualunque altra esigenza e che l’Azienda Sanitaria deve garantire - conclude Caligaris - i livelli essenziali di assistenza a tutti i cittadini, nonché il pagamento delle spettanze arretrate". Velletri (Rm): appello dai Sindacati Sippe e Ugl-Pp "occorrono più agenti per il carcere" castellinotizie.it, 2 dicembre 2015 Il Segretario Generale del Sippe (Sindacato Polizia Penitenziaria) Carmine Olanda con Alessandro De Pasquale, Reggente Ugl della Polizia Penitenziaria, tornano a denunciare alle autorità competenti la carenza di Personale di Polizia Penitenziaria che da anni affligge la Casa Circondariale di Velletri. "In riferimento al nuovo piano di mobilità a domanda del Personale della Polizia Penitenziaria,- commenta Ciro Borrelli segretario locale Sippe Velletri - collegato alle assegnazioni del 170° corso di Formazione, non possiamo accettare che per i 541 detenuti presenti al 20 novembre nel carcere di Velletri, il Dipartimento ritiene che la carenza del personale sia irrisoria e cioè mancherebbe solo una unità". "Non possiamo più tollerare - continuano i Segretari Nazionali Carmine Olanda del SIPPE e Alessandro De Pasquale dell’Ugl Pp - il problema in una struttura penitenziaria come il carcere di Velletri, terzo per grandezza dopo gli Istituti romani di Rebibbia e di Regina Coeli ed importante per numero di detenuti ristretti - continuano - il penitenziario dovrebbe avere una capienza regolamentare di 410 detenuti e al 20 novembre 541, gestiti solo da 100 Agenti che lavorano su il problema va risolto - concludono - con provvedimenti concreti e urgenti, mandando almeno 40 unità di polizia penitenziaria e prorogando il personale già distaccato fino a quando la grave carenza di personale non sarà risolta con il trasferimento delle unità necessarie. Trani: detenuti manutentori in Comune? tanto rumore per uno solo, meglio Legambiente Giornale di Trani, 2 dicembre 2015 È stato davvero minimo il risultato determinato dalla convenzione tra Comune e Direzione delle case circondariali di Trani, finalizzata ai lavori di minuto mantenimento a cura dei detenuti del carcere maschile. L’idea, portata avanti dal sindaco uscente, Gigi Riserbato, nasceva dalla constatazione del fatto che il cantiere comunale è ormai totalmente sprovvisto di dipendenti, gli affidamenti hanno costi elevati e tempi limitati e, pertanto, si doveva pensare a soluzioni alternative che assicurassero la continuità di alcune manutenzioni: pitturazioni di panchine e strisce pedonali; colmatura di buche stradali; lavori di minuta manutenzione in genere. Ebbene, dopo la definizione di tutti gli atti, la montagna ha partorito il classico topolino: un solo detenuto ha lavorato secondo convenzione, per due giorni la settimana, ma solo alcuni mesi perché, poi ha terminato la pena ed ritornato in libertà. Un altro detenuto, che si era dato disponibile a lavorare per il Comune, è stato scarcerato prima che l’attività volontaria incominciasse. A quel punto, tutto si sarebbe fermato anche perché, per queste mansioni, si devono scegliere persone ritenute affidabili sia da punto di vista della costituzione fisica, sia, soprattutto, sotto l’aspetto comportamentale. In compenso, si sta puntualmente confermando la partecipazione di alcuni reclusi alle operazioni di pulizia delle spiagge, e non solo, da parte di Legambiente. Fra "Spiagge pulite" e "Puliamo il mondo", il cigno verde attinge sempre a piene mani dalla popolazione carceraria di Trani e, adesso, ci sono richieste anche da parte di altre case circondariali, che hanno ben compreso l’importanza sociale del progetto. Spiace, quindi, che con il Comune di Trani lo stesso non sia mai decollato. Non sarebbe male tornare a lavorarci, magari modificando eventuali passaggi della convenzione che rendano oggettivamente difficile la collaborazione fra i due soggetti istituzionali. Salerno: dopo il corso tenuto dall’Aia a Fuorni dieci detenuti diventano arbitri di calcio di Marco De Simone Città di Salerno, 2 dicembre 2015 Concluso il corso tenuto dall’Aia nella Casa circondariale. Il direttore Martone: "Noi primi in Italia". Un corso per arbitri di calcio rivolto ai detenuti del carcere di Salerno: questo il progetto che è stato illustrato ieri presso la casa circondariale di Fuorni, un progetto che ha coinvolto dieci detenuti della sezione del carcere salernitano. "Un progetto importante, che abbiamo messo in campo di concerto con l’Aia, l’Associazione italiana arbitri - ha detto il direttore della casa circondariale, Stefano Martone - il calcio come sport e come metafora del quotidiano: imparare le regole del gioco del calcio, rispettarle e farle rispettare, esattamente come nella vita di tutti i giorni. Voglio ringraziare l’Aia così come voglio ringraziare il personale del penitenziario di Fuorni che, nonostante le difficoltà dovute alla carenza di organico, fa sempre grandi sacrifici nel proprio lavoro". Presenti anche i vertici nazionali e locali dell’Associazione italiana arbitri: "Voglio congratularmi con i detenuti che hanno seguito il corso e voglio ribadire la nostra disponibilità per altre iniziative del genere - ha detto Tarcisio Pisacreta, vicepresidente dell’Associazione italiana arbitri - sono certo che adesso dopo questo corso vedrete la figura dell’arbitro con occhi diversi. Iniziative come questa possono giocare un ruolo fondamentale nel reinserimento sociale dei detenuti". Rispettare le regole, un leit motiv che deve essere valido in ogni ambito: "Purtroppo - ha detto Giovanni Pentangelo, associato Aia e arbitro di serie B della sezione di Nocera Inferiore - solamente chi ha la fedina penale pulita può diventare arbitro a tutti gi effetti. Tuttavia, stiamo studiando un modo affinché, una volta scontata la loro pena, i detenuti che hanno seguito il corso possano diventare arbitri di calcio a tutti gli effetti, magari con una piccola integrazione". Il corso tenutosi al carcere di Salerno è stato il primo del genere in Italia ed è uno delle tante attività messe in atto dall’amministrazione penitenziaria: "Vogliamo che i detenuti siano sempre impegnati - ha concluso il direttore del carcere Stefano Martone - e lavoreremo in tal senso". Brindisi: progetto "Artisti da-Dentro", storie di vita in nuvole di pensieri brindisilibera.it, 2 dicembre 2015 Un’azione rieducativa volta al reinserimento nella società al fine di avvicinare la comunità carceraria alla società libera. Si chiama integrazione: si può, si deve raggiungere, nell’interesse dei soggetti svantaggiati che decidono di riprendere in mano la propria vita e della società tutta che dovrebbe nutrirsi di solidarietà e speranza nel futuro. Appuntamento conclusivo del Progetto svoltosi presso la Casa Circondariale di Brindisi dal titolo "Artisti da-Dentro". Analisi Narrativa attraverso la Fumettistica. Le storie che curano", a cura dell’ente proponente "SerenaMente" e Ministero della Giustizia. Dal cuore e oltre le sbarre. Il progetto - che ha visto il Partenariato del Comune di Francavilla Fontana e della Provincia di Brindisi in relazione al Progetto sulla Legalità - è stato riconosciuto di pregevole interesse sulle base delle caratteristiche essenziali degli obiettivi previsti. Da qui ha preso il via "Artisti da-Dentro" - Analisi Narrativa attraverso "la Fumettistica", che