Partito Radicale. Pannella: dopo il Natale anche il Capodanno in carcere Il Manifesto, 27 dicembre 2015 Il programma delle visite ai detenuti, il 31 dicembre a Roma a Rebibbia con Bernardini e Giachetti. Dopo il Natale, proseguirà fino oltre l’Epifania il tradizionale tour nelle carceri di molti attivisti e dirigenti del Partito Radicale, in testa Marco Pannella e Rita Bernardini. Un modo per esprimere "vicinanza alle persone detenute e al personale", si legge nella nota stampa che accompagna il programma delle manifestazioni nelle strutture penitenziarie autorizzate dal direttore del Dap, Santi Consolo. Dopo la visita di Pannella e Bernardini nel carcere di Sollicciano a Firenze nel giorno di Natale, giovedì 31 dicembre 2015 i due, stavolta con il vicepresidente della Camera Roberto Giachetti (doppia tessera Pd e radicale), saranno in visita notturna al carcere romano di Rebibbia. E ancora venerdì 1 gennaio 2016 in occasione della Giornata Mondiale della Pace saranno al carcere di Regina Coeli. Is: allerta attentati in Ue entro Capodanno. Al-Baghdadi: "Raid non ci hanno indebolito" La Repubblica, 27 dicembre 2015 Allarme terrorismo a diverse capitali europee. La polizia austriaca: "Non esistono minacce concrete contro un posto specifico in una data ora" ma un elenco di nomi di attentatori. Il ‘califfò dello Stato islamico minaccia Israele: "La Palestina sarà vostro cimitero". A diverse capitali europee è stato girato un allarme terrorismo, in merito alla possibilità di un attentato con esplosivi o armi tra Natale e capodanno. È quanto trapela dalla polizia di Vienna, che ha fatto sapere di aver inasprito le misure di sicurezza senza tuttavia annullare alcun evento previsto. "Sono stati segnalati diversi nomi di possibili attentatori che sono stati controllati, ma le indagini avviate finora non hanno portato a risultati concreti", ha fatto sapere in un comunicato la polizia austriaca. L’allerta arriva sei settimane dopo le stragi di Parigi del 13 novembre che hanno portato a un innalzamento del livello di allerta terrorismo in tutte le capitali europee. In una nota, la polizia di Vienna ha fatto sapere che la soffiata da un non meglio identificato "servizio di intelligence amico" è arrivata pochi giorni prima del Natale. E oggi in un nuovo messaggio audio pubblicato su account Twitter legati allo Stato islamico e attribuito al "califfo" dell’autoproclamato Stato Islamico Abu Bakr al-Baghdadi, il leader dell’Is afferma che i raid aerei della Russia e della coalizione anti Is guidata dagli Stati Uniti non sono riusciti a indebolire il gruppo. "Siate fiduciosi che Dio garantirà la vittoria a coloro che lo adorano", si sente nell’audio-messaggio. "Più intensa è la guerra contro" lo Stato islamico "più puro e duro diventa", prosegue. A ottobre si era parlato di un possibile ferimento di al-Baghdadi in un bombardamento dell’aviazione irachena contro il convoglio in cui viaggiava, vicino al confine con la Siria, ma la notizia non ha mai trovato conferma. Anzi, ora l’Is minaccia Israele. "La Palestina non sarà la vostra terra né la vostra casa ma il vostro cimitero. Allah vi ha raccolto in Palestina perché i musulmani vi uccidano" ha avvertito al-Baghdadi. Il portavoce di polizia, Christoph Poelzl, ha dichiarato all’agenzia di stampa Austria Press che non esistono minacce concrete contro un posto specifico in una data ora. Le forze dell’ordine hanno fatto sapere di aver intensificato la sorveglianza nei posto dove è presumibile ci siano grandi concentramenti di persone, compresi i principali snodi ferroviari. A inizio settimana, le autorità del Belgio hanno incriminato una nona persona in relazione alle stragi dello scorso mese a Parigi, che provocarono almeno 130 morti. Le stragi nella capitale francese sono state rivendicate dalle milizie jihadiste dello Stato islamico. Intanto in Siria, dove almeno 14 civili sono morti oggi sotto bombardamenti nelle provincie di Aleppo e Idlib, una coalizione militare arabo-curda ha conquistato ai danni delle milizie jihadiste dello stato islamico una diga strategica dell’Eufrate, nel nord della Siria. Lo ha annunciato la portavoce del gruppo. L’Is aveva assunto il controllo della diga Tishreen nel 2014, dopo aver allontanato diversi gruppi ribelli, tra i quali Ahrar al-Sham, secondo l’Osservatorio siriano dei diritti umani (Osdh). La diga è strategica perché fornisce elettricità a vaste regioni della provincia di Aleppo, ha indicato l’Ong. Le Forze democratiche siriane (Fds) "hanno liberato la diga di Tishreen", ha indicato il loro portavoce, il colonnello Talal Sello, precisando che "gli scontri proseguono nella zona in cui si trovano gli alloggi dei dipendenti, intorno alla diga". Abbiamo liberato la regione "a est della diga", ha inoltre indicato il portavoce di questa coalizione, formata principalmente dalle Unità di protezione popolare (Ypg) e da combattenti arabi. Sospeso accordo per evacuare jihadisti. Raggiunto sotto l’egida dell’Onu, l’accordo (che tra l’altro registrava l’assoluta novità di un’intesa, seppur locale, tra Damasco e gli uomini dell’Is) per evacuare oltre duemila miliziani dell’Is e di altri gruppi ribelli integralisti siriani dalla periferia meridionale di Damasco, è saltato come conseguenza dell’uccisione di Zahran Alloush, il capo dell’Esercito dell’Islam, morto sotto le bombe di un raid aereo venerdì. Il convoglio che trasportava i miliziani in direzione di Raqqa, la capitale del cosiddetto ‘califfatò, doveva attraversare il territorio controllato dall’Esercito dell’Islam; ma secondo l’emittente, i pullman arrivati per caricare i miliziani e almeno 1.500 loro familiari, una volta giunti nella zona controllata dall’Esercito dell’Islam, non sono stati lasciati passare. Terrorismo, Alfano: "Valutiamo ogni segnalazione ma non ci faremo paralizzare" di Paolo Conti Corriere della Sera, 27 dicembre 2015 Il ministro: surreale la procedura d’infrazione Ue per l’immigrazione. E sulle banche: creeremo comitati anti-truffa in tutte le prefetture. Ministro Alfano, ieri da Vienna è arrivato un nuovo allarme terrorismo: sarebbe pronto un attentato in una capitale europea entro Capodanno. Cosa ne pensa? "Dopo gli attentati di Parigi abbiamo elevato l’allerta al livello immediatamente precedente a quello dell’attacco in corso e abbiamo predisposto ulteriori potenziamenti per il Giubileo. Il rischio zero non esiste. Dobbiamo mettere nel conto l’arrivo di