È Cantone il politico dell’anno (e Renzi ora deve usarlo contro la repubblica delle manette) di Claudio Cerasa Il Foglio, 28 dicembre 2015 Il politico dell’anno che si sta concludendo è, perdonateci il gioco di parole, il più politico tra i non politici utilizzati quest’anno dalla politica per sopravvivere all’era cupa e rissosa dell’anti politica. Il politico dell’anno, per le ragioni che andremo a mettere a fuoco, è senza dubbio Sua Eminenza Illustrissimo Megadirettore Ereditario Dottor Ing. Gran Moralizzator di Gran Croc Visconte Cobram Raffaele Cantone. Nel corso del 2015, tra emergenza corruzione, emergenza Expo, emergenza banche, emergenza Giubileo ed emergenze di ogni tipo, il presidente dell’Autorità anti corruzione, che è un gagliardo magistrato napoletano, è stato utilizzato dal presidente del Consiglio Matteo Renzi con la stessa modalità con cui la casalinga utilizza uno smacchiatore all’avanguardia: per eliminare con prontezza e con semplice gesto della mano, oplà, tutti i tipi di macchie dai vestiti e dai tessuti bianchi e anche da quelli colorati. L’Italia soffre terribilmente per un’inchiesta giudiziaria? Il paese è in crisi di identità per un qualche scandalo che colpisce la pancia degli italiani? I sondaggi di Renzi registrano una forte sensibilità dell’elettorato su un qualche tema legato a una qualsiasi ingiustizia subìta da una fetta del paese? Arriva lo smacchiatutto Cantone. Dal punto di vista politico, il politico non politico Raffaele Cantone, di fatto diventato il ministro aggiunto del governo, non solo alla legalità ma anche alla moralità, ha svolto finora con diligenza e con efficacia il ruolo di Gran e perfetto Moralizzator di Gran Croc. E su questo fronte il segretario del Pd, Matteo Renzi, ha seguito uno schema già adottato, non con molto successo, da alcuni suoi illustri predecessori: quando la politica è in grande difficoltà e non riesce a reagire autonomamente a una grave crisi che si innesca nel paese (e che riguarda anche la politica) di solito un leader di sinistra sceglie di appoggiarsi alla stampella sicura della magistratura. A volte lo fa con magistrati che si prestano interamente alla causa politica (Di Pietro e molti altri). A volte lo fa con magistrati che invece svolgono semplicemente il ruolo di supplenti (e che non sempre poi, politicamente parlando, scendono davvero in campo). Il messaggio di solito risulta chiaro e suona più o meno così: io politico riconosco che la politica non è in grado di risolvere alcuni problemi e per dimostrare la mia diversità, la mia buona fede e la mia purezza antropologica mi metto nelle mani di un magistrato rispettato e lo trasformo nel simbolo puro e genuino della lotta del mio partito e del mio governo contro ogni illegalità. Tiè. Un politico che si affida alla supplenza di un magistrato è sempre un politico che per un attimo si mostra in mutande di fronte alla telecamera ma ciò che qui ci interessa del rapporto tra Renzi e Cantone è se il presidente del Consiglio si limiterà a utilizzare Cantone come uno scudo, come un semplice schermo per parare i colpi dell’anti politica, o se, una volta conosciuto meglio Cantone, proverà a utilizzarlo anche per andare all’attacco, e per scardinare un fortino che l’Illustrissimo Dottor Ing. Raffaele Cantone nel corso del 2015 ha già mostrato di poter forzare, persino con coraggio. Il tema sul quale ci interroghiamo è questo: ma una volta sfruttato il volto del Cantone moralizzatore, Renzi avrà o no il coraggio di utilizzare il volto del Cantone riformatore per sfidare i moralizzatori che guidano la repubblica delle manette? A metà del 2015, come i lettori di questo giornale ricorderanno, in modo sorprendente, e facendo impazzire di rabbia i compagni dell’Anm, Cantone suggerì con garbo a Renzi una serie di temi sui quali una politica diligente dovrebbe intervenire per combattere l’illegalità non solo con il moralismo e con le procedure emergenziali ma anche in modo strutturale. Disse Cantone, alla festa dell’Unità di Milano, che le correnti sono un cancro della magistratura, che alcune correnti della magistratura (Md) utilizzano le leve della giustizia come se questa fosse una lotta di classe, che l’Anm non rappresenta più come dovrebbe i magistrati, che il Csm è un centro vuoto di potere e che inchieste come quelle portate avanti dalla procura di Palermo, ricordate la trattativa stato mafia?, non sono una grande vetrina per una magistratura che sogna di applicare con coerenza il principio della terzietà. La grande riforma, clamorosamente ciccata finora, che il presidente del Consiglio non può mancare nel 2016 è quella della giustizia penale, si sa. Su questo tema, nei primi due anni di governo, la rottamazione si è via via trasformata in una grande mediazione. Il terrore di Renzi è comprensibile, e chiunque abbia cercato in questi anni di sfiorare la giustizia non è mai stato risparmiato dalla stessa giustizia, ma una delle sfide del prossimo anno, per Renzi, è proprio questa: sfidare la repubblica delle manette non a parole ma con una riforma da urlo. Sapendo che su questa partita Sua Eminenza Illustrissimo Megadirettore Ereditario Dottor Ing. Visconte Cobram Raffaele Cantone potrebbe trasformarsi in un Gran Riformatore di Gran Croc. Basta solo volerlo, e basta solo scegliere il lato giusto di Cantone, e il gioco è fatto. Dipende solo da Renzi. Dipende solo da quale dei due Cantone sceglierà per il prossimo anno. Scudo o spada? Reati commessi da minori, Italia meglio di tutti nella Ue di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 28 dicembre 2015 Sarebbe fin troppo facile e rassicurante rifugiarsi nell’emarginazione per giustificare i crimini degli attentatori di Parigi, ma è un dato di fatto che molti terroristi avevano alle spalle un passato di devianza in età minorile che i sistemi giudiziari di Francia e Belgio non sono riusciti a gestire quando sarebbe stato il momento. In Italia può accadere lo stesso? “Non si può dire che c’è meno rischio, ma da noi le condizioni di base sono migliori” dice Laura Laera, presidente del Tribunale per i minorenni di Firenze, che però teme che in Parlamento si possa intervenire sulla riforma in esame compromettendo la tenuta della giustizia minorile, ad esempio con l’abolizione dei Tribunale per minorenni. A scatenare gli attentatori nati e cresciuti in Francia e in Belgio è stato l’integralismo islamico maturato in un ambiente in cui avevano già dato segni di devianza. Anche se non è così per tutti. Abdelhamid Abaaoud, mente degli attentati, ucciso nel blitz di Saint Denis, era uno studente spensierato di uno dei più prestigiosi licei di Bruxelles. “In Italia il fenomeno immigratorio è ancora troppo giovane e ridotto e l’integrazione è migliore e più diffusa. Non ci sonno quartieri come le banlieue parigine o Molenbeek di Bruxelles popolati solo da immigrati o da figli di immigrati anche di terza generazione”, sostiene Laura Laera secondo la quale “casomai ci sono interi quartieri di grandi città che sono una fucina di delinquenza e dove gli emarginati sono giovani italiani. È la prova che la ghettizzazione produce delinquenza”. Nessun pericolo allora? Joseph Moyersoen, giudice onorario del Tribunale per i minorenni di Milano e presidente dell’associazione europea dei magistrati minorili, non ci pensa su un attimo: “Chi può dirlo? Bisogna capire chi si nasconde dietro questi ragazzi sbandati, frutto di una società destrutturata e consumistica, plagiati dagli jihadisti e indottrinati all’estremismo islamico, e continuare a svolgere il nostro lavoro senza arretrare, promuovendo buona integrazione”. La giustizia minorile italiana, considerata tra le migliori, tra riforme e tagli agli interventi sociali rischia di perdere il primato. “Anche se non si può fare a meno del tutto dei trattamenti repressivi, noi - spiega Laera - puntiamo al recupero del minore e alla responsabilizzazione nei confronti di se stesso e della società facendo di tutto affinché rimanga nel circuito penale e detentivo il meno possibile. Bisogna rafforzare gli strumenti sociali e gli interventi sulle buone comunità di recupero perché l’integralismo si combatte anche con l’istruzione e la cultura”. Secondo l’ultima ricerca transnazionale, l’Italia ha il più basso tasso di delinquenza minorile rispetto agli altri Paesi della Ue e agli Usa con 10 autori di reati ogni mille soggetti imputabili contro 33 in Inghilterra, 43 in Francia e 82 in Germania. La Francia, dove la giustizia minorile è fortemente repressiva, ha avviato un programma di prevenzione che, ispirandosi anche all’Italia, prevede la flessibilità della pena attraverso misure alternative. Il timore è che, come dice Moyersoen, “un sistema che ci viene invidiato in tutto il mondo possa essere stravolto da interventi che prevedono la chiusura dei Tribunale per i minorenni e la nascita di quello della famiglia all’interno nei tribunali ordinari” perché, ricorda Laura Laera, “l’esperienza insegna che la giustizia minorile funziona quando è al di fuori di quella ordinaria”. “So cos’è la ‘ndrangheta, me la porto sulla pelle” di Andrea Giambartolomei Il Fatto Quotidiano, 28 dicembre 2015 Sulla sua pelle, nascosti dai vestiti, porta i simboli e i segreti che lo hanno accompagnato per anni. Simboli religiosi, alcuni dai tratti esoterici, richiami alla morte, alla violenza e al sacro. Simboli della ‘ndrangheta. Sono i tatuaggi di Angelo Salvatore Cortese, 51 anni il prossimo 24 febbraio, un passato da braccio destro del boss Nicolino Grande Aracri e un presente da pentito. Con i suoi 23 anni di “militanza”, i tanti reati commessi per conquistare i gradi e gli anni in galera, Cortese è diventato un pezzo grosso dell’organizzazione criminale calabrese e ora è un collaboratore di giustizia chiave: ha contribuito a condannare Carlo Cosco, l’assassino di Lea Garofalo; ha svelato gli affari delle cosche crotonesi in Emilia-Romagna, ma anche in Piemonte. È proprio nel capoluogo piemontese che questi tatuaggi sono stati svelati. Il 26 novembre, nel corso di un’udienza del processo “San Michele”, ne ha parlato ai sostituti procuratori della Direzione distrettuale antimafia di Torino Roberto Sparagna e Antonio Smeriglio, che poi hanno consegnato ai giudici una fotografia, un’immagine rara pubblicata in questa pagina. “L’ho fatto fare nel 2007, nel pieno della mia attività criminale - racconta tramite il suo avvocato, Salvino Greco. Avevo raggiunto il grado di “Crimine”, un livello molto alto nella gerarchia ‘ndranghetistica”. Nei giorni nostri questi segni sono rari, come spiega Enzo Ciconte, studioso della ‘ndrangheta e docente di storia della criminalità organizzata all’Università di Roma Tre: “I tatuaggi erano molto più ricorrenti in passato. I camorristi napoletani ne avevano parecchi. Ma questo si spiega col carcere, dove era normale farsi tatuare. Non era sinonimo di mafia, ma semplicemente di malavita. Questi segni servivano a riconoscersi, ma poi gli sbirri cominciarono a capire e quindi poi i tatuaggi sono scomparsi”. Oggi ne hanno i criminali russi descritti da Nicolai Lilin, le gang di latinos portano le sigle e i nomi delle pandillas, i membri della yakuza si distinguono per i loro grandi tattoos nascosti sotto i vestiti e la mafia rumena a Torino si caratterizza per la croce templare sul braccio. Tra gli ‘ndranghetisti le incisioni sulla pelle non sono così diffuse: “Le fanno soltanto in pochi, precisamente alcuni personaggi di grosso spessore criminale - racconta Cortese - Io li ostentavo all’epoca e non avevo paura di far vedere questi tatuaggi”, ha detto ai giudici. Non ha intenzione di rimuoverli né ha paura di mostrarli ora che è un pentito: “Non devo rimpiangere il passato nel bene e nel male”. Quei tattoos occupano quasi metà della superficie della sua schiena. Nella parte destra si vedono un angelo che schiaccia un demone, dei leoni, delle torri. In quella sinistra una composizione di figure. “Il tatuaggio sulla schiena rappresenta San Michele Arcangelo, santo protettore della ‘ndrangheta - afferma. L’ho fatto sia perché è il simbolo dell’appartenenza alla ‘ndrangheta, sia perché ha il valore del “dispari” o dello sgarro, la dote successiva a quella di picciotto e camorrista”. Sgarro, picciotto e camorrista, parole del gergo mafioso che il professore Ciconte spiega così: “Lo sgarro è il primo grado della società maggiore della ‘ndrangheta, una struttura ristretta, mentre gli ultimi due appartengono alla società minore, subalterna alla prima. Il passaggio dalla minore alla maggiore è importante, si diventa un capo mentre prima si è solo un gregario”. Insieme al santo, si notano delle torrette: “Alle spalle è rappresentato il carcere di Favignana, punto di riferimento e simbolo della custodia per i grossi personaggi del l’organizzazione”, continua Cortese. Quell’edificio e quell’isola sono dei luoghi mitologici, sottolinea Ciconte: “Sono nel cuore della leggenda di Osso, Mastrosso e Carcagnosso, tre cavalieri in fuga dalla Spagna e latitanti per un delitto d’onore. Scappano e arrivano a Favignana, uno dei penitenziari più importanti del Regno Borbonico. Era la morte civile, non se ne usciva più. Ma i tre cavalieri, al termine di 29 anni, 11 mesi e 29 giorni, dopo aver coniato le leggi dell’onore, si separano e vanno in Sicilia, Calabria e Campania. In quella leggenda stanno insieme Cosa Nostra, ‘ndrangheta e camorra, ma solo per la seconda è fondamentale”. Il tatuaggio è composto anche da due leoni “legati con una catena formata da ventiquattro anelli più uno staccato, quindi 25, come la data di Natale. Questo rappresenta lo ‘sgarrò”, spiega il pentito. Sulla spalla sinistra c’è un secondo tatuaggio: “Raffigura uno scheletro con un pugnale nella mano destra e con una bara ai suoi piedi. Davanti alla bara c’è il libro mastro aperto. Sulla pagina destra ha disegnata una stella, sull’altra c’è un ferro di cavallo sul quale sono incisi tre pugnali incrociati - dice Cortese per orientarci - Poi, fuori dal libro, c’è un calice e un