Natale in carcere, alla ricerca di un po’ di speranza Il Mattino di Padova, 29 dicembre 2015 Il Papa ha deciso che i detenuti passeranno la Porta santa del Giubileo ogni volta che varcheranno la soglia della loro cella, a Padova poi anche la cappella del carcere Due Palazzi è Porta santa. Ma troppe persone in carcere vivono ancora SENZA SPERANZA. Sono i condannati all’ergastolo, una pena che Papa Francesco ha definito “pena di morte nascosta”, e in particolare all’ergastolo ostativo, l’ergastolo cioè che non concede vie d’uscita a meno che la persona condannata non collabori con la Giustizia, ma in tanti non lo vogliono fare per non rovinare la vita dei propri cari. Assieme alle testimonianze di ergastolani, per aprire uno spiraglio di speranza riportiamo anche le parole di Agnese Moro, la figlia dello statista ucciso dai terroristi nel 1978: “Ogni essere umano è, in quanto tale, titolare di dignità e di diritti; anche se in uno o più momenti della vita ha scelto il male, se è profugo, povero, violento, barbone, straniero, disabile, tossicodipendente, malato, giovane e ribelle. La nostra Repubblica nasce dal rifiuto di ogni totalitarismo per il quale - di destra o di sinistra che sia - le persone non sono niente. Per noi, invece, sono tutto. Ad ognuno di noi, noi che siamo la Repubblica, la responsabilità di non lasciare indietro nessuno”. Il mio orologio ha un orario fisso, l’orario dell’ergastolo ostativo Questa mattina mi sono alzato alle 5, fuori era ancora buio e mi sono messo a pensare alla mia vita passata, a quanto tempo ho trascorso in questi posti e quanto ancora ci dovrò restare. Sono passati tanti anni da quel lontano 1994 e per fortuna gioisco ancora quando, quelle rare volte, il sole riesce a spaccare le giornate gelide dell’inverno di Padova. Vorrei essere anch’io forte come il sole e risorgere ogni giorno, ma da 21 anni l’inverno è entrato nel mio cuore e nel cuore dei miei cari senza mai abbandonarci. Il tempo si è fermato per sempre, il mio orologio ha un orario fisso, l’orario dell’ERGASTOLO OSTATIVO. I primi tempi sognavo che la mia situazione potesse cambiare, cercavo di farmi forza per lottare e facevo di tutto per essere il sostegno morale della mia famiglia, ma purtroppo quell’orologio mi ha dimostrato di essere più forte di ogni mia volontà, di ogni mio sogno e desiderio. Per tanti anni ho allenato il mio fisico nella speranza vana di contrastare i segni dell’invecchiamento sul mio corpo, ma oggi mi rendo conto che il ciclo della vita è inarrestabile, niente e nessuno può fermare lo scorrere degli anni e l’amarezza di vederli scorrere nel peggiore dei modi. Oggi mi rendo conto che quello che mi salva da tutto questo orrore è l’amore di mia figlia e di mia moglie, che sono state più forti di tutti questi anni di carcere, anche se per resistere a questo lungo calvario stanno pagando un caro prezzo, visto che hanno scelto di starmi vicino seguendomi nelle varie carceri che mi hanno fatto girare su giù e per l’Italia, come un pacco postale e per motivi che non avevano a che fare con i miei comportamenti. A volte mi chiedo se si sono mai rese veramente conto che dovranno seguirmi per tutta la vita poiché io da qui non uscirò vivo, perché il mio ergastolo ostativo non me lo permetterà, perché chi è condannato a questa pena è ritenuto colpevole per sempre, irrecuperabile. Vorrei solo trovare la forza e la lucidità di dire a mia moglie e a mia figlia che la speranza non ha nulla di concreto a cui aggrapparsi, ma non vorrei che anche loro smettessero di sognare come ho fatto io. Sicuramente il fatto di non essere mai riuscito a spiegare chiaramente che cos’è l’ergastolo ostativo ai miei cari non mi fa stare bene, ma è anche vero che sono sempre stato convinto che l’ergastolo ostativo fosse una condanna fatta per errore e che uno stato democratico come l’Italia, culla del cristianesimo, non potesse fregiarsi di una pena così disumana, visto che ha sempre lottato in prima linea contro le torture e la pena di morte, quindi pensavo che sarebbe stata rivista e con questa ferma convinzione ho sempre temporeggiato. Comunque, non voglio rassegnarmi a questa pena di morte mascherata così come l’ha definita Papa Francesco e continuo a sperare che al più presto venga rivista, così che non mi sentirò di essere stato un bugiardo nei confronti di mia moglie e di mia figlia, dalle quali traggo ancora oggi la forza necessaria per continuare a lottare. Gaetano Fiandaca La mia famiglia vive a 1.800 Km. di distanza e fare colloqui diventa un'impresa Dopo sei anni di regime duro del 41bis sono stato trasferito nella Casa di reclusione di Padova, nella sezione Alta Sicurezza, adesso sono tre anni che mi trovo in questo istituto. La mia famiglia vive a 1.800 Km. di distanza (Gela) e fare colloqui diventa un'impresa, specialmente per questioni economiche. Tutta la mia famiglia, compresi genitori, fratelli e sorelle, sono persone oneste e lavoratori che vivono di stipendio e non sempre hanno un posto fisso di lavoro, quindi ognuno ha i suoi problemi e non possono certo pensare a me. I sacrifici per me li fanno mia moglie e i miei figli. Ho fatto l'ultimo colloquio nel mese di luglio e spero in Dio che sotto le feste di Natale mia moglie e uno dei miei figli riescano a racimolare la somma necessaria per venirmi a trovare. Purtroppo, ogni volta che faccio colloquio non c'è la possibilità che vengano a trovarmi tutti insieme, mia moglie e i miei tre figli, solo per due persone spendono intorno ai 1.500 euro, tra biglietto dell'aereo e albergo, poiché sono obbligati ad arrivare la sera prima del giorno di colloquio. E così, due volte l'anno, al massimo tre, riesco a fare un colloquio di sei ore... ma cosa sono sei ore in confronto a sei mesi che non vedi la tua famiglia? Quelle sei ore passano come se fossero sei minuti. Non vedo la figlia più piccola da oltre un anno. Nessuno può capire il cuore di un padre come si può sentire, solo chi ha i miei stessi problemi mi può capire. Aumentare le ore di colloquio non ucciderebbe nessuno. Io sono stato privato della libertà perché ho commesso un reato, ma la mia famiglia di che colpa si è macchiata? Mia moglie e i miei figli alla fine del colloquio la prima cosa che dicono è: "Sono già passate sei ore?" e vanno via nascondendo le lacrime dietro un sorriso e chiedendosi quando ci rivedremo di nuovo. E che dire delle telefonate? Una a settimana e per la durata di dieci minuti da dividere con mia moglie e i miei tre figli, il tempo di salutarci e domandarci come stai e subito dall'altro lato del telefono ti dicono che la telefonata sta per terminare. Durante questa mia detenzione, ho incontrato una persona che negli anni passati era stata detenuta in Spagna e mi diceva che lì se avevi i soldi ti caricavi la scheda telefonica e potevi chiamare la famiglia ogni volta che volevi nei giorni della settimana e per la durata che volevi. Perché non poterlo fare anche qui in Italia? Domenico Vullo Non c'è pena di morte o ergastolo ostativo che possa frenare chi è pieno di odio La notizia delle stragi di Parigi mi ha portato a riflettere perché anche io sono padre e nonno. È indiscutibile che i conflitti alimenteranno odio e vendette. Una volta quei paesi geograficamente distanti da noi tenevano per sé anche le loro cose negative, e i conflitti restavano lontani da noi, invece oggi il mondo ha accorciato le distanze, e siamo diventati una miscela esplosiva. Io che sono da ventitré anni in carcere mi accorgo di questa miscela vedendo come è cambiata la popolazione detenuta dai primi anni del mio arresto, oggi in ogni sezione troverai detenuti di etnie diverse. E lo stesso è nelle grandi città del nostro paese e molti di questi stranieri, in particolare i giovani, si sentono ghettizzati, come lo sono i nostri nipoti. Io quando faccio colloquio e vedo il mio nipotino di sette anni fissare gli agenti e nei suoi occhi leggo l'odio, finisco per rimproverare mia figlia, che però mi dice "Papà, mai nessuno di noi si è permesso di parlare male delle istituzioni, ma nella sua scuola la maggior parte dei bambini ha un parente in carcere e sicuramente parleranno di queste cose". La mia grande paura è che si stia spingendo le nuove generazioni verso l'estremismo e in particolare nella braccia di organizzazioni come ISIS, non c'è pena di morte o ergastolo ostativo che possa frenare chi è pieno di odio. Lo Stato si deve preoccupare di quella generazione dell'età di mio nipotino, di quei bambini che fin da piccoli vengono additati come i figli o nipoti del criminale. Lo Stato vincerà la sua battaglia quando toglierà dallo sguardo di quei bambini l'odio verso le istituzioni. Penso che qualcuno debba riflettere pensando a tutti quei bambini che crescono vedendo il proprio genitore dietro un vetro blindato e che non hanno nessuna speranza di poterlo abbracciare in libertà, anche dopo che ha scontato trent'anni di detenzione, perché condannato all'ergastolo ostativo. Togliere l'odio da quegli occhi innocenti significa costruire un futuro sereno, un primo passo è che lo Stato faccia vedere un volto umano e non implacabile e punitivo. Tommaso Romeo La pena perpetua che uccide la speranza e ci pone fuori dalla costituzione di Giuseppe Candido L’Opinione, 29 dicembre 2015 Tra qualche giorno saremo costretti a pagare il canone alla TV concessionaria per il sevizio pubblico radiotelevisivo. Anzi, da quest’anno lo pagheremo direttamente con la bolletta della luce, e chi si è visto si è visto. Ma se è e deve essere pubblico servizio radiotelevisivo, allora mi domando perché ai cittadini non sia consentito di poter conoscere (e quindi di poter deliberare, di scegliere) sulle diverse proposte e le diverse iniziative politiche presenti in "campo". Mentre le TV i telegiornali e i giornali, che pur dovrebbero svolger il loro servizio nell’ottica di servizio pubblico quando macinano carta grazie ai contributi che lo stato finanzia loro, erano pieni di titoli, di servizi e di approfondimenti sul fatto che il ministro Maria Elena Boschi avesse ottenuto la fiducia dei suoi (come si poteva dubitarne?), nulla si è detto invece ai cittadini di un congresso svoltosi, nei giorni del 18 e del 19 dicembre, nella casa circondariale di Opera organizzato da un’associazione politica radicale che si chiama "Nessuno Tocchi Caino". Un congresso al quale hanno partecipato oltre che esponenti Radicali di livello nazionale e di spicco come Emma Bonino, Marco Pannella, Sergio D’Elia, Rita Bernardini da sempre ostracizzati dall’informazione, anche esponenti di istituzioni importanti come il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Santi Consolo che, tra l’altro ha portato un messaggio importante e inedito (se non fosse che si può riascoltare sul sito di radio radicale) del Ministro della Giustizia Andrea Orlando. Un congresso organizzato dall’associazione Nessuno Tocchi Caino impegnata col Partito Radicale da decenni, anche con successi importanti per l’Italia alle Nazioni Unite come quella per la moratoria capitale, e che si batte per l’abolizione della pena di morte nel mondo ma anche contro la pena fino alla morte nel nostro Paese. Il titolo del congresso a cui hanno partecipato - seduti accanto - il capo del DAP, il Presidente emerito della Corte Costituzionale Gianni Maria Flick e più di un centinaio di detenuti ed ergastolani provenienti dalle carceri di tutta Italia; un congresso di cui gli italiani non hanno potuto sapere nulla. Un titolo che da solo poteva esser già notizia: "spes contram spem", in riferimento esplicito al passaggio di Paolo di Tarso, l’Apostolo delle genti, che sulla incrollabile fede di Abramo disse che "ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre dei nostri popoli". E pure l’argomento stesso era notizia: perché si parlava di abolizione della pena di morte e della pena fino alla morte, di abolire cioè l’ergastolo ostativo, quello che porta la dicitura: "fine pena mai" e che è stato più