nasce per diffondere la cultura della Legalità, della Giustizia, nella convinzione che le storie e le figure di ognuno, hanno un ruolo fondamentale nella comprensione della realtà e sono strumenti indispensabili per costruire un immaginario che pone il senso civico dal di dentro. Il progetto, che ha avuto inizio un anno fa, si è svolto presso la Casa Circondariale di Brindisi ed ha previsto delle attività creative come via privilegiata e quasi esclusiva per entrare in "contatto emotivo" con gli adulti detenuti e per favorire la loro rielaborazione cognitiva, sociale e affettiva rispetto alla propria vita e ai reati di cui si sono resi protagonisti. In questo contesto, la programmazione delle iniziative svolte dall’Associazione è stata di tipologia mista con azioni di (fumettistica e percorsi di pittura creativa) che hanno coinvolto i detenuti in un percorso di sensibilizzazione all’educazione alla legalità e alla tutela della sicurezza pubblica, condizione imprescindibile per la creazione di una sistematica rete occupazionale per l’impiego in attività lavorativa, fuori dalle mura del carcere. Le fasi successive hai poi visto i detenuti impegnati nell’impaginazione, redazione e realizzazione di un fumetto. La realizzazione del progetto ha cercato di lavorare sulla partecipazione dei detenuti attraverso un contatto diretto con il fumettista che li ha accompagnati nella realizzazione dei disegni, il cui narrato, racconta momenti salienti della vita detentiva. L’impiego dei detenuti nella realizzazione del progetto è andata oltre la fase di ideazione e ha riguardato, nel pratico, l’impaginazione grafica e la correzione di bozze, attività svolte dalla redazione della Gazzetta del Mezzogiorno e la stampa locale. Per essere facilmente comprensibile e fruibili anche dai detenuti stranieri, il vademecum è stato inoltre tradotto in lingua francese, rumena, albanese e araba (con l’aiuto delle comunità educative di prima accoglienza che hanno già reso l’eventuale forma di disponibilità nella traduzione). Tutti gli obiettivi raggiunti, la metodologia di lavoro e gli strumenti utilizzati saranno illustrati mercoledì 02 dicembre p.v., dalle ore 16 alle ore 18, nella cappella della Casa Circondariale di Brindisi. L’incontro di confronto ed informazione prevede gli interventi di: dott.ssa Valentina Farina assistente sociale e vicepresidente associazione "SerenaMente" che presenterà il lavoro svolto, dott.ssa psicologa e psicoterapeuta Imma De Pascale, a seguire reading dei ragazzi e presentazione dei fumetti narrati. A seguire streaming del video allietato da animazione musicale. "SerenaMente" è un’associazione nasce nei primi mesi del 2013 su iniziativa di un raggruppamento tra professionisti, psicologa psicoterapeuta, assistente sociale esperta nelle politiche di Welfare, mediatore familiare, educatore, artisti, con l’obiettivo di dare continuità e sviluppo alle attività già intraprese a partire dal 2005, dai singoli professionisti presso i Servizi in cui essi operano (Ambito Territoriale Francavilla Fontana n. 3, Comune di Oria Servizi Sociali, esperienze presso comunità educative per minori e gruppo Appartamento per gestanti con figli a carico, attività di coordinamento presso Centro Famiglia-Famiglia Amica in Avetrana, progettualità con famiglie e minori, attivazione di borse lavoro e funzione di controllo, con i detenuti della Casa Circondariale di Lecce, Taranto, Brindisi, formazione e attività di docenza. Un’intensa attività trattamentale che ha portato l’Associazione a fondare uno studio di psicoterapia con sede in Sava. La progettualità condotta da "SerenaMente" scaturisce da un’attenta analisi di approfondimento delle problematiche correlate ai percorsi di recupero e riabilitativi post pena detentiva e al contempo ha studiato soluzioni innovative per gli Istituti Carcerari (sempre entro il rispetto dei provvedimenti Giudiziari collegati ai detenuti). Il lavoro, riveste un ruolo di centralità in ogni percorso riabilitativo finalizzato al reinserimento sociale. Ma non solo, il trattamento dei detenuti è stato integrato da una azione di assistenza alle loro famiglie (art. 45 op). La famiglia del soggetto detenuto, riveste un ruolo nel percorso in itinere e post alla detenzione. Oltre il carcere, si prevede di accrescere la sicurezza sociale migliorando o ristabilendo le relazioni dei detenuti con le famiglie, nell’ottica di prevenire o impedire il grado di recidività. Parma: "La salute della salute mentale" domani convegno sul tema "dagli Opg alle Rems" parmaoday.it, 2 dicembre 2015 L’apertura della struttura di Mezzani non è un punto di arrivo, ma un’occasione per offrire un ulteriore stimolo alla discussione. Con le Rems, l’obiettivo è cambiato: non è più prevalentemente di sorveglianza e custodia ma è diventato un obiettivo di cura. Attraverso una vera e propria "rivoluzione culturale", vi è stato il passaggio dall’Opg alle Rems - Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza. L’apertura della struttura di Mezzani non è un punto di arrivo, ma un’occasione per offrire un ulteriore stimolo alla discussione. Con le Rems, l’obiettivo è cambiato: non è più prevalentemente di sorveglianza e custodia ma è diventato un obiettivo di cura, che si può ottenere solo con un lavoro sinergico tra i Servizi di Salute Mentale e gli Organi di Giustizia, con il coinvolgimento delle Amministrazioni locali e con il contributo delle Associazioni dei familiari. La sfida di oggi è guardare alla Rems, culturalmente e non solo per legge, come luogo di ricovero residuale, prevedendo di includere nella rete ordinaria dei servizi la cura delle persone con malattie psichiatriche autrici di reato. Si parlerà di questo, al convegno organizzato dall’Ausl, il 3 dicembre, dalle 9 alle 17.30 nella sala conferenze Anedda di via Gorizia n. 2. Intervengono: Mila Ferri (responsabile Salute mentale, dipendenze patologiche, salute nelle carceri dell’assessorato Politiche per la salute della Regione Emilia-Romagna), Giuseppina Paulillo (responsabile Rems di Mezzani) e la sua équipe, Angelo Fioritti (direttore sanitario Ausl di Bologna), Francesco Maisto (presidente Tribunale di sorveglianza di Bologna), Paolo Volta (direttore attività socio-sanitarie Ausl di Parma), Maria Paola Schiaffelli (direttore in missione ufficio esecuzione penale esterna di Reggio Emilia, province di Reggio Emilia, Parma e Piacenza). Alle 15.15 circa la tavola rotonda "Dalla misura di sicurezza alla cura in sicurezza dentro la Rems per un percorso fuori", con Remo Azzali (Sindaco di Mezzani), Giuseppe Forlani (prefetto di Parma), Elisa Furia (segretario della Camera penale di Parma), Franco Marzullo (direttore sanitario comunità Mondo piccolo), Pietro Pellegrini (direttore dipartimento assistenziale integrato salute mentale dipendenze patologiche Ausl di Parma), Giuliano Turrini (direttore sanitario casa di cura Villa Maria Luigia). Modera Valerio Giannattasio, direttore f.f. U.O. salute mentale adulti e dipendenze patologiche distretto Sud-Est. Le conclusioni sono affidate a Ettore Brianti, direttore sanitario Ausl di Parma. È un’iniziativa realizzata nell’ambito della rassegna 2015 "La salute della salute mentale". Massa Carrara: "Femminicidio, un passato che non passa", ieri un dibattito in