teschio con sopra una candela accesa”. Scheletro, bara e teschio ricordano la sua partecipazione a fatti di sangue, gli altri segni rimandano ai rituali. C’è il calice, citato nelle formule recitate durante le cerimonie. “Il libro mastro è sacro e racconta parole e favelle dello ‘ndranghetista - continua. La stella a cinque punte rappresenta la “copiata”, cioè le cinque persone che hanno partecipato al battesimo dell’affiliato, mentre il ferro di cavallo rappresenta il “circolo formato”. Con questo termine, precisa il professore Ciconte, si intende il gruppo che partecipa al rituale: “Il giovane si affilia entra in un circolo formato dagli uomini più importanti della ‘ndrina. La simbologia del cerchio è importante perché entri nell’organizzazione che ti protegge. Attenti però, perché allo stesso tempo è una minaccia: se tradisci sei circondato”. Il teschio con la candela ricorda l’omertà: “Significa: non vedo, non sento, non parlo”. Una regola che Cortese ha infranto con la decisione di allontanarsi dai clan. Era il 17 febbraio 2008 quando ha cominciato a collaborare con la Dda di Catanzaro, raccontando non solo i crimini altrui, ma anche i suoi: si autoaccusa di otto omicidi, estorsioni, traffici di droga e armi commessi per scalare le gerarchie della cosca nella sua carriera cominciata con l’affiliazione nel 1985 al clan Grande Aracri a Cutro (Crotone) nella “società minore”. Nel 1990, dopo aver ucciso un uomo, passa alla “società maggiore”. Nel 2007, componente del gruppo di fuoco del boss Grande Aracri, passa al “Crimine ” per meriti acquisiti sul campo. Poi la fine: “Dopo il 2008 non ho avuto più rapporti con affiliati alla ‘ndrangheta - ha raccontato durante l’udienza. Io non voglio più avere rapporti perché mi ammazzerebbero subito”. Le visite a Rebibbia della corte di Cuffaro. "Ecco la rete di amici che curava i suoi affari" di Francesco Viviano e Alessandra Ziniti La Repubblica, 28 dicembre 2015 I pm chiudono le indagini su 41 politici: "Spacciavano in carcere i collaboratori dell’ex presidente per loro portaborse. Così i colloqui non erano intercettati. Il 13 luglio 2011 a Rebibbia si gioca una partita di calcio. A bordo campo tra gli spettatori ci sono Felice Crosta (il superburocrate pensionato d’oro della Regione Sicilia), Fausto Desideri (ex consigliere delegato di Riscossione Sicilia) e Marco Morrone (il factotum romano). Totò Cuffaro è in carcere da sei mesi, ma ha subito capito come fare a non perdere il contatto con i suoi fedelissimi. "Caro Marco - preannuncia in una lettera a Morrone - verrai invitato ad una manifestazione che stiamo facendo in carcere, così potrai stare un pò insieme a me e potremo parlare. Assieme a te farò invitare Felice Crosta e Fausto Desideri. Ufficialmente vi inviterà un’associazione che non ha nulla a che fare con me". E due mesi dopo l’associazione di volontariato Gruppo Idee invita a Rebibbia gli amici di Cuffaro. Tra i volontari su cui l’ex governatore fa affidamento c’è Federico Vespa, figlio di Bruno e di Augusta Iannini, magistrato e ora garante per la privacy. C’è tutta la "corte" di Totò nelle mille pagine di allegati dell’inchiesta della Procura di Roma che si appresta a depositare la richiesta di rinvio a giudizio per 41 persone (tra cui Simona Vicari, sottosegretario allo Sviluppo economico del governo Renzi e dieci parlamentari di diverse forze politiche) che devono rispondere di aver falsamente attestato lo status di collaboratori parlamentari che ha consentito loro di accedere all’interno di Rebibbia e ad avere colloqui "privati" (al riparo da intercettazioni) con l’ex governatore della Sicilia. Il quale ha appena finito di scontare una condanna a 7 anni per favoreggiamento a Cosa nostra. Il "sistema di comunicazione". Cuffaro, va detto subito, in questa inchiesta non è indagato. Lui, a parlare con i suoi fedelissimi che andavano a trovarlo in carcere, non ha commesso alcun reato. A differenza dei parlamentari nazionali ed europei che, avendo diritto ad entrare nelle carceri, si sono portati dietro "amici" di Cuffaro spacciandoli come loro collaboratori e che ora rischiano fino a 10 anni. Da Simona Vicari a Vladimiro Crisafulli, da Calogero Mannino a Saverio Romano, da Giuseppe Ruvolo a Cinzia Bonfrisco, tutti si sarebbero prodigati - secondo le conclusioni dell’inchiesta condotta dal pm Barbara Zuin - per permettere all’ex governatore di mettere in piedi “un collaudato sistema di comunicazioni attraverso il quale Cuffaro ha impartito direttive o comunque fornito indicazioni per lo svolgimento di una molteplicità di non meglio specificati affari che lo vedono coinvolto”. Indagato dalla Procura di Palermo nell’ambito di un’inchiesta sulla realizzazione di alcuni termovalorizzatori in Sicilia ( poi finita in archivio), per Totò Cuffaro i pm Nino Di Matteo e Sergio De Montis avevano disposto la video intercettazione dei colloqui in carcere tranne, come prevede la legge, quelli con i suoi legali e con i parlamentari. Ma dalle intercettazioni effettuate sulle utenze dei familiari di Cuffaro, gli investigatori della Guardia di Finanza hanno avuto contezza che con quei colloqui al riparo dalle microspie “è stato consentito a Cuffaro di continuare ad occuparsi di proprie attività, questioni ed interessi nonostante le preclusioni connesse al suo stato detentivo”. "Si entra senza dire niente". Il giorno in cui Santina Scolaro (già portavoce di Cuffaro) vede venir fuori, nell’ambito dell’inchiesta sul caso Penati, i nomi dell’avvocato d’affari palermitano Francesco Agnello e del senatore Beppe Lumia, si muove subito. “Bisogna informare immediatamente Totò”, dice al telefono. E quando si rivolge al factotum Marco Morrone riceve questa risposta: “Si può entrare senza dire niente a nessuno, con un parlamentare e s’organizzano, con Crisafulli, glielo dico, o con Lillo Mannino che ce va tutti i lunedì”. Gli auguri di Alfano. Tra coloro che vanno a trovare Cuffaro in carcere (ma non è coinvolto nell’inchiesta), anche Angelino Alfano, che varca il portone di Rebibbia quando non è più ministro di Giustizia e non è ancora ministro dell’Interno. È il 21 febbraio 2012, Ö giorno del 53esimo compleanno di Cuffaro, che affida al suo interlocutore la richiesta di contatto con Mondadori per la pubblicazione di un suo libro e poi scrive al suo coautore Francesco Di Chiara: “Oggi è venuto a farmi visita Angelino Alfano per farmi gli auguri. È stato molto carino. Ho concordato con lui che avrebbe chiamato Marina Berlusconi, alias Mondadori, per fissare appuntamento con Renato Farina”. Di Chiara poi entrerà a Rebibbia con Rena to Farina, già condannato per aver portato in carcere da Lele Mora un ragazzo spacciandolo per suo collaboratore. La "pratica" con la Vicari. Il 12 aprile 2011 Marco Marrone parla al telefono con la figlia di Cuffaro, Ida, e le dice: “Noi c’avevamo con tuo papa una situazione con la senatrice Vicari, con Simona perché sta cosa va in scadenza ad aprile e la deve incontra Nino ( Sirchia) perché ñ’ha il fascicolo che tuo padre gli aveva lasciato di questa pratica”. Basta controllare i registri e si scopre che la Vicari è stata in carcere pochi giorni prima, il 7 aprile. La "corte" di Totò. Dalle verifiche è venuto fuori che al seguito dei parlamentari era entrata a Rebibbia tutta la corte di Totò: il dirigente del ministero dell’Agricoltura Attilio Tripodi, l’ex direttore generale della Asl di Agrigento Giuseppe Di Carlo, l’ex presidente di Confindustria Trapani Davide Durante, l’avvocato dello Stato Filippo Maria Bucalo, il presidente dell’Università Kore di Enna Cataldo Salerno, oltre a deputati e politici locali a lui fedelissimi. Bossetti poche ore fuori dal carcere. In lacrime davanti alla bara del padre di Armando Di Landro Corriere della Sera, 28 dicembre 2015 Con le guardie in una casa di riposo di Bergamo. Lieve malore nella camera ardente. Poco più di un chilometro sul furgone della polizia penitenziaria, dal carcere di Bergamo alla camera ardente dell’hospice dove è morto suo padre: Massimo Bossetti ieri ha potuto lasciare la casa circondariale di via Gleno, dove è detenuto dal 16 giugno del 2014 con l’accusa di aver ucciso Yara Gambirasio, 13 anni. E ha raggiunto il feretro del papà Giovanni, morto il giorno di Natale dopo oltre un anno e mezzo di malattia. Padre all’anagrafe, ma anche padre nella vita: l’operaio della Val Seriana scomparso a 73 anni è l’uomo con cui Massimo Bossetti è cresciuto, da cui è stato accudito, insieme alla gemella Laura Letizia e al fratello, Fabio. Poco importa se le indagini scientifiche dicono che il papà naturale era Giuseppe Guerinoni, l’autista di autobus di Gorno morto nel 1999. Nel momento del dolore Bossetti ha voluto esserci, seguendo quel filo di sofferenza profonda che l’aveva colpito a Natale, quando era esploso in un pianto non appena ricevuta la notizia della scomparsa del padre dal cappellano del carcere, don Fausto Resmini. Le gambe gli hanno ceduto per un attimo, ieri mattina, appena varcata la porta della camera ardente, dopo aver incrociato il viso del papà scavato dalla malattia. Poi ancora lacrime, quasi con timidezza, una mano appoggiata sulla bara. E lo sguardo incrociato più volte con quello della sorella Laura e della mamma Ester Arzuffi, che aveva raggiunto l’hospice già alle 8 del mattino. Nessuna parola sul processo, nessun accenno al “Dna che non mente”, parole che lui stesso, l’imputato, aveva rivolto alla madre durante un colloquio in carcere. Non era il momento, c’era spazio e tempo solo per pochi abbracci. Non è noto se ieri, al fianco di Bossetti, ci fosse anche la moglie Marita Comi: i fotografi sono stati tenuti a distanza dalla polizia, sia quando il detenuto è stato accompagnato da tre uomini della penitenziaria in borghese, sia quando è uscito, circa mezzora dopo, da una porta sul retro dei padiglioni sanitari di via Borgo Palazzo. Fine della visita, ma Bossetti spera che quello di ieri non sia da considerare l’ultimo saluto al papà Giovanni: ha infatti inoltrato un’istanza alla Corte d’Assise per partecipare ai funerali a Terno d’Isola, che saranno celebrati domani alle 10. La risposta dei giudici è attesa per oggi. La stessa Corte, reuna settimana fa, gli aveva negato gli arresti domiciliari, anche con l’ipotesi del braccialetto elettronico. “Auspichiamo che Massimo possa venire alle esequie - ha detto la gemella Laura Letizia. È un grande dolore per tutti noi, condiviso anche da lui. Mio fratello era già stato autorizzato due volte a fare visita al papà, spero davvero possa esserci a Terno. Nostro padre aveva scoperto di essere malato circa un mese e mezzo prima di quel che è poi successo a Massimo. Ma non ha mai fatto pesare la sua sofferenza”. Dalla camera ardente, nel tardo pomeriggio, esce un anziano, che aveva conosciuto Giovanni Bossetti sul lavoro: “Stava malissimo e con la stampa non ha mai voluto parlare. Ma è sempre stato convinto che suo figlio fosse innocente, al di là delle questioni familiari legate al Dna”. Tutto era accaduto in quei giorni di metà giugno del 2014: mentre gli investigatori, nei laboratori dell’Università di Pavia, erano vicini a scoprire un legame di parentela diretto tra la traccia di Ignoto 1 e quella della madre Ester Arzuffi, per poi arrivare a lui, il figlio Massimo, il papà Giovanni veniva ricoverato per la prima volta. Da alcuni mesi si sentiva poco bene. Ed era a casa, prima di tornare nuovamente in ospedale, anche quel giorno in cui la foto di suo figlio aveva iniziato a rimbalzare sul piccolo schermo: il volto di un uomo accusato di un delitto atroce. La storia delle indagini si è intrecciata, inevitabilmente, con quella di due famiglie, i Bossetti e i Guerinoni. Ma ora è il momento di un privatissimo dolore. Natale nelle carceri, le iniziative dei penitenziari in occasione del Giubileo di Giulia Morici pontilenews.it, 28 dicembre 2015 Papa Francesco pone l’attenzione sulla finalità educativa della pena. La figura del Pontefice è definita ‘trainantè per coloro che vivono l’esperienza di emarginazione nelle carceri. L’otto dicembre scorso ha avuto inizio il Giubileo indetto da Papa Francesco: un anno di Misericordia che si preannuncia speciale anche per i detenuti nelle carceri. Un evento straordinario, quello del Giubileo, in cui abbiamo assistito all’apertura delle Porte Sante ad opera del Pontefice, l’otto dicembre proprio nella Basilica di San Pietro. Se il senso che sottende al termine misericordia è quello del perdono, della carità o della compassione verso l’infelicità altrui, in quest’Anno Santo anche le carceri avranno le proprie Porte Sante. Come verrà celebrato il Giubileo nei penitenziari? I detenuti attraverseranno le celle come fossero Porte Sante, un segno di rinascita e di riscatto dalla loro condizione di reclusione o come afferma Papa Francesco una simbolica chiamata alla conversione. Sulle porte delle celle compaiono così delle decorazioni realizzate con fiori o dipinti dei detenuti stessi, le porte delle cappelle delle carceri considerate come Porte Sante, e ancora processioni, preghiere, eucarestia: ogni carcere celebra il Giubileo a modo suo, da quello di Rebibbia che raccoglie 2200 detenuti ai penitenziari più piccoli. Già in occasione del suo discorso per la Giornata mondiale della Pace, Papa Francesco si era soffermato sull’importanza della finalità educativa che dovrebbe avere la reclusione, nonché sulle condizioni di vita in carcere e sulla formulazione di legislazioni alternative alla detenzione. “Il percorso della fede è personale e delicato, bisogna prendere le persone per mano e accompagnarle in questo cammino. La figura e la vicinanza del Papa è sicuramente trainante per persone che vivono un’esperienza di emarginazione” sono queste le parole di Vittorio Trani, il cappellano che presta servizio da trentacinque anni nel carcere di Regina Coeli. La risposta dei detenuti sembra essere molto positiva, lo si evince dalle loro lettere inviate a Papa Francesco. La finalità educativa della pena dovrebbe essere un concetto