volte detto durante il congresso è contrario alla finalità rieducativa e di reinserimento sociale prevista dall’articolo 27 della nostra Costituzione per la pena detentiva. Quello che mi chiedo è se sia giusto che i cittadini non possano saper nulla di ciò che è avvenuto nel carcere di Opera durante quella due giorni congressuale, di ciò che si sia detto e, soprattuto, chi ha detto cosa. Perché se lo dice il Papa, o se lo dice Marco Pannella che l’ergastolo è sia inumano sia anticostituzionale, anche questa, come quella della Boschi che trova i numeri per non esser sfiduciata, sono delle "non notizie". Nel giornalismo, la regola dovrebbe essere che non è il cane che morde l’uomo la notizia ma, al contrario, l’uomo che morde il cane. Quindi, se il capo del DAP dice che l’ergastolo ostativo ci porta fuori dalla costituzione, questa dovrebbe diventare subito notizia. In un Paese normale ci sarebbero stati titoli, ultim’ora, approfondimenti, e in un Paese democratico si dovrebbe quantomeno aprire un dibattito. Un’intervista almeno a chi queste affermazioni le ha fatte. Invece c’è il silenzio. Un silenzio così assordante di notizie inesistenti, spesso trovate apposta per coprire, magari, qualcosa che non deve esser detto, che non deve esser comunicato. Non si dice nulla del fatto che il direttore di un carcere come quello di Opera con presenti oltre 150 ergastolani, il dott. Giacinto Siciliano abbia detto che è possibile cambiare e conciliare il rispetto della sicurezza con quello dei diritti umani. Nulla si fa conoscere ai cittadini delle parole contenute nel messaggio del Presidente Mattarella inviato a Marco Pannella, agli organizzatori e ai congressisti tutti, un messaggio letto da Rita Bernardini udito solo dai congressisti e gli abituali di radio radicale; né delle parole contenute nel messaggio del Ministro Andrea Orlando che ha affidato il suo scritto a Santi Consolo. Nulla si è saputo di un congresso che ha per titolo quello che, lo stesso Sergio D’Elia segretario riconfermato specifica non essere solo un titolo, ma un vero e proprio progetto, qualcosa che, dice, "allo stesso tempo, è metodo e merito, forma e sostanza, mezzo e fine, cioè un obbiettivo: spes contram spem. Un obbiettivo nel quale c’è anche a fondamento un metodo di lotta politica e civile che è quello di essere noi stessi speranza contro l’avere speranza, contro le tante speranze". Una cosa dirompente detta a dei detenuti con fine pena mai: Pannella dice agli ergastolani e ai detenuti: dovete voi esser speranza non solo per voi stessi, ma anche per i vostri familiari, per chi vi ama. Speranza per lo Stato che diventi Stato di diritto rispettoso della sua stessa Costituzione. Essere speranza contro quello che è stato definito "un marchio indelebile col quale lo Stato dice: tu non cambierai mai". Nulla di tutto ciò è stato raccontato ai cittadini, e nulla delle parole del capo del DAP Santi Consolo sono filtrate dalla cortina di ferro dell’informazione di regime: sull’ergastolo ostativo, dice Santi Consolo, "la mia posizione è nota perché ho già dato parere favorevole a questa abolizione" aggiungendo che "molte cose stanno cambiando in positivo". Il titolo del congresso, dice ai Radicali che l’hanno scelto, "vi rende vicini e sostenitori dell’opera di cambiamento che la Polizia penitenziaria sta portando avanti" ricordando che anche la Polizia penitenziaria ha cambiato motto: despondere spem munus nostrum. Assicurare la speranza, questo è il ruolo, la missione della nostra amministrazione". Poi Consoli, saltando indietro nel tempo, ricorda ai presenti come nacque in Italia l’ergastolo ostativo che ci porta fuori dalla nostra costituzione. "L’articolo 176 del Codice penale era compatibile con l’articolo 27 della Costituzione e nel nostro sistema, noi per primi, l’Italia, abbiamo concepito un articolo che parla di umanità. E che significa umanità? Significa speranza e lo esplicita l’articolo 27 laddove dice che la pena deve tendere alla rieducazione e se non si ha speranza come si può migliorare?". "Perché è successo tutto questo?", si chiede. "Perché abbiamo avuto gli anni di piombo e ricordo i dibattiti: la collaborazione, l’incentivare la legislazione premiale. Perché? Perché eravamo impreparati a comprendere un fenomeno" - spiega Santi Consolo - "perché non lo sapevamo contrastare e, allora, dovevamo premiare chi ci dava informazioni. E poi," - aggiunge ancora - "c’è stato il trionfalismo: abbiamo vinto e, su quella scia, abbiamo utilizzato gli stessi moduli, le stesse strategie per contrastare la criminalità organizzata" e "non ci siamo resi conto che la società aveva bisogno di opportunità, di modelli di vita alternativa che tenessero lontani i nostri consociati dal delitto, dal delitto che non paga mai. Ci siamo calati, da un lato, in un regime differenziato, il 41bis, e dall’altro in una accentuazione, in un’incentivazione della legislazione premiale che è giunta, ed è lì il vulnus dell’intero sistema, lì la violazione della nostra Costituzione che ci porta ad essere incostituzionali". È lì, a quel punto, che scoppia l’applauso degli ergastolani al capo del DAP. "Siamo arrivati ad affermare" - dice ancora il capo del DAP - "che c’è uno sbarramento all’accesso alla liberazione condizionale laddove non c’è collaborazione utile che si deve sostanziare in: o un contributo per evitare che il reato sia portato avanti ad ulteriori conseguenze, ovvero, ma questo si può fare nell’immediatezza, ci deve essere un ravvedimento immediato; e se questo ravvedimento immediato non c’è? Se l’autore del reato viene perseguito dopo molto tempo dalla commissione del reato? O il reato di per sé non offre questa opportunità? Allora bisogna dare un contributo utile o per l’individuazione degli autori o per perseguire nuovi autori". Poi aggiunge che nel legiferare "bisogna essere consapevoli di che cosa è la criminalità organizzata o la criminalità terroristica". E ancora: "Se l’organizzazione è stata sgominata. Quando tutti gli appartenenti a quell’organizzazione sono stati perseguiti, quale possibilità è data al singolo di collaborare. Ad impossibilia nemo tenetur". "Non si può esigere un comportamento collaborativo", dice il capo del DAP, "da chi, de facto e de iure, non può oggettivamente darlo. E, allora, trasformiamo la pena detentiva in pena perpetua che uccide la speranza". La pena perpetua che uccide la speranza e che ci pone fuori dalla nostra costituzione. Parole del capo del DAP cui fanno eco quelle del presidente emerito della Corte costituzionale Flick. Riflessioni importanti su temi importanti cui non solo i cittadini dovrebbero poter conoscere attraverso giornali e telegiornali, ma su cui si dovrebbe fare approfondimento. Argomenti che dovrebbero discutersi persino nelle scuole perché "Riflessioni" con la R maiuscola a cui i giovani cittadini, in primis i giovani, avrebbero diritto di conoscere per comprendere quei valori fondanti della nostra Carta. Un congresso come quello di Nessuno Tocchi Caino dovrebbe essere approfondito da trasmissioni televisive e persino fatto conoscere ai ragazzi delle scuole, trascritto in atti da studiare come si fa per i convegni importanti e non invece dimenticato, ignorato così come si sta facendo, lasciato negli archivi a futura memoria. La televisione avrebbe il compito fondamentale di far conoscere ed educare i cittadini al rispetto dei diritti e a conoscere temi come l’abolizione della pena di morte o della pena fino alla morte; l’abolizione di quell’ergastolo ostativo che uomini dello Stato del calibro di Consoli ci dicono essere anticostituzionale. Meritoriamente qualche giornale è stato attento a non censurare del tutto, ma è qualche mosca bianca in mezzo al mare nero dell’informazione radiotelevisiva e non basta. Servirebbe una TV interamente dedicata ai diritti umani, un TV che aiutasse, assieme alla scuola, a formare cittadini consapevoli e non semplici sudditi. E servirebbe una TV in grado di far conoscere tutte le alternative. Altrimenti i populismi forcaioli trionferanno. Processi lunghi e metà fondi, beffate le vittime dei giudici di Stefano Zurlo Il Giornale, 29 dicembre 2015 Un emendamento Pd alla Stabilità vanifica la legge Pinto; il risarcimento passa da 1.500 a 800 euro. E si deve dimostrare di aver chiesto tempi brevi. "Non ci sono soldi sufficienti". E non c’è nemmeno senso della vergogna. Un emendamento Pd di fatto vanifica la legge Pinto e dimezza il risarcimento per chi è stato vittima di processi-lumaca: si passa da 1.500 a 800 euro. Non solo, per ottenere l’indennizzo ora si dovrà anche dimostrare di aver chiesto tempi brevi. Dopo il danno la beffa. Lo Stato dimezza gli indennizzi per la durata eccessiva dei processi. Alla chetichella, infilando una barriera anti-rimborsi in un comma della legge di Stabilità. "Non ci sono i soldi", allargano le braccia al ministero. E allora ecco che i tecnici, imbeccati dal governo, si sono inventati poche ma micidiali righe al comma 777. Il regalo di Matteo Renzi sotto l’albero delle migliaia di vittime della giustizia lumaca. Risultato: la legge Pinto, sbandierata negli anni scorsi come un biglietto da visita da parte della macchina giudiziaria italiana, viene annacquata. E rischia di diventare uno strumento inservibile nelle mani dei cittadini, già esasperati da procedimenti, penali e civili, che durano a lungo. Troppo a lungo. E fanno a pugni contro tutte le regole della civiltà giuridica. Non importa. Occorre far cassa e risparmiare, scendendo dai 45 milioni circa di oggi a 42 milioni già nel 2016 e a 35,8 nel 2017. Di fatto i procedimenti contro la giustizia lumaca si trasformano in una gimkana. E alla fine per ogni anno in più il poveraccio di turno porta a casa una cifra di gran lunga inferiore a quella stabilita finora: il tetto massimo crolla da 1500 a 800 euro; ed è una magra consolazione l’innalzamento della soglia minima, da 400 a 500 euro. Non solo: il blocco non è solo sul piano del budget, ridotto all’osso, ma entra anche nel merito: il cittadino avrà diritto all’equa riparazione solo se ha utilizzato i rimedi cosiddetti preventivi. Insomma, solo se ha chiesto al giudice di accelerare in ogni modo la causa. Come se fosse colpa sua e non del sistema che scricchiola. Gli esperti sostengono che sul versante civile questa clausola potrebbe portare ad una situazione drammatica: la rinuncia al rito ordinario e la decisione allo stato degli atti, questa la dizione tecnica, col rischio di perdere la causa. Il tutto per mantenere il diritto al "rimborso" dopo anni e anni di attesa. Risarcimento che si riduce ad una mancia o poco più. Poche centinaia di euro. Il nuovo testa parla chiaro: "Vengono modificate le procedure per l’irragionevole durata del processo, contenute nella cosiddetta legge Pinto, ed in particolare viene ridotta l’entità dell’indennizzo; viene introdotto l’obbligo per la parte lesa dall’eccessiva durata di sollecitare l’organo giurisdizionale competente con rimedi preventivi della violazione del termine che rappresentano una condizione di procedibilità della successiva domanda di riparazione del danno". Questo il regalo di Renzi ai 12mila italiani che ogni anno fanno causa allo Stato perché non sono riusciti a stringere fra le mani la sentenza definitiva nell’arco di 6 anni. In particolare, secondo stime del fatto quotidiano.it, un quarto dei ritardi è compreso entro i 3 anni, un robusto 55 per cento è fra i 3 e i 7 anni, il resto va anche oltre. Con amnesie vergognose della giustizia. Eppure le pagine scritte dal senatore del Pd Giuseppe Lumia tolgono le speranze a migliaia di persone già provate da dibattimenti andati avanti col contagocce e da decisioni, favorevoli o contrarie non importa, arrivate comunque troppo tardi. Per Carlo Giovanardi, senatore centrista appena uscito da Ncd e dalla maggioranza, "la politica di Renzi è folle. Crea nuovi reati, alza le pene, allunga le prescrizioni e dall’altra parte taglia i fondi