segnalazioni che vanno adeguatamente analizzate. Mai sottovalutare nulla, ma non possiamo nemmeno farci paralizzare". Pensa che un possibile impegno dell’Italia in Libia aumenterà il pericolo di un attentato? "L’eventuale impegno dell’Italia, nel quadro di una strategia condivisa, è da prevedere non come scelta unilaterale ma come frutto di un coordinamento. Non mi stanco di dirlo: siamo già esposti, come gli altri Paesi europei. Per questo il nostro sforzo non conosce pause" Il Giubileo sta attirando meno pellegrini del previsto. Come procedono i controlli intorno a san Pietro, nella città di Roma e agli altri centri della cattolicità? "Il lavoro dell’ intelligence antiterrorismo è stato fin qui straordinariamente efficace. Abbiamo in campo, senza considerare le nuove assunzioni nelle forze dell’ordine, il più alto numero di militari che si ricordi per l’operazione "strade sicure": 6.300 uomini e donne. E rispondiamo in modo flessibile all’idea di un giubileo decentrato, voluto da papa Francesco. Abbiamo intensificato i controlli non solo a Roma e a San Pietro ma anche alla Santa casa di Loreto, a San Giovanni Rotondo, ad Assisi e al santuario di Sant’Antonio a Padova". Qual è il rapporto tra il Viminale e le principali comunità islamiche italiane? C’è chi vi aiuta a indagare su possibili sacche di estremismo islamico? "Abbiamo per ora un rapporto proficuo con le comunità islamiche. Dopo i fatti di Parigi abbiamo sottolineato che ci sono momenti in cui non basta non essere terroristi. Bisogna essere "anti". Ecco perché abbiamo chiesto che si levasse ancora più alta la voce del dissenso di chi nulla a che fare con le stragi". L’emergenza profughi non diminuisce. Anzi, dopo la faticosa intesa sulla Libia, gli sbarchi sono ripresi. Bisogna temere una nuova ondata, magari più massiccia che in passato? "La Libia è per noi un elemento determinante. Più del 90 per cento degli sbarcati sono partiti di lì. L’accordo di pace potrebbe essere un fattore determinante ma il condizionale è d’obbligo. I trafficanti di morte sono organizzatissimi. Al lavoro di presidio delle frontiere, almeno speriamo, dovremo affiancare un grande sforzo della comunità internazionale, cioè la coalizione anti-terrorismo con alle spalle i deliberati Onu. Bisognerà organizzare una vera guerra ai trafficanti di esseri umani. Occorrerà presidiare anche le frontiere meridionali della Libia, che aprono le porte a chi arriva dall’Africa sub-sahariana e dal Corno d’Africa. E poi sarà necessario organizzare lì, in terra africana, campi che possano permettere il discernimento tra i profughi e gli irregolari". La Commissione europea ha avviato una procedura di infrazione per la mancata applicazione del regolamento sulla registrazione dei migranti con la presa di impronte digitali (Eurodac). L’Italia come si sta attrezzando? E lei, da titola re del Viminale, come replica a questa contestazione? "L’Italia ha dato una risposta da grande Paese nell’emergenza 2014 quando sono arrivate 170.000 persone e dopo una strage di 300 donne, uomini e bambini. È accaduto qualcosa di immane, di mai visto dal punto di vista organizzativo. Nel 2015 abbiamo avuto il tempo e la volontà di organizzarci, e l’abbiamo fatto. Arrivando quasi al 100% delle fotosegnalazioni. Il sistema degli hotspot, le strutture per registrare rapidamente gli immigrati, funziona, secondo gli accordi tra capi di Stato e di governo europei, con il ricollocamento degli immigrati - nello spirito di un’Europa solidale - e con i rimpatri. Ma se noi apriamo gli hotspot, e lo stiamo facendo, ma non si procede con i ricollocamenti e non sentiamo parlare di rimpatri rischiamo il collasso politico di un’Europa incapace di applicare gli accordi e il collasso funzionale. Perché gli hotspot servono a distinguere tra profughi e irregolari. Gli irregolari vanno chiusi in centri in vista del rimpatrio. Se non si rimpatria, i numeri crescono e si accumulano provocando problemi gravissimi. Anche per questo la procedura di infrazione ha un che di surreale. Ci aspettavamo una procedura di ringraziamento". Si moltiplicano le proteste per la vicenda "salvabanche", scendono in piazza non solo i risparmiatori rimasti senza un euro ma anche molte associazioni di consumatori oltre che movimenti politici, primo tra tutti il M5S. Prevede problemi di ordine pubblico, nei prossimi giorni? E pensa che il governo riuscirà a superare questa crisi? "Abbiamo il dovere di stare all’erta, e ci stiamo. Però vorrei ribadire che il governo si è subito schierato dalla parte dei risparmiatori. Il mio primo impegno, col nuovo anno, sarà l’organizzazione di comitati di controllo in tutte le prefetture italiane per evitare truffe soprattutto nei confronti degli anziani e perché la scelta del cliente sia sempre più consapevole. Il risparmio è un pezzo fondamentale della nostra economia e della nostra identità nazionale. Ho già sentito i vertici dell’Associazione Bancaria Italiana che mi hanno assicurato la loro piena disponibilità a far sì che questo strumento, così capillarmente decentrato sul territorio, funzioni al meglio. Non credo che il sistema bancario possa desiderare o giustificare la mancanza di trasparenza". Il ministro degli Esteri Gentiloni: "lo Stato Islamico ora è in difficoltà" La Repubblica, 27 dicembre 2015 Siria, Iraq, Libia, terrorismo. Il ministro Gentiloni a Repubblica: "Lo Stato Islamico ora è in difficolt, se riusciremo a far partite il negoziato in Siria, sarà la prima speranza nel paese martoriato". Dopo aver perso a Sinjar, spiega il ministro, il gruppo è accerchiato a Ramadi: "Ma la sfida a Daesh (altro nome con cui ci si riferisce allo Stato Islamico, ndr) sarà lunga, lo sappiamo". L’Italia nel frattempo si impegna di più in Iraq, a partire dai 450 uomini inviati a Mosul. "Non andranno a combattere - continua il ministro - ma a proteggere il lavoro di ripristino della diga. Abbiamo fatto una scelta in un Paese in cui da tempo l’Italia ha un impegno rilevante. Guidiamo anche l’addestramento dei peshmerga curdi a Erbil e stiamo addestrando la polizia e le forze di sicurezza che entrano progressivamente nella regione dell’Anbar". Il dossier Siria rimane caldissimo, con la Russia che bombarda anche gli avversari di Assad. "In Siria stiamo seguendo due esercizi politici molto delicati che si intrecciano le operazioni militari. Il primo tende a mettere d’accordo i Paesi del Gruppo di Vienna su quali siano i gruppi