fondamentale proprio di qualsiasi Stato, sembra invece una questione dimenticata o messa in secondo piano. Forse il carcere o la reclusione non dovrebbero essere un punto di arrivo per un detenuto, ma bensì un punto di partenza da cui rinascere e ricostruire il proprio essere con la consapevolezza degli errori passati. Tutti gli individui sbagliano e l’errore è parte integrante dell’essere umano, senza questo non ci sarebbe la possibilità di imparare poiché senza il male non potrebbe esistere il bene. La fede può essere un punto di partenza per la rinascita del detenuto: è questo ciò in cui crede Papa Francesco, ma potrebbe esserlo anche un libro o una frase significativa che colpisce il cuore di chi ha sbagliato, e lo incoraggia a percorrere un cammino per integrarsi nuovamente nella società. “Tutti i criminali dovranno essere trattati come pazienti e le prigioni diventare degli ospedali riservati al trattamento e alla cura di questo particolare tipo di malattia” sono le parole di Mahatma Gandhi, la guida spirituale famosa per la dottrina della nonviolenza, in cui sembra essere riassunto il significato che dovrebbe rappresentare qualsiasi pena di reclusione: un passaggio, una transizione, affinché come afferma il motto “Di carcere non si muoia più, ma neanche di carcere si viva”. Giubileo in carcere, quella misericordia fra uomini fatti di ferro e di cemento di Antonio Quaglio, Marco Pozza, Claudio Cipolla ilsussidiario.net, 28 dicembre 2015 Il vescovo di Padova, Claudio Cipolla, ha aperto ieri una Porta Giubilare all’interno del carcere Due Palazzi: la seconda - dopo quella aperta in Cattedrale - fra le quattro individuate dalla diocesi padovana per celebrare l’Anno della Misericordia indetto da Papa Francesco. Pubblichiamo di seguito l’omelia pronunciata da monsignor Cipolla durante la liturgia, le parole di saluto di don Marco Pozza, cappellano-parroco dei Due Palazzi, e una raccolta di testimonianze di detenuti. "Papa Francesco è in cella con voi" Signore, sono venuto a pregarti in questo carcere, insieme a questi fratelli, onorato di essere da loro accolto. Sono qui per conto di tutta la nostra Chiesa padovana, delle sue comunità e delle sue famiglie. Sono qui interpretando anche il desiderio del nostro santo Padre Francesco che non esiterebbe un attimo ad entrare in una di queste celle e a chiedere - da carcerato - quanto sembra ancora impossibile agli uomini. Ma soprattutto sono qui umilmente per te, Signore, che non hai mai disdegnato di confonderti con i pubblicani e le prostitute, con i peccatori e i condannati. Sono qui per riconoscere e dire che Tu sei qui, non hai paura di sporcarti né mani né reputazione e custodisci per ciascuno una parola di salvezza. So che questo è stato un anno difficile per questi nostri fratelli: un anno che ha spento in tanti di loro speranze, sogni, spiragli di luce. Per me è difficile, in questo contesto, annunciare in modo credibile il tuo Vangelo di amore, di giustizia, di misericordia. Per questo Signore non voglio spiegare il tuo messaggio, ma insieme con tutti loro pregarti, semplicemente pregarti. Abbiamo bisogno di segni di consolazione, di parole di incoraggiamento, di gesti che ci diano speranza. Facceli vedere, Signore. Dà intelligenza, volontà e forza a quanti ci governano, a quanti possono modificare regolamenti e leggi perché ad ogni uomo sia sempre riconosciuta dignità di uomo, perché vengano tolte le pene di morte, anche nascoste, come quelle di una pena che termina nell’anno 9999. Questi sono giorni difficili, Signore, i giorni più difficili dell’anno. Si, proprio quelli del tuo Natale. In questi giorni si parla di calore, di affetti. Le famiglie si riuniscono e festeggiano, si scambiano auguri di bene. Buon Natale, si dicono! In più oggi è anche la festa della santa famiglia che in noi risveglia la nostalgia delle nostre famiglie, delle nostre mogli, dei nostri figli e dei nostri genitori. Nei loro confronti spesso ci sentiamo in colpa per averli privati della nostra presenza. Spesso l’unico gesto di amore possibile per loro è il nostro silenzio che paghiamo da "ostativi". Sono giorni di tristezza, giorni di mancanza. In noi cresce una nostalgia profonda che talora si cambia in rabbia, ma più facilmente in chiusure del cuore, che sono più rigide di quelle delle nostre celle. E anno dopo anno il difenderci dal dolore che il Natale e le feste provocano in noi ci trasforma e ci toglie la tenerezza che è la ricchezza profonda di ogni uomo e di ogni donna. Fino al punto che nemmeno noi riconosciamo noi stessi. Signore, insieme, come fratelli, ti preghiamo anche per quanti non sanno che cosa sia il carcere e vivono schiavi delle banalità e delle luci, ingabbiati in stili di vita utili solo al consumismo e ai suoi meccanismi disumanizzanti. Ti preghiamo per quanti, senza saperlo e per debolezza, ci procurano ulteriore male scagliandosi contro chi ha sbagliato, contro chi sa di aver sbagliato e accetta di vivere un percorso di liberazione dal suo delitto. Abbiamo di fronte agli occhi anche le persone alle quali, con le nostre azioni, abbiamo recato sofferenza e dolore. La nostra consolazione viene anche pensando che questo dolore possa essere in qualche modo risanato: forse tu, solo tu, puoi rimediare e portare consolazione dove noi abbiamo portato sofferenza. Ed ora compiamo un segno che dice che tu, Signore, sei più grande del peccato, del delitto, dell’ingiustizia fatta e subita. In questo carcere ci sarà una delle porte della misericordia. Non solo perché questi nostri fratelli ed amici non possono uscire e quindi per facilitarli, ma perché si sappia, tutto il mondo sappia, che tu sai entrare ovunque: entri nelle carceri, entri nelle celle, entri nei cuori ingabbiati. E li rendi liberi di amare. Tu non pretendi la risposta, ma intanto ci ami. Sarà l’amore a cambiarci, la tenerezza, la prossimità. Giubileo è quanto tu fai per noi. È da questa tua opera di tenerezza e di amore che nascono vita e speranza. O Signore, ti chiedo ora qualche miracolo. Te lo chiedo da questo carcere: converti il mio cuore ad accogliere la tua tenerezza; fa che io, e don Marco che resterà in questa comunità, sappiamo parlare di qualcosa che abbiamo visto e toccato. E, quasi per contagio, molti altri sappiano raccontare il lieto annuncio del tuo amore misericordioso con la loro vita. Cerca chi parli di te tra i volontari, tra gli agenti di polizia, tra i carcerati e costituiscili "tuoi angeli" in mezzo a tanto dolore, rabbia e male. Il secondo miracolo è che tutti questi uomini percepiscano che tu vuoi loro bene, che li stai attendendo come il padre attende il figlio allontanato da casa. E li attendi per abbracciarli e accompagnarli anche nelle loro pene, per confermarli, se vogliono, nella dignità di essere tuoi figli, proprio qui. Restituisci, o Signore, fin da ora coraggio e libertà di amare, di sperare, di sognare anche in una cella. Anche qui c’è spazio per la santità. E forse il tuo abbraccio è già avvenuto! Il terzo miracolo: aiuta tutti noi, preti, carcerati e liberi cittadini ad accorgerci dell’importanza fecondante e generante della tua infinita e illimitata misericordia. Aiutaci a restare fratelli e a correggerci cercando il bene e facendo il bene. Così che la tua povera Chiesa, qui solennemente convocata, possa cantare in questo tempo ciò che, sull’esempio di Teresa di Lisieux, da sempre e per sempre deve ripetere "Le tue misericordie, o Signore". (monsignor Claudio Cipolla) "La misericordia è una roba-da-Dio" La vita è una sinfonia di suoni: suoni gravi e solenni, pungenti e ribelli, acuti e imponenti. Suoni che somigliano a dei tocchi, a dei rintocchi, anche ad arpeggi e palpeggi. Suoni che destano curiosità come il tintinnio di un lamento, che impauriscono come le sirene della Polizia, che consolano come un passo amico dentro la paura. Ci sono suoni che rimangono suoni, altri diventano visioni, altri ancora odorano di vita. Pochi suoni, però, superano, per attrattiva, il bussare-alla-porta. Bussare è un pò come suonare, anche un annunciare e annunciarsi, è un accendersi della memoria e dell’intuizione: "È lui. Anzi no: forse è lei. Chi è che bussa?". Tante domanda dietro un bussare. In queste settimane, passeggiando tra i corridoi di questo mondo popolato da uomini col passaporto di ferro-e-cemento, spesse volte mi sono chiesto: "Come mai proprio alla nostra parrocchia è toccato il privilegio di una Porta-Santa?" Già papa Francesco aveva reso tutte le porte delle celle delle porte-sante. Occorreva, davvero, che don Claudio calcasse ancora di più la mano, rendendo giubilare la nostra piccola chiesetta? Qualcuno me l’ha fatta pesare, facendomi capire che questi uomini non meritano così tanto, che questo luogo di educativo ha pochissimo. Forse hanno ragione, forse hanno torto: chi lo sa! A guardarla da fuori, la Grazia di Dio non è per niente facile da comprendere. Ti basta sfidarla una volta e perdere la partita per sentire che ti passa tutta la voglia di sfidarla anche solo una seconda volta: è pericolosissimo giocare al gatto e al topo quando sai di essere il topo. Così ho capito che la non-risposta è la risposta più bella a questa scelta ch’è toccata a questo luogo dove Bene e Male non sono un teorema astratto ma una presenza concreta. Dove la Misericordia, quella che non è mai a basso costo, è una manovra assai seria e ardita. Anche ardimentosa certi giorni, da capottarsi dalle vertigini. Solitamente le porte si aprono con una chiave. Le chiavi, però, ingombrano, si possono smarrire: meglio avere chi ti apre la porta, magari con un sorriso. Nessuno, come chi vive ramingo, conosce l’emozione di vedere una porta aprirsi: è la speranza che riprende vita. Ecco, allora, che la Porta-della-Misericordia da noi è anche la porta del sorriso. Chi troverà il coraggio di varcare quella porta, oltre l’indulgenza plenaria, otterrà anche un biglietto omaggio per assistere allo spettacolo più bello che la storia abbia mai trasmesso: quello di un uomo e di una donna che, caduti o sbattuti a terra, tentano in tutti i modi di rialzarsi. È la porta della misericordia, è la porta del sorriso, è la porta dei poveri-cristi: è la nostra porta e scusateci se ce la siamo arredata fin quasi a sfidare il buon senso. Qui dentro la fede è un insulto al buon senso. Benvenuti a tutti, allora. Nel nome del Dio-Bambino che un giorno, parlando di se stesso in terza persona, amò raccontarsi come un Dio-che-bussa: “Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). Un Dio che bussa: dopo il Dio-Bambino e il Dio-fornaio, è un Dio che sa di impasti e di incontri, di buono. Un Dio a disposizione di tutti, anche nonostante tutto o, forse, proprio per tutto quello che Gli abbiamo combinato. Per noi la porta è questo. Quando si chiude una porta, solitamente se ne apre un’altra: spesso, però, guardiamo così a lungo la porta che si è chiusa che non vediamo l’altra che si è aperta per noi: forse per questo, nella logica del Cielo, diventa santa anche la porta dell’autobus che passa sotto casa. Perché non capiti che qualcuno corra il rischio di sentirsi escluso quando c’è in ballo la salvezza. Ecco perché, come parroco di questa piccola chiesa di periferia, vorrei fare di questa messa e di questo gesto del quale don Claudio e la Chiesa ci ha fatto dono inaspettatamente, un grazie liturgico. Grazie a chi? A tutti coloro (e credetemi che sono tantissimi) che, arrivati molto prima di noi da queste parti, hanno messo fondamenta solide alla speranza, organizzandone la crescita e la sussistenza: di certi loro sguardi, sento di essere profondamente debitore. In quegli occhi vi ho letto un annuncio natalizio anche in piena estate: qui a Padova l’uomo non è solo una scommessa che si può giocare, ma è addirittura una scommessa che qualche volta si riesce pure a vincere. Questa porta che s’apre, sia il grazie di ciò che siete prima ancora di ciò che vi riesce di fare. E per voi, cari fratelli, che state scontando una pena, faccio mio un pensiero preso a prestito da un uomo che, quando lo leggo, mi abbevera la speranza, Dietrich Bonhoeffer. A Natale del 1943, scrive una lettera dal carcere ai suoi genitori: “Soprattutto una cosa, carissima mamma e papà: non dovete pensare che io mi lasci abbattere per via di questo Natale in solitudine. Esso prenderà per sempre un suo posto particolare tra quei Natali, ciascuno con una sua fisionomia diversa, che ho festeggiato in Spagna, in America, in Inghilterra; negli anni che verranno voglio poter ripensare a questo giorno non con vergogna, ma con un certo orgoglio. È l’unica cosa che nessuno può togliermi (Riconoscere Dio al centro della vita)”. Oggi inizia il Giubileo della Misericordia in questa terra di nessuno che Dio ha fortemente voluto fare propria. Per chi entrerà attraverso quella porta, per chi uscirà passando da quella porta, per tutti valga il suggerimento simpatico che ho trovato in un testo nel quale si parla di come salvarsi dalla fantasia dei ladri. Il consiglio è semplicissimo: la porta più protetta dai ladri è quella che si può lasciare aperta. Che sia un Giubileo di misericordia per tutti, sopratutto per chi, come tanti di noi, nella vita ha fallito: saperci amati nel momento in cui non lo meriteremmo di meno è il vestito-in-borghese che Dio indossa qui dentro quando non vuol farsi riconoscere. Non è questione di vergogna, è questione di delicatezza: la misericordia è una manovra serissima. È roba-da-Dio. (don Marco Pozza) Enrico, Alfredo, Armando, Gaetano: le porte strette della vita, quelle larghe della fede Enrico non è potuto tornare in carcere per l’apertura della Porta Giubilare: l’ha seguita in streaming dalla canonica della parrocchia di Campodarsego, poco lontano dalla casa circondariale padovana dei Due Palazzi. Quando si è aggravato - alcuni mesi fa, di un male serio - gli è stato consentito di uscire: e ha trovato accoglienza da don Leopoldo e dai suoi parrocchiani. Che ieri mattina occupavano metà della cappella parrocchiale dei Due Palazzi, assieme