già risicati a disposizione della collettività". Una fine ingloriosa per la legge Pinto che era nata dopo la collezione di figuracce e condanne rimediate dall’Italia alla corte di Strasburgo. Se lo Stato non risarcisce le vittime di violenza di Marco Meliti (Presidente Associazione italiana di diritto e psicologia della famiglia) Il Messaggero, 29 dicembre 2015 Ebbene sì: in Italia se subisci una violenza puoi essere risarcito solo se sei straniero! Lo Stato, infatti, risarcisce economicamente le vittime di episodi di violenza intenzionale - nei casi in cui l’autore del reato non sia stato individuato o non abbia i mezzi per farlo - solamente se la persona offesa non è residente nel nostro Paese. Per gli italiani, invece, la copertura economica è prevista unicamente per le vittime del terrorismo, della criminalità organizzata, delle richieste estorsive o dell’usura. Una contraddizione assurda che ci accomuna, in ambito internazionale, alla sola Grecia, unico Stato insieme all’Italia a non aver recepito in maniera puntuale la direttiva comunitaria numero 80 del 2004 che prevede, appunto, che tutti gli Stati membri provvedano ad istituire un fondo per garantire un equo ed adeguato indennizzo alle vittime di reati intenzionali violenti, nelle ipotesi in cui il condannato risulti nullatenente e indipendentemente dal luogo dell’Unione Europea in cui il reato è stato commesso. Si tratta di una lacuna normativa per la quale il nostro Paese è attualmente soggetto ad una procedura di infrazione da parte della Commissione Ue. Non a caso diversi Tribunali hanno riconosciuto una responsabilità risarcitoria dello Stato derivante dalla mancata piena attuazione della direttiva; cosa che, di fatto, preclude oggi alle vittime residenti in Italia la possibilità di richiedere l’erogazione dell’indennizzo all’istituzione che la norma di adeguamento avrebbe dovuto individuare. Ragione per cui negli ultimi anni, anche grazie all’impegno di avvocati come Massimiliano Santaiti, difensore di Chiara Insidioso Monda, si sta cercando di mettere riparo a questa stortura del nostro sistema normativo, proprio in considerazione del fatto che in Italia i reati più gravi ed efferati vengono commessi da singoli ai danni delle categorie più deboli, come donne e bambini. Occorre, pertanto, che si giunga in tempi rapidissimi ad un pieno recepimento del cosiddetto sistema di Legal Aid, così come internazionalmente riconosciuto ed imposto, in modo da porre la doverosa attenzione ai bisogni delle vittime di violenza intenzionale, della cui condizione di difficoltà dovranno farsi carico le istituzioni e la collettività. Perché non appare degno di uno Stato civile che, oltre al dolore ed alle nefaste conseguenze fisiche e psicologiche derivanti dalla violenza dell’offesa subita, le vittime ed i parenti debbano subire anche i gravi disagi economici legati alle spese sostenute per il processo o per il mancato riconoscimento di un effettivo risarcimento per l’enorme danno sofferto. Pene più severe e maggiori controlli contro il caporalato di Annamaria Capparelli Il Sole 24 Ore, 29 dicembre 2015 Il governo serra le fila per combattere il caporalato. Inasprimento delle pene, ma anche più controlli e un progetto di respiro strategico per sbarrare la strada all’illegalità. Ieri i ministri delle Politiche agricole, Maurizio Martina, della Giustizia, Andrea Orlando e del Lavoro, Giuliano Poletti, hanno fatto il punto con Inps, associazioni agricole e cooperative, industria, sindacati e Gdo, sulle azioni da avviare in parallelo al disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri il 13 novembre e che inizierà l’iter in Senato alla riapertura del Parlamento. Il cuore del ddl sono gli strumenti penali, in particolare l’arresto in flagranza di reato e la confisca dei beni, ma anche gli indennizzi per le vittime, il rafforzamento della Rete del lavoro agricolo di qualità e l’accoglienza. Orlando ha sottolineato l’importanza del cambio di natura delle pene "non solo mera sanzione reclusiva", ma strumenti di carattere patrimoniale "che hanno una forza deterrente maggiore di qualche mese di carcere". Per Martina il 2016 sarà l’anno di svolta. Anche per la "rete del lavoro agricolo di qualità su cui bisogna credere". Finora le adesioni delle aziende sono state limitate, ma la rete è stata ulteriormente rafforzata con l’apertura ad altri soggetti, dagli sportelli unici per l’immigrazione ai centri per l’impiego fino agli enti bilaterali (Assolavoro ha richiesto di estendere la possibilità di parteciparvi anche alle Agenzie per il Lavoro). Martina ha poi annunciato "un piano di accompagnamento dei lavoratori stagionali con ingaggio del terzo settore". Un punto chiave della nuova strategia è infatti l’accoglienza degli stagionali. Per garantire supporto alle fasce più deboli i governo stringerà un patto istituzionale con il volontariato, già oggi in campo su questo fronte, con le imprese agricole e gli enti locali. Non ci sono stanziamenti mirati - ha spiegato Poletti - "ma la cosa importante è far coagire tutti i soggetti". Soddisfatti sindacati e organizzazioni agricole. Il presidente della Coldiretti Roberto Moncalvo, condivide il principio della "corresponsabilità dai campi allo scaffale" ma ha anche ribadito che senza un equo prezzo dei prodotti agricoli si crea spazio per le attività illegali. I sindacati, da parte loro, chiedono che sia dato un contenuto di sgravi fiscali e contributivi al marchio etico delle imprese e dicono no a una riforma del mercato del lavoro. Intanto i dati resi noti ieri dall’Istat (relativi al 2° trimestre 2014) sull’integrazione degli stranieri e naturalizzati nel mercato del lavoro fanno suonare un campanello d’allarme. Dal 2008 al 2014 a fronte di un aumento della quota di stranieri (dal 7 al 10,4%) sul totale degli occupati, il tasso di occupazione ha subito un calo del 6,3%, e la disoccupazione è raddoppiata. Anche se la crisi ha avuto ripercussioni diverse sulle varie comunità. E quasi il 30% di chi ha trovato un’occupazione, soprattutto donne, la ritiene poco qualificata rispetto a titolo di studio e competenze professionali. La tenuità del fatto può prevalere sulla prescrizione di Giovanni Negri IL Sole 24 Ore, 29 dicembre 2015 Corte di cassazione, Terza sezione penale sentenza 22 dicembre 2015 n. 50215. La prescrizione non può essere dichiarata nel giudizio di rinvio quando la Cassazione ha annullato la sentenza impugnata e sollecitato una valutazione sull’applicazione della nuova causa di non punibilità per tenuità del fatto. Lo precisa la corte di Cassazione con la sentenza n. 50215. La pronuncia cancella così la condanna ricevuta in sede di appello da uomo, colpevole, secondo l’accusa, di avere realizzato un abuso edilizio. La Cassazione rinvia al giudice di secondo grado l’esame sulla applicabilità del nuovo articolo 131 bis del Codice penale che sancisce la non punibilità quando il danno provocato è stato particolarmente leggero e la condotta on è abituale. La Corte innanzitutto chiarisce che di tenuità del fatto può parlarsi anche in caso di reati permanenti come quelli edilizi, anche se in linea di massima questo è più difficile vista la continua compressione del bene giuridico tutelato. Tuttavia l’eliminazione dell’opera abusiva, attraverso la sua demolizione, oppure il ripristino dei luoghi interessati dall’abuso, avendo come conseguenza la cessazione della permanenza, può permettere l’applicazione della causa di non punibilità. Per quanto riguarda l’intreccio con la prescrizione nel caso esaminato, la Cassazione ricorda che la questione del concorso tra non punibilità ed estinzione del reato si pone solo quando le stesse sono contemporaneamente applicabili "in partenza" e in questo caso a prevalere è la prescrizione. Ma quando, come nel caso esaminato, la Cassazione, non essendosi verificata la prescrizione, ha annullato la sentenza con rinvio al giudice di merito per l’applicabilità o meno dell’articolo 131 bis (annullamento quindi parziale che ha per oggetto aspetti diversi e autonomi rispetto al riconoscimento dell’esistenza del fatto reato e alla responsabilità dell’imputato), allora "nel giudizio di rinvio non può essere dichiarato prescritto il reato quando la causa estintiva sia sopravvenuta alla sentenza di annullamento parziale". La Cassazione ricorda che la punibilità non può essere considerata elemento costitutivo del reato e che la l’applicazione della tenuità del fatto presuppone comunque un accertamento di responsabilità anche se poi, per ragioni di politica criminale, il colpevole è esentato dalla pena. In realtà, alcuni effetti negativi il reato oggetto del giudizio di tenuità li produce: l’iscrizione nel casellario dei provvedimenti che hanno dichiarato la tenuità e la loro rilevanza nei procedimenti civili e amministrativi. La sentenza allora ricorda anche il principio di formazione progressiva del giudicato che si forma, a causa del verdetto di parziale annullamento deciso dalla Cassazione dei capi della sentenza e dei punti della decisione impugnati, su quegli elementi suscettibili di un’autonoma valutazione, come quello relativo all’accertamento della responsabilità sul reato, che diventano di fatto definitivi, non più oggetto di un nuovo riesame. "La configurabilità del giudicato progressivo comporta, infatti - osserva la Cassazione -, che l’accertamento della responsabilità e l’irrogazione della pena possono intervenire in momenti distinti posto che la punibilità non è elemento costitutivo del reato". Così, la conclusione è nel senso di un accertamento definitivo sulla responsabilità a fronte di una verifica ancora da fare sulla punibilità. Peculato per l’ammnistrativo della Asl che si appropria di somme dovute ai medici di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 29 dicembre 2015 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 28 dicembre 2015 n. 50758. Peculato e non truffa per l’assistente amministrativa della Asl che storna sul suo conto corrente somme dovute ai sanitari. La Cassazione, con la sentenza 50758 depositata ieri, respinge il ricorso dell’amministratrice che negava di avere la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, necessaria a far scattare il reato di peculato, contestando anche che la documentazione contabile, da lei alterata, potesse rientrare tra gli atti pubblici. Inoltre il peculato andava escluso perché mancava l’elemento della disponibilità materiale del denaro: la ricorrente si "limitava" a predisporre i cedolini da sottoporre alla firma del dirigente. La Cassazione però conferma tutto, a iniziare dalla qualifica di incaricato di pubblico servizio. L’azione della ricorrente nel processo di formazione degli atti aveva un carattere sia accertativo, perché tesa a riconoscere le prestazioni di professionisti con incarico pubblico, sia dispositiva perché creava il presupposto per l’uscita delle somme dal patrimonio dell’ente. Un’attività che non poteva essere considerata come mansione d’ordine o prestazione di opera materiale. Né pesa il rapporto di lavoro di tipo privato che legava la ricorrente alla Asl, rilevante solo ai fini delle obbligazioni assunte reciprocamente. Per quanto riguarda l’elemento della disponibilità materiale del denaro, la Suprema corte ricorda che l’appropriazione che caratterizza il reato, è possibile non solo quando c’è una disponibilità di fatto dei soldi ma anche quando questa è giuridica. È questo il caso della ricorrente che aveva il compito di verificare i requisiti per la maturazione del credito, oltre che di individuare i conti correnti dei professionisti consentendo così all’ente di erogare le somme. A questo punto il visto del dirigente - la cui assenza come avvenuto in più di un’occasione non avrebbe impedito i pagamenti in virtù del principio di affidamento -non era che il passaggio finale di un procedimento che sfuggiva al suo controllo. Il dirigente non aveva, infatti, gli elementi per fare le