carcere di Massimo Benedetti La Nazione, 2 dicembre 2015 Magistrati, investigatori e tante donne a confronto su un "passato che non passa". Il femminicidio, la difficile dialettica del rapporto uomo-donna nel nucleo familiare e un passato forte, che per decenni ha segnato la dinamica del vivere quotidiano e delle ultime novità legislative. Quasi tre ore di confronto in occasione del seminario sulla violenza di genere. "Femminicidio: un passato che non passa", questo il titolo del convegno organizzato, ieri mattina, all’interno della casa di reclusione di Massa grazie a Comune, casa circondariale e all’ordine degli avvocati. Una platea gremita, in sala il procuratore Aldo Giubilaro, avvocati, rappresentanti in uniforme delle forze di pubblica sicurezza, detenuti e moltissimi giovani del mondo dei servizi sociali di Massa e La Spezia. L’incontro, coordinato dall’assessore comunale alle pari opportunità Silvana Sdoga, si è aperto con i saluti del prefetto Giovanna Menghini e della direttrice del penitenziario Maria Martone preceduto dal contributo della relatrice Elisabetta Bertagnini, direttrice dell’ufficio esecuzioni penali esterne che ha sottolineato il fondamentale lavoro di sinergia tra famiglia, scuola e bambini. "Occorre indagare a fondo sulle motivazioni intrinseche della violenza - aggiunge Bertagnini - che spesso è un fenomeno culturale che, in alcuni casi, diventa quasi normale, accettato". Il sociologo Andrea Spini, docente all’Università di Firenze, ha posto l’accento sull’evoluzione del ruolo della donna nelle ultime nostrane: "Il modello di riferimento italiano è stato sempre quello con l’uomo capoccia al vertice della piramide familiare e la donna-massaia immediatamente sotto. Dagli anni Sessanta le cose sono cambiate, la donna ha cominciato a lavorare e - prosegue - il maschio ha fatto e fa fatica a tollerarlo. La famiglia oggi è come una S.p.A. perché esiste la parità e nessuna donna accetta la sottomissione". Anche la criminologa Alessandra Verdini sottolinea come il femminismo si sia occupato di violenza solo a partire dagli anni ottanta ma manca tutt’ora un piano nazionale per affrontarlo. "Occorre indagare a fondo ed ascoltare le denunce delle donne - ha concluso l’avvocato Chiara Guastalli - ed è necessaria la collaborazione tra servizi sociali, psicologi ed assistenti domiciliari". Pavia: spettacolo "Si finisce per ricominciare", il teatro dei detenuti si "apre" alla città La Provincia pavese, 2 dicembre 2015 Hanno seguito le lezioni, studiato i copioni, provato le parti nel corso di un intero anno. E sabato sera un gruppo di detenuti della casa circondariale di Torre del Gallo porterà in scena lo spettacolo "Si finisce per ricominciare". Appuntamento alle 21 in carcere, sulla Vigentina. L’evento è aperto al pubblico: i pavesi sono caldamente invitati a partecipare - spiegano gli educatori del carcere che seguono il progetto - per dare continuità alla sperimentazione di un carcere integrato con la città, in vista di un reinserimento sociale dei detenuti. Lo spettacolo è la conclusione di un anno di laboratori con un gruppo di detenuti del padiglione Protetti all’interno del progetto "Stretti in scena", finanziato grazie al bando Volontariato 2014, e rientra nella Giornata Internazionale del Volontariato. La compagnia teatrale U.S.B. "Uomini senza barriere", compagnia teatrale in-stabile continuerà il proprio lavoro anche nel corso del 2016 e si propone di diventare Compagnia Teatrale Stabile. Per poter partecipare alla serata è necessario inviare copia di documento valido alla mail u.s.b.teatrocarcere@gmail.com entro il 30 novembre 2015, è possibile scrivere alla stessa mail anche per domande e chiarimenti sullo spettacolo e sulle modalità di partecipazione. Pescara: "InCanto Libero", Andrea Diletti il 4 dicembre in concerto a Casa circondariale lopinionista.it, 2 dicembre 2015 Il Progetto Sociale "InCanto Libero" fa tappa in Abruzzo. Il cantautore Andrea Diletti si esibirà sul palco della casa circondariale di Pescara, Venerdì 4 Dicembre alle 15.30. L’iniziativa prosegue il suo cammino nella penisola, dopo l’esibizione nel carcere di Reggio Emilia, il 9 Ottobre scorso, nato in collaborazione con la sede territoriale del Telefono Azzuro di Reggio che da anni si batte per introdurre iniziative solidali a favore delle famiglie dei detenuti. La sede scese il cantante come Testimonial di questo evento, per avviare una serie di concerti dove offrire occasioni di svago e benessere ai carcerati. Il cantante ha dichiarato: "Credo fermamente nei doni speciali che la musica ci offre, tra questi quello di rendersi strumento per alleviare il disagio interiore, in svariati modi, forme e contesti sociali. Penso al canto e alle canzoni come ad una medicina preziosa per alleviare la solitudine, la stessa che si prova tutti quando si è prigionieri delle proprie paure. Spesso anch’io ho bisogno dell’"ora d’aria", quando il peso dell’ansia tra le quattro mura delle mie inquietudini diventa insopportabile. A volte vorrei proprio evadere da me stesso e allora canto, suono, mi ricordo che grazie alla musica posso tornare a giocare con la vita e a sperare nel futuro che m’impegno a realizzare ogni giorno. Ho scelto di esibirmi per questo pubblico speciale, consapevole che sarà un’esperienza che mi arricchirà tanto, anche fosse solo grazie al sorriso di ragazzi che portano sulle spalle il peso di storie difficili, perché incoraggiarli aiuta soprattutto me a valorizzare meglio il tempo, gli spazi, le libertà di cui posso beneficiare a mio piacimento e che considero troppo spesso un privilegio scontato". Diritti umani? C’è la Carta di Michele Nicoletti (vicepresidente dell’assemblea del Consiglio d’Europa) L’Unità, 2 dicembre 2015 Perché ricordare la Convenzione Europea dei Diritti umani a 65 anni dalla sua firma avvenuta a Palazzo Barberini nel 1950? È sufficiente volgere lo sguardo alle difficoltà di oggi per giustificare la necessità di una riflessione e di un ritornare al principio. Il terrorismo ha colpito persone inermi e i diritti umani, prima che principi astratti del nostro ordinamento, sono esistenze concrete. La persona non ha diritti, ma è il "diritto umano" e ogni offesa, ogni violenza contro la persona è una violenza contro il diritto, contro quella forma di vita personale e collettiva che vede nella giustizia la sua misura, il suo compimento, la sua possibilità di dispiegarsi in armonia con l’esistenza degli altri. C’è poco da discutere sulla relatività dei diritti umani: quando ci imbattiamo nella violenza bruta sugli inermi il moto di risentimento è universale. E la riaffermazione dei diritti umani è innanzitutto riaffermazione del diritto all’esistenza per ciascuno, esistenza libera, pacifica, piena. Molte altre sono le violazioni dei diritti umani nel mondo, in Europa e anche nel nostro Paese e l’attenzione alle une non può far scomparire la preoccupazione per le altre: libertà di opinione, di stampa, di associazione, libertà di essere se stessi nella pienezza delle proprie convinzioni religiose o non religiose, del proprio orientamento sessuale, della propria appartenenza a questa o quella comunità etnica o linguistica. L’Europa soffre di troppe violazioni: dalle donne ai bambini, dai migranti ai rifugiati, dai malati agli