a molti detenuti, agenti, magistrati, amici del cappellano don Marco. Ma Enrico era più che presente, quando ieri don Claudio - il vescovo di Padova, da tre mesi vescovo anche di Enrico - ha aperto la Porta Giubilare, una delle quattro della Diocesi. Una porta di sicurezza di un carcere, dove neppure l’ingresso della cappella può fare eccezione; anche se una porta perfettamente ridisegnata per rammentare - essere - la Porta di San Pietro. Enrico, ha raccontato don Leopoldo dopo la liturgia dell’apertura e la Messa, la sua porta l’ha già varcata: quando è uscito dalla cella ed è entrato nella sua casa di Campodarsego. Dove tutti ora ringraziano di avere un nuovo parrocchiano e non vorrebbero andasse più via. C’è molta gente che varca la porta della canonica per andare a fare due chiacchiere con lui, "che ha la parola giusta con tutti". Alfredo - il sacrista della cappella e ora guardiano della Porta Giubilare - ha ricevuto da don Claudio una copia del diploma che ricorderà la giornata di ieri. Quando, dopo la messa, racconta la sua storia, tutti capiscono il perché di un piccolo-grande privilegio. È stato un rapinatore seriale negli anni 70, era legato alla quasi leggendaria Mala del Brenta, ha fatto dentro e fuori dal carcere fino a quando un pentito lo ha messo in guai peggiori di quanto meritasse. È fuggito in Colombia, ma in quasi vent’anni di latitanza non ha mai fatto il "narco": ha fatto il lavapiatti e il cameriere. Ha trovato moglie, ha messo al mondo tre figli, ha cominciato a vedere la vita in modo diverso fino a quando Cristo gli ha parlato nel volto del suo primogenito: cui non andava giù di non poter portare il cognome del padre. Perché? Alfredo ha prima trovato il coraggio di spiegargli tutto (anche di non essere un assassino) e poi quello di volersi costituire: tornare in Italia, scontare la pena per poter dare alla sua famiglia nome e cittadinanza. Ai Due Palazzi ha ritrovato vecchi compagni di malavita: i primi a dargli del matto - o peggio - per aver voluto tornare dietro le sbarre. A cercare qualcosa che, oltre a "libertà", dall’8 dicembre ha il nome di "misericordia". Armand, invece, è albanese. È nato quando ancora a Tirana c’era la dittatura comunista, è fuggito in Grecia, è approdato in Italia, è risalito fino al Veneto: dove ha trovato dei parenti, ma anche una banda di giostrai. Che gli ha indicato una scorciatoia per il suo gioco preferito: le auto truccate. Buone per divertirsi, per fuggire alla polizia dopo un colpo, per fare incidenti spettacolari da cui uscire vivi per miracolo: e finire poi in carcere. Lì vede gente che va alla messa cattolica e poi sorride, sta bene. È attratto soprattutto dal rito dell’eucaristia e un giorno si comunica anche lui: e anche lui, dopo aver ricevuto "quel pezzetto di pane", "sta meglio". Poi ovviamente lo dice al cappellano, aspettandosi qualche obiezione alla nuova scorciatoia. Invece il commento è solo: "La prossima volta prima confessati", cioè "entra veramente nella nostra comunione di fede". Da allora la comunità cristiana del carcere non lo molla più: fino al battesimo, nel maggio scorso, con i suoi familiari fatti venire ritrovati e fatti venire appositamente. Gaetano si vede che è quello che fa più fatica a parlare ma chi lo ascolta non fatica a intuire il perché: sta scontando un "ergastolo ostativo", è detenuto di massima sicurezza, si è fatto perfino un periodo di 41-bis. "Ero in una cella vuota - racconta seduto a fianco di don Claudio - dove non si ha nulla e non si vede nessuno, mai. Di buono, con me e dentro di me, avevo solo le preghiere che avevo imparato a Poggioreale, da una suora che mi aveva strappato alla disperazione e agli psicofarmaci". Anche adesso, dietro sbarre ancora formalmente destinate a non aprirsi mai, il dolore è forte, quotidiano: è la notizia di un padre che sta morendo e non si potrà neppure ricordare al funerale. È il sapere che c’è una famiglia con cui - oggi - è inimmaginabile qualsiasi ritorno alla "comunione". Eppure - ed è lui che lo dice a don Claudio - la speranza nella misericordia è viva. Quella porta appena aperta dal suo vescovo per desiderio di Papa Francesco è ancora aperta, è sempre aperta. (Antonio Quaglio) Cassazione penale 2015, monopolizzata da tenuità del fatto, stupefacenti e alcooltest di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 28 dicembre 2015 Non è facile sintetizzare un anno di giurisprudenza della Cassazione penale. Limitiamo dunque l’attenzione alle materie più riguardate da novità, vuoi normative, vuoi giurisprudenziali. La particolare tenuità del fatto - La prima di queste materie è quella della non punibilità per la particolare tenuità del fatto, introdotta con il decreto legislativo 16 marzo 2015 n. 28, la cui norma fondamentale è quella contenuta nell’articolo 131 bis del Cp, che configura la possibilità di definire il procedimento con la declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto relativamente ai reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla pena detentiva, avendo riguardo all’offesa cagionata (che deve essere di “particolare tenuità” e va desunta dalle modalità della condotta e dall’esiguità del danno o del pericolo) e al comportamento tenuto (che non deve risultare “abituale”). L’applicabilità ai processi in corso - La prima questione su cui la Corte di cassazione è dovuta intervenire è quella dell’applicabilità ai processi in corso, pendenti in sede di legittimità, della disciplina dell’articolo 131 bis del Cp. La Corte ha fin da subito dato risposta positiva, poi sempre ribadita, cogliendo l’occasione proprio di questa astratta applicabilità “retroattività” per dare le prime puntuali indicazioni per la ricostruzione dei presupposti che consentono di fare ricorso alla declaratoria di non punibilità. Si segnala, allora, la prima pronuncia sul tema (Sezione III, 8 aprile 2015, n. 15449, Mazzarotto ), laddove il giudice di legittimità, ha ritenuto, pur nell’assenza di una disciplina transitoria, l’applicabilità della disciplina della declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto anche ai procedimenti in corso al momento della sua entrata in vigore e, quindi, anche a quelli pendenti in Cassazione. In tale evenienza, si è precisato, la Corte di legittimità, deve in primo luogo verificare l’astratta applicabilità dell’istituto, avendo riguardo ai limiti edittali di pena del reato. In secondo luogo, la Corte deve verificare la ricorrenza congiunta della particolare tenuità dell’offesa e della non abitualità del reato. Nell’effettuare questo secondo apprezzamento, il giudice di legittimità non potrà che basarsi su quanto emerso nel corso del giudizio di merito, tenendo conto, in modo particolare, dell’eventuale presenza, nella motivazione del provvedimento impugnato, di giudizi già espressi che abbiano pacificamente escluso la particolare tenuità del fatto. Fatto lieve e soglie di punibilità - Questione interpretativa delicata è quella se della disciplina applicabile ai reati costruiti sulla base di predeterminate soglie di punibilità. Il tema è se il superamento della soglia costituisca o no ostacolo insormontabile all’ottenimento del beneficio. Di recente, la Corte di cassazione ha affrontato tale questione e, condivisibilmente, ha escluso che previsione di una soglia di punibilità possa assumere, di per sé sola, valenza ostativa all’applicabilità dell’istituto (Sezione IV, 9 settembre 2015, n. 44132, Longoni ; nella specie, era contestata la contravvenzione di cui all’articolo 186, comma 2, lettera b), del codice della strada, essendosi apprezzato il tasso alcolemico di 0,82 g/l alla prima prova e di 0,85 g/l alla seconda prova, ossia valori estremamente prossimi al limite inferiore del range normativo: poiché non emergevano, nella sentenza di merito, elementi che attestassero di una valutazione del giudice nel senso di una non particolare tenuità del fatto, risultando anzi la concessione delle attenuanti generiche, la Corte ha annullato con rinvio la sentenza di condanna, limitatamente alla possibile applicabilità della causa di non punibilità). La conclusione cui è pervenuta la Cassazione, nella sentenza Longoni, come detto, è convincente. A ben vedere, il maggiore o minore superamento della soglia di punibilità è elemento che può [solo] “concorrere” ad applicare o per converso a escludere la causa di non punibilità confermando o smentendo il giudizio sulla particolare tenuità del fatto. Ma di per sé solo non può valere per risolvere la questione dell’applicabilità della causa di non punibilità basata sul giudizio di particolare tenuità del fatto. Il dato “quantitativo” (della soglia) non può che farsi rientrare in quel giudizio complessivo che va effettuato per ritenere il fatto di particolare tenuità. L’apprezzamento sulla particolare tenuità, secondo la nota disciplina, è correlato all’offesa (che deve essere di “particolare tenuità” e va desunta dalle modalità della condotta e dall’esiguità del danno o del pericolo) e al comportamento (che non deve risultare “abituale”): ai fini della declaratoria di punibilità assumono cioè rilievo gli “indici-criteri” (secondo la nozione datane nella Relazione di accompagnamento) della “particolare tenuità dell’offesa”, a sua volta desumibile dalle “modalità della condotta” e dalla “esiguità del danno o del pericolo” derivato dal reato, e della “non abitualità del comportamento”. È(solo) in questa prospettiva che, quindi, può e deve tenersi conto delle “soglie” di punibilità, senza pregiudiziali soluzioni positive o negative. Va però osservato che il tema probabilmente sarà devoluto alle sezioni Unite: la Sezione IV, con ordinanza del 3 dicembre 2015 (a oggi non depositata) ha rimesso alle sezioni Unite, nel procedimento penale a carico dell’imputato Tushaj, la questione dell’applicabilità dell’istituto di cui all’articolo 131 bis del Cp al reato di guida in stato di ebbrezza alcolica (articolo 186, comma 2, lettere b) e c), del codice della strada), proprio evidentemente perché costruito sulla base di predeterminate soglie di punibilità. L’abitualità della condotta. Sempre in ordine all’istituto della particolare tenuità, molto importante è la sentenza della Sezione III, 8 maggio 2015, Gau, n. 29897 che si è soffermata su una delle condizioni ostative all’applicabilità dell’istituto, rappresentata dalla “abitualità del comportamento”, la cui nozione va ricostruita avendo riguardo al disposto del comma 3 dell’articolo 131 bis del Cp, laddove, nel definirsi le ipotesi in cui il comportamento è qualificabile come abituale, si fa riferimento a tre distinte situazioni: soggetto dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza; commissione di più reati della stessa indole; reati che abbiano a oggetto condotte plurime, abituali e reiterate. È sulla ricostruzione della nozione di “abitualità” che la Corte ha sviluppato le considerazioni più interessanti, affermandosi che in tale nozione rientra anche l’ipotesi della pluralità di reati avvinti sotto il vincolo della continuazione, che quindi fonda uno sbarramento all’applicabilità dell’istituto di favore. La tormentata disciplina degli stupefacenti - La Corte di cassazione, anche nel 2015, ha continuato a fornire le indicazioni operative sulla corretta applicazione della disciplina sanzionatoria degli stupefacenti dopo la nota sentenza 25 febbraio 2014 n. 32, con cui la Corte costituzionale, dichiarando incostituzionale la legge Fini-Giovanardi, ha determinato, per le droghe “leggere”, il ritorno alla più favorevole previgente normativa contenuta nella legge Vassalli-Iervolino. Come è noto, infatti, il “recupero” del previgente articolo 73, comma 4, del Dpr 9 ottobre 1990 n. 309 ha fatto sì che, per le droghe “leggere” (tabelle II e IV), devono ora applicarsi le sanzioni della reclusione da due a sei anni e della multa da euro 5.164 a euro 77.468, mentre il trattamento sanzionatorio previsto nel comma 1 dello stesso articolo 73, nel testo introdotto dalla Fini-Giovanardi, prevedeva le più gravi sanzioni della reclusione da sei a venti anni e della multa da euro 26.000 a euro 260.000. Di interesse pratico notevole, è la sentenza delle sezioni Unite, 26 febbraio 2015, Jazouli, n. 33040, dove la Corte ha affrontato la questione della sorte della sentenza di patteggiamento “non irrevocabile”, relativa a illeciti riguardanti sostanze stupefacenti “leggere”, che abbia applicata una pena secondo i parametri edittali meno favorevoli previsti dalla disciplina dichiarata incostituzionale dalla sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale, stabilendo che tale sentenza, avendo applicato una pena illegale, va annullata, pur quando la pena concretamente inflitta sia compresa entro i limiti edittali previsti dall’originaria formulazione della norma, prima della novella del 2006, rivissuto per effetto della stessa sentenza di incostituzionalità. In tale evenienza, hanno precisato le sezioni Unite, poiché nel patteggiamento l’illegalità sopravvenuta della pena determina la nullità dell’accordo, la Corte di cassazione deve annullare senza rinvio la sentenza basata su tale accordo. Sempre le sezioni Unite, con la sentenza 26 febbraio 2015, Marcon, n. 37107, hanno poi affrontato l’ulteriore questione della sorte della sentenza di patteggiamento “irrevocabile”, avente a oggetto droghe “leggere”: se cioè la pena applicata debba essere necessariamente rideterminata in sede di esecuzione e, in caso di risposta affermativa, se debba essere rideterminata secondo un criterio aritmetico-proporzionale di adeguamento alla mutata e più favorevole cornice edittale, o se, invece, il giudice dell’esecuzione possa rivalutare la congruità e la correttezza della sanzione irrogata dal giudice della cognizione rispetto alla disciplina oggetto di reviviscenza avvalendosi dei poteri discrezionali di cui agli articoli 132 e 133 del Cp. La risposta delle sezioni Unite è stata ovviamente positiva sul primo quesito: l’illegalità sopravvenuta della pena, conseguente