ricostruzione necessaria a verificare l’esattezza delle indicazioni fornite dall’amministratrice infedele. Bancarotta fraudolenta: la pena accessoria di inibizione all’esercizio di impresa dura dieci anni di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 29 dicembre 2015 Corte di Cassazione - Sezione V penale - Sentenza 11 novembre 2015 n. 45190. La Corte di cassazione - con la sentenza della Sezione V, 15 maggio 2015- 11 novembre 2015 n. 45190 , Catapano ed altri, interviene sulla disciplina della durata delle pene accessorie nel reato di bancarotta fraudolenta (articolo 216 del rd 16 marzo 1942 n. 267), seguendo l’orientamento ormai prevalente in forza del quale la pena accessoria dell’inabilitazione all’esercizio di imprese commerciali e dell’ incapacità di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa "per dieci anni", prevista dall’articolo 216, comma 4, del rd n. 267 del 1942, in quanto appunto "determinata" in maniera fissa ed inderogabile in dieci anni si sottrae alla disciplina di cui all’articolo 37 del Cp , che impone invece che la pena accessoria abbia eguale durata a quella principale quando essa non sia predeterminata (cfr., tra le altre, Sezione V, 20 settembre 2007, Bucci; Sezione V, 30 maggio 2012, Pinelli; nonché, più di recente, Sezione V, 18 ottobre 2013, Di Cesare; Sezione V, 19 settembre 2014, Savinelli; Sezione V,18 novembre 2014, Rimini ed altro). L’intervento della Consulta - Va ricordato che, sulla questione, è stata chiamata ad intervenire anche la Corte costituzionale, la quale, con la sentenza 31 maggio 2012 n. 134, ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento agli articoli 3 , 4 , 27, comma 3 , 41 e 111 della Costituzione , dell’articolo 216, comma 4, del rd n. 267 del 1942, nella parte in cui prevede che, per ogni ipotesi di condanna per i fatti di bancarotta previsti nei commi precedenti del medesimo articolo, si applichino le pene accessorie dell’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e dell’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per la durata di dieci anni. Invero, ha osservato il giudice delle leggi, i rimettenti, nel prospettare la violazione del principio di eguaglianza e del principio della finalità rieducativa della pena - unitamente ad ulteriori censure - con riferimento alla predeterminazione nella misura "fissa di dieci anni" della pena accessoria prevista dal comma 4 dell’articolo 216 citato, avevano chiesto alla Corte di aggiungere le parole "fino a" alla disposizione citata, al fine di rendere applicabile l’articolo 37 del Cp (secondo il quale "quando la legge stabilisce che la condanna importa una pena accessoria, e la durata di questa non è espressamente determinata, la pena accessoria ha una durata eguale a quella della pena principale inflitta, o che dovrebbe scontarsi, nel caso di conversione, per insolvibilità del condannato"); in tal modo, tuttavia, richiedevano una addizione normativa che - essendo solo una tra quelle astrattamente ipotizzabili - non costituiva una soluzione costituzionalmente obbligata, ed eccedeva i poteri di intervento della Corte costituzionale, implicando scelte affidate alla discrezionalità del legislatore. La posizione dei giudici di legittimità - La Cassazione, nel seguire questa interpretazione basata sulla durata fissa ed inderogabile della pena accessoria nella bancarotta fraudolenta, supera il diverso orientamento in passato seguito da qualche decisione della corte di legittimità, secondo cui, invece, nella bancarotta fraudolenta la pena accessoria dell’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e dell’incapacità di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa sarebbe determinata dalla legge soltanto nel massimo, onde sua durata dovrebbe corrispondere, ai sensi dell’articolo 37 del Cp , a quella della pena principale inflitta (Sezione V, 31 marzo 2010, Travaini). A voler seguire la tesi qui riaffermata dalla Cassazione, discende che è quindi diversa la disciplina della durata delle pene accessorie nella bancarotta fraudolenta e nella bancarotta semplice, come del resto confermato dalla lettera della legge. Infatti, dal raffronto letterale tra il comma 4 dell’articolo 216 del rd 16 marzo 1942 n. 267 e il comma 3 dell’articolo 217 dello stesso rd emerge la netta differenza voluta dal legislatore rispettivamente per la bancarotta fraudolenta e per quella semplice. Nel primo caso, la condanna importa "per la durata di dieci anni" l’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa. Nel secondo caso, è previsto che la condanna importa l’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e l’incapacità di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa "fino a due anni". In definitiva, nell’ipotesi più grave della bancarotta fraudolenta, il legislatore ha voluto che, quale che sia la pena principale, il soggetto fosse posto in condizioni di non operare nel campo imprenditoriale dove ha creato danno e "disordine" per il (considerevole) lasso di tempo di dieci anni; nell’ipotesi meno grave della bancarotta semplice, l’inabilitazione e l’incapacità hanno un "tetto" molto meno elevato e la loro effettiva durata è rimessa all’apprezzamento del giudice: nel primo caso, la proibizione dura ininterrottamente per una decade, nel secondo, invece, non può superare il biennio ma può quindi anche coprire un più ridotto arco temporale (cfr. Sezione V, 30 maggio 2012, Pinelli ed altri). Sulla diversa disciplina della durata delle pene accessorie nella bancarotta semplice, cfr. anche, di recente, Sezione V, 5 giugno 2014, C., secondo la quale, appunto, in tema di bancarotta semplice, le pene accessorie previste dal comma 3 dell’articolo 217 della legge fallimentare (inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa) devono essere commisurate alla durata della pena principale, in quanto, essendo determinate solo nel massimo "fino a due anni", sono soggette alla regola dettata dall’articolo 37 del Cp , per il quale la loro durata è uguale a quella della pena principale inflitta. Circostanza aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico Il Sole 24 Ore, 29 dicembre 2015 Reato - Reati contro la persona - Aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso - Configurabilità. L’aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso (art. 3 D.L. n. 122 del 1993, conv. in legge n. 205 del 1993) è configurabile nel caso di ricorso a espressioni ingiuriose che rivelino l’inequivoca volontà di discriminare la vittima del reato in ragione della sua appartenenza etnica o religiosa. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 28 ottobre 2015 n. 43488 Reati contro la persona - Stalking - Odio razziale - Reati commessi con la finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso - Circostanza aggravante - Presupposti. La circostanza aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso è integrata quando - anche in base alla Convenzione di New York del 7 marzo 1966, resa esecutiva in Italia con la legge n. 654 del 1975 - l’azione si manifesti come consapevole esteriorizzazione, immediatamente percepibile, nel contesto in cui è maturata, avuto anche riguardo al comune sentire, di un sentimento di avversione o di discriminazione fondato sulla razza, l’origine etnica o il colore e cioè di un sentimento immediatamente percepibile come connaturato alla esclusione di condizioni di parità, non essendo comunque necessario che la condotta incriminata sia destinata o, quanto meno, potenzialmente idonea a rendere percepibile all’esterno - e, quindi, a suscitare - il riprovevole sentimento o, comunque, il pericolo di comportamenti discriminatori o di atti emulatori, anche perché ciò comporterebbe l’irragionevole conseguenza di escludere l’aggravante in questione in tutti i casi in cui l’azione lesiva si sia svolta in assenza di terze persone. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 18 giugno 2015 n. 25756. Reato - Reati contro la persona - Aggravante della finalità di discriminazione razziale - Configurabilità - Movente della condotta - Irrilevanza. La circostanza aggravante della finalità di discriminazione razziale è configurabile per il solo fatto dell’impiego di modalità di commissione del reato consapevolmente fondate sul disprezzo razziale, restando irrilevanti le ragioni, che possono essere anche di tutt’altra natura, alla base della condotta. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 15 luglio 2013 n. 30525. Reato - Reati contro la persona - Aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso - Necessità che la condotta sia percepita o percepibile da terzi - Esclusione. In materia di aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso non è necessario, ai fini della configurabilità, che la condotta incriminata sia percepita da terze persone. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 12 giugno 2013 n. 25870. Reato - Reati contro la persona - Aggravante della finalità di discriminazione e di odio razziale - Condizioni per la configurabilità. Integra il reato di minaccia aggravato dalla circostanza della finalità di discriminazione o di odio etnico, razziale o religioso, la condotta di colui che effettui telefonate all’indirizzo della persona prospettandole alcuni mali ingiusti, rientranti nel genere di quelli praticati in un lager nazista (stupro etnico razziale), e manifesti odio nei confronti del popolo ebraico ed esultanza per le persecuzioni di cui è stato vittima, considerato che la finalità di odio razziale e religioso sussiste non solo quando il reato sia rivolto ad un appartenente al popolo ebraico, in quanto tale, ma anche quando sia indirizzato a coloro che, per le più diverse ragioni, siano accomunati dall’agente alla essenza e ai destini del detto popolo. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 12 gennaio 2012 n. 563. Reato - Reati contro la persona - Aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso - Configurabilità - Condizioni. L’aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso (articolo 3 del Dl n. 122 del 1993, convertito dalla legge n. 205 del 1993), è configurabile quando essa si rapporti, nell’accezione corrente, a un pregiudizio manifesto di inferiorità di una sola razza; mentre non ha rilievo la mozione soggettiva dell’agente, né è necessario che la condotta incriminata sia destinata o, quanto meno, potenzialmente idonea a rendere percepibile all’esterno e a suscitare il riprovevole sentimento o, comunque, il pericolo di comportamenti discriminatori o di atti emulatori, giacché ciò varrebbe a escludere l’aggravante in questione in tutti i casi in cui l’azione lesiva si svolga in assenza di terze persone. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 28 dicembre 2009 n. 49694. Oristano: spazi troppo stretti nel carcere di Massama, protesta dei detenuti sardegnaoggi.it, 29 dicembre 2015 A Oristano trenta detenuti, appena usciti dal regime 41bis, protestano per le condizioni del carcere. "Spazi troppo stretti". "Il trasferimento da Badu e Carros al carcere di Oristano-Massama di 30 detenuti appena usciti dal regime di massima sicurezza 41bis ha determinato una minore disponibilità di spazi nelle celle, nella saletta destinata alla socialità e nel cortile per le ore d’aria. Insomma la struttura penitenziaria, peraltro con un numero di ristretti oltre quello regolamentare, non è in grado di garantire ai detenuti, in particolare agli ergastolani, né la cella singola, né sufficienti ampi ambienti fuori dalle stanze detentive e neppure nella zona destinata ai passeggi". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", con riferimento alla lettera con cui "30 cittadini privati della libertà hanno protestato per le condizioni di vita all’interno della Casa di Reclusione di Massama". "La missiva - sottolinea Caligaris - descrive una condizione inaccettabile specialmente in considerazione delle ultime circolari emanate dal Capo del Dipartimento con cui si raccomanda un’azione volta a coniugare gli obiettivi della sicurezza con quelli del trattamento favorendo quindi in particolare una mobilità interna e attività in modo da considerare la cella solo come luogo per il pernottamento". "La sezione As1 di Oristano - hanno scritto nella lettera i detenuti che hanno inviato il documento di protesta tra gli altri al Ministro della Giustizia Andrea Orlando, al Capo del Dap Santi Consolo nonché al Garante dei Detenuti Mauro Palma e a diversi parlamentari - è composta da 20 stanze con due posti letto. Oggi siamo 30 reclusi, altri due sono in arrivo. Se andiamo tutti contemporaneamente nella saletta della socialità (50 mq calpestabili) o nel cortile passeggio a causa dello spazio indisponibile non possiamo muoverci in modo indipendente e agevolmente nelle condizioni normali figuriamoci se si considerano i detenuti che praticano la corsa". "È evidente che l’espiazione della pena detentiva deve avvenire in condizioni tali da garantire le attività trattamentali e quindi gli spazi idonei alle iniziative culturali e ricreative. Il numero eccessivo di persone private della libertà non consente invece di promuovere costanti e qualificati percorsi riabilitativi negando pertanto lo scopo principale della restrizione. L’auspicio è che il Dipartimento riveda i criteri di assegnazione dei detenuti in Sardegna stabilendo un "numero chiuso" in considerazione degli spazi disponibili. La pena inflitta dai Giudici non contempla ulteriori pesi, oltre a quello significativo di esclusione dalla vita sociale, e la detenzione deve raggiungere la finalità di costruire con chi ha sbagliato una differente scala di valori, condivisa da chi vive nella legalità". Palermo: Apprendi (Antigone); subito un’ispezione del ministero al carcere Pagliarelli di Marta Genova meridionews.it, 29 dicembre 2015 "Sono 108 i casi di detenuti in isolamento fino ad ottobre: un dato altissimo - dice il presidente di Antigone Sicilia - Perché devono stare in quella condizione? Inoltre è scarsissima la presenza di psicologi e pochissime le ore mensili a disposizione per centinaia di detenuti". Lo scorso 22 dicembre un uomo di 64 anni si è tolto la vita all’interno del carcere Pagliarelli di Palermo. Era detenuto nel reparto Laghi, un reparto a vigilanza dinamica. Dopo solo ventiquattro ore, un altro detenuto ha tentato il suicidio impiccandosi. È avvenuto mentre all’interno del reparto che ospita le detenute, era in corso la visita dell’arcivescovo Corrado Lorefice. L’uomo è stato salvato e le sue condizioni migliorano. Secondo Pino Apprendi, presidente di Antigone Sicilia, però, all’interno del carcere c’è una situazione di emergenza. "C’è un diffuso disagio nel carcere Pagliarelli, sul quale bisogna accendere i riflettori e che ho denunciato già lo scorso ottobre durante una visita nel penitenziario. Ci sono 108 casi di detenuti in isolamento fino ad ottobre: un dato altissimo. Perché devono stare in isolamento? Ho parlato con specialisti, con lo stesso psichiatra del reparto degenza del carcere e con la direttrice. Tutti sono d’accordo col fatto che l’isolamento possa peggiorare certe situazioni. Perché non metterli sotto stretta sorveglianza senza isolarli?". A ciò si aggiunge la "scarsissima" presenza di psicologi, che per centinaia di detenuti hanno a disposizione pochissime ore mensili. Ma non si tratta delle uniche criticità evidenziate. "Ho parlato con due ragazzi - racconta ancora Apprendi - e si lamentavano uno dell’isolamento appunto e l’altro mi ha raccontato che aveva avuto perdite di sangue e chiedeva una visita medica che non ha mai avuto. Quando ho chiesto spiegazioni al medico del carcere ho ottenuto come risposta un atteggiamento superficiale e leggero. Non criminalizzo nessuno ma so che c’è un disagio enorme all’interno del carcere e per questo chiedo un’ispezione del ministero di Giustizia. Chiediamo al ministro Orlando di avviare un’indagine su quanto accade in questo carcere, partendo dai fatti odierni e dal numero di detenuti in isolamento in questo anno". Firenze: la bimba di pochi mesi che vive nel carcere di Sollicciano globalist.it, 29 dicembre 2015 La denuncia dei Radicali dopo la visita nel giorno di Natale: a Firenze manca una struttura adeguata ad ospitare le mamme detenute. Non può accadere, non deve accadere quel che accade nel carcere di Sollicciano c’è una bambina di pochi mesi, che vive qui insieme alla madre detenuta. A denuncialo, i Radicali di Firenze, che hanno visitato l’istituto penitenziario fiorentino nel giorno di Natale con il leader del gruppo politico Marco Pannella. La notizia è rilanciata da "Redattore Sociale". "È doveroso segnalare - denunciano i Radicali - che Firenze attende da troppi anni l’attivazione di un istituto a custodia attenuata (Icam) per madri detenute; è stata individuata la struttura, i fondi sono stati accantonati, ma tutto resta bloccato, apparentemente per motivi di natura burocratica". La delegazione dei Radicali, accompagnata nel carcere dal cappellano Don Vincenzo Russo, ha constatato il permanere di molte situazioni critiche e di rilevanza strutturale, già evidenziati in precedenti visite: forti carenze igieniche, mancanza di acqua calda nelle celle, estese infiltrazioni di acqua provenienti dai tetti, diffusa presenza di letti a castello a tre piani, nonostante siano pericolosi e da tempo vietati dai regolamenti. Sono stati constatati, infatti, anche alcuni miglioramenti, minor grado di sovraffollamento, la presenza di ambulatori attivi, presidi sanitari funzionanti e la creazione di un campo di rugby all’interno dell’istituto. Oltre alla presenza della piccolina, è stata rilevata anche "la presenza all’interno del carcere della Casa di Cura e Custodia (l’Opg femminile) con cinque internate". "Sono passati nove mesi dall’approvazione della legge 81, che dando il via al superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, ha imposto la chiusura di tali istituzioni - hanno detto i Radicali - Ciò nonostante la presenza di cinque internate evidenzia, ancora una volta, gravi carenze nell’applicazione della legge, ai limiti dell’illegalità". Rovigo: dallo scandalo alla svolta, apre il supercarcere Corriere Veneto, 29 dicembre 2015 All’interno massimo 204 detenuti. Dentro il cortile e i locali a servizio delle persone rinchiuse, le palazzine con i 90 alloggi destinati agli agenti. Attivo da giovedì. Da giovedì pomeriggio sarà operativo il nuovo carcere di Rovigo. Lo diciamo subito: non è una notizie come le altre. Questo, infatti, è il complesso che era stato completato nel 2013, dopo lavori costati ben 29 milioni di euro, ma che poi era rimasto abbandonato a se stesso. Era stato il Corriere del Veneto, in un’inchiesta dello scorso 10 settembre, a far riemergere il caso, raccontando del rimpallo di responsabilità tra ministeri sulle competenze per l’apertura del polo detentivo. Proprio all’indomani del servizio, il ministro della Giustizia Andrea Orlando rispose alle nostro domande, assumendosi l’impegno di occuparsi direttamente della vicenda. Poi, lo stesso Orlando, a stretto giro di posta, scrisse al Corriere del Veneto garantendo l’apertura entro il 2015. Il trasloco, completato in questi giorni, dà dunque ragione al ministro. Dopodomani sarà così scongiurato il fantasma che ha aleggiato non poco sul Polesine: quello dell’ex carcere di Codigoro (Ferrara), distante pochi chilometri da Rovigo. Una struttura costata 3,6 milioni di euro e mai aperta, venendo poi abbandonato al suo destino fino al 2013 quando viene concesso - provvisoriamente - dal Demanio al Comune ferrarese. A prendere servizio il 31 dicembre nella nuova struttura, che nasce a ridosso della Tangenziale Est dietro la cittadella sanitaria dell’Usl 18, saranno solo alcuni agenti penitenziari. I detenuti saranno trasferiti dopo l’Epifania. Che ormai il movimento per il trasloco dalla vecchia e criticata casa circondariale di via Verdi fosse nell’aria si è visto alcuni giorni prima di Natale. Una quarantina di detenuti, quelli non residenti e Polesine e con la pena più lunga da scontare, sono stati spostati in altre carceri del Triveneto. La restante ventina, invece, è stata impiegata a scaricare materiale destinato al nuovo carcere. Saranno loro, quindi, i primi "clienti" della nuova struttura in tangenziale. Anche l’avvicendamento a sua volta sarà in tono minore. All’appello infatti mancano numerosi agenti penitenziari, anche se a dicembre l’organico di circa 60 lavoratori è stato rinfoltito di nove unità ed entro il mese prossimo ne arriveranno altri sei. Il complesso carcerario rodigino, la cui prima pietra fu posta nel luglio 2007 dall’allora guardasigilli Clemente Mastella ai tempi del secondo governo Prodi, occupa una superficie di 26mila metri quadri in superficie. Al suo interno vi potranno stare 204 detenuti al massimo. Dentro vi sarà il cortile e i locali a servizio delle persone rinchiuse, le palazzine con i 90 alloggi destinati agli agenti. Inoltre, troveranno posto l’area detenzione, gli edifici per il personale, strutture per le attività rieducative, con aule e laboratori dedicati ad attività di formazione. Il nuovo carcere sarà dotato anche di una chiesa e di uno spazio di preghiera multi religioso, di una sala polivalente, di una palestra, di un campo sportivo e l’infermeria. La separazione dall’esterno è garantita da un muro di cinta alto sette metri e mezzo. I lavori sarebbero dovuti essere ultimati in tre anni, ma ce ne sono voluti sei per via dei cambi di progetti e della crisi che ha rallentato l’azione delle ditte costruttrici. Una volta ultimato il cantiere nel 2013, però, l’apertura è sempre stata rimandata fino a quando, lo scorso settembre, i deputati veneti Diego Crivellari (Pd) e Francesca Businarolo (M5s) e il senatore Antonio De Poli (Udc) hanno presentato delle interrogazioni sulla questione. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, l’organo operativo del ministero della Giustizia che gestisce le carceri italiane, ha dovuto chiarire ufficialmente che il complesso "non è stato ancora consegnato dal ministero delle Infrastrutture, che ha curato la realizzazione dell’opera, al Demanio dello Stato (proprietario del bene) e in uso governativo all’amministrazione penitenziaria per gli usi istituzionali". Catania: lavori socialmente utili per 50 detenuti La Sicilia, 29 dicembre 2015 Nell’arco del prossimo anno 50 detenuti verranno impiegati per lavori socialmente utili nel territorio del Comune di Catania. Lo prevedono due convenzioni sottoscritte stamane dal Comune del capoluogo etneo sia con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Ufficio di Esecuzione penale Esterna) - che con il Tribunale. Le due convenzioni sono state firmate dal sindaco Enzo Bianco, dal presidente del Tribunale Bruno Di Marco e dal direttore dell’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna Letizia Bellelli alla presenza dell’assessore alla Legalità, Verde e Ecologia Rosario D’Agata. "Il comune di Catania - ha detto Bianco - dà molta importanza a questo atto. La pena secondo la Costituzione deve avere sempre un valore rieducativo. Abbiamo già sperimentato in questa direzione con i minori soggetti a restrizione ottenendo un ottimo risultato anche grazie alla collaborazione con la Scuola Edile. Pensiamo di utilizzare queste persone per la manutenzione del verde dei parchi cittadini e degli edifici comunali e per pulire i muri dalle scritte". "Faremo un’accurata ricerca e valutazione insieme agli uffici preposti per indirizzare al meglio ogni singolo individuo. Ovviamente non è prevista nessuna remunerazione. Sono orgoglioso - ha aggiunto - che la città di Catania sia tra le prime a realizzare un progetto di questo genere. Sono particolarmente contento che si parte in questi giorni: Natale è per tutti e lo è innanzitutto per coloro che si trovano in stato di sofferenza. Ringrazio il presidente di Marco e la direttrice Bellelli per