anziani, ai detenuti e a molti altri ancora. Il nostro sistema di tutele in Occidente si è indebolito fortemente negli anni della crisi economica e all’Ovest come all’Est vi sono rigurgiti di razzismo e xenofobia, antisemitismo e islamofobia. Basterebbe questo per giustificare l’importanza di una rilettura della Convenzione europea dei diritti umani assieme alla Carta sociale Europea. In essa non c’è solo un elenco di diritti da tutelare. C’è anche l’individuazione di uno strumento per tutelarli, ossia la Corte Europea. Ossia un tribunale, un potere giudiziario, insomma "il più debole dei poteri", eppure il più necessario se è vero che una comunità politica non è solo una comunità di interessi economici e una comunità di difesa, ma anche una comunità di giudizio su ciò che è giusto e ingiusto. E in questo momento di attacco violento alle persone e alla convivenza pacifica da parte del terrorismo noi dobbiamo riaffermare che lo strumento più forte di tutela della vita delle persone, della libertà e della giustizia è il primato dei diritti umani, la sovranità della legge e gli strumenti anche internazionali a sua tutela. È questa la lezione che ci viene dalla Convenzione é dalla Corte. La fiducia nel diritto. E in quel diritto che sta prima e sopra i legislatori del momento. Quel diritto umano fondamentale che trova nel riconoscimento dell’accordo tra i popoli la sua apertura universale. Questa fiducia nel diritto non è la fiducia ingenua che ci viene impartita da un’epoca spensierata del passato. È la fiducia che ha mosso gli uomini e le donne uscite dalla terribile prova dei totalitarismi e della Seconda Guerra mondiale a sognare un’Europa politicamente unita, una comune difesa europea e una comune cornice di diritti basata sul primato della dignità dell’essere umano e sulla sua tutela attraverso un’istanza sovranazionale a cui tutti i cittadini possono appellarsi. Parte di quel sogno è stato costruito. A noi il compito di continuare anche nei tempi difficili che attraversiamo. Terrorismo: "crociata" della Lega contro le donne velate negli ospedali di Andrea Montanari La Repubblica, 2 dicembre 2015 Lotta al velo, la Lega in Regione Lombardia torna all’attacco. Complice il clima post 13 novembre, l’immagine di una mamma con il niqab in ospedale che coccola il figlio neonato basta a scatenare i timori del Carroccio, che dopo un’interrogazione sulla questione sicurezza promette di cambiare le norme che attengono all’abbigliamento nei luoghi pubblici e - a costo di sfidare i confini della legge nazionale e i diritti costituzionali - annuncia che "verranno rivisti i regolamenti" sull’ingresso delle donne con veli islamici che, come il niqab e il burqa, coprono il volto nei palazzi della Regione Lombardia e degli enti che fanno parte del sistema regionale, inclusi ospedali. Una questione presa a cuore dal consiglio, ma liquidata dallo stesso Matteo Salvini, che ha distanza dice: "La legge c’è già, bisogna solo farla rispettare". La battaglia, stavolta, è del consigliere del Carroccio Fabio Rolfi, che ha presentato un’interrogazione alla Giunta Maroni sulla possibilità di adottare provvedimenti "che assicurino la massima efficacia dei controlli di sicurezza interni a tutti gli edifici istituzionali, in tutte le strutture pubbliche regionali", inclusi ospedali pubblici e Asl. Rolfi nel suo intervento ha sostenuto che si tratta di una questione di "buon senso e tutela dell’ordine pubblico", anche alla luce dei recenti attentati di Parigi, richiamati nella premessa dell’interrogazione. Solo una manciata di giorni fa, però, la sua crociata è partita sulla sua pagina Facebook, dove è comparsa la foto che il consigliere ha scattato in corsia. Raccontano che Rolfi sia diventato padre da poco. "Questa foto è stata scattata qualche giorno fa presso un ospedale bresciano - si legge nel testo che accompagna l’immagine della mamma che culla il figlio, tenera si potrebbe dire - far rispettare il divieto di circolare in luogo pubblico a volto coperto, anche all’interno dello strutture sanitarie regionali. Porterò il tema in Regione - annunciava - se a qualcuno non va bene, può sempre tornare a partorire al proprio paese". La questione è in effetti approdata in Regione e oggi, l’assessore alla Sicurezza Simona Bordonali, rispondendo nell’aula del Consiglio regionale all’interrogazione del legista, ha richiamato alcune norme nazionali, come il "divieto di comparire mascherati in luogo pubblico" e ha ribadito il sostegno alla posizione assunta dopo la strage di Parigi dal procuratore di Venezia Carlo Nordio, che ha proposto di vietare l’uso del velo islamico e di aggiornare le leggi nazionali in modo più chiaro. Proprio a Nordio si rifà Salvini. "La legge c’è già, lo ha detto il procuratore di Venezia: la legge vieta di girare in Italia a volto coperto, non occorre inventarsi nuove leggi ma far rispettare quelle che già ci sono", ha spiegato Salvini a margine di un incontro con il personale di polizia penitenziaria al carcere di San Vittore. "Se ci sono dei presidi che tolgono Gesù Bambino dalle scuole pensi che qualcuno vada a togliere il burqa a uno che gira per Milano a volto coperto? Figurati. Il problema non sono i terroristi, sono alcuni italiani imbecilli". I muri della paura nell’Europa di Schengen di Timothy Garton Ash (Traduzione di Emilia Benghi) La Repubblica, 2 dicembre 2015 Oltre a quelli fisici, ovunque in Europa sorgono muri mentali, cementati da un misto di paure e di beceri pregiudizi xenofobi. Sorgono muri in tutta Europa. In Ungheria hanno la forma fisica di recinzioni in rete metallica, filo spinato e lamette, un po’ come la vecchia Cortina di ferro. In Francia, Germania, Austria e Svezia i muri sono i controlli alle frontiere, momentaneamente ripristinati nello spazio senza confini di Schengen. E ovunque in Europa sorgono muri mentali, sempre più alti ogni giorno che passa, cementati da un misto di paure - del tutto comprensibili dopo i massacri di Parigi da gente che poteva circolare a suo piacimento tra Francia e Belgio - e di beceri pregiudizi alimentati da politici xenofobi e giornalisti irresponsabili. Nel 2015 assistiamo a un 1989 alla rovescia. Non dimentichiamo che la demolizione fisica della Cortina di ferro iniziò con il taglio della recinzione di filo spinato che separava l’Ungheria dall’Austria. Ora è l’Ungheria che per prima ha eretto nuove recinzioni ed è il suo premier, Viktor Orbán, il primo ad alimentare i pregiudizi. Bisogna chiudere le porte ai migranti musulmani, ha detto quest’autunno, "per mantenere l’Europa cristiana". Si unisce al coro anche una buona cristiana dello stampo di Marine le Pen, la rappresentante del Front National che detta il passo della politica francese. Molti europei ora sostengono che i loro paesi devono ripristinare i controlli alle frontiere, anche all’interno dell’area Schengen. Lasciando perdere i dubbi circa l’efficacia di un simile atto sotto il profilo della sicurezza, chiudendo le frontiere interne all’Europa si rischia di distruggere ciò che gli europei apprezzano di più dell’Unione. Non è solo retorica. Nell’ultimo sondaggio Eurobarometer, condotto in tutti i paesi Ue, alla domanda "Qual è secondo voi il maggior beneficio derivante dall’Unione Europea", il 57% degli intervistati ha