all’intervento della Corte costituzionale, pone le condizioni per l’intervento del giudice dell’esecuzione, che deve ricondurla a legalità. Quanto alle modalità della rideterminazione, le sezioni unite hanno valorizzato il disposto dell’articolo 188 delle disposizioni di attuazione del Cpp, applicabile analogicamente, anche se formalmente dedicato a consentire di intervenire in sede esecutiva sulla pena patteggiata riconoscendo la continuazione o il concorso formale tra più reati oggetto di distinte sentenze irrevocabili ex articolo 444 del Cpp. Cosicché, secondo il ragionamento della Corte, in applicazione della disciplina tratteggiata dall’articolo 188, la rideterminazione deve avvenire a iniziativa delle parti (di norma l’imputato, ma anche il pubblico ministero, quale garante della corretta applicazione della legge), che sottopongono al giudice dell’esecuzione una nuova pena su cui è stato raggiunto l’accordo. In caso di mancato accordo o di pena concordata ritenuta non congrua, le sezioni Unite hanno però fatto salvo il potere di autonoma valutazione discrezionale del giudice dell’esecuzione, che deve provvedere alla rideterminazione della pena ai sensi degli articoli 132 e 133 del Cp. L’illegalità della pena - Le complesse, richiamate vicende della disciplina degli stupefacenti, hanno offerto il destro per un ulteriore intervento delle sezioni Unite, che hanno affermato principi di più ampia e generale portata. La questione controversa aveva a oggetto il quesito se, in presenza di ricorso inammissibile, perché presentato fuori termine, fosse o no è rilevabile d’ufficio, in sede di legittimità, l’illegalità della pena. La risposta è stata negativa, sul rilievo che, in caso di ricorso tardivo si è in presenza di una impugnazione sin dall’origine inidonea a instaurare un valido rapporto processuale, in quanto il decorso del termine derivante dalla mancata proposizione dell’impugnazione ha già trasformato il giudicato sostanziale in giudicato formale, sicché il giudice dell’impugnazione si limita a verificare il decorso del termine e a prenderne atto [sezioni Unite, 26 giugno 2015, Butera e altro, n. 47766 ]. Le sezioni Unite hanno argomentato le proprie conclusioni valorizzando, in particolare, dall’articolo 648, comma 2, del Cpp, laddove si afferma che, quando è inutilmente decorso il termine per proporre impugnazione, la sentenza è irrevocabile, a prescindere dall’esito del relativo giudizio (l’utilizzo della disgiuntiva “o” che separa le due ipotesi dell’inutile decorso del termine per proporre impugnazione e dell’inutile decorso del termine per impugnare l’ordinanza di irrevocabilità dell’impugnazione, dimostra che l’evento dell’irrevocabilità si compie quando si verifica anche una sola delle ipotesi contemplate; con l’ulteriore conseguenza che il riferimento all’ordinanza di inammissibilità dell’impugnazione, ai fini dell’irrevocabilità della decisione, riguarda le cause di inammissibilità diverse dalla tardività dell’impugnazione). La circolazione stradale - Per l’importanza anche pratica meritano segnalazione alcuni interventi giurisprudenziali sulla disciplina della circolazione stradale (che, come è noto, a breve, sarà innovata massicciamente dalla legge che introdurrà i reati di omicidio colposo stradale e di lesioni colpose stradali gravi e gravissime). Si tratta di pronunce entrambe relative al reato di rifiuto a sottoporsi all’esame alcolemico (articolo 186, comma 7, del codice della strada ). In una occasione, la Cassazione ha affermato che la circostanza aggravante dell’aver provocato un incidente stradale (articolo 186, comma 2 bis, del codice della strada ) non è configurabile rispetto al reato di rifiuto di sottoporsi all’accertamento per la verifica dello stato di ebbrezza (articolo 186, comma 7, dello stesso codice ), stante la diversità ontologica di tale fattispecie incriminatrice rispetto a quella di guida in stato di ebbrezza (articolo 186, comma 2, del codice della strada ) [sezioni Unite, 29 ottobre 2015, Proc. Rep. Trib. Macerata in proc. Zucconi, n. 46625 ]. Con altra decisione si è ritenuto che, sempre nel caso di rifiuto a sottoporsi all’esame alcolemico previsto dall’ articolo 186, comma 7, del codice della strada, il rinvio alle “stesse modalità e procedure previste dal comma 2, lettera c), salvo che il veicolo appartenga a persona estranea alla violazione”, contenuto nel secondo periodo del comma 7, dell’articolo 186 del codice della strada, dopo le previsioni relative alla sospensione della patente di guida e alla confisca del veicolo, deve intendersi limitato alle sole “modalità e procedure”, contenute nell’articolo 186, comma 2, lettera c), del codice della strada, che regolano il sistema della confisca del veicolo, con esclusione del rinvio alla disciplina del raddoppio della durata della sospensione della patente di guida, qualora il veicolo appartenga a persona estranea al reato; conseguentemente, la durata della sospensione della patente di guida, quale sanzione amministrativa che accede al reato di rifiuto, compresa, ai sensi dell’articolo 186, comma 7, secondo periodo, del codice della strada, tra il minimo di sei mesi e il massimo di due anni, non deve essere raddoppiata nel caso in cui il veicolo appartenga a persona estranea al reato [sezioni Unite, 29 ottobre 2015, Bordin, 46624 ]. La sospensione con messa alla prova - La Cassazione non ha mancato di intervenire su un altro istituto “nuovo”: quello della sospensione con messa alla prova di cui all’articolo 168 bis del Cp. Il tema affrontato è stato quello del computo della pena edittale relativamente ai reati “puniti con la pena edittale detentiva non superiore al massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria…” (articolo 168 bis, comma 1, del Cp ), ciò con particolare riferimento ai criteri determinativi della pena detentiva ai fini dell’ammissibilità del ricorso all’istituto di favore. Sul punto, però, si segnala un contrasto che potrebbe offrire l’occasione di un intervento chiarificatore delle sezioni unite. In particolare, secondo la sentenza della sezione VI, 30 giugno 2015, Fagrouch, n. 36687 a tal fine non deve aversi riguardo alla sola pena edittale massima prevista per la fattispecie base, ma occorre, in applicazione dell’articolo 4 del Cpp, tenere conto anche “delle circostanze aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale”. In tal modo, la Corte ha preso espressamente la distanze da altro precedente [Sezione IV, 9 dicembre 2014, Proc. Rep. Trib. Padova in proc. Gnocco e altro, n. 6483 ] in cui la Cassazione aveva invece affermato che, nella individuazione dei reati rispetto ai quali è applicabile l’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova (c.d. probation) di cui all’articolo 168 bis del Cp e segg. avendo riguardo al mero riferimento edittale [“reati puniti…con la pena edittale detentiva non superiore al massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria…”], deve considerarsi unicamente la pena massima prevista per ciascuna ipotesi di reato, prescindendo dal rilievo che nel caso concreto potrebbe assumere la presenza della contestazione di una circostanza aggravante, comprese quelle ad effetto speciale. Il falso in bilancio - Merita segnalazione anche Sezione V, 16 giugno 2015, Crespi e altri, n. 33774, che affronta, tra le prime, il novum della riforma sul falso in bilancio, realizzata con la legge 27 maggio 2015 n. 69, evidenziando come le nuove fattispecie incriminatrici, pure apparentemente ispirate a un rafforzamento della tutela sanzionatoria, finiscano con il determinare l’esclusione della rilevanza penale alle condotte che si sostanzino in un’attività “valutativa”. In tale occasione, la suprema Corte ha affermato che la riformulazione degli articoli 2621 e 2622 del codice civile, realizzata con la citata legge n. 69 del 2015, finisce con l’escludere dall’ambito della rilevanza penale le condotte che si sostanzino in un’attività “valutativa”. Va peraltro segnalato che il tema non è ancora risolto pacificamente. Sempre la sezione V, con altra sentenza, in data 12 novembre 2015 [ non ancora a oggi depositata] ha diversamente affermato il principio di diritto che, nell’articolo 2621 del codice civile, il riferimento ai “fatti materiali” quali possibili oggetti di una falsa rappresentazione della realtà non vale a escludere la rilevanza penale degli enunciati valutativi, che sono anch’essi predicabili di falsità quando violino criteri di valutazione predeterminati o esibiti in una comunicazione sociale. Infatti, quando intervengano in contesti che implicano l’accettazione di parametri di valutazione normativamente determinati o, comunque, tecnicamente indiscussi, gli enunciati valutativi sono idonei ad assolvere una funzione informativa e possono dirsi veri o falsi. Il contrasto del terrorismo - Infine, per il rilievo del fenomeno del “terrorismo”, conseguente non solo alla recrudescenza degli attentati terroristici collegati a gruppi islamici, ma anche alle novità normative determinate dal recente intervento diretto proprio a migliorare il contrasto rafforzare gli strumenti di lotta contro i fenomeni di terrorismo internazionale (legge 17 aprile 2015 n. 43, di conversione del decreto legge 18 febbraio 2015 n. 7), va focalizzata l’attenzione su alcune interessanti pronunce della Cassazione che forniscono pertinenti argomenti di riflessione per un corretto inquadramento degli istituti. Degna di menzione è Sezione I, 6 ottobre 2015, Halili, n. 47489, intervenuta sul reato di apologia di cui all’articolo 414, comma 4, del Cp, aggravato dalla finalità di terrorismo ai sensi dell’articolo 1 del decreto legge 15 dicembre 1979 n. 625, convertito dalla legge 6 febbraio 1980 n. 15 (nella specie, contestato a un indagato cui si addebitava di avere fatto apologia dello Stato islamico, associazione con finalità di terrorismo internazionale, pubblicamente e, in particolare, mediante la diffusione sulla rete internet di documenti in parte provenienti dalla stessa organizzazione terroristica e in parte redatti dallo stesso indagato, che, secondo la contestazione, avevano il fine di convincere il lettore che l’adesione allo Stato islamico doveva ritenersi la sola scelta corretta, anche sotto il profilo religioso). La Corte ha precisato che per la punibilità dell’apologia occorre che questa, per le modalità con cui viene realizzata, integri un comportamento concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti, trascendendo la pura e semplice manifestazione del pensiero. Per l’effetto, per l’integrazione del reato di apologia, ma anche del reato di istigazione per delinquere, non basta l’esternazione di un giudizio positivo su un episodio criminoso, per quanto odioso e riprovevole esso possa apparire alla generalità delle persone dotate di sensibilità umana, ma occorre che il comportamento dell’agente sia tale per il suo contenuto intrinseco, per la condizione personale dell’autore e per le circostanze di fatto in cui si esplica, da determinare il rischio, non teorico, ma effettivo, della consumazione di altri reati e, specificamente, di reati lesivi di interessi omologhi a quelli offesi dal crimine esaltato. Interessanti anche le puntualizzazioni rese da Sezione I, 16 luglio 2015, Proc. Rep. Trib. Torino in proc. Alberti e altri, n. 47479, ove la Corte di legittimità ha precisato che, per l’integrazione della “finalità di terrorismo” di cui all’articolo 270 sexies del Cp, non è sufficiente la sola direzione dell’atteggiamento psicologico dell’agente, ma è necessario che la condotta posta in essere del medesimo sia concretamente idonea a realizzare uno degli scopi indicati nel predetto articolo (intimidire la popolazione; costringere i poteri pubblici a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto; destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale), determinando un evento di pericolo di portata tale da incidere sugli interessi dell’intero Paese colpito dagli atti terroristici. Non punibile la limitata coltivazione di piante da stupefacente per uso personale di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 28 dicembre 2015 Corte di Cassazione - Sezione III penale - Sentenza 2 novembre 2015. La Cassazione, con la sentenza della Sezione III, 27 marzo 2015- 2 novembre 2015 n. 43986, De Lucia, torna ancora una volta sul controverso tema del trattamento sanzionatorio da riservare alla condotta di coltivazione di piante da stupefacente, allorquando il prodotto della coltivazione, destinato solo all’uso personale del coltivatore, risulti assolutamente modesto quanto a percentuale di principio attivo. Così le sezioni unite - Sono noti i principi in tema affermati dalle Sezioni unite, nelle sentenze 24 aprile 2008, Di Salvia e 24 aprile 2008, Valletta, secondo cui costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale, essendo irrilevante ai fini della sussistenza del reato la distinzione tra coltivazione tecnico-agraria e coltivazione domestica. Secondo questa impostazione (che si ricollega ai principi espressi dalla nota sentenza n. 360 del 1995 della Corte costituzionale), lo spazio per una pronuncia liberatoria potrebbe aversi solo in presenza di condotte di coltivazione che risultassero concretamente “inoffensive”, spettando al giudice di merito verificare se la condotta di coltivazione accertata sia in ipotesi assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto e dovendosi in proposito considerarla “inoffensiva” [solo] se la sostanza ricavabile dalla coltivazione non risulti idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile. Quando la condotta è inoffensiva - Il punto controverso concerne, quindi, l’apprezzamento sulla offensività/inoffensività della condotta. Qui, la Corte adotta una interpretazione convincente ed equilibrata. Si ribadisce, ovviamente, che la punibilità per la coltivazione non autorizzata di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti va esclusa solo allorché il giudice ne accerti l’inoffensività