averci dato la possibilità di realizzare questo importante progetto". Ivrea (To): oltre 50 detenuti per il progetto "Cambio di rotta" La Sentinella del Canavese, 29 dicembre 2015 Sono oltre una cinquantina i detenuti della Casa circondariale che nel 2014/15 hanno partecipato al progetto Cambio di rotta, finanziato dalla Compagnia di San Paolo e promosso dalle Politiche sociali del Comune in collaborazione con enti locali, consorzi, cooperative, Asl e aziende dell’eporediese. "Possiamo dire - ha detto l’assessore Augusto Vino - che Cambio di rotta, l’ultimo realizzato in continuità con i precedenti dal Comune, è stato un progetto di successo, che ha raggiunto i suoi obiettivi e, con i vari progetti, abbiamo costruito una competenza da mettere in campo per futuri progetti". Daniela Teagno dell’Università di Torino, dopo l’esposizione del progetto da parte della coordinatrice Luisa Delfino e Rosalina Bagna, ha reso noti i risultati dei 54 questionari dei detenuti impegnati nei vari laboratori: 3 di legatoria, 3 di falegnameria, 8 di comunicazione e nei 14 tirocini di cui 1 interno al carcere e 13 sul territorio. I detenuti interessati (l’80% italiani) hanno detto di essere molto soddisfatti per il 33%, soddisfatti il 21%, poco soddisfatti il 3%. "Sono stato in una azienda agricola - ha raccontato un ex detenuto - poi, grazie a quello che ho imparato, ho avviato insieme a mia moglie un’attività che ancora funziona". Alle critiche sul fallimento delle politiche a favore del mondo carcerario fatte dal garante per i diritti dei detenuti Armando Michelizza, è stato risposto che il budget per le iniziative dell’Uepe (Ufficio Esecuzioni Penali Esterne) passa nel 2016 dal 3 al 7%, che le misure alternative al carcere sono in crescita, e che la competenza della Casa circondariale passa dal prossimo anno da Biella a Torino. Allo Zac, dopo la presentazione, il mercatino con prodotti realizzati dai detenuti, tra i quali i prodotti di legatoria e rilegatura esposti e messi in vendita dall’associazione Evasioni Creative, manufatti in legno presentati dai volontari penitenziari. Milano: le ostie si sfornano in carcere di Agnese Pellegrini Famiglia Cristiana, 29 dicembre 2015 Nel penitenziario di Opera, alle porte di Milano, tre uomini condannati per omicidio impastano le particole: "Sono il frutto della nostra redenzione". Un chilo di farina doppio zero, tre cucchiai ("belli abbondanti, però!") di amido e una caraffa d’acqua. Ciro versa gli ingredienti, meticoloso. Ha gli occhi celesti, il sorriso ampio e un irresistibile accento napoletano. Mescola con cura, perché non si formino grumi. Ha le mani grandi e forti, ma impugna il cucchiaio con riverenza. Ciro, con quelle mani, ha ucciso. Ha ucciso: fine pena, mai. "L’impasto deve rimanere cremoso", spiega. Poi prende il mestolo, lo riempie fino a metà, e lo versa su una piastra bollente: "Il segreto è chiudere subito il coperchio dello stampo e attendere un minuto esatto". Il valore del lavoro. Ciro ha un timer da cucina, ma la prima regola che impari in carcere è che dietro le sbarre le ore non si calcolano con gli orologi: "Un minuto corrisponde al tempo che impiego per recitare un’Ave Maria", confida. Poi apre la piastra e le sue mani sollevano un foglio di pasta. Sottile e croccante. Cristiano lo prende che è ancora caldo: si siede al bancone, con la schiena dritta. È l’addetto al ritaglio: tra le sue mani, questa pellicola bianca e fragrante si trasforma in centinaia di ostie. Giuseppe le raccoglie, le controlla, scarta quelle che non sono incise bene, poi le avvolge in una busta trasparente e le sigilla. Mani pazienti che tagliano, rifiniscono, imbustano. Mani che in passato hanno tolto la vita. E che oggi danno forma al pane che diventerà il corpo di Cristo. Nel carcere di massima sicurezza di Opera, a Milano, con un pugno di farina e un po’ di acqua, Ciro, Cristiano e Giuseppe provano a vivere il "loro" Giubileo della misericordia. Grazie al direttore Giacinto Siciliano, che ha messo a disposizione un laboratorio attrezzato, e alla fondazione Casa dello spirito e delle arti, che ha procurato le due piastre con cui è possibile produrre circa 700 particole per ogni impasto. Che poi vengono consegnate alle parrocchie, consacrate durante il rito della Messa e distribuite ai fedeli. Un lavoro impegnativo, ma anche una speranza. Quanto pesano gli errori. "In passato", raccontano i tre detenuti, "ci siamo macchiati della più atroce violazione dei dieci comandamenti di Dio, cioè di omicidio. Oggi, però, possiamo far arrivare il frutto della nostra volontà di redenzione ai cuori delle persone, soprattutto di quelle la cui sofferenza è dovuta ai crimini da noi stessi commessi". Per i quali stanno scontando pene pesantissime. Ciro, per esempio, è "dentro" da 34 anni: "Dieci anni per tentato omicidio, poi sono uscito e dopo dieci mesi ero di nuovo in carcere. Per omicidio". Ha perso quasi tutto, da allora: amici, lavoro, futuro. Ma non l’amore della moglie e della figlia, che ha 24 anni ed è nata con il padre già condannato all’ergastolo. Soprattutto, non ha smarrito la fede. "Non potrei mai", afferma. "La preghiera per me è fondamentale". Giuseppe è dietro le sbarre da 20 anni, ha 48 anni ed è già nonno: anche per lui, il fine pena non arriverà mai. È il più taciturno del gruppo, scuote la testa se un’ostia è troppo cotta, o se è tagliata male. "Sembra un lavoro meccanico il mio, ma ti cambia dentro", ammette. "Fare qualcosa di cui puoi vedere i risultati, e nel frattempo pregare, ti fa star bene. Ti fa sentire vivo. È una profonda esperienza spirituale, ma anche umana, perché questo momento di conversione si accompagna alla possibilità di impegnarsi concretamente in un lavoro, un progetto i cui frutti ci danno dignità. E che bello sapere che centinaia di parrocchie ricevono le ostie dalle nostre mani!". Che così diventano strumento di pace. Riflettere sul male. "Sono numerosi i sacerdoti coinvolti", spiega Arnoldo Mosca Mondadori, fondatore e anima della Casa dello spirito e delle arti, "non soltanto in Italia, ma anche in Francia, a Nairobi, Sri Lanka, Congo, India. Attraverso questo progetto vogliamo far nascere tra i fedeli una riflessione sul tema del male e sul fatto che ogni essere umano ha bisogno di essere salvato da Cristo. In questo modo diamo valore al percorso di conversione fatto dai detenuti; ma proponiamo anche una possibilità di consapevolezza a tanti cristiani che, spesso, si avvicinano all’Eucaristia solo per abitudine". Il desiderio più grande è quello di offrire le ostie al Papa, perché le consacri durante una celebrazione eucaristica. "Mi piace questo lavoro", racconta Cristiano, "mi fa sentire meglio". Ha gli occhi lucidi per la febbre, ma nel laboratorio è arrivato puntuale. Illustra come ottenere un ritaglio "centrato", sottolinea quanta attenzione occorra per non spezzare il foglio di pasta e quale forza imprimere alla leva per una rifinitura precisa della particola. È il più giovane dei tre, questo bel ragazzo dagli occhi scuri e i jeans alla moda. "Ho sbagliato e ho chiesto perdono", confessa. "Incontrare il Papa sarebbe un sogno". Ciro gli dà un buffetto, anche lui ha un sogno: "Mi piacerebbe poter uscire da qui, anche solo per qualche ora, e accompagnare mia figlia a vedere Milano, andare fino al Duomo... L’abbraccerei forte, la terrei sempre per mano". Mani di assassino, mani di peccatore, mani di padre. Empoli: cuccioli di cani-guida affidati a detenute semilibere della casa circondariale Ansa, 29 dicembre 2015 Una convenzione con la casa circondariale di Empoli prevede l’affidamento di cuccioli da socializzare ed educare alle detenute in regime di semilibertà. La Scuola nazionale cani guida per ciechi della Regione Toscana l’ha siglata di recente con il carcere di Empoli, dopo l’esperienza positiva con la Casa circondariale di Prato. "È un progetto - ha detto l’assessore al sociale della Regione Toscana - con forte valenza pedagogica". "Il regolamento della Scuola cani di Scandicci - afferma l’assessore al sociale Stefania Saccardi - prevede che i cani nel loro primo anno di vita possano essere affidati a enti pubblici o privati convenzionati che siano abilitati allo svolgimento di percorsi di riabilitazione o di reinserimento sociale. Per questo, anche sulla base del precedente positivo con il carcere di Prato, abbiamo deciso di accogliere la richiesta di Empoli e di avviare anche con loro questo progetto che siamo convinti abbia una forte valenza pedagogica". I cuccioli di labrador o golden retriever saranno affidati a detenute in semilibertà preventivamente selezionate e che abbiano ricevuto una valutazione positiva dal personale incaricato della scuola. Intanto, dalla firma della convenzione ad oggi è stata valutata positivamente una persona, ed è stata aperta la procedura per l’affidamento. In base alla convenzione la scuola fornirà insieme al cucciolo tutto l’occorrente, da collare, guinzaglio, spazzola, museruola, cibo e ciotola ai materiali relativi al programma di socializzazione ed educazione. La durata dell’affidamento è di 12/14 mesi e tutto si svolge su base volontaria. Torino: al Ferrante Aporti la tavoletta di cioccolato realizzata dai giovani detenuti torinotoday.it, 29 dicembre 2015 Da gennaio 2016 sarà in vendita "La Vita…", tavoletta di cioccolato interamente realizzata dai giovani detenuti dell’Istituto Penitenziario Minorile Ferrante Aporti coinvolti nel progetto Spes@Labor. Spes@Labor è un progetto di Comunità Murialdo Piemonte partito nel 2013 in collaborazione con l’Istituto Penale per Minorenni Ferrante Aporti, che mira al reinserimento di giovani detenuti all’interno del tessuto sociale, mediante interventi di inclusione lavorativa e professionale. Il programma prevede l’apprendimento delle competenze dell’addetto alla produzione del cioccolato attraverso la formazione teorica e la pratica nel laboratorio allestito all’interno del carcere. In parallelo l’attività educativa fa sì che l’esperienza pratica diventi per il giovane anche occasione per relazionarsi e imparare a "fare bene insieme" in un luogo, il laboratorio del cioccolato, dove vengono privilegiati ascolto e condivisione. In questi anni il progetto si è evoluto dando priorità al percorso teorico ed educativo per formare i giovani ad essere realmente pronti all’esterno, nel lavoro e nei rapporti con il prossimo. I ragazzi coinvolti vengono anche in piccolo retribuiti attraverso le borse lavoro di cui beneficiano sia i detenuti al Ferrante Aporti, sia i ragazzi in penale esterna che svolgono la pratica presso la Fabbrica del Cioccolato del Gruppo Spes s.c.s. in via Saorgio 139/b a Torino. Ad oggi hanno partecipato al progetto 25 ragazzi, in gran parte sudamericani, nordafricani e rumeni. In questi due anni, due ragazzi che hanno partecipato al progetto in Istituto hanno proseguito la loro esperienza nella Fabbrica di Cioccolato del Gruppo Spes s.c.s. e ben cinque ragazzi, concluso il percorso, hanno continuato a collaborare con il Gruppo Spes s.c.s. Spes@Labor deve il suo successo e la sua continuità a UniCredit Foundation che ha finanziato il progetto in fase di start up, in seguito raccolto dal MIUR attraverso l’Istituto Comprensivo di via Sidoli a Torino, che tuttora lo sostiene. La tavoletta è interamente realizzata all’interno dell’Istituto Ferrante Aporti: non solo la lavorazione del cioccolato, ma anche le fasi di incarto e di imballaggio sono affidate ai detenuti grazie ad un sistema di packaging pensato per essere assemblato in un luogo così particolare e restrittivo come quello del carcere. I giovani detenuti hanno scelto il nome "La Vita…" perché rappresenta tutto il tempo che hanno ancora davanti, il loro futuro. "La Vita…" è una tavoletta da 70 grammi, prodotta con cioccolato fondente o al latte, attualmente in vendita al costo di 2 euro solo presso la Bottega Golosa Spes in via Saorgio 139/b a Torino e in alcuni istituti scolastici torinesi. Comunità