terroristici. Il secondo, coordinato dalle Nazioni unite, deve individuare i gruppi anti-Assad che in gennario dovrano partecipare al negoziato con esponenti del regime siriano. Se effetticamente riusciremo a fare partire il negoziato, scatterà anche un cessate il fuoco che è la prima luce di speranza in quel Paese martoriato da anni di massacri". E in Libia? "Serve un nuovo passo: la nascita di un governo col massimo del sostegno possibile", dopo l’accordo tra la maggior parte dei libici e il sostegno internazionale". Ma non ci sono solo gli scenari di guerra nell’orizzonte di Gentiloni e del governo italiano. C’è anche la visione di un’Europa unita che non sempre mette d’accordo tutti i 28 Paesi dell’Unione. Come le recenti tensioni con la Germania sulla flessibilità, sui migranti e sul gasdotto North Stream. "Noi - conclude il ministro - abbiamo semplicemente chiesto che i criteri utilizzati per il South Stream (progetto di maggior interesse per l’Italia, ma sospeso, ndr) siano utilizzati anche per il North Stream". Ma ribadisce: "Non c’è un duello Italia-Germania, solo un confronto tra idee diverse della prospettiva europea". Giudici delle leggi con la tentazione di fare politica di Enrico De Mita Il Sole 24 Ore, 27 dicembre 2015 Ciò che caratterizza la giurisprudenza costituzionale del 2015 sono alcune pronunce rispetto alle quali la Corte sembra avere assunto un atteggiamento non sempre coerente confermando la tesi di coloro che sostengono la natura politica della giurisprudenza costituzionale. Le sentenze più importanti sono la 10/2015 in tema di Robin tax e la sentenza 70/2015 in tema di blocco della rivalutazione delle pensioni. Nella sentenza sulla Robin tax per la prima volta la Corte ha negato la retroattività della pronuncia di incostituzionalità di una legge tributaria. Una strada che non è stata seguita con riguardo al blocco della rivalutazione delle pensioni anch’essa dichiarata incostituzionale. Non mi pare che ci sia una disparità di trattamento. Io credo che tale apparente incoerenza sia dovuta a una valutazione di merito e non alla prospettazione di tesi di carattere generale. Secondo la Corte l’applicazione della retroattività sarebbe una grave violazione dell’equilibrio di bilancio dell’articolo 81. Nella sentenza 70/2015 il punto centrale, secondo i critici, è il mancato riferimento all’impatto dell’Unione europea sulla vita delle istituzioni italiane. Ma la motivazione sulla quale la decisione fa perno è il richiamo generico alla situazione finanziaria senza che emerga, dal disegno complessivo, la necessità prevalente di esigenze finanziarie sui diritti oggetto di bilanciamento. Il rispetto dell’articolo 81 va verificato di volta in volta, quindi la Corte si è rifiutata di esprimere principi sempre validi anche per riservarsi per il futuro il potere di decidere. Un punto che il Governo ma soprattutto il Parlamento deve chiarire è la procedura di verifica del rispetto dell’articolo 81 visto che esiste l’"attribuzione presso la Camera di un organismo indipendente al quale attribuire compiti di analisi e di verifica degli andamenti di finanza pubblica e di osservazione delle regole di bilancio". Vanno quindi respinti quei giudizi esterni alla Corte diretti a definire i compiti (anzi a comprimerli) subordinando le funzioni di essa all’esecutivo. Bisogna difendere l’autonomia della Corte, precisandone la sua funzione che non è quella di essere al di sopra del Parlamento ma di giudice della costituzionalità delle leggi. L’istruttoria sul rispetto dell’articolo 81 non vuol dire limitare il giudizio della Corte, che compete sempre, nei limiti dei chiarimenti ricevuti, alla Corte stessa. Altra sentenza degna di rilievo è stata la 216/2015 in tema di limitazione dei diritti soggettivi perfetti. Qui la decisione non appare molto persuasiva. I diritti possono in linea di principio essere limitati, ma si richiedono condizioni che sembrano vanificare l’intervento del legislatore: a) le disposizioni introdotte non debbono trasmodare in un regolamento irrazionale; b) non si può frustrare l’affidamento dei cittadini nella sicurezza quale elemento fondamentale dello Stato. È la prima volta che la Corte usa la parola "irrazionale" anziché quella consueta di "irragionevole". Un regolamento irrazionale deve avere qualche connotato oggettivo. Invece qui si intende che la irrazionalità, o irragionevolezza, deve essere riservato alla Corte. Nella sentenza 146/2005 la Corte ha fatto alcune osservazioni in tema di legge delega e retroattività. La legge delega non è una mera scansione linguistica ma consente l’emanazione di norme che rappresentano un coerente sviluppo del contenuto della legge delega, di "riempimento" di essa. Quanto alla retroattività della legge la Corte ha detto che non è precluso emanare leggi retroattive "purché la retroattività sia adeguata giustificazione nella esigenza di tutelare principi e beni di rilievo costituzionale". Con la decisione 270/2015 la Corte ha confermato la propria giurisprudenza in tema di agevolazioni fiscali, affermando che tali norme di carattere eccezionale e derogatorie, costituiscono esercizio di potere discrezionale del legislatore censurabile solo per l’eventuale arbitrarietà e irrazionalità, con la conseguenza che la Corte non può estendere l’ambito di applicazione se non quando lo esige la ratio del beneficio stesso. Non è strettamente di diritto tributario ma di diritto amministrativo la sentenza 37/2015 che si rifà alla costante giurisprudenza secondo la quale il conferimento di incarichi nell’assetto della pubblica amministrazione deve avvenire mediante concorso pubblico, anche quando si tratti di nuovo inquadramento di dipendenti già in servizio. Tale decisione ha aperto il complesso problema di rimediare al vuoto creato nell’ambito della amministrazione finanziaria, che si sta risolvendo in vario modo da parte del Governo e del Parlamento. La Corte, con la sentenza 132/2015, ha dichiarato che la sanzione di nullità dell’atto impositivo può dirsi operante per tutte le fattispecie elusive, tanto per quelle riconducibili all’articolo 37 bis, quanto per quelle soggette al solo divieto generale di abuso del diritto. La Corte ha ritenuto la particolare centralità ineludibile del principio del contraddittorio come fondamento e orientamento della funzione impositiva, la cui violazione appare "di particolare gravità" in considerazione della funzione