in concreto. Si precisa però che l’inoffensività in concreto è ravvisabile non solo quando i quantitativi prodotti risultino privi della concreta attitudine ad esercitare, anche in misura minima, effetti psicotropi, ma anche quando la condotta di coltivazione sia così trascurabile da rendere sostanzialmente irrilevante l’aumento di disponibilità di droga e non prospettabile alcun pericolo di ulteriore diffusione. In questa prospettiva, comunque, ai fini della necessaria verifica in concreto dell’offensività della condotta di coltivazione, non è sufficiente considerare il solo dato quantitativo di principio attivo ricavabile dalle singole piante, in relazione al loro grado di maturazione, dovendosi esaminare anche quale sia l’estensione della coltivazione, il livello di strutturazione di tale coltivazione al fine di verificare se da essa possa o meno derivare una produzione di sostanza stupefacente esulante rispetto all’autoconsumo ma potenzialmente idonea ad incrementare il mercato. Da queste premesse, relativamente ad una condotta di coltivazione di due piantine di canapa indiana, la Corte ha annullato senza rinvio la condanna, sul rilievo che, data la modestissima rilevanza quantitativa della piantagione, la sostanza da essa prodotta, risultata destinata all’autoconsumo, non aveva neppure in minimo grado l’attitudine ad incrementare il mercato degli stupefacenti. L’orientamento più seguito - La Cassazione ritiene così di condividere quelle decisioni che, rispetto ad un orientamento assolutamente prevalente recettivo dell’impostazione delle Sezioni unite (cfr., tra le tante, Sezione VI, 31 ottobre 2013, Proc. Rep. Trib. Trani in proc. C.), hanno invece cercato di adottare una nozione più ampia del principio di offensività, sì da far rientrare nel novero dei fatti non punibili, appunto perché inoffensivi, anche episodi qualificati dalla accertata presenza di principio attivo sia pure in quantità molto modeste. Così, esemplificando, sotto diversi profili: - nel rigettare il ricorso del procuratore generale, si è ritenuta corretta e congruamente motivata la sentenza del Gup che, in esito all’udienza preliminare, aveva dichiarato non luogo a procedere nei confronti dell’imputato in relazione alla coltivazione, in un vaso sul terrazzo di casa, di una piantina di canapa indiana, contenente un principio attivo di mg. 16, esprimendosi il convincimento che si trattasse di condotta non idonea a porre in pericolo il bene della salute pubblica o della sicurezza pubblica (Sezione IV, 17 febbraio 2011, Proc. gen. App. Catanzaro in proc. Marino); - si è parimenti esclusa la punibilità quando la condotta dimostri tale lievità da essere sostanzialmente irrilevante l’aumento di disponibilità di droga e non prospettabile alcuna ulteriore diffusione della sostanza (Sezione VI, 8 aprile 2014, Proc. gen. App. Sassari in proc. Piredda); - è stata annullata senza rinvio la sentenza di condanna per insussistenza del fatto, in una fattispecie in cui il reato di coltivazione era stato ravvisato a carico dell’imputato che risultava avere coltivato “domesticamente” solo cinque piantine di cannabis, dalle quali erano risultati estraibili solo 0,1048 grammi di sostanza stupefacente, di cui neppure era stato indicato il principio attivo (Sezione IV, 11 dicembre 2014, Spanu). Questa impostazione giurisprudenziale più liberale, ci sembra di poter dire è quella che meglio inquadra il principio di offensività avendo riguardo agli interessi penali tutelati dalla disciplina degli stupefacenti. Il punto di partenza, in proposito, non può essere rappresentato che dalla sentenza delle Sezioni unite 24 giugno 1998, Kremi (intervenuta sulla questione della rilevanza penale delle condotte illecite aventi ad oggetto quantitativi di sostanza inferiore alla “soglia drogante”). Il bene protetto della norma - In quell’occasione la Corte individuò il “bene protetto dalla norma”, relativamente alla fattispecie criminosa prevista dall’articolo 73, in quelli della salute pubblica, della sicurezza, dell’ordine pubblico e della salvaguardia delle giovani generazioni. Ebbene rispetto a tali beni non può certamente ritenersi penalmente offensiva e meritevole di sanzione penale una condotta di coltivazione avente ad oggetto quantitativi di sostanza che, pur non inidonei tout court a produrre effetto stupefacente, siano oggettivamente modesti e inequivocamenti destinati all’uso personale del coltivatore. Non è infatti possibile sostenere la verificazione di una lesione del “bene della salute”, a fronte di una sostanza che, proprio per la modestia quantitativa del principio attivo, risulti pressoché inidonea a determinare gli effetti lesivi che le sono normalmente propri. Anche perché il “bene della salute” tutelato nell’ambito del sistema repressivo penale degli stupefacenti va pur sempre apprezzato nella prospettiva del terzo destinatario della droga. Né è possibile sostenere alcun concreto effetto negativo sul “mercato illecito della droga”, in presenza di quantitativi minimali e tali da escludere una effettiva “diffusione” della sostanza. Del resto, la pretesa maggiore pericolosità della coltivazione è pur sempre correlata al fatto che trattasi di attività che è destinata ad accrescere “indiscriminatamente” i quantitativi coltivabili e quindi ha una “maggiore potenzialità diffusiva” delle sostanze stupefacenti estraibili (così, Corte costituzionale, sentenza n. 360 del 1995): situazioni empiricamente inconcepibili in presenza di attività modestissime e rudimentali di coltivazione, laddove qualsivoglia prognosi di diffusività indiscriminata del ricavato è concettualmente impraticabile. Parimenti, non può invocarsi alcuna lesione anche solo potenziale alle esigenze della “sicurezza” e dell’ “ordine pubblico”, che possono essere utilmente richiamate solo in presenza di condotte illecite che abbiano ad oggetto sostanze stupefacenti in quantitativi minimali, privi di alcun effetto realmente efficiente rispetto a beni di tale rilievo collettivo. Ciò legittima, a nostro avviso, il maggiore credito interpretativo che merita questa impostazione di minore rigore, che consentirebbe di invocare, attraverso una lettura costituzionalmente orientata del principio di offensività, la disciplina del reato impossibile (articolo 49 del Cp ) in presenza di condotte di coltivazione, dimostratamente volte a soddisfare il solo uso personale del coltivatore, che abbiano ad oggetto quantitativi modesti, pur se non tali da essere totalmente inidonei a produrre effetto stupefacente. Condotte di tal genere, così oggettivamente caratterizzate e soggettivamente indirizzate, non è dubbio che risultino sia ex ante, ma anche in concreto, del tutto inidonee a provocare una lesione degli interessi tutelati dall’incriminazione penale. Diffamazione a mezzo stampa, inflizione della pena detentiva in ipotesi eccezionali Il Sole 24 Ore, 28 dicembre 2015 Reati contro la persona - Diffamazione a mezzo stampa - Applicazione pena detentiva - Condizioni. È legittima, in relazione all’articolo 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, l’inflizione della pena detentiva in ipotesi di condanna per il delitto di diffamazione a mezzo stampa commesso mediante pubblicazione di una notizia non rispondente al vero, nella piena consapevolezza di tale falsità da parte del giornalista, configurandosi in tal caso una delle “ipotesi eccezionali” individuate dalla giurisprudenza della Cedu. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 28 settembre 2015 n. 39195. Reati contro la persona - Diffamazione a mezzo stampa - Pubblicazione notizia falsa - Inflizione della pena detentiva - Interpretazione portata articolo 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo resa dalla Cedu. Il giudice sovranazionale ha più volte affermato che la legittimità dell’ingerenza di uno Stato nell’esercizio del diritto alla libertà di manifestazione del pensiero (e, più in particolare, alla libertà di stampa) deve essere valutata anche con riferimento alla natura ed all’afflittività delle pene, non consentendo l’ articolo 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo - come interpretato dalla Cedu, e dunque quale norma interposta di rango costituzionale ex articolo 117 della Carta fondamentale - che si adottino misure punitive tali da dissuadere i mezzi di comunicazione dall’adempiere alla primaria funzione sociale di allertare il pubblico, garantendo alla generalità dei consociati di rimanere informati su eventuali abusi dei pubblici poteri. Il principio risulta espresso nel leading case di cui alla sentenza Cumpana e Mazare c. Romania (n. 33348/96). • Corte cassazione, sezione V, sentenza 28 settembre 2015 n. 39195. Reati contro la persona - Diffamazione a mezzo stampa - Trattamento sanzionatorio - Applicazione pena detentiva - Legittimità. In tema di diffamazione a mezzo della stampa l’inflizione della pena detentiva, ancorché condizionalmente sospesa, esige la ricorrenza di circostanze eccezionali. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 13 marzo 2014 n. 12203. Reati contro la persona - Diffamazione a mezzo stampa - Applicazione pena detentiva - Legittimità. È legittima, in relazione all’art. 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, l’inflizione della pena detentiva in ipotesi di condanna per il delitto di diffamazione a mezzo stampa commesso mediante pubblicazione di una notizia falsa, configurandosi in tal caso una delle “ipotesi eccezionali” individuate dalla giurisprudenza della Cedu. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 23 ottobre 2012 n. 41249. Emilia Romagna: donne in carcere, universo dimenticato. Sono 123, di cui 44 straniere Nuovo Giornale di Modena, 28 dicembre 2015 La vita delle donne detenute “non è un argomento che suscita particolare attenzione neppure tra gli addetti ai lavori”: proprio per questo motivo, in occasione della recente Giornata mondiale dei diritti dell’uomo, la Garante regionale delle persone private della libertà dell’Emilia-Romagna, Desi Bruno, e la presidente della commissione Parità e diritti delle persone dell’Assemblea legislativa regionale, Roberta Mori, sono state alla casa circondariale di Forlì per presentare i risultati della ricerca “Detenzione al femminile - Ricerca sulla condizione detentiva della donne nelle carceri di Piacenza, Modena, Bologna e Forlì”, promossa dall’Ufficio della Garante e realizzata dall’associazione di volontariato “Con…tatto”. “Le recluse sono sempre state poche, meno del 5% della intera popolazione ristretta, e la loro esiguità numerica non le ha costrette a quel trattamento inumano e degradante costituito dalla mancanza dello spazio minimo vitale - commenta la Garante, Desi Bruno. Eppure sono ingombranti, anche se la reclusione delle donne non ha una autonomia organizzativa, e vive spesso di quanto accade nel carcere maschile, dal quale riceve briciole, in termini di risorse”. “Ci interessiamo, attraverso l’importante lavoro della Garante, a una ricerca rispetto alla detenzione femminile perché la popolazione femminile carceraria è del 4%, quindi veramente esigua rispetto alla popolazione carceraria tutta, e proprio per questo le esigenze e i bisogni che possono esprimere le donne detenute, ma anche le operatrici delle carceri, sono per noi importanti per capire e approfondire la loro relazione con il carcere e la vita al suo interno- commenta la presidente Mori-. Questo perché poi tutto si riflette anche sulla vita che sarà all’infuori del carcere e quindi speriamo e confidiamo che una ricerca approfondita su questo tema ci dia spunti utili alla prevenzione e al contrasto dei reati”. In Emilia-Romagna le donne in carcere, alla data del 2 dicembre 2015, erano 123, di cui 44 straniere - in prevalenza provenienti dall’Est Europa. Sono 5 gli Istituti che ospitano al loro interno sezioni dedicate all’espiazione di pena per le donne: Piacenza, Modena Sant’Anna, Bologna, Forlì e Reggio Emilia. Nel 2014 si è registrato un parto in carcere, mentre erano 10 le detenute madri: ben tre di queste hanno scelto di non vedere i figli, o “perché il contatto è breve e il distacco è fonte di sofferenza” o per “non farli entrare in contatto con l’istituzione penitenziaria”. Oggetto della ricerca, che Bruno e Mori hanno presentato insieme alla direttrice del carcere di Forlì, Palma Mercurio, e a esponenti nel mondo dell’associazionismo tra cui l’autrice, Lisa di Paolo, è la condizione di detenzione delle donne detenute all’interno degli Istituti dell’Emilia-Romagna, al fine di conoscere quali sono le modalità di organizzazione delle sezioni femminili, le attività, il rapporto con gli operatori, le opportunità di incontro con i familiari e figli, le difficoltà di convivenza. Si vogliono rilevare sia le variabili di tipo oggettivo - numero di detenute, nazionalità, tipologia di reato - che soggettivo - modalità di adattamento all’ambiente, sostegno e attività dedicate. Paola Cigarini, referente della Conferenza regionale del volontariato, ha poi presentato tutte le attività realizzate nelle altre carceri in occasione della Giornata mondiale dei diritti dell’uomo. “È proprio nella progettualità per un carcere diverso che si deve partire dall’uso del tempo della pena in funzione di costruzione di opportunità- sostiene Bruno-. E si potrebbe partire dalle donne detenute, riconoscendo alle stesse una diversa capacità di relazione e di cura, nella consapevolezza che lavorare per i diritti nei luoghi di privazione della libertà personale trova un limite insuperabile nella esigibilità degli stessi in quel contesto, la soggettività delle recluse appare come una opportunità da cogliere, e non da accantonare, incentivando capacità, occasioni, riflessioni, cambiamenti: questa ricerca- conclude la figura di Garanzia dell’Assemblea legislativa- vuole essere un piccolo, ma significativo, contributo”. Pistoia: progetto di reinserimento, detenuti al lavoro anche il prossimo anno Il Tirreno, 28 dicembre 2015 Anche per il 2016-2017 il