Murialdo Piemonte e Gruppo Spes s.c.s. sono parte dell’Opera Torinese del Murialdo, concreta presenza sul territorio della Congregazione dei Giuseppini del Murialdo. L’Opera Torinese del Murialdo pone al centro i giovani e si adopera ad accogliere ed accompagnare, in un ambiente educativo di eccellenza, verso l’autonomia, i ragazzi in difficoltà aiutandoli nella formazione e nella ricerca di un mestiere con cui dare dignità alla propria persona e al proprio futuro. Taranto: "mezzi fatiscenti per trasferire i detenuti", l’allarme del Sindacato Sappe tarantosera.it, 29 dicembre 2015 "Nemmeno la spettacolare evasione di "triglietta" dall’ospedale di Lecce ha convinto l’amministrazione penitenziaria regionale e nazionale a prendere provvedimenti affinché ciò non accada più". Così Federico Pilagatti, segretario nazionale del Sappe. "Infatti in qualsiasi ora del giorno o della notte, quanto accaduto a Lecce può replicarsi a Taranto, Foggia, Trani, Bari, poiché nulla è cambiato - prosegue il dirigente sindacale - le traduzioni dei detenuti partono quasi sempre sotto scorta ed i mezzi sono completamente fatiscenti. Ciò può avvenire anche perché poi le responsabilità che partono dall’altro, alla fine scendono ai più piccoli che pagano per tutti in prezzo non più accettabile. Proprio per questo in occasione del Natale e fine anno, il Sappe, sindacato autonomo polizia penitenziaria, quello più rappresentativo della categoria con oltre il 40%, invita tutti a riflettere a partire dalle istituzioni e dalla politica, cosa potrebbe accadere prossimamente se si continua a negare il problema, soprattutto ai cittadini che potrebbero trovarsi in situazioni drammatiche per colpe assai precise". Se la crisi italiana parla straniero di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 29 dicembre 2015 Rapporto Istat. I dati impietosi sull’integrazione dei migranti nel nostro mercato del lavoro: il costo più alto lo pagano loro. Tanto più alto è il titolo di studio tanto più rischia di escludere o di impedire l’accesso a un’occupazione. La crisi ha colpito i lavoratori stranieri più degli italiani. Chi ha resistito tra un part-time involontario e un contratto a termine di breve durata, oggi si ritrova intrappolato in un mercato del lavoro fatto di occupazioni poco qualificate e non corrispondenti al livello di conoscenze acquisite con una laurea. Il rapporto Istat sull’integrazione degli stranieri nel mercato del lavoro italiano, pubblicato ieri, descrive un paese che comincia ad assumere un profilo più simile a quelli europei con storie di immigrazione consolidate, ma anche un mondo dove vige un’unica legge uguale per tutti: la precarietà e la sotto-occupazione. Nel 2014 i lavoratori stranieri attivi tra i 15 e i 74 anni erano 2,3 milioni. La popolazione nata all’estero è stimata in 5 milioni 169 mila individui ed è aumentata del 58,8% dal 2008. Un aumento notevole dovuto anche alla quota dei nati all’estero che è "molto elevata per gli stranieri e i naturalizzati". Su questa realtà, in crescita, si è abbattuta la crisi. Tra il 2008 e il 2014 la partecipazione alle attività lavorative degli stranieri, che è stata superiore tra gli stranieri rispetto a quella degli italiani, si è fermata, In sei anni il tasso di occupazione è sceso di 6,3 punti percentuali (-3,3 punti tra gli italiani), con una parallela crescita della disoccupazione (+7,1 punti rispetto a +5,2 per gli italiani) e dell’inattività. Questo non ha fermato le migrazioni, a dispetto di un lavoro povero e stagnante. Il 57% degli stranieri nati all’estero e un terzo dei naturalizzati cercano un’occupazione. Tra gli altri motivi sono quelli legati ai ricongiungimenti familiari. La crisi ha prodotto gli effetti più negativi sui marocchini, prevalentemente occupati nell’industria e nel commercio: il loro tasso di occupazione è sceso di oltre 17 punti. Poi ci sono i bengalesi, impiegati negli alberghi e ristorazione (-10 punti) e indiani, albanesi e rumeni, occupati anch’essi nell’industria. Una maggiore tenuta si è registrata tra i cinesi, dove prevalgono il lavoro indipendente e le attività commerciali: il loro tasso di occupazione è sceso di appena 1,2 punti, mentre la disoccupazione è al 5%. Tra i marocchini, e gli albanesi è, rispettivamente, al 29,7 e al 19%. La parte più interessante della rilevazione è quella sulla ricerca del lavoro tra gli stranieri e sulla relazione tra il titolo di studio e l’occupazione effettiva. La rilevazione conferma un dato strutturale: in mancanza di una moderna struttura di politiche attive per il lavoro, gli stranieri si affidano alle reti informali di parenti, amici e conoscenti per ottenere un impiego. In proporzione, il 59,5% degli stranieri ha trovato lavoro grazie al sostegno della rete informale di parenti, conoscenti e amici (38,1% i naturalizzati). Nella stessa situazione si trovava nel 2014 l’89,2% degli italiani che sono alla ricerca di un’occupazione. Un’altra condizione accomuna i due gruppi: il mismatch, ovvero la mancata corrispondenza tra il titolo di studio e l’occupazione, e l’over-education, un eccesso di istruzione rispetto alle mansioni effettivamente svolte. Questo duplice fenomeno è aumentato negli anni della crisi sia tra i diplomati che i laureati di nazionalità italiana. L’Istat registra la sua diffusione anche tra i lavoratori, e soprattutto le lavoratrici straniere. Dal campione intervistato emerge che sono quattro donne occupate su dieci a non essere soddisfatte per un lavoro poco adatto al proprio titolo di studio e alle competenze maturate. Le donne polacche, ucraine, filippine, peruviane, moldave e romene sono le più penalizzate. Il problema è il riconoscimento del titolo di studio conseguito nei loro paesi. L’Italia costringe queste persone a ripartire da zero o a difficili strategie di recupero, sempre più pesanti per chi deve lavorare e ha un’età non più da studente. Un altro elemento può dare l’idea del "clima" del mercato del lavoro italiano: tanto più è alto il titolo di studio, tanto più costituisce uno strumento di esclusione o di mancato accesso a un’occupazione. In questa situazione si trova il 46,3% dei laureati e il 32,8% dei diplomati stranieri. Tra queste persone è meno diffusa la difficoltà legata alla scarsa conoscenza della lingua italiana, problema che riguarda chi ha un basso livello di istruzione e gli over 55. Un altro fattore di esclusione è la precarietà. Sono sempre le donne a denunciare il sottoutilizzo delle loro qualifiche ed esperienze: quasi una su due lavora con un part time. Si estende anche il part-time involontario che riguarda le donne filippine, peruviane, marocchine e rumene. L’Istat spiega questo fenomeno con la "maggiore disponibilità degli stranieri ad accettare impieghi a bassa specializzazione"". È anche possibile che questa realtà sia il prodotto di un orientamento strutturale e del rapporto problematico che le nostre istituzioni e il mercato del lavoro hanno con l’istruzione terziaria e il lavoro qualificato. A differenza degli italiani, tra gli stranieri la mancata corrispondenza tra livello di qualifica del lavoro svolto e titolo di studio/competenze diminuisce solo lievemente al crescere dell’anzianità lavorativa e dell’età. Per l’Istat questo indica scarse opportunità di mobilità occupazionale e di progressioni di carriera. Infatti, il 29,6% dei lavoratori stranieri con un’anzianità lavorativa di oltre 10 anni e il 34,9% degli occupati over 55enni si percepisce sovra-qualificato, percentuali che scendono al 10,6% e all’8,0% per gli italiani di nascita. Su tutto regna l’esclusione dalla cittadinanza per i lavoratori stranieri residenti: in Italia non essere italiano dalla nascita rappresenta un ostacolo per trovare un lavoro o un lavoro adeguato. Tanti piccoli segnali da non sottovalutare, ecco perché l’Italia alza l’allerta terrorismo di Guido Ruotolo La Stampa, 29 dicembre 2015 Proclami sul Web e micro-attentati spesso precedono l’attacco. C’è un messaggio di propaganda che inquieta le nostre forze di sicurezza. È stato spedito sul web dall’"Ufficio media Tripoli ovest dello Stato islamico". Il titolo è un programma: "La Libia è la porta aperta verso Roma". Per noi, il processo di pacificazione avviato con l’accordo sottoscritto a Skhirat il 17 dicembre scorso e ratificato dal Consiglio di sicurezza dell’Onu, è importante anche per questo, per evitare una nuova Somalia a quattrocento chilometri dalle nostre coste. Secondo fonti di intelligence moltissimi tunisini, affiliati all’Isis, "si addestrano in appositi campi in Libia". Ma quello che preoccupa è che a ottobre a Lampedusa è sbarcato un tunisino, poi espulso, "radicalizzato e potenziale terrorista". Insomma, bisogna fare molta attenzione anche ai barconi carichi di migranti che arrivano in Italia. Scrivono gli analisti: "I rischi maggiori per la sicurezza sono connessi ad azioni condotte da terroristi autoctoni ricettori degli appelli lanciati dall’apparto propagandistico del Califfato, o da foreign fighters europei reduci dal conflitto siro-iracheno". Come l’attacco di gennaio al Charlie-Hebdo di Parigi dimostra, "i loro attacchi sono connotati da imprevedibilità e da una elevata potenzialità offensiva che li rendono drammaticamente letali". È vero che dal punto di vista delle organizzazioni jihadiste il riferimento alla conquista di Roma ha sempre assunto un significato ideologico, simbolico: è l’Islam che prevale sul cristianesimo. Ma questi richiami comunque hanno l’obiettivo di mobilitare, di galvanizzare la propria "opinione pubblica", indirizzando appunto "lupi solitari" o gruppi di reclute jihadiste a organizzare attacchi terroristici in tutta Europa, anche in Italia, centro della cristianità, ma anche Paese schierato in prima linea sul fronte antiterrorismo. Il messaggio web che arriva da Tripoli non è il primo proclama di guerra che ha come riferimento l’Italia, si somma agli altri e porta l’Antiterrorismo a non abbassare la guardia. Il Giubileo della Misericordia dura un anno, finora sta andando tutto bene ma siamo solo agli inizi: "Per la forte valenza religiosa e le sue dimensioni mondiali - annotano gli analisti - l’evento potrebbe, oggi ancora di più, rappresentare agli occhi di soggetti/ambienti del radicalismo islamico l’occasione per amplificare l’impatto mediatico di eventuali attacchi terroristici tentati o compiuti contro la persona del Santo Padre, contro interessi riconducibili allo Stato del Vaticano o ad altri obiettivi di rilevo politico/religioso presenti sul territorio nazionale". Anche obiettivi italiani all’estero sono a rischio di attacchi terroristici. L’11 luglio scorso, al Cairo, un’autobomba imbottita di 250 kg di tritolo, è esplosa davanti al Consolato italiano. Il bilancio è di un egiziano morto e quattro feriti. L’attentato è stato rivendicato dallo Stato Islamico e dalla sigla "Al Dawla Al Islamiyya-Misr". Secondo gli analisti, l’attacco al nostro Consolato va interpretato come un "avvertimento" contro l’Italia che sostiene il governo egiziano. E a Tripoli, Libia, il 31 agosto è esplosa una autobomba nel parcheggio della "Mellitah Oil and Gas", una joint-venture Eni e compagnia petrolifera nazionale libica Noc. Il giorno dopo l’attentato è stato rivendicato dallo Stato Islamico: "È una operazione jihadista in uno dei covi degli apostati nel quartiere Al-Dhahra". Il 28 settembre, un italiano è stato ucciso a Dacca, Bangladesh. Cesare Tavella, cooperante. L’Isis ha rivendicato l’omicidio. Un mese dopo sono stati arrestate quattro persone accusate dell’omicidio di Tavella, e non sarebbero collegate all’Isis. Sciiti e sunniti assieme per battere l’Isis in Iraq di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 29 dicembre 2015 Le prime mosse del governo iracheno dopo la vittoria a Ramadi contro la guerriglia di Isis paiono per una volta nella direzione giusta. Il premier Haider al Abadi promette che il controllo della città verrà affidato a unità miste di