risposto "la libera circolazione delle persone, dei beni e dei servizi". Si è tornati ai muri per tre ordini di motivi. Innanzitutto, in paesi come la Gran Bretagna ma anche in altre parti dell’Europa del nord, hanno influito le pure e semplici dimensioni della circolazione di persone entro i confini dell’Ue. Gli est europei sono arrivati soprattutto dopo il grande allargamento del 2004, simbolicamente incarnato dall’"idraulico polacco"; a loro si è aggiunto lo stuolo degli immigrati dall’Europa meridionale, da quando la crisi dell’Eurozona ha spinto laureati spagnoli, portoghesi e greci a spostarsi a Londra o a Berlino per fare i camerieri. Il secondo motivo è la crisi dei profughi. Secondo le stime Unhcr (Agenzia Onu per i rifugiati) al 19 novembre erano 850.571 "i profughi e i migranti" giunti quest’anno via mare in Europa, altri 3.485 sarebbero morti o dispersi. Il Mediterraneo è diventato orizzonte di speranza per i disperati e una tomba d’acqua. Poco più del 50% degli arrivati via mare proviene dalla Siria, il 20% dall’Afghanistan. Moltiquelli che ce la fanno sono profughi nella piena accezione del termine, ossia nutrono "fondato timore di persecuzione" nel proprio paese. Ma, come indica l’Unhcr, tra loro inevitabilmente c’è chi fugge dalle intollerabili condizioni materiali degli stati falliti. Poi ci sono i terroristi islamici, ultimamente dediti a falciare innocenti spettatori di concerti e avventori dei bistrot parigini. In gran parte sono cresciuti in Europa anche se alcuni apprendono il mestiere di assassini in Siria o in Afghanistan. Almeno uno dei killer di Parigi probabilmente si è intrufolato nell’Europa senza confini di Schengen come "profugo" (reale o presunto) con passaporto siriano. Per certo i killer potevano spostarsi liberamente tra Parigi e Bruxelles. Così nell’attuale bouillabaisse dei timori europei, mescolata dai demagoghi, tutto si confonde: il migrante regolare, cittadino dell’Unione; il migrante irregolare, che viene da fuori; il migrante mezzo migrante economico e mezzo rifugiato; il profugo di guerra dalla Siria; il classico rifugiato politico dall’Eritrea; il musulmano; il terrorista. In un certo senso si passa, senza soluzione di continuità, dall’idraulico polacco al kamikaze siriano. Nel frattempo il nuovo governo dell’idraulico polacco, composto principalmente da buoni cristiani, si è allineato a Ungheria e Slovacchia dichiarando che non accoglierà immigrati musulmani. Niente samaritani, grazie, siamo cristiani. Oltre al divario tra il nord e il sud d’Europa creato dalla crisi dell’Eurozona, emerge una nuova divisione tra Est e Ovest. L’Europa dell’Est rifiuta la solidarietà così spesso richiesta ai partner europei sotto altri aspetti. L’Europa sud orientale è tra due fuochi. Presto potrebbe succedere qualcosa di molto grave nei Balcani se non si renderanno meno permeabili i confini esterni dell’Ue soprattutto per chi proviene dalla Turchia, mentre il Nord Europa dice "basta". Angela Merkel ha detto una volta che per far apprezzare ai giovani la libertà di cui gode l’Europa aperta si dovrebbero chiudere le frontiere nazionali per un paio di giorni, e la cancelliera sa bene cosa significhi vivere dietro una Cortina di ferro. Beh, è probabile che ci tocchi fare questo esperimento, in parte proprio per il generosissimo errore di calcolo fatto dalla Merkel nel dichiarare benaccetti in Germania tutti i rifugiati senza prima essersi assicurata che gli altri Paesi europei avrebbero seguito il suo esempio. Se l’esperimento avrà o meno l’effetto desiderato è un’altra questione. Per il momento quello che si può dire con certezza è che se in precedenza l’Europa aveva fama di continente in cui i muri cadevano, oggi è il continente in cui tornano a sorgere. Diritti umani. "Parigi derogherà sulla Convenzione; scelta politica, non ha carta bianca" di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 2 dicembre 2015 Intervista a Michele Nicoletti, deputato Pd e vicepresidente dell’assemblea del Consiglio d’Europa: è sbagliato evocare la guerra. "La Corte europea dei diritti dell’uomo comprende le difficoltà degli stati nella lotta al terrorismo, ha tuttavia una giurisprudenza molto rigorosa a tutela anche degli stessi terroristi contro l’uso della tortura e delle pene degradanti". Lo ha detto il nuovo presidente della Corte di Strasburgo, l’italiano Guido Raimondi, intervenuto ieri a Roma alla cerimonia per il 65esimo anniversario della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. La "Cedu" si occupa di far applicare la Convenzione, firmata dagli stati fondatori del Consiglio d’Europa (erano 10, oggi sono 47) il 4 novembre 1950 a palazzo Barberini. Michele Nicoletti, deputato trentino del Pd, è vice presidente dell’assemblea parlamentare del Consiglio e guida la delegazione italiana. Nicoletti, il paese che 65 anni fa ha ospitato la firma della Convenzione, l’Italia, è pluricondannato dalla Cedu e in testa alle classifiche per la mancata esecuzione delle condanne. Il paese che ospita Consiglio e Corte, la Francia, a seguito degli attentati terroristici derogherà all’obbligo di rispettare la Convenzione e quindi i diritti umani. Non c’è molto da festeggiare. "Bisogna distinguere. È vero che l’Italia è in una situazione critica per le condanne della Corte, ma sta facendo grandi passi in avanti e le sue istituzioni - lo provano la presenza alla cerimonia del presidente Mattarella e le parole di Grasso e Boldrini - credono nella Corte. Non è così in Francia, dove affiora una diffidenza verso la Corte sia nel dibattito in parlamento che tra i giuristi. La decisione di derogare dalla Convenzione è un passo in più che serve certamente a tutelare il governo dai ricorsi e da eventuali condanne onerose, ma a mio avviso è soprattutto una mossa politica con la quale Hollande vuole dare il segno che è pronto a tutto nella lotta al terrorismo". Intanto al governo francese basta comunicare la deroga a Strasburgo per non rischiare di essere condannato per gli arresti indiscriminati, le perquisizioni, i divieti di circolazione e gli scioglimenti delle assemblee, tutte cose previste dalla legge francese sullo stato di emergenza? "Una deroga non è concessa in bianco, queste sono cose che preoccupano l’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa. L’abbiamo detto anche nell’ultima sessione a Sofia: il terrorismo si contrasta con i mezzi dello stato di diritto e con la più ampia cautela in particolare per i soggetti più deboli ed esposti come stranieri, migranti e profughi che rischiano di venire travolti dalla reazione. L’assemblea è anche molto preoccupata che si possa dare un riconoscimento politico ai terroristi, e quindi è contraria all’evocazione della "guerra" che implica l’idea di un confronto tra entità statali". Ma è proprio in virtù dello stato di guerra che si giustifica, come prevede un articolo della Convenzione, la deroga al rispetto dei diritti umani. "Certo, infatti l’evocazione della guerra è funzionale a politiche di diritto interno. Lo faceva già Bush. In ogni caso il divieto assoluto di tortura non è derogabile". Il governo italiano ha escluso leggi speciali contro il terrorismo, ma l’Italia è da anni inadempiente sulla costituzione di un’Autorità per i diritti umani. A che punto siamo? "La