di tutela dei diritti del contribuente. Con la sentenza 83/2015, lucida e incontestabile, la Corte ha ritenuto fondata la questione di costituzionalità in tema di recupero dell’accise sui tabacchi. Non si possono tassare tutti i prodotti contenenti sostanze diverse dalla nicotina. Non si può sottoporre ad aliquota indifferenziata una serie di sostanze non contenenti nicotina e beni che hanno un uso promiscuo (83/2015). Consiglio di Stato: "no" a richieste ministro Orlando sui prepensionamenti dei magistrati di Antonello Cherchi e Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 27 dicembre 2015 Alesandro Pajno è il nuovo presidente del Consiglio di Stato. Lo ha nominato ieri il Consiglio dei ministri. Succede a Riccardo Virgilio, che a fine anno andrà in pensione. E a proposito di pensioni dei magistrati, sempre ieri il Consiglio di Stato ha gelato il ministero della Giustizia, e anche il Csm. I giudici di Palazzo Spada hanno infatti dichiarato inammissibili le istanze presentate dal ministero della Giustizia per ottenere la revoca della sospensione dei prepensionamenti di alcuni magistrati, ottenuta il 2 dicembre in via cautelare e destinata a mandare in tilt gli uffici giudiziari. La motivazione è secca: la richiesta del ministero "si risolve in una generica contestazione del contenuto decisorio del parere (peraltro neppure definitivo) adottato il 2 dicembre 2015, il cui carattere vincolante ne comporta l’irretrattabilità, salvo i casi eccezionali del ricorrere delle ipotesi di revocazione, che non si ravvisano sicuramente nella fattispecie". Come se non bastasse, il ministero viene bacchettato per non aver ancora adempiuto al deposito della relazione e dei documenti che gli erano stati richiesti il 2 dicembre e viene invitato a farlo "con l’urgenza che il caso richiede e nelle forme di rito". Altrettanto secca la reazione del guardasigilli Andrea Orlando: "Sconcerto che si aggiunge a sconcerto. Si poteva disinnescare un pericoloso cortocircuito ma hanno deciso di non farlo", ha commentato Orlando al termine del Consiglio dei ministri. I tempi, dunque, si allungano per fermare la valanga provocata dai ricorsi di alcuni magistrati prepensionati in base al provvedimento del governo che ha ridotto da 75 a 70 anni l’età del collocamento a riposo (anche se poi c’è stata la proroga di un anno). L’affare pensioni sarà, dunque, uno dei temi di cui si dovrà occupare Pajno nella veste di nuovo presidente di Palazzo Spada. Anche perché la questione delle uscite dei magistrati e dei possibili malfunzionamenti che potrebbero verificarsi nei tribunali non lascia indenne la magistratura amministrativa. Il nuovo presidente - palermitano, 67 anni, consigliere di Stato dal 1983 e che resterà in carica fino al 2018 - prenderà servizio con ogni probabilità dopo le vacanze di Natale. Il tempo perché il presidente Mattarella firmi il decreto di nomina e la Corte dei conti lo registri. Oltre al lavoro in magistratura, accompagnato da una sostanziosa attività scientifica (Pajno è attualmente presidente della quinta sezione di Palazzo Spada e coordina l’ufficio studi della giustizia amministrativa), il nuovo presidente ha ricoperto diversi incarichi istituzionali: consigliere giuridico con Mattarella ministro dei Rapporti con il Parlamento, capo di gabinetto all’Istruzione con i ministri Mattarella e Iervolino, segretario generale di Palazzo Chigi con il primo Governo Prodi, capo di gabinetto del Tesoro con Ciampi, sottosegretario all’Interno quando ministro era Amato. La procedura di nomina ha sovvertito la tradizione, che voleva nominato il consigliere di Stato più anziano. Questa volta, invece, il Governo ha chiesto al Consiglio di presidenza una lista di cinque nomi e ha poi scelto. Caso Cucchi, Ilaria contro La Russa "auguri a chi difese i carabinieri" Il Giorno, 27 dicembre 2015 "Possibile che consulenti e periti abbiano tutti legami con l’ex titolare della Difesa?". "Ho deciso di non rispondere. Non ho mai conosciuto quelle persone. E una donna distrutta dal dolore che non sa quel che dice. In questo caso, straparla". Ignazio La Russa, già responsabile del dicastero della Difesa, replica così a Ilaria Cucchi, autrice di un post su Facebook, in cui lo chiama in causa. L’origine della polemica è la nuova inchiesta capitolina sui carabinieri che per primi si occuparono in caserma del ragazzo. Cinque indagati: tre per il pestaggio e due per falso. La sorella del ragazzo romano morto nel 2009 all’ospedale Sandro Pertini di Roma dopo essere stato arrestato per droga, che da anni cerca la verità, usa il social network per sfogarsi. Contro La Russa, appunto. Contro Paolo Ar-barello, il medico che eseguì l’autopsia sul corpo di Stefano. Contro il professor Francesco Introna, membro del collegio dei periti che il 29 gennaio dovranno accertare la natura, l’entità e l’effettiva portata delle lesioni sofferte da Cucchi. Ilaria si sfoga postando sul suo profilo Facebook la foto di Stefano sorridente accanto a un albero di Natale. Auguri a La Russa "che da ministro della Difesa immediatamente dopo l’orribile morte di Stefano garantì a gran voce e ammonendo tutti che ‘i carabinieri non c’entravano assolutamente"‘. E ancora un buon Natale ad Arbarello "che ha eseguito l’autopsia in modo così brillante da meritarsi poi la nomina a consigliere di amministrazione di un grande gruppo assicurativo, con il figlio del signor La Russa, a processo in corso". Infine, a chiudere, auguri anche "al nuovo perito professor Introna, appartenente al partito (Fratelli d’Italia, ndr) del signor La Russa già candidato capolista nelle elezioni del 2009 in Puglia. Buon Natale a tutti coloro che sosterranno che vogliamo sceglierci i periti e ai quali rispondo: c’è una legge che impone che tutti i periti e consulenti di parte pubblica nel processo Cucchi debbano per forza aver legami col signor La Russa?". Un’informativa della squadra mobile capitolina sottolineava come i carabinieri indagati "valutavano e suggerivano varie modalità per eludere" le intercettazioni. Mentre in un’intercettazione una donna diceva a uno degli indagati: "Hai raccontato a tanta gente quel che hai fatto. Hai raccontato di quanto vi eravate divertiti a picchiare quel drogato". Caso Cosentino, quella visita negata due volte è un simbolo di giustizia malata di Massimo Adinolfi Il Mattino, 27 dicembre 2015 La situazione dell’ex sottosegretario di Nicola Cosentino è la seguente: è in carcere a Terni, da diciotto mesi. Sono diciotto mesi (diciotto) di custodia cautelare, perché nessuno dei processi in cui è implicato - per fatti gravi - è arrivato a sentenza. Non c’è ancora una sentenza, neanche di primo grado, che lo condanni. Secondo la Costituzione e il diritto, Nicola Cosentino è dunque innocente. Ma a giudizio del giudice sussistono tuttavia le condizioni che impongono per così lungo tempo la detenzione. Sussistono per di più, sempre secondo il gip, le condizioni per vietare alla moglie di vedere il marito. Una prima istanza è stata respinta, e adesso anche una seconda istanza. Cosentino può ascoltare la moglie al telefono, nelle modalità previste dal regolamento carcerario, ma non può incontrarla, perché è a sua volta a giudizio per corruzione, con rito abbreviato, per aver cercato favori per il marito quando era recluso a Secondigliano. Ora, siccome tutto il mondo sa che Nicola Cosentino è colpevole, una simile situazione non suona scandalosa: ma come sa tutto il mondo quello che sa, se i processi non si sono ancora conclusi, e anzi sono al palo? Non suona ancora più scandaloso un simile, grasso consenso intorno al suo caso, e una condanna così smaccatamente pronunciata dall’opinione pubblica prima però di qualunque tribunale? Non ci si accorge che proprio dentro quel compatto consenso strisciano e mormorano e bisbigliano le mille voci incontrollate che dicono che ben gli sta, che se l’è cercata, che gli è piaciuto di fare quello che ha fatto e allora adesso cosa vuole, che pure la moglie non è mica una santa anche se ora fa finta di non sapere nulla, eccetera eccetera. Duole dirlo, ma è proprio contro questo brusio incessante di voci che la civiltà moderna ha prima costruito e poi difeso i diritti di libertà. Non lo si vuol dire, infatti, ma il caso di Nicola Cosentino è un caso in cui sono in gioco diritti fondamentali: è mai possibile che non possa avere un breve incontro con la moglie durante le festività, all’interno di un penitenziario, pur potendo vedere i figli, pur potendo sentirla a telefono? E mai possibile che la giustizia, prima di celebrarsi in aula, si faccia forte di quel consenso cresciuto e alimentato fuori dall’aula per tagliar corto, per voltarsi dall’altra parte, per infliggergli una lezione supplementare? È scomodo difendere Nicola Cosentino? Forse. Ma la difesa è un diritto costituzionale, il cui valore dipende proprio dalla possibilità di azionarlo nei casi scomodi. È scomodo difenderlo dinanzi all’opinione pubblica, che prima di qualunque sentenza sa già che Nicola Cosentino è colpevole? Sicuramente lo è, ma si può star certi che in questo caso la scomodità è indizio sicuro che la difesa è ancor più necessaria. Più necessaria quanto più è impopolare: tutti i diritti di libertà devono essere difesi in special modo quando hanno contro il vento della maggioranza; è allora che è più facile che vengano calpestati. Ma quanti sono i Nicola Cosentino della giustizia italiana, che in carcere non si capacitano di una lettura troppo sbrigativa delle carte, della disinvoltura con cui si nega un permesso, o della facilità con cui si fa ricorso alla custodia cautelare? E ciò accade tanto più facilmente, è inevitabile, quanto più il convincimento della colpevolezza è passato ormai come la convinzione di tutti. Così nessuno, o quasi, osa arrischiarsi a dire che non solo non sappiamo ancora se Cosentino sia o no colpevole, ma che se anche lo fosse non per questo perderebbe il diritto ad un trattamento che ne rispetti la dignità. Così sta scritto nella Costituzione: la pena non deve servire per umiliare, per degradare, per mortificare. Tanto più quando è, come di fatto è spesso la custodia cautelare, un abnorme anticipo di pena. Carceri, è importante preparare i detenuti al lavoro 2.0 di Voce Libera (Magazine della Casa Circondariale di Busto Arsizio) Il Fatto Quotidiano, 27 dicembre 2015 Il mito del posto fisso è destinato a svanire. Anche il carcere dovrebbe adeguarsi, preparando le persone alle nuove opportunità offerte dal lavoro 2.0. La domanda che dovremmo porci è la seguente: come possiamo sperare che, detenuti che vogliano impegnarsi a seguire un percorso di rieducazione e preparazione alla vita lavorativa, non siano spaventati al punto da avere paura della libertà, se non diamo loro gli strumenti per affrontarla? Fuori i cambiamenti sono continui, rapidi e radicali. Le nuove tecnologie stanno cambiando il modo di pensare, interagire e lavorare; perdere qualche puntata di questa evoluzione significa dover rincorrere il mondo per colmare la distanza, qualche volta incolmabile. Qualcuno tra gli ospiti delle patrie galere, vi ha fatto ingresso quando l’Iphone era un oggetto misterioso; oggi siamo alla versione 6 e nel frattempo si parla di sharing economy, crowdfunding, coworking, start-up e incubatori d’impresa. Si rischia di rimettere in libertà dei disadattati, impreparati e incapaci di confrontarsi con la nuova realtà. L’attuale offerta lavorativa e formativa del sistema carcerario, è basata principalmente su lavorazioni manuali e artigianali, in prevalenza funzionali alle esigenze di manutenzione degli edifici penitenziari. Spesso si formano delle professionalità poco spendibili sul mercato del lavoro, come ad esempio i manovali, che difficilmente troveranno occupazione a causa della crisi economica che da anni incombe sul settore edilizio. Esiste pertanto un divario tra la realtà del mondo libero e ciò che la struttura carceraria può offrire. Anche solo partendo dai nuovi termini di comunicazione, le parole di uso corrente nella vita e anche nel mondo del lavoro, risultano incomprensibili a molte delle persone libere, figuriamoci al detenuto. Termini correnti tutti incentrati sulla lingua inglese, l’idioma più diffuso in tutto il mondo, soprattutto nel settore dell’informatica, basilare per i nuovi lavori. Sharing economy, crowdfunding e coworking, start-up, sono alcune delle parole di uso frequente, di fronte alle quali le persone detenute si sentono perdute, rendendosi conto che se dovessero intrattenere un dialogo con i giovani, nativi digitali, con tutta la baldanza e il bagaglio di esperienza, non reggerebbero alla conversazione. Ogni individuo ha la sua capacità di lavoro e di apprendimento, bisognerebbe approfondire l’effettivo livello qualitativo e la predisposizione. Solo dopo un’attenta analisi, gli individui dovrebbero essere accompagnati