Comune di Pistoia ha deciso di proseguire con i progetti di inserimento lavorativo rivolti ai detenuti della casa circondariale di Santa Caterina in Brana. Nel biennio 2014 2015 sono stati sette i detenuti che hanno svolto attività di pubblica utilità attraverso il loro inserimento nel gruppo dei dipendenti del cantiere comunale: manutenzione ordinaria o straordinaria degli spazi o edifici di competenza comunale, lavori di risanamento, messa in sicurezza di situazioni pericolose, assistenza tecnica in occasioni di elezioni, lavori di montaggio per manifestazioni di vario genere (artistiche, ricreative, sportive), operazioni di soccorso in caso di calamità naturali. I detenuti hanno ricevuto buoni lavoro (voucher Inps) in base all’impegno e al rispetto di quanto concordato nel provvedimento di ammissione al percorso. I progetti che partiranno nel 2016-2017 sono due, entrambi per attività da svolgere in prima battuta presso il cantiere comunale. Il primo è quello relativo alla prosecuzione del progetto "Inserimento lavorativo per detenuti" che prevede indicativamente l’inclusione di 6 detenuti. Il secondo, un nuovo progetto sperimentale, ha la caratteristica di essere finalizzato ad attività di volontariato, ovvero senza retribuzione. “Attivare interventi di trattamento rieducativo per i detenuti tramite lo svolgimento di lavori di pubblica utilità - afferma l’assessore alle politiche sociali Tina Nuti - significa ridurre le ricadute nel reato. Quindi, oltre a permettere ai detenuti di recuperare una propria autonomia uscendo da forme di assistenzialismo, determinerà progressivamente la condizione di maggiore sicurezza per la città e per i cittadini”. Pesaro: i carcerati firmano la t-shirt anti Isis di Luigi Diotalevi Il Resto del Carlino, 28 dicembre 2015 L’iniziativa di Said, musulmano, condivisa da oltre trecento detenuti. All’indomani degli attentati di Parigi tra i corridoi del carcere di Pesaro si aggira Said, un giovane detenuto di fede islamica. Tra le mani ha una maglietta bianca, simbolo di pace, sulla quale ha scritto una frase in arabo e in italiano: “Siamo tutti contro Daesh (Isis)”. Gira le varie sezioni ripetendo a ognuno la stessa domanda: “Vuoi firmare anche tu?”. Così, poco alla volta, raccoglie l’adesione di quasi trecento detenuti. Tra loro ci sono tanti italiani ma anche decine di egiziani, tunisini, marocchini. Qualcuno scrive altre frasi: “Sono musulmano; Je suis Parìs; Sono arabo; Sono italiano; Sono francese…”. La storia di Pesaro è un esempio di protesta pacifica, nata in maniera spontanea per esprimere una netta scelta di campo. Una storia che non sarebbe neppure uscita dal “muro” se i redattori di “Penna Libera Tutti”, il periodico del carcere di Pesaro, realizzato insieme al settimanale interdiocesano “Il Nuovo Amico”, non l’avessero presa nella giusta considerazione. “È un manifesto voluto dai musulmani che vivono qui dentro - spiegano redattori e detenuti - e colpisce il fatto che le scritte sono tutte con lo stesso pennarello marrone, segno indelebile di uguaglianza e di vicinanza al dolore per i fatti di Parigi. Dimostra inoltre l’integrazione, il legame e il rispetto che i nostri compagni islamici esprimono con il loro gesto. A noi l’onore di averli conosciuti”. E ora i detenuti vorrebbero che la maglietta di Said potesse uscire dalla cella per essere vista da tutta la città. “L’abbiamo esposta in occasione dell’ultimo Consiglio comunale di fine anno, - racconta Luca Bartolucci, presidente del Consiglio Comunale di Pesaro - e ora insieme al sindaco Matteo Ricci abbiamo pensato di collocarla in Municipio per tutto il periodo delle feste”. Lucca: sala colloqui nuova e senza barriere in arrivo al carcere San Giorgio Il Tirreno, 28 dicembre 2015 “Il sovraffollamento del carcere di Lucca, per effetto delle misure alternative, è diminuito. I detenuti sono oggi 115, di cui 58 stranieri. In passato hanno raggiunto punte di 220. Anche lo spazio delle celle è aumentato, fra tre e quattro metri quadrati a disposizione, più vicino alle normative europee. Possiamo dire che la situazione è migliorata”. Lo ha verificato la delegazione del Pd, composta dai parlamentari Andrea Marcucci, Manuela Granaiola e Raffaella Mariani, che con i consiglieri regionali Stefano Baccelli e Ilaria Giovannetti il 24 dicembre ha fatto una visita ispettiva all’Istituto circondariale San Giorgio incontrando il direttore Francesco Ruello, i detenuti, e gli agenti della polizia penitenziaria. “Un altro sensibile miglioramento -hanno detto gli esponenti dem- è il restauro della sala colloqui che partirà il 7 gennaio con l’abbattimento della barriera divisoria e il ripristino delle docce nelle sezioni. C’è un impegno lodevole anche nei servizi educativi e ricreativi, con molti corsi partecipati dai detenuti”. Secondo la delegazione Pd “restano dubbi sulla vetustà della struttura che non consente interventi di rifacimento radicale”. All’incontro ha partecipato anche il nuovo garante dei detenuti Angela Pisano. “L’istituzione della figura del garante- hanno spiegato Marcucci, Granaiola e Mariani - che avevamo ripetutamente chiesto negli anni scorsi, servirà a garantire un migliore rapporto con le istituzioni della provincia di Lucca e a sensibilizzare l’opinione pubblica sulle emergenze e sulle necessità del carcere”. “Il carcere può diventare un laboratorio della diversità - ha detto il vescovo nella sua omelia di Natale - dove la diversità può diventare ricchezza. A questo fine alto e nobile mira il servizio dei volontari, del cappellano e del personale del carcere”. Chiavari (Ge): il carcere è troppo affollato, sconto di pena a un detenuto di Massimo Calandri La Repubblica, 28 dicembre 2015 Il giudice fa uscire in anticipo un detenuto perché nella struttura era costretto a vivere in poco spazio. Prima sentenza a Genova basata sulle nuove norme che impongono parametri “minimi” di vivibilità. Quella cella del carcere di Chiavari era sovraffollata. Disumana. Così il detenuto si è giustamente appellato al magistrato di sorveglianza, ed ha ottenuto un sconto di pena: è uscito in anticipo, perché questo prevede la legge. Un giorno in meno di prigione ogni 10 trascorsi dietro le sbarre, se quella galera viola i parametri della Convenzione europea per i diritti dell’Uomo. Per la prima volta la legge è stata applicata da un giudice del capoluogo ligure, Daniela Verrina. E il detenuto, anche lui genovese, è tornato libero qualche tempo prima del previsto. Da poco più di un anno è in vigore una nuova normativa in materia di risarcimenti a favore dei detenuti. Un decreto inevitabile, dopo le direttive dettate da Strasburgo dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo nei confronti dello Stato italiano. Tutto muove dalla sentenza ‘Torreggianì, in cui la Corte condannava l’Italia e dava ragione a 7 detenuti di Busto Arsizio e Piacenza, costretti a vivere in meno di 3 metri quadri a testa (e con mancanza di acqua calda per lunghi periodi, aria e luce). Non è la prima volta che l’Europa boccia gli istituti italiani: ci sono delle “minime” condizioni di vivibilità che devono essere garantite a chi sconta una pena in prigione, ma nelle nostre carceri non ci hanno mai fatto troppo caso. Inevitabile il decreto, e finalmente la possibilità per i più deboli di ottenere giustizia. Se il detenuto è ancora tale, allora può rivolgersi al magistrato di sorveglianza e chiedere lo ‘scontò di pena. Se invece ha già lasciato la prigione, bussa alla porta del tribunale civile: gli spettano 8 euro per ogni giorno trascorso in condizioni disumane. Dicono che l’istituto di Chiavari negli ultimi tempi si sia adeguato, però in un recente passato non era così. E le altre cinque strutture liguri non funzionano meglio. A Marassi (su cui pesa una recente inchiesta per il pestaggio di un prigioniero da parte di una guardia) gli ospiti sono oltre settecento, ma se la struttura fosse a norma dovrebbe ospitarne poco più della metà. Le Case Rosse - secondo una nota del sindacato di polizia penitenziaria Sappe - sono al terzo posto nella classifica dei penitenziari più difficili d’Italia, dopo Poggioreale e Bologna. I ricorsi presentati da Spezia ad Imperia sono naturalmente molti, altrettanti i risarcimenti da saldare. L’altro giorno il giudice istruttore Pietro Spera ha condannato il Ministero di Giustizia a pagare circa tremila euro ad un genovese condannato per reati comuni: aveva passato 615 giorni in una cella di Chiavari in uno spazio per lui inferiore ai 3 metri quadri. Otto euro per 615 fa molto di più, ma il Ministero ha chiesto e ottenuto di sottrarre dalla somma le spese per il mantenimento e le pene pecuniarie a carico del detenuto. In un altro caso, deciso dal giudice Maria Cristina Scarzella, un pregiudicato di origine romena - anche lui assistito dall’avvocato Alessandra Ballerini (che è anche osservatrice per Antigone, l’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale) - è stato liquidato con quasi cinquemila euro. La vicenda del genovese liberato in anticipo comprende addirittura due diversi tipi di risarcimento. Alessandro Monti Bragadin, avvocato del detenuto, si è infatti rivolto subito al magistrato di sorveglianza, perché il suo assistito doveva ancora passare qualche giorno dietro le sbarre. Ma insieme allo sconto sulla pena è scattato anche il risarcimento economico per i quasi tre anni passati in una galera “disumana”. Brescia: pensionata ruba le caramelle per i nipotini, i carabinieri pagano il conto La Stampa, 28 dicembre 2015 I due militari intervenuti nel supermercato non hanno denunciato la donna, che vive con una pensione di 400 euro al mese, e hanno pagato i 27 euro di tasca propria. “È una vicenda che esprime la forte presenza dell’Arma sul territorio e la vicinanza alla gente”. Così il comandante provinciale dei carabinieri di Brescia Giuseppe Spina ha definito il gesto di due carabinieri di Manerba che hanno pagato di tasca loro i 27 euro di dolci che una signora di 75 anni aveva portato via da un supermercato per regalarli ai nipoti per Natale dopo aver finito i soldi della pensione. I due militari erano intervenuti su segnalazione della direzione del supermercato. “È bastato uno sguardo con il collega per capire che era la cosa giusta da fare”, ha detto il maresciallo Enrico Mazzurana, autore del gesto con il carabiniere Alessio Columbro. “Quando abbiamo pagato evitandole la denuncia la signora ci ha abbracciato e ha pianto”, ha aggiunto quest’ultimo. Tutta la stazione dei carabinieri di Manerba ha poi deciso di partecipare al rimborso di 27 euro dei dolci rubati dal supermercato. Sassari: tensione tra detenuti e agenti, poliziotto finisce all’ospedale La Nuova Sardegna, 28 dicembre 2015 C’è tensione nel carcere di Bancali, dove sia il giorno di Natale che ieri, Santo Stefano, si sono registrati momenti di agitazione da parte dei detenuti nei confronti degli agenti. Il giorno di Natale alcuni agenti di polizia penitenziaria sono rimasti contusi nella colluttazione con un detenuto nigeriano di 33 anni. Un agente è stato colpito con un pugno e ha riportato una sospetta frattura dello zigomo, mentre i suoi colleghi che sono intervenuti per bloccarlo hanno dovuto faticare parecchio prima di ricondurlo alla ragione. Due giorni fa l’episodio era stato riferito dalla Uil Pa Penitenziari. Ieri il sindacato Osapp ha denunciato nuove difficoltà nella casa circondariale, dove alcuni reclusi si sono rifiutati di rientrare nelle celle. “Queste circostanze non si erano mai registrate sino a quando il comando era affidato al precedente commissario di polizia penitenziaria”, rileva il segretario generale aggiunto dell’Osapp, Domenico Nicotra. “È evidente che se non si interviene immediatamente - spiega - probabilmente episodi del genere si ripeteranno”. Roma: carcere di Rebibbia, detenuto prende a pugni agente di polizia penitenziaria blitzquotidiano.it, 28 dicembre 2015 È la quarta aggressione in due settimane agli agenti della polizia penitenziaria che sorvegliano le carceri romane: è avvenuta nel penitenziario di Rebibbia. Sabato 26 dicembre intorno alle 15 un detenuto italiano che si trovava in isolamento ha preso a pugni un agente, spaccandogli gli occhiali e provocandogli una ferita al volto. Il detenuto ha anche afferrato un piatto e lo ha spaccato sul viso dell’operatore, che è stato medicato e ne avrà per dieci giorni. Questa è solo l’ultima delle aggressioni compiute nei confronti degli agenti della polizia penitenziaria a Roma, come sottolinea De Risi sul Messaggero: “Sembra il bollettino di una guerra che si combatte in modo silenzioso, troppo spesso lontano dai riflettori, fra le mura blindate delle case circondariali. Ad alzare il velo sulle aggressioni all’interno delle carceri romane è Massimo Costantino segretario generale aggiunto della Cisl Federazione Nazionale Sicurezza. “Troppo spesso - commenta Costantino - gli agenti di polizia penitenziaria sono lasciati soli anche a causa del sovraffollamento degli istituti e per la carenza ormai cronica del personale”. Così, nell’arco di quindici giorni salgono a quattro le azioni violente ai danni degli agenti”. Quindici giorni fa ad essere malmenata da una detenuta è stata una poliziotta che sorvegliava un reparto di Rebibbia. Pochi giorni prima una collega ha subito lo stesso trattamento. E altri due agenti sono stati picchiati e feriti da un ragazzo nel centro per minori di via Virginia Agnelli. Scrive De Risi: “Le aggressioni che si sono registrate a Regina Coeli e nel complesso di Rebibbia (che comprende cinque istituti) quest’anno sono arrivate a 50. “Spesso vengono omesse - sottolinea Massimo Costantino - quelle meno cruente o per le quali si registra una bassa prognosi di guarigione per l’agente che l’ha subita”. Ad aumentare tensioni e violenza c’è anche il fenomeno del sovraffollamento. Così si scopre che a Regina Coeli invece di esserci 624 detenuti così come prevede il regolamento ne sono reclusi 890. Nel nuovo complesso di Rebibbia ci sono 1.394 detenuti