creazione dell’Autorità ci è stata richiesta più volte in sede di Nazioni unite. L’ex presidente della Repubblica Napolitano a Ginevra ha anche assunto un impegno solenne, che va onorato. La proposta di legge c’è, ma nella scorsa legislatura è stata bloccata con la motivazione che costava troppo". "Da Roma 281 milioni": ecco il conto che l’Ue pagherà ad Ankara per gli aiuti ai migranti di Andrea Bonanni La Repubblica, 2 dicembre 2015 La Commissione Ue studia quote per ripartire i tre miliardi promessi alla Turchia per la gestione dei profughi. Chi pagherà i tre miliardi di euro che l’Unione europea ha promesso alla Turchia? Al vertice di domenica scorsa i capi di governo si sono impegnati a contribuire, con un importo "iniziale" di tre miliardi, al mantenimento degli oltre due milioni di profughi, prevalentemente siriani, che hanno trovato rifugio oltre le frontiere turche. Dall’inizio della guerra civile in Siria, gli aiuti umanitari europei destinati alle vittime del conflitto sono stati pari a 3,6 miliardi di euro: 1,6 miliardi pagati dal bilancio Ue e 2 miliardi circa versati dai singoli stati membri. Nel suo complesso, l’Europa è di gran lunga il maggior contributore di aiuti umanitari nella regione. La decisione adottata domenica praticamente raddoppia gli stanziamenti finora versati. Il problema che però non è stato risolto è come gestire questi soldi, e soprattutto come ripartirsi l’onere. Prima del vertice, la Commissione europea ha approvato una decisione dove fissa modalità e quote di contribuzione. Ma i governi, per ora, non l’hanno ancora approvata. Il documento andrà in discussione la prossima settimana, e sarà comunque la base su cui si dovrà trovare un’intesa. Per prima cosa, i tre miliardi non saranno versati alla Turchia. La Commissione propone di creare una "facility", cioè in pratica un fondo su cui depositare la somma che verrà amministrata direttamente dagli europei e dovrà servire a finanziare sia gli interventi di emergenza, sia progetti di aiuto ai rifugiati e alle popolazioni che li ospitano. La facility sarà amministrata da un comitato composto da due rappresentanti della Commissione e da un rappresentante per ogni stato membro. Tuttavia sarà la Commissione ad avere l’ultima parola sia nella selezione dei programmi sia nella decisione riguardante gli interventi di urgenza. Il problema più spinoso, naturalmente, è la ripartizione degli oneri di finanziamento. L’esecutivo comunitario è in grado di rastrellare, nelle pieghe del bilancio, mezzo miliardo di euro. I restanti due miliardi e mezzo, secondo Bruxelles, dovrebbero essere versati direttamente dagli stati membri. Il calcolo dei contributi è fatto in base al Pil di ciascun Paese. La Germania dovrebbe versare 534 milioni, la Gran Bretagna (che non ha voluto partecipare alla redistribuzione dei rifugiati già sul suolo europeo) 409, la Francia 386. Il contributo dell’Italia dovrebbe essere di 281 milioni di euro. Seguono la Spagna con 191 e l’Olanda con 117. Quando si sono visti presentare il conto, i governi si sono messi le mani nei capelli. E a poco è valsa l’assicurazione, data a voce da Juncker, che i contributi sarebbero scomputati dal calcolo del deficit e dunque non inciderebbero sul rispetto dei parametri di Maastricht. Nella sua decisione la Commissione ricorda che in realtà il budget comunitario registra già un surplus di 2,3 miliardi di euro, dovuto alla riscossione di multe, di penali, di interessi sui prestiti e sui ritardi di pagamento. La somma potrebbe coprire quasi per intero il fabbisogno della facility. Tuttavia, secondo le attuali regole di bilancio, questo surplus dovrebbe essere ridistribuito agli stati membri sottraendolo dai contributi che dovranno versare l’anno prossimo. Molti governi, compreso quello italiano, vorrebbero in realtà che il grosso dei tre miliardi venisse messo da Bruxelles, attingendo al bilancio della Ue. Ma una simile operazione costringerebbe la Commissione a tagliare altre voci di spesa, come i fondi agricoli o quelli per la coesione regionale. Con il risultato di una redistribuzione degli oneri che risulterebbe probabilmente più penalizzante per quei Paesi che ricevono maggiori finanziamenti dalla Ue. È dunque probabile che, alla fine, i criteri definiti dalla Commissione finiscano per essere approvati senza modifiche sostanziali. Droghe: la Carta di Milano per la riforma da Cartello di Genova Il Manifesto, 2 dicembre 2015 Il 20 e 21 novembre si è svolta a Milano l’Assemblea "Cambiamo verso sulle droghe. Adesso", promossa dal Cartello di Genova, sulle orme di Don Gallo. È stato un momento di dibattito per la riforma ed è stata approvata una mozione con gli obiettivi della campagna. Si è ribadita la convocazione nel 2016 della Conferenza nazionale sulle droghe da parte del Governo e l’organizzazione di un momento di confronto con la società civile sulla posizione dell’Italia nella sessione speciale dell’Onu sulle droghe convocata a New York per il prossimo aprile. Il testo integrale si trova su fuoriluogo?.it Proponiamo: 1. La completa revisione delle previsioni sanzionatorie, penali e amministrative, stabilite dal Testo unico sulle sostanze stupefacenti sulla base della proposta di legge elaborata dalle associazioni e discussa in sede di Conferenza. Le persone che usano sostanze devono essere liberate tanto dal rischio di criminalizzazione penale quanto dalla soggezione a un apparato sanzionatorio amministrativo stigmatizzante e invalidante. 2. La prima modifica in questa direzione non può che essere la compiuta depenalizzazione del possesso e della cessione gratuita di piccoli quantitativi di sostanze destinati all’uso personale, anche di gruppo, e della coltivazione domestica di piante di cannabis agli stessi fini. 3. Proponiamo un confronto nella società e nel parlamento verso una compiuta regolamentazione legale della produzione e della circolazione dei derivati della cannabis e della libera coltivazione a uso personale. Nel salutare con favore l’iniziativa parlamentare dell’intergruppo per la cannabis legale, alla quale affianchiamo la specifica proposta di legge dalle associazioni come ulteriore contributo alla discussione, riteniamo improcrastinabile una reale e completa riforma del Testo Unico che tenga conto di tutti i fenomeni collegati all’uso di sostanze così come è stata affrontata nella proposta di legge elaborata dalle associazioni. 4. Nel quadro dell’attuazione del patto per la salute e di revisione e definizione dei nuovi Lea, chiediamo il rilancio e la riorganizzazione dei servizi per le dipendenze con il coinvolgimento della società civile nella prospettiva della "riduzione del danno", quale quarto pilastro delle politiche sulle droghe pienamente integrato nel sistema dei servizi, come stabilito nella strategia UE. Le politiche di intervento devono essere finalizzate al benessere delle persone che usano sostanze e alla prevenzione dei rischi connessi all’abuso e alla clandestinità del consumo, a partire dall’analisi delle sostanze e dalla predisposizione di forme e luoghi per il loro uso sicuro (stanze del consumo) avviando tutte le altre sperimentazioni ampiamente accettate in Europa, quali i trattamenti con eroina. 