nel percorso di qualificazione e specializzazione, dalle lingue alle nozioni di base dell’informatica, per poi passare alle fasi successive di insegnamento in linea con le esigenze del mercato. Il detenuto, prima o poi diventerà ex detenuto, una "qualifica" che non perderà mai e di certo non rappresenta un vantaggio. Per gareggiare ad armi pari nella difficile corsa al lavoro, deve avere una marcia in più, un plus, un valore aggiunto che gli consenta di annientare l’handicap; l’offerta trattamentale adottata dall’istituto di pena, deve tenere conto di questa esigenza, altrimenti sfornerà un prodotto invendibile, perché fuori mercato. Vittorio Romano e Cosimo Di Biase Abolire ovunque la pena di morte: idea che marcia inesorabile da tempo di Marco Tarquinio Avvenire, 27 dicembre 2015 Gentile direttore, nel recente congresso di "Nessuno tocchi Caino" (18-19 dicembre 2015, Casa di reclusione di Opera) si è accennato alla pena di morte e alle numerose Risoluzioni delle Nazioni Unite sulla moratoria delle esecuzioni. Mozioni patrocinate anche dai radicali. In proposito, faccio notare che non è accaduto nulla che non sia accaduto prima o che non sarebbe accaduto in ogni caso. Sia dopo il fallito tentativo del 1994 che dopo quello riuscito del 2007, non è accaduto assolutamente nulla che valga la pena di ricordare. Nei 18 anni che passano dal 1976 al 1994 ben 49 Paesi del mondo hanno abolito la pena di morte, mentre nei 18 anni che seguono il 1994 i Paesi neo-abolizionisti sono stati 53. L’arrivo dell’iniziativa dei radicali e della moratoria non ha minimamente modificato il procedere degli avvenimenti perché l’abolizione della pena di morte marcia sulle sue gambe. Da lungo tempo. Claudio Giusti So bene anch’io, gentile e caro dottor Giusti, che il cammino di civiltà verso l’abolizione della pena capitale è in atto da tempo e, nonostante gli orrori della morte irrogata per legge, procede in modo inesorabile. E penso che nessuno di noi, qualunque fede professi od opinione politica nutra, possa rivendicare primizie o meditare esclusioni: ogni voce e ogni impegno sono preziosi e indispensabili in un mondo ancora troppo abitato dalle espressioni e dalle pratiche della cultura della morte. Ho anche ben chiaro che la scelta di campo "per la vita" non può essere parziale o a intermittenza. Chi si batte contro la morte a comando, è poi sfidato a farlo sempre, esercitando con umanità la virtù della coerenza. Uccidere un essere umano, vero o presunto "malato" per condotta di vita o per condizione mentale o fisica e consenso autodistruttivo, ucciderlo nella gelida cella attrezzata di un carcere o sul patibolo affacciato su una pubblica piazza o, ancora, in una asettica sala d’ospedale o di clinica è sempre e solo uccidere. Perciò non mi stanco di ripetere che il fratricidio si sconfigge solo con una scelta senza ombre: nessuno tocchi Caino, e nessuno tocchi Abele. Marco Tarquinio Salerno: detenuto tenta di sgozzare compagno di cella Corriere del Mezzogiorno, 27 dicembre 2015 "Nel giorno della vigilia di Natale, un detenuto ha tentato di sgozzare il compagno di cella a Salerno, usando il vetro di una bottiglia di spumante incredibilmente autorizzata ad entrare in cella. E ad Avellino un detenuto di 58 anni è morto per un infarto fulminante nell’infermeria del carcere". A dare la notizia è il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "A Salerno si è trattato di momenti di estrema tensione, comunque gestiti al meglio dalla Polizia Penitenziaria che è costretta a lavorare in pessime condizioni operative", denuncia il segretario generale del Sappe Donato Capece. "Sono anni infatti che denunciamo le precarie condizioni di lavoro dei nostri agenti, in un penitenziario in cui i detenuti sembrano voler prendere il sopravvento anche per l’assenza di un Reparto isolamento e l’incapacità di far scontare loro le sanzioni disciplinari. Un carcere allo sbando, senza un vero Comandante di Polizia Penitenziaria, e queste sono le conseguenze della mancanza di provvedimenti da parte dell’Amministrazione penitenziari regionale e nazionale". "Ad Avellino, invece, un detenuto è morto di infarto nonostante i tempestivi soccorsi dei poliziotti penitenziari", aggiunge. La situazione nelle carceri "resta allarmante: altro che emergenza superata! Dal punto di vista sanitario è semplicemente terrificante: secondo recenti studi di settore è stato accertato che almeno una patologia è presente nel 60-80% dei detenuti. Questo significa che almeno due detenuti su tre sono malati. Tra le malattie più frequenti, proprio quelle infettive, che interessano il 48% dei presenti. A seguire i disturbi psichiatrici (32%), le malattie osteoarticolari (17%), quelle cardiovascolari (16%), problemi metabolici (11%) e dermatologici (10%). Altro che dichiarazioni tranquillizzanti, altro che situazione tornata alla normalità. Il numero dei detenuti in Italia sarà pure calato, ma le aggressioni, le colluttazioni, i ferimenti e i tentati suicidi si verificano costantemente, con poliziotti feriti e celle devastate". Conclude Capece: "La Polizia Penitenziaria continua a `tenere botta´, nonostante le quotidiane aggressioni. Ma è sotto gli occhi di tutti che servono urgenti provvedimenti per frenare la spirale di violenza che ogni giorno coinvolge, loro malgrado, appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria nelle carceri italiane". Tolmezzo (Ud): Monsignor Mazzocato ha celebrato la Messa di Santo Stefano in carcere di Monika Pascolo Vita Cattolica, 27 dicembre 2015 "La misericordia non è buonismo a buon mercato; non è contro la giustizia che deve essere per tutti, anche per le vittime di cui spesso ci si dimentica. Attenzione però che la giustizia non diventi vendetta". È uno dei passaggi dell’omelia pronunciata oggi dall’arcivescovo di Udine, mons. Andrea Bruno Mazzocato, durante la Santa Messa celebrata, come è ormai tradizione a Santo Stefano, nel carcere di Tolmezzo. "Oggi c’è tanto bisogno di misericordia - ha aggiunto mons. Mazzocato -; per questo l’invito rivolto a tutti è quello di riempirsi il cuore di misericordia, di tanta pazienza e meno arroganza nei confronti del prossimo. Un cambiamento possibile solo se si apre il cuore al Signore, solo se parte da ciascuno di noi. Così la misericordia diventa il necessario lubrificante di un ingranaggio, quello dei rapporti tra le persone, che altrimenti non funziona". L’Arcivescovo ha