invece di 1.203. Sono 200 le aggressioni di quest’anno nelle carceri del Lazio. “La carenza di organico è un grande problema - prosegue Massimo Costantino. Quando un detenuto ha bisogno di cure che nel carcere non gli possono essere garantite, come è giusto che sia, deve essere trasportato in ospedale e servono almeno tre agenti per ogni un detenuto”. Padre Jacques Mourad: “I miei giorni di terrore in mano all’Is” di Édouard De Mareschal La Repubblica, 28 dicembre 2015 Il prete ha trascorso quattro mesi e venti giorni nelle mani dello Stato Islamico, detenuto a Raqqa e libero dall’11 ottobre: "Quasi ogni giorno ci dicevano: O vi convertite o vi decapitiamo". Padre Mourad, in quali circostanze è avvenuto il suo rapimento? "Il 21 maggio tre jihadisti armati e col volto coperto sono arrivati a Al Qariatayn in sella ad alcune moto. La sera prima avevano conquistato Palmira, che si trova a pochi chilometri. Sono entrati nel nostro monastero di Mar Elian, hanno perlustrato la mia cella e hanno preso il mio computer e le chiavi della macchina. Dopo avermi bendato gli occhi, mi hanno caricato sull’auto insieme a Butros, un giovane seminarista di Aleppo. Per i primi quattro giorni siamo rimasti nel deserto. Poi, la domenica di Pentecoste, siamo stati trasferiti a Raqqa. Lì ci hanno rinchiuso in un piccolo bagno senza elettricità, e vi abbiamo trascorso 84 giorni". Come vi hanno trattato? "Quasi ogni giorno ci dicevano: O vi convertite o vi decapitiamo. Ma ci hanno dato da mangiare e ci hanno curato, perché il Corano prescrive di fare del bene ai poveri, agli orfani e ai prigionieri. Non ci hanno maltrattato, tranne in due occasioni. La prima volta sono entrati nella cella alcuni uomini con un tubo di gomma a un’estremità del quale erano fissate alcune corde e mi hanno frustato per circa mezz’ora. La seconda volta è entrato un uomo con il passamontagna. Aveva un pugnale in mano e mi ha appoggiato la lama contro la gola. Ma non l’ha affondata: mi ha lasciato vivere. È stata solo una finta". Come ha fatto a resistere alla prigionia? "All’inizio mi sono sentito preda della collera e della vergogna, poi ho iniziato a vivere come se fosse un ritiro spirituale. I santi mi hanno aiutato: ero pronto a donare la vita per la pace nel mio paese". Che giustificazione hanno dato per il suo rapimento ? "Nessuna. Io penso che mi abbiano rapito per due motivi: prima di tutto dovevano essere infastiditi dagli aiuti umanitari che portavo alla gente di Al Qariatayn: ho aiutato tutti, cristiani e non. Penso che mi abbiano rapito anche per intimidire la popolazione. Vogliono che i cristiani se ne vadano". Come è avvenuta la sua liberazione ? "Non sono stato liberato, sono riuscito a scappare. Il 5 agosto, all’indomani del loro ingresso ad Al Qariatayn, hanno preso in ostaggio 250 abitanti del villaggio e li hanno condotti in una caserma vicino Palmira. L’11 agosto sono venuti a Raqqa a prelevarmi e mi hanno portato dagli ostaggi. All’inizio di settembre ci hanno permesso di tornare ad Al Qariatayn, a patto di non mettere piede fuori dal villaggio. È stato a quel punto che mi sono accorto che avevano raso al suolo il monastero con i bulldozer. Il 31 settembre i rappresentati di Al Bagdadi sono venuti a imporci la zemmé (protezione), un contratto che i non musulmani devono firmare per essere autorizzati a vivere in territorio islamico, dietro pagamento di una tassa". È stato a quel punto che è riuscito a scappare? "Sì. Sono scappato grazie a un amico musulmano che mi ha caricato sulla sua moto. Arrivati a un checkpoint, un jihadista mi ha rivolto alcune domande. Ho mentito, ho detto che stavo andando a trovare un malato. Lui ci ha lasciati passare. Oggi ad Al Qariatayn non ci sono più cristiani. Otto sono stati assassinati tre settimane fa: 11 sono ancora prigionieri. Altri sono morti sotto i bombardamenti. Il resto si è rifugiato alla periferia di Homs". Ha rancore per i suoi carcerieri? "No, li ho perdonati. Mi sono ricordato delle parole di Cristo nel Vangelo di Matteo: "Benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi perseguitano"". Si chiede mai perché l’abbiano risparmiata? "Sì, ma non trovo risposte". Stati Uniti: poliziotto uccide due afroamericani, torna la tensione razziale a Chicago di Paolo Mastrolilli La Stampa, 28 dicembre 2015 Le due vittime sono un 19enne con disturbi mentali e una vicina di casa di 55 anni colpita per errore. La madre del giovane chiede le scuse al sindaco. Torna a salire la tensione razziale a Chicago, dopo che un poliziotto ha ucciso un ragazzo e una donna nera nella notte fra venerdì e sabato. Lui avrebbe aggredito gli agenti, mentre lei è stata colpita per errore. La città era già stata teatro di proteste nei giorni scorsi per un incidente simile, che erano culminate con la richiesta delle dimissioni del sindaco Rahm Emanuel. Secondo le notizie pubblicate dal Dipartimento di polizia, alle 4,25 della mattina fra il giorno di Natale e quello di Santo Stefano, alcuni agenti hanno risposto ad una chiamata di emergenza che veniva dal quartiere della West Side, e denunciava una lite famigliare. Quando sono arrivati sul posto, i poliziotti sono stati affrontati da quello che un comunicato stampa del Dipartimento ha descritto come “un soggetto combattivo”. Il confronto si è trasformato in scontro, per ragioni che le autorità non hanno chiarito, e un poliziotto ha reagito sparando. Quintonio Le Grier, uno studente universitario nero di 19 anni, è stato colpito ed è morto alle 4,51 in ospedale; Bettie Jones, una sua vicina di 55 anni madre di cinque figli, ha perso la vita poco dopo, alle 5,14, in un altro ospedale. Il dipartimento non ha rivelato l’etnia dell’agente coinvolto nello scontro, e quindi non è chiaro se fosse bianco. La polizia era stata chiamata perché Quintonio, che negli ultimi temi soffriva di problemi mentali, minacciava di attaccare i parenti con una sbarra di metallo. Bettie era stata chiamata per avvertire quando arrivavano le volanti. Il tentativo di bloccare il ragazzo si è trasformato in sparatoria, che ha ucciso lui e colpito per errore la Jones. La madre di Le Grier, Janet Cooksey, ha detto al giornale locale Chicago Tribune che il figlio si era diplomato alla Gwendolyn Brooks College Preparatory Academy e studiava ingegneria alla Northern Illinois University: “Stava realizzando qualcosa”. La donna ha ammesso che Legrier aveva problemi mentali, ma ha aggiunto che la polizia non doveva reagire come ha fatto: “Pensavamo che gli agenti ci aiutassero e lo portassero in ospedale, invece lo hanno ucciso. Non aveva una pistola, ma una mazza”. La Cooksey ha chiesto le scuse del sindaco Emanuel, che è stato appena coinvolto in una vicenda simile a quella di Ferguson. Nel 2014 il poliziotto bianco Jason Van Dyke aveva sparato 16 volte contro il sedicenne nero Laquan McDonald, uccidendolo. Nei giorni scorsi era stato pubblicato il video di questa sparatoria, che aveva costretto il capo della polizia di Chicago Garry McCarthy a lasciare il suo posto. Da quell’episodio erano scoppiate proteste in strada, in cui i manifestanti avevano chiesto le dimissioni anche del sindaco. Medio Oriente: parroco francescano scomparso in Siria Avvenire, 28 dicembre 2015 Nuovo possibile sequestro di un religioso cattolico in Siria. Dall’antivigilia di Natale, infatti, si è perso ogni contatto con il padre francescano Dhiya Azziz, 41 anni, parroco di Yacoubieh, che era in viaggio in taxi di ritorno dalla Turchia, dove era andato a trovare la famiglia lì rifugiata. La Custodia di Terra Santa ritiene "lecito pensare che sia stato preso da qualche gruppo". Padre Dhiya era stato già rapito dai jihadisti nel luglio scorso, ed era riuscito a sfuggire alla detenzione. Proprio nei giorni in cui papa Francesco parla dei "martiri di oggi" perseguitati "nel silenzio vergognoso di tanti", e si ripetono attacchi sanguinosi ai cristiani da gruppi di militanti islamici - gli ultimi nelle Filippine e in Nigeria, l’ultimo caso di presunto rapimento, comunque ancora non rivendicato, ripropone la drammatica situazione in Siria, sconvolta da quattro anni dal conflitto civile, e dei religiosi che vi esercitano la loro missione in mezzo a gravi pericoli. Un esempio per tutti quello di padre Paolo Dall’Oglio, il gesuita scomparso due anni e mezzo fa a Raqqah e di cui non si sono più avute notizie certe. "Dal mattino del 23 dicembre scorso, abbiamo nuovamente perso ogni contatto con padre Dhiya Azziz, ofm, parroco di Yacoubieh (Siria)", fa sapere sul suo sito la Custodia francescana di Terra Santa. Padre Dhiya era in viaggio con un taxi. C’erano altre persone a bordo. Era partito da Lattakia di buon’ora e diretto verso Yacoubieh, passando probabilmente per Hama, per essere in parrocchia per le festività natalizie. Era di ritorno dalla Turchia, dove era andato a visitare la sua famiglia che li si è rifugiata dopo l’ingresso di Daesh (Is) a Karakosh, in Iraq, suo paese natale. L’ultimo contatto telefonico si è avuto il 23 dicembre alle 9. Da allora nessuno sa più dove sia. Avrebbe dovuto arrivare a Yacoubieh nel primo pomeriggio di quel giorno. Non si hanno notizie neanche di nessuno dei passeggeri. "Stiamo cercando di contattare le diverse fazioni in campo per capire se qualcuno è in grado di darci informazioni. Finora senza risultato", rende noto la Custodia di Terra Santa. "È lecito pensare che sia stato preso da qualche gruppo - aggiunge. Stiamo facendo il possibile per comprendere chi. La situazione altamente caotica del Paese non ci permette di fare molto, purtroppo. Se avremo altre notizie, lo comunicheremo". Padre Dhiya Azziz, dell’Ordine dei Frati minori, è nato a Mosul, l’antica Ninive, in Iraq, il 10 gennaio 1974. Dopo i voti religiosi nel 2002, l’anno successivo si era trasferito in Egitto, dov’è rimasto per diversi anni. Nel 2010 è rientrato nella Custodia di Terra Santa e inviato ad Amman. In seguito è stato trasferito in Siria, a Lattakia. Si era reso poi volontariamente disponibile ad assistere la comunità di Yacoubieh, nella regione dell’Oronte, divenuta particolarmente pericolosa in quanto sotto il controllo di Jaish al-Fatah. Qui era maturato nel luglio scorso il primo sequestro da parte di un gruppo jihadista, da cui il francescano era riuscito a fuggire. "Invitiamo tutti alla preghiera e alla solidarietà con padre Dhiya, con i suoi parrocchiani, i confratelli in Siria, i pastori e tutti coloro che si spendono in quel Paese per fare ancora del bene", dice ora la Custodia di Terra Santa. Regno Unito: in 10 anni liberati per errore 505 detenuti, 48 soltanto nel 2015 La Presse, 28 dicembre 2015 Quarantotto detenuti che erano agli arresti per omicidio, rapina e altri reati violenti sono stati rilasciati per errore nel Regno Unito nel 2014/2015, precisamente in Inghilterra e Galles. È quanto emerge dai dati concessi dal ministero della Giustizia a Press Association a seguito di una richiesta basata sul Freedom of Information act (Foia), secondo i quali sono invece 505 in totale i detenuti liberati per errore negli ultimi 10 anni, in pratica poco meno di uno a settimana. La maggior parte dei detenuti rilasciati per errore, però, sono stati individuati e rimessi in custodia: dei 48 liberati ingiustamente nell’ultimo anno, solo due sono ancora a piede libero (stando ai dati aggiornati a fine novembre) e uno di loro era sospettato avere compiuto reati sessuali. L’anno scorso nel Regno Unito erano state liberate per errore 49 persone, sei delle quali non erano state riportate in custodia. Nell’ultimo decennio l’anno peggiore per le liberazioni erronee è stato il 2009/2010, quando sono stati rilasciati per sbaglio 68 detenuti. Brasile: l’indulto di Dilma Rousseff, a casa i detenuti con pene fino a 8 anni di Geraldina Colotti Il Manifesto, 28 dicembre 2015 Un ampio indulto per condanne inferiori a 8 anni. La presidente brasiliana, Dilma Rousseff, ha consentito a un gran numero di detenuti (su un totale di 600.000) di trascorrere il Natale a casa. Tra questi, carcerati maggiori di 60 anni che abbiano scontato un terzo della pena o abbiano contratto gravi malattie in carcere. Interessati anche alcuni condannati per lo scandalo del Mensalao. Esclusi i condannati per tortura, terrorismo o traffico di droga. Iraq: 18 detenuti evadono da una prigione dello Stato islamico a Mosul Nova, 28 dicembre 2015 Diciotto persone detenute in un carcere dello Stato islamico nella città di Mosul, nel nord dell’Iraq, sono riusciti ad evadere. È quanto riferito oggi dalla polizia irachena, secondo cui gli evasi erano detenuti nel carcere di Hamam al Alil, a sud di Mosul. Il colonnello Khaled al Jarawi ha spiegato che "tra gli evasi ci sono ufficiali di polizia iracheni che, dopo aver segato le sbarre della prigione, sono riusciti a fuggire approfittando dell’assenza dei secondini". La prigione nella quale erano rinchiusi è in realtà una ex casa adibita a carcere. La polizia dello Stato islamico sta svolgendo le ricerche per trovare gli evasi. La stessa fonte sostiene che dopo l’evasione quattro delle guardie carcerarie addette alla loro sorveglianza sarebbero state giustiziate con l’accusa di aver aiutato i detenuti a evadere. Afghanistan: Isis decapita 4 ostaggi, governativi fanno lo stesso Agi, 28 dicembre 2015 Orrore contro orrore in Afghanistan, dove l’Isis ha decapitato quattro prigionieri appartenenti a gruppi armati filo governativi, che hanno risposto facendo lo stesso con quattro miliziani jihadisti detenuti. Lo Stato islamico aveva catturato i quattro combattenti lealisti la scorsa notte durante scontri a Nangarhar, dove cinque guerriglieri islamisti erano caduti nelle mani delle milizie che appoggiano il governo. Il responsabile del distretto di Achin, Haji Ghalib Mujahid, ha affermato che "per primo è stato Daesh a decapitare gli ostaggio, e dunque gli altri hanno lo stesso con quattro dei loro prigionieri, mentre il quinto è ancora in vita e sotto custodia". I filo governativi hanno lasciato le teste mozzate su paracarri lungo un strada.