5. In questo quadro, particolare attenzione dovrà essere data alla dimensione della qualità della vita nelle città e all’offerta di servizi e sostegno alle persone con problemi di dipendenza in stato di detenzione. Chiediamo quindi che la morsa del patto di stabilità interno, che sta strangolando gli enti locali e le Regioni, sia derogabile nel perseguimento di politiche finalizzate alla tutela dei diritti fondamentali della persona come sono quelle destinate a sostenere i percorsi sociali di inclusione delle persone che usano sostanze. In questo senso saremo a fianco delle iniziative che le associazioni e i gruppi di persone utilizzatrici di sostanze vorranno condividere a difesa dei propri diritti, anche attraverso la promozione, il rispetto e la diffusione de "La Carta dei diritti delle persone che usano sostanze" promossa e firmata dal Cartella di Genova nel 2014. Filippine: caso Bosio, l’ex ambasciatore scagionato dalle accuse ritorna in Italia Corriere della Sera, 2 dicembre 2015 Fu arrestato a Manila, nelle Filippine, con l’accusa di traffico di esseri umani e di abuso e sfruttamento dei minori: a denunciarlo un’attivista di una Ong, che disse di averlo trovato in compagnia di tre bambini in un resort. Ora è stato prosciolto. Daniele Bosio, ex ambasciatore in Turkmenistan arrestato ad aprile 2014 vicino a Manila per presunti abusi e traffico di minori, è stato scagionato da ogni accusa e ha fatto ritorno in Italia nel fine settimana. Il diplomatico, nelle Filippine per una breve vacanza, fu fermato dopo essere stato trovato in compagnia di tre bambini su segnalazione di una attivista della Ong Bahay Tuluyan. Dichiaratosi innocente, Bosio, una lunga militanza nel volontariato, è stato scagionato per l’insussistenza di elementi a sostegno delle accuse. La notizia è stata confermata dalla Farnesina. In particolare, Bosio è stato prosciolto per insufficienze di prove da un Tribunale filippino il 19 novembre scorso dalle accuse di traffico di esseri umani e di abuso e sfruttamento dei minori. In seguito alla sentenza, è stata revocata l’ordinanza che impediva al diplomatico di lasciare il paese. Ritornato in possesso del passaporto, Bosio è rientrato in Italia ed è ora in procinto di fare domanda di riammissione in servizio, dal quale era stato sospeso il 7 aprile del 2014 in seguito alla convalida del fermo disposta dalle autorità filippine. "La sospensione era avvenuta in ottemperanza alle disposizioni di legge, in attesa dello svolgimento del processo - riferiscono fonti della Farnesina -. Ora che il processo si è concluso, si valuterà la richiesta di riammissione in servizio dell’ex ambasciatore del Turkmenistan sulla base dei documenti che si stanno acquisendo e seguendo la procedura prevista in questi casi". "Sono rientrato in Italia dopo cinquanta giorni di carcere in condizioni disumane, quaranta giorni di ospedale e venti mesi di incubo. La magistratura filippina ha riconosciuto la mia piena estraneità alle pesanti e dolorose accuse che mi erano state rivolte. La mia famiglia e io abbiamo patito una vicenda infamante e ingiusta che stride con quanto è stato accertato e con la mia storia personale", ha dichiarato Bosio, in una nota. "La motivazione con la quale il giudice ha chiuso il procedimento è limpida nel riconoscere la correttezza del mio operato, a partire dalla viva testimonianza degli stessi bambini (l’allora diplomatico in Turkmenistan era stato denunciato mentre era in compagnia di minori filippini in un resort, ndr). Voglio adesso guardare avanti, riprendere in mano la mia vita, ricominciare a lavorare al servizio del mio Paese così come ho sempre fatto con scrupolo e dedizione", ha quindi aggiunto. La legale: "Vicenda strumentalizzata per ottenere visibilità". "Malgrado sia stato necessario attendere i lunghi tempi della giustizia filippina, il processo contro l’ambasciatore Bosio ha evidenziato l’assoluta inconsistenza delle imputazioni mosse contro di lui, che sin da subito avevamo pubblicamente definito prive di qualsiasi riscontro e incompatibili con la storia personale del diplomatico italiano e che sono rimaste in piedi così a lungo solo a causa dell’accanimento dell’accusa privata, rappresentata da una ONG che non ha esitato a strumentalizzare la vicenda allo scopo di ottenere visibilità", ha spiegato la legale, Elisabetta Busuito. Carcere Libia di Flore Murard-Yovanovitch girodivite.it, 2 dicembre 2015 Il reportage di Emergency sulla fuga di migliaia di persone dal Corno d’Africa e dall’Africa Sub-Sahariana. L’esplosione, quest’estate, delle rotte migratorie del Mediterraneo orientale - battute soprattutto da profughi siriani, afgani e iracheni - e della rotta balcanica, ha di recente messo in ombra la rotta libica. La Libia resta tuttavia il principale punto di partenza per migliaia di persone in fuga dal Corno d’Africa (soprattutto eritrei, sudanesi e somali) e dall’Africa sub-sahariana. Sui 131.000 migranti giunti quest’anno in Italia, circa il 85-90% è partito da un porto libico e circa il 10% da un porto egiziano. In un Paese in pieno caos e dove infuriano i combattimenti, tra le persone più a rischio ci sono gli sfollati, i richiedenti asilo e i migranti. L’immigrazione è considerata illegale in Libia: se vengono scoperti dalle autorità, i migranti rischiano la deportazione o la detenzione in prigione o in campi di concentramento dove rimangono richiusi per mesi, a volte per anni. Ma i migranti sono anche vittime di tratta e di sequestro per mano di bande armate, milizie e bande criminali. Pestaggi, torture, e lavoro forzato sono all’ordine del giorno in un Paese fuori controllo, e poco contano gli appelli e le continue denunce delle organizzazioni per i diritti umani, come Human Rights Watch e Amnesty International. Il traffico di esseri umani continua a Kufra, un inferno dove ogni mese arrivano circa 12 mila migranti dal Sudan e dai Paesi più poveri del Corno d’Africa. E continua anche nella città di Zuara, 01 vicina alla Tunisia, da dove ogni giorno partono pescherecci e barche alla volta dell’Europa. La grande maggioranza delle persone che passano dall’ambulatorio di Emergency sulla banchina del porto di Augusta, è passata dalla Libia e ancora li vediamo tremare mentre raccontano quello che hanno passato negli ultimi mesi. A., 30 anni, somalo: "Nel campo di detenzione di Gharyan eravamo 400 persone, incastrati gli uni sugli altri, gambe e ginocchia rannicchiate, non riesci mai a dormire veramente. L’acqua sa di benzina: ne danno solo un bicchiere al giorno. Alcuni bevono l’acqua salata dei bagni, che sono sempre sporchi. Quando qualcuno si ammala, non viene curato e non viene portato in ospedale. Ogni tanto qualcuno sparisce. C’è chi riesce a pagare la "cifra" richiesta dai poliziotti e dalle guardie per scappare, ma sono pochi; gli altri spariscono e nessuno ne sa più niente". Tre ragazzi somali mi mostrano le gambe e i piedi pieni di ferite, alcune da armi da fuoco: le ferite sugli arti inferiori che notiamo durante la visita non mentono. "Eravamo picchiati ogni giorno", racconta L. K., 22 anni dal Gambia. "Se non hai soldi, vieni detenuto finché non li trovi. È un andirivieni continuo, un business organizzato contro noi neri. Nel frattempo vieni picchiato nelle celle, con bastoni o barre di metallo, finché i tuoi parenti non mandano i soldi che servono per uscire. Mi