concelebrato la Messa - allietata dal Coro parrocchiale di Majano - davanti ad una cinquantina dei 210 detenuti del carcere tolmezzino (facenti parte del settore "alta sicurezza" e "lavoranti"), insieme al vicario foraneo di Tolmezzo, mons. Angelo Zanello, al cappellano del carcere, don Boguslaw Kadela e al diacono Diego Mansutti. Prima della celebrazione, accompagnato dalla direttrice del penitenziario Silvia Della Branca, mons. Mazzocato ha visitato anche la sezione speciale 41Bis all’interno della stessa Casa circondariale, intrattenendosi per qualche minuto di preghiera con ciascun incarcerato. Della Branca, in occasione del benvenuto ufficiale all’Arcivescovo, si è rivolta ai detenuti sottolineando come, all’interno del carcere carnico, venga proposto quello che è "un percorso di crescita, in un luogo che, mi auguro, possa essere sempre caratterizzato da misericordia, speranza e solidarietà". Di questo "percorso" fa parte anche il progetto che ripartirà a giorni, grazie alla coordinamento del diacono Mansutti - da 15 anni opera come volontario all’interno del penitenziario tolmezzino -, che vedrà 11 detenuti per reati comuni dedicarsi alla coltivazione dell’orto, dalla semina al raccolto; verdura e ortaggi che nella passata stagione sono finiti poi anche sulle tavole di molti tolmezzini grazie ad una collaborazione avviata con una locale Cooperativa che ha curato la vendita dei prodotti. Nel carcere tolmezzino, inoltre, da anni opera l’Associazione di volontariato penitenziario "Vita Nuova" di Tolmezzo, diretta da Bruno Temil. Prima della conclusione della Santa Messa un detenuto ha rivolto un messaggio, a nome di tutti coloro che si trovano a Tolmezzo a scontare la propria pena - "pellegrini in viaggio", si sono definiti, rivolgendo all’Arcivescovo gli auguri per le festività natalizie. Paolo (usiamo un nome di fantasia) ha voluto evidenziare come "la pace non sia un traguardo, ma prima di tutto un cammino, un cammino in salita". "L’annuncio natalizio della pace - ha aggiunto - è reso possibile solo dalla solidarietà tra tutti gli uomini, compresi i deboli, gli indifesi, i dimenticati ai quali si vuole negare la dignità umana. È necessario pertanto promuovere comportanti atti ad impedire che ciò possa accadere. Occorre una rivoluzione di mentalità per capire che la pace è il prodotto di un impegno che richiede sofferenza e tenacia". Quei profughi salvati nel mare d’inverno di Marina Corradi Avvenire, 27 dicembre 2015 Nel solo giorno di Natale, 751 profughi e migranti sono stati soccorsi nel Canale di Sicilia dalla Guardia costiera e dalla Marina militare; tremila, nell’arco della settimana delle feste. Nel clima insolitamente mite, nel mare calmo di questo strano inverno i viaggi dei barconi proseguono come fosse primavera. E così soltanto il 25 dicembre si sono salvate 751 vite: che sono la popolazione di un piccolo paese, ma, a guardare bene, qualcosa di molto più grande. Se ciascun uomo con la sua storia e le sue speranze è un mondo, è una costellazione di mondi quella dei volti degli uomini, delle donne e dei bambini tratti in salvo dai gommoni stracarichi, dalle barche di legno col motore sfiatato alla deriva in mezzo al mare. Ne abbiamo poche immagini, file di occhi neri fissi sulla salvezza, madri che stringono in braccio fagotti - e con il velo che portano sul capo ci ricordano le Madonne dei nostri presepi. Non conosciamo che poco del grande lavoro degli uomini di quelle navi e motovedette, che anche a Natale non sono tornati a casa, e sono rimasti a battere le rotte dei profughi: a raccogliere, nel grande silenzio del Mediterraneo, il debole Sos di imbarcazioni da nulla, ma gremite. E, ogni volta, la prua volta verso quel grido di aiuto, ogni volta il lento avvicinamento, e le caute manovre e gli appelli perché il trasbordo avvenisse con calma, senza panico. Ogni volta coperte e bevande calde, e cibo, e gente che si raggomitola sul ponte, ancora tremante ma al sicuro, e stretta ai suoi figli. "Siano ricompensati con abbondanti benedizioni quanti si adoperano con generosità per soccorrere e accogliere i numerosi migranti e rifugiati", ha detto il Papa a San Pietro il giorno di Natale, e questa parola è anche per loro, per gli uomini della Guardia costiera, per quelli della Marina, per tutti quanti accolgono nei porti con generosità di tempo e di umanità la moltitudine che sbarca. Mentre non possiamo dimenticare che quasi nelle stesse ore, nel mare della Grecia, il 23 dicembre sono annegati ancora in dieci, di cui cinque bambini; e alla vigilia di Natale, al largo della Turchia, altri otto migranti sono affogati, e sei erano bambini. Notizie che non hanno trovato grande eco sui media delle feste. Ma non dobbiamo abituarci a questa scia di morti, alla morte quotidiana nel Mediterraneo. Perché ciascuno di quei sommersi, o salvati, è un uomo e quindi un mondo. Cerchiamo di immaginarceli, i volti sconosciuti dei tratti in salvo in Italia in questo Natale 2015, cerchiamo di immaginare da dove vengono, per fuggire così disperatamente, e quali speranze si portano addosso. Ci sono molti ragazzi e bambini, anche soli, mandati dalle famiglie alla ventura in Occidente. Ce ne saranno che, accolti, con fatica e tenacia lavoreranno e studieranno. Che cosa diventeranno? Magari fra quei ragazzini, spaventati da un mare che non avevano mai visto, c’è il medico che fra vent’anni ci curerà, quando saremo vecchi. O forse fra i 751 sbarcati di Natale c’è un ragazzo che saprà scrivere, e raccontare quel viaggio, quelle notti, quel mare, come noi non li sappiamo immaginare; così che leggendo ci immedesimeremo, e capiremo davvero cosa è stata, quell’odissea. O ancora nel manipolo di profughi di Natale c’è, chissà, un bambino che diventerà un sacerdote, e porterà il suo volto dalla pelle ambrata o scura nelle nostre case, e incontrarlo sarà una benedizione. Comunque tra quei 751 ci sarà tanta gente che resterà qui, che lavorerà, e avrà figli che saranno italiani. E rimarrà nei padri e nei figli la memoria di quel giorno lontano di dicembre - il mare, l’orizzonte infinito, il silenzio, e infine, lontano il profilo di una nave che si avvicina, e facce e voci amiche di uomini che dicono di non aver più paura. Da quel mondo che sono 751 uomini e donne nascerà un mondo più grande, e si ramificherà in mille rivoli e storie. Forse un giorno qualcuno racconterà del Natale 2015, ormai lontano. E la benedizione dei salvati