poliziotti reclutati sul posto e miliziani delle tribù sunnite locali. Vedremo se ciò avverrà davvero. L’annuncio dimostra comunque che Abadi ha compreso il nodo cruciale: solo l’inclusione dei sunniti nell’amministrazione delle loro regioni e degli affari di governo può battere Isis. Non è un mistero che gran parte della minoranza sunnita, circa il 35% degli iracheni, simpatizza con Isis in chiave antisciita e contro la crescita dell’influenza iraniana nel Paese dal tempo dell’invasione americana del 2003. Oggi i confini fisici del "Califfato" coincidono con quelli delle zone di insediamento sunnita. E la cosa è più evidente proprio nella regione di Al Anbar, dominata dalla forte tribù dei Dulaimi legata ad Arabia Saudita, Giordania e Siria, di cui Ramadi è il capoluogo sin dai tempi dell’Impero Ottomano. Il problema è politico, prima che militare. L’elezione di Abadi nell’agosto 2014 fu in netta contrapposizione alle politiche fallimentari del suo predecessore Nouri al Maliki (sebbene appartengano allo stesso partito sciita Dawa). In otto anni di governo Maliki lavorò con coerente determinazione per marginalizzare e perseguitare i sunniti. In poco tempo l’esercito nazionale venne monopolizzato dalle milizie sciite. Risultato: la crescita del malcontento tra i sunniti, tanto da spingerli ad abbracciare gli estremisti jihadisti e Isis. Non a caso Abadi ora è disposto a rallentare le operazioni dell’esercito regolare pur di non ricorrere alle milizie sciite. Ma Maliki non è battuto. Dalla sua nuova posizione di vicepresidente mette i bastoni tra le ruote al neopremier. La sfida resta aperta, lo dimostrano i silenzi sunniti e invece le celebrazioni delle città sciite all’annuncio della presa di Ramadi. Ma questa vittoria e le promesse di avanzata verso Mosul saranno vanificate se i sunniti non torneranno ed essere parte integrante dell’Iraq. Reporters senza frontiere: 110 giornalisti uccisi nel 2015, 2 su 3 non erano in zona di guerra Il Tempo, 29 dicembre 2015 Sono i numeri del dossier di Reporters senza frontiere che lancia l’allarme: "Necessario un rappresentante speciale del segretario generale dell’Onu per proteggere i reporter". Il bilancio di sangue pagato nel 2015 dai giornalisti è di 110 reporter uccisi, molti - a sorpresa ed in controtendenza rispetto agli anni passati - non in zone teatro di guerre ma in Paesi formalmente privi di conflitti. È quanto emerge dall’ultimo reporter dell’organizzazione "Reporters senza frontiere" (RSF). Dei 110 uccisi, 67 sono stati eliminati mentre stavano svolgendo il loro lavoro mentre 43 hanno perso la vita in circostanze avvolte dal mistero. Un dato ancora più preoccupante, quest’ultimo, perché elimina il discrimine tra il rischio assunto con consapevolezza che sconfina a tratti nell’eroismo dagli inviati di guerra, ad esempio, ed i semplici cronisti, cui non difetta il coraggio di seguire inchiesta scomode a casa, operando in Paesi non in guerra ma dove la criminalità teme la stampa. Nella conta risulta anche la perdita di 27 cosiddetti "citizen-journalists" (reporter non professionisti ma non per questo meno agguerriti) e sette altri cameramen, fonici e tecnici, esposti agli stessi rischi dei reporter ma spesso senza gli stessi onori e senza il cui lavoro il giornalista da solo riuscirebbe a combina ben poco. La minaccia principale viene dai cosiddetti "gruppi non statuali" come i jihadisti di Isis, che hanno perpetrato atrocità contro i reporter Nel 2014 due terzi dei giornalisti uccisi svolgevano il loro lavoro in zone di guerra. Nel 2015 è stato l’esatto opposto; "due terzi sono stati eliminati in Paesi in pace" Reporter senza Frontiere vuole che sia nominato "un rappresentante speciale del segretario generale dell’Onu per proteggere i reporter". I Paesi più a rischio restano i soliti con alcun sorprese: Iraq (11 morti), Siria (10), terza e triste new entry la Francia con le 8 vittime, uccise nell’attacco al settimanale satirico Charlie Hebdo il 7 gennaio scorso, seguita dallo Yemen (10 morti) dove è in corso una guerra civile per procura tra sunniti sostenuti da Riad e ribelli sciiti Houthi appoggiati dall’Iran; Sud Sudan (7 vittime), India (9 morti), Messico, uno dei Paesi più pericolosi al mondo per chiunque, civili inclusi, dove i narcos controllano intere aree del Paese, (8 morti), Filippine (7) così come l’Honduras. Rapiti e tenuti in ostaggio. Oltre al bilancio delle vittime pagato nel 2015 dai giornalisti (110) è altissimo il numero di reporter rapiti e tenuti in ostaggio (54) ed ancora più alto quello di quelli in prigione per aver svolto il loro lavoro: 154. È quanto emerge dall’ultimo reporter dell’organizzazione "Reporters senza frontiere" (RSF). Tra i 54 rapiti, 26 sono tenuti in ostaggio in Siria, 13 in Yemen, 10 in Iraq e 5 in Libia. Tra i ben 153 detenuti la non ambita palma spetta alla Cina (23 giornalisti in prigione), regime che prova ad aprirsi ma ancora condizionato dal pulsioni restrittive (da ultimo si veda la recentissima l’espulsione di un reporter del settimanale francese Nouvelle Observateur), seguita dall’Egitto (22), 18 in Iraq, 15 in Eritrea, 9 nella Turchia del neo-sultano dalle ambizioni ottomane, il presidente Recep Tayyip Erdogan che non tollera la libertà di stampa e l’ha dimostrato spesso facendo arrestate giornalisti e chiudere testate. Gli altri 69 collegi in carcere sono detenuti nel resto del mondo. Stati Uniti: la polizia nel 2015 ha ucciso 969 persone di Luca Celada Il Manifesto, 29 dicembre 2015 La denuncia del Washington Post. Intanto a Chicago è stato un natale di sangue: proteste e tensioni non si fermano per i due afroamericani uccisi tre giorni fa. È stato un tragico natale quello finito, nella notte fra il 25 e 26 dicembre, con l’uccisione di Quintonio Le Grier, di 19 anni e Bettie Jones, madre e nonna di 55 anni, da parte di agenti della polizia di Chicago. I due afro americani si sono aggiunti - numero 966 e 967 - alla lista di morti per polizia che in questa ultima settimana dell’anno stando al Washington Post ha raggiunto quota 969. Un’altra lista, compilata da Guardian, raggiunge un il totale di 1125. Il Guardian calcola tutti i morti mentre il Washington Post si concentra sui morti ammazzati dalla polizia con armi da fuoco. La discrepanza fra le stime è dovuta anche al fatto che non esistono dati ufficiali riguardo a quella che è da anni una oggettiva epidemia ed una sanguinosa sindrome nazionale diventata un principale tema politico della attuale campagna elettorale. Eppure né Fbi né Dipartimento di giustizia mantengono un calcolo ufficiale di quanti cittadini vengono ammazzati ogni anno dalle forze dell’ordine. Il compito è lasciato all’iniziativa privata, come quella dei quotidiani, che aggregano informazioni delle migliaia di dipartimenti di polizia sparse per il paese. Alla lugubre lista si sono dunque aggiunti nel fine settimana Jones e Grier. Il padre di quest’ultimo, diciannovenne studente di ingegneria alla Northern Illinois University, aveva chiamato la polizia per aiutarlo a ricoverare il figlio in preda ad un apparente raptus. Da alcune indiscrezioni il ragazzo avrebbe sofferto di scompensi emotivi, altri parlano di un semplice diverbio fra padre e figlio. Giunti sul luogo della modesta abitazione gli agenti hanno bussato alla porta che sarebbe stata aperta dallo stesso Le Grier che imbracciava una mazza da baseball. Gli agenti hanno dichiarato che "confrontati da un soggetto combattivo" sono stati costretti fare fuoco sul ragazzo uccidendo "accidentalmente" anche la donna, inquilina della stessa casa, che ha avuto la sfortuna di trovarsi "vicino al sospetto". L’episodio ha messo nuovamente Chicago al centro della questione della violenza di polizia che ha nell’ultimo anno e mezzo coalizzato la protesta nel movimento dei Black Lives Matter. La rabbia contro gli omicidi, in particolare di neri, era già alta nella città dopo che un mese fa era stato reso pubblico il video che mostra l’agente Jason Van Dyke scaricare 16 colpi di pistola contro Laquan McDonalds un diciassettenne di colore con in mano un temperino pur mentre questi si sta allontanando dai poliziotti che gli intimano di fermarsi. Quel video, reso noto solo in seguito all’ordine di un tribunale, è risultato nel rinvio a giudizio per omicidio dell’agente Van Dyke e il licenziamento del capo della polizia della città Garry McCarthy da parte del sindaco Rahm Emanuel. L’ultima sparatoria ha ulteriormente elevato la tensione nella città e aumentato il coro che chiede le dimissioni dello stesso Emanuel. È opinione diffusa che il sindaco - l’ex capo di gabinetto di Obama - abbia insabbiato il video della violenta morte di McDonalds per assicurarsi la rielezione l’anno scorso. Domenica alla veglia per Jones e Le Grier, parenti e amici hanno denunciato un corpo di polizia che, anziché garantire la sicurezza, per i cittadini afro americani rappresenta il maggiore pericolo di vita. "Perché non hanno usato un taser?", ha chiesto in lacrime Jacqueline Walker, amica di infanzia di Bessie Jones "non potete continuare ad ucciderci così". Altri hanno articolato una rabbia che sta giungendo a livelli di guardia: "Questa è l’ultima azione di guerra", ha detto un altro sostenitore della famiglia, Mark Carter. "Se volete la guerra la avrete. State passando una linea che non dovete oltrepassare se continuerete ad uccidere i nostri ragazzi in questa città". Il mese scorso il Dipartimento di giustizia ha aperto un’indagine sulla polizia di Chicago, la capitale americana degli omicidi con 479 morti violente nel 2015. Ma la questione supera ampiamente i confini di Chicago ed è in America un problema endemico a cui contribuisce un addestramento che ufficialmente ammette l’uso di "forza mortale" per autodifesa ma in sostanza la giustifica per l’inadempienza con gli ordini degli agenti. Abbinato ad una pregiudizio razziale ancora strisciante e all’impiego della polizia come pronto intervento in casi di squilibrio mentale l’effetto è un tragico bagno di sangue. Stati Uniti: uccisero un 12enne nero, i poliziotti non andranno a giudizio Corriere della Sera, 29 dicembre 2015 La decisione del Grand Jury di Cleveland per la morte di Tamir Rice, ucciso per una pistola giocattolo. La sua morte è stata la "tempesta perfetta dell’errore umano". Il Grand Jury dell’Ohio ha deciso che i due poliziotti che il 22 novembre 2014 spararono e uccisero il 12enne afroamericano Tamir Rice non sono imputabili. Il bambino era in possesso di una pistola giocattolo che rifiutò di consegnare alla polizia. In particolare, a rischiare l’incriminazione era un agente con poca esperienza, Patrolman Timothy Loehmann, che sparò da un’auto ancora in movimento due colpi: il ragazzino fu così ucciso. Un video della sparatoria ripreso da una telecamera di sorveglianza scatenò l’indignazione della popolazione afroamericana e rese Tamir una figura centrale nelle proteste per le numerose uccisioni da parte della polizia. Secondo il Grand Jury il caso di Cleveland è stato la "tempesta perfetta dell’errore umano", ma non ha avanzato nessuna accusa penale contro l’agente, che non poteva sapere che la pistola era finta. "Risposta ragionevole". A ottobre un rapporto consegnato da due periti indipendenti all’ufficio del procuratore dell’Ohio sosteneva che l’agente aveva agito in modo "ragionevole". Uno dei periti, un agente dell’Fbi in pensione, aveva affermato che non solo l’agente Loehmann, che sparò due colpi colpendo il bambino nell’addome, "ha dovuto prendere una decisione in una frazione di secondo", ma anche che "la sua risposta è stata ragionevole", considerando il fatto che la pistola impugnata dal giovane sembrava vera. Anche il secondo perito, un procuratore del Colorado, aveva definito "ragionevole" la conclusione dell’agente. Secondo la famiglia di Tamir, però, il pubblico ministero avrebbe "intimidito e manipolato il processo del Grand Jury per organizzare un voto contro l’incriminazione".