picchiavano perché con la gamba ferita zoppicavo e rallentavo le file. Anche le donne incinte vengono picchiate. Ho visto bastonare un ragazzo finché non è morto". Sempre più numerosi sono i ragazzi che sbarcano con fratture: sono il frutto dei lavori forzati nei cantieri di Tripoli e di altre città libiche gestiti da bande criminali o dei colpi ricevuti nei campi. T.A., 23 anni dalla Nigeria, è stato gettato dal terzo piano dell’edificio dove stava lavorando perché si era rifiutato di continuare a lavorare senza paga. Nella caduta si è procurato fratture multiple alla gamba sinistra, ma non ha mai visto un dottore o un antidolorifico: "Un dolore insopportabile. Per 3 settimane e 4 giorni ho vissuto l’inferno. Non scorderò mai quei giorni. Nel cofano della macchina che mi ha portato sulla spiaggia della partenza sono svenuto. Sono vivo solo grazie a Dio e agli amici che mi hanno tenuto vivo sulla barca. Non ricordo nulla, solo che sono sbarcato in Italia il 23 giugno". Anche P. S., 21 anni dalla Nigeria, è stato sequestrato da gruppi armati e costretto a lavorare notte e giorno, senza cibo, nei cantieri di Tripoli. Anche lui si è ribellato ai suoi sequestratori che l’hanno buttato giù dall’edificio. Ha visto morire suo cugino. Lui è miracolosamente sopravvissuto, ma ha subito una gravissima lesione, una frattura dell’articolazione tibio-tarsica con esposizione ossea. La caviglia è stata curata solo con acqua calda e P. S. ha sviluppato un’infezione alle ossa. Quando è arrivato in Italia, l’abbiamo portato subito all’ospedale di Siracusa, dove è stato sottoposto a due interventi. Non si sa se tornerà a camminare autonomamente. Anche le patologie mentali sono ormai diffuse: i maltrattamenti e le torture subite nei campi libici lasciano tracce e traumi profondi. "Anche sulle strade sei sempre a rischio. Se sei nero e guardi una donna libica rischi guai, perciò camminiamo sempre con gli occhi rivolti a terra. Da nero ti senti sempre in pericolo: puoi venire aggredito, ogni istante, derubato, da gruppi armati, trafficanti e bande criminali organizzate. Sono tutti armati in Libia, persino i ragazzi più giovani, persino bambini". "Quando siamo fuggiti dal campo, nella sparatoria ho visto morire due dei miei compagni di viaggio, ammazzati di fronte a me", racconta Demba. Tanti hanno visto o assistito alla morte di fratelli, amici e compagni sequestrati. I volti emaciati e denutriti di chi arriva dalla Libia assomigliano a quelli dei sopravvissuti. Le 250.000 persone, migranti e potenziali richiedenti asilo, intrappolate in quel Paese hanno bisogno di corridoi umanitari e di protezione internazionale, non di un intervento armato. Ma l’Europa deve ancora decidere che da che parte stare. Egitto: stampa locale critica ministero dell’Interno per torture e morti in carcere agenzianova.com, 2 dicembre 2015 La morte di almeno cinque cittadini sottoposti a torture nelle carceri egiziane ha spinto la stampa locale a chiedere una ristrutturazione del ministero dell’Interno. In un articolo di fondo sul quotidiano "al Tahrir", l’editorialista Sameh Eid ha chiesto che il dicastero sia "più professionale", mentre Ramy Galal ha scritto sul quotidiano "al Masry el Youm" che il ministero dell’Interno dovrebbe "allentare la presa" sui servizi come le poste, le assicurazioni e le pensioni, in modo che la dirigenza di queste istituzioni sia assegnata a dei civili meno inclini a fenomeni corruttivi. Il giornalista ha ricordato che le morti in custodia di Khaled Saed e Mohamed al Gendy, rispettivamente nel 2010 e nel 2013, hanno alimentato le proteste che il 25 gennaio 2011 e il 30 giugno 2013 hanno deposto i presidenti Hosni Mubarak e Mohamed Morsi. Pakistan: impiccati quattro talebani, autori della strage nella scuola di Peshawar Reuters, 2 dicembre 2015 Quattro militanti talebani condannati a morte per la strage alla scuola di Peshawar, in Pakistan, nel dicembre 2014 sono stati impiccati stamane in una prigione della provincia nord occidentale di Khyber Pakhtunkhwa. Lo riferiscono fonti carcerarie. Appartenevano a un gruppo islamico armato affiliato al Tehrik-e-Taleban Pakistan (Ttp) considerato responsabile per l’attacco in cui morirono 150 persone, quasi tutti bambini e adolescenti. L’esecuzione di Maulvi Abdus Salam, Hazrat Ali, Mujeebur Rehman e Sabeel (noto come Yehya) è avvenuta nel penitenziario di Kohat dopo il via libera, giunto due giorni fa, dal capo dell’esercito Raheel Sharif. I quattro erano stati condannati a morte da una delle speciali Corti marziali create dal governo di Nawaz Sharif dopo il sanguinoso attentato. I militanti appartengono a un gruppo chiamato Tauheed ul Jihad (TuJ), alleato del Ttp e attivo a Peshawar e nelle aree tribali. Da quando il Pakistan ha sospeso la moratoria sulle impiccagioni, sempre dopo la strage alla scuola militare, circa 300 detenuti sono saliti al patibolo. Una decina di giorni fa Amnesty International aveva duramente criticato il governo di Islamabad per la ripresa delle impiccagioni che hanno fatto salire il Pakistan ai primi posti al mondo tra i Paesi con il numero più alto di esecuzioni. Libano: ex moglie e figlia di al Baghdadi rilasciati in scambio di prigionieri con al-Nusra Il Fatto Quotidiano, 2 dicembre 2015 L’organizzazione locale di al Qaeda ha restituito 16 poliziotti e soldati catturati in un’incursione del 2014, in cambio di un numero imprecisato di miliziani. Tra loro, i due congiunti del capo dell’Isis. Consegnato anche il corpo del soldato libanese Mohammed Hamieh, giustiziato insieme ad altre tre persone. Il Fronte al-Nusra, branca siriana di Al Qaeda, ha rilasciato oggi 16 soldati e poliziotti libanesi catturati nell’agosto del 2014 durante un’incursione nel Libano nord-orientale. Tra loro anche una delle ex mogli di Abu Bakr al Baghdadi, Saja al Dulaimi e una figlia del capo dell’Isis. Il rilascio è avvenuto nell’ambito di uno scambio di prigionieri, in cui Beirut ha liberato un numero imprecisato di miliziani islamisti detenuti nelle carceri della città. Nove ostaggi continuano ad essere in mano all’Isis e di loro si hanno poche informazioni, mentre quattro sono stati uccisi durante il sequestro. La consegna dei soldati è ancora in corso nei pressi di Arsal, cittadina a maggioranza sunnita nell’alta Valle della Bekaa, a ridosso del confine con la Siria, da lungo tempo solidale con la rivolta contro il regime del presidente Bashar al Assad. È in questa regione che nell’agosto dell’anno scorso il Fronte al Nusra e l’Isis sferrarono un’offensiva che durò diversi giorni, contro l’esercito libanese, con un bilancio di decine di morti. Successivamente i miliziani islamisti si ritirarono portando con sé i prigionieri. Il Fronte al-Nusra affiliato ad al-Qaeda ha consegnato alle autorità di Beirut il corpo del soldato libanese Mohammed Hamieh, 22 anni, catturato dai miliziani durante gli scontri tra l’esercito e gli estremisti a Arsal e giustiziato il 19 settembre 2014. A consegnarlo la Croce Rossa. Sul suo cadavere verrà adesso eseguito il test del Dna per confermarne l’identità. L’accordo per lo scambio di prigionieri che si concretizza oggi è il primo passo di una delicata fase di mediazione ed stato raggiunto grazie alla negoziazione portata avanti dal Qatar tra il Libano e il Fronte al Nusra.