e dei loro nipoti si rinnoverà nel ricordo, parola riconoscente agli uomini che in quel Natale, lontani da casa, come in una ronda percorrevano il mare: tesi a captare un Sos, e ancora una volta, fedeli a uno sconosciuto prossimo, a volgere la prua. Il Papa: "silenzio vergognoso sui cristiani perseguitati nel mondo" Avvenire, 27 dicembre 2015 Ricordando "il primo martire" Santo Stefano, cui è dedicata la giornata successiva al Natale, oggi Papa Francesco ha lanciato un appello a non dimenticare i cristiani perseguitati nel mondo, "martiri di oggi" e ad "allenarsi a perdonare". Prima ancora di affacciarsi su piazza San Pietro per l’Angelus, Bergoglio comunica con un tweet pubblicato in diverse lingue: "Preghiamo - scrive il Pontefice - per i cristiani che sono perseguitati, spesso con il silenzio vergognoso di tanti". Già ieri, nel messaggio natalizio dell’Urbi et Orbi, il Papa aveva ricordato i popoli che soffrono a causa dei conflitti, pensando specialmente ai migranti che fuggono dai propri Paesi alla ricerca di un futuro dignitoso e chiedendo a israeliani e palestinesi di "riprendere un dialogo diretto e giungere ad un’intesa". E nei giorni scorsi anche il presidente degli Stati uniti, Barack Obama, aveva dedicato un messaggio ai perseguitati cristiani. "In alcune aree del Medioriente quest’anno rimarranno silenti le campane delle chiese che per secoli hanno suonato il giorno di Natale - aveva scritto il presidente nel testo diffuso dalla Casa Bianca il 24 dicembre - questo silenzio è testimone delle brutali atrocità commesse dallo Stato islamico contro queste comunità". Il perdono è necessario, dà grandi frutti. Ma non è facile. Ne ha parlato all’Angelus nella solennità di Santo Stefano, primo martire della Chiesa, papa Francesco. Che ha sottolineato "un aspetto particolare nell’odierno racconto degli Atti degli Apostoli, che avvicina Santo Stefano al Signore": "è il suo perdono prima di morire lapidato". "Inchiodato sulla croce, Gesù aveva detto: ‘Padre, perdona loro perché non sanno quello che fannò; in modo simile Stefano ‘piegò le ginocchia e gridò a gran voce: ‘Signore, non imputare loro questo peccato"", ha rammentato il Papa. "Stefano è dunque martire, che significa testimone, perché fa come Gesù - ha proseguito; è infatti vero testimone chi si comporta come Lui: chi prega, chi ama, chi dona, ma soprattutto chi perdona, perché il perdono, come dice la parola stessa, è l’espressione più alta del dono". "Ma - ci potremmo chiedere - a che cosa serve perdonare? È soltanto una buona azione o porta dei risultati?", ha chiesto Francesco. "Troviamo una risposta proprio nel martirio di Stefano - ha quindi spiegato -. Tra quelli per i quali egli implorò il perdono c’era un giovane di nome Saulo; costui perseguitava la Chiesa e cercava di distruggerla. Saulo divenne poco dopo Paolo, il grande santo, l’apostolo delle genti". "Aveva ricevuto il perdono di Stefano - ha concluso il Pontefice -. Possiamo dire che Paolo nasce dalla grazia di Dio e dal perdono di Stefano". "Ogni giorno abbiamo l’occasione per allenarci a perdonare, per vivere questo gesto tanto alto che avvicina l’uomo a Dio. Come il nostro Padre celeste, diventiamo anche noi misericordiosi, perché attraverso il perdono vinciamo il male con il bene, trasformiamo l’odio in amore e rendiamo così più pulito il mondo". Lo ha detto papa Francesco all’Angelus nella solennità di Santo Stefano. "Anche noi nasciamo dal perdono di Dio - ha sottolineato il Pontefice -. Non solo nel Battesimo, ma ogni volta che siamo perdonati il nostro cuore rinasce, viene rigenerato. Ogni passo in avanti nella vita di fede porta impresso all’inizio il segno della misericordia divina. Perché solo quando siamo amati possiamo amare a nostra volta". "Ricordiamolo, ci farà bene - ha aggiunto -: se vogliamo avanzare nella fede, prima di tutto occorre ricevere il perdono di Dio; incontrare il Padre, che è pronto a perdonare tutto e sempre, e che proprio perdonando guarisce il cuore e ravviva l’amore. Non dobbiamo mai stancarci di chiedere il perdono divino, perché solo quando siamo perdonati, quando ci sentiamo perdonati, impariamo a perdonare". "Perdonare, però, non è cosa facile, è sempre molto difficile - ha riconosciuto Bergoglio. Come possiamo imitare Gesù? Da dove incominciare per scusare i piccoli o i grandi torti che subiamo ogni giorno? Anzitutto dalla preghiera, come ha fatto Stefano. Si comincia dal proprio cuore: possiamo affrontare con la preghiera il risentimento che proviamo, affidando chi ci ha fatto del male alla misericordia di Dio". "Poi si scopre che questa lotta interiore per perdonare purifica dal male e che la preghiera e l’amore ci liberano dalle catene interiori del rancore. È tanto brutto vivere nel rancore!", ha concluso. Cannabis terapeutica, primo sì all’importazione di Marco Menduni La Stampa, 27 dicembre 2015 In Italia c’è una platea di un milione di pazienti che potrebbero utilizzare la cannabis terapeutica. I dati sono quelli di Pain in Europe, l’associazione degli specialisti nella medicina del dolore: quasi un italiano su quattro (quindici milioni di abitanti) soffre di dolore cronico e più del 60 per cento non trova giovamento nelle terapie tradizionali. Ma sull’argomento c’è ancora una diffusa disinformazione accompagnata da pregiudizi, i costi dei trattamenti sono elevati e anche tra gli operatori, medici e farmacisti, la pratica della prescrizione è rarissima. L’infiorescenza di cannabis è prodotta da una sola azienda in tutta Europa, la Bedrocan, in Olanda. Il ministero della Salute olandese vende poi il prodotto alle altre nazioni. In Italia il limite di importazione è di 100 chili all’anno. Ma, passaggio dopo passaggio, il costo lievita dai 3 ai 30 euro al grammo. Conseguenza: molti consumatori cercano di informarsi su internet e finiscono per rivolgersi a importazioni parallele e semiclandestine, con gravi rischi. Curarsi da soli può diventare pericoloso. Morale: ancora oggi, intorno all’argomento, è il caos. Questa è una storia che nasce in Liguria intorno a Marco Bertolotto, direttore della struttura complessa di terapia del dolore dell’Asl2 di Savona. Bertolotto prescrive la cannabis da 5 anni. A giugno il medico incontra tre giovani, i titolari della Farmalab, piccola start up di Vado Ligure. "Erano riusciti - racconta Bertolotto - a ottenere dal ministero l’ok per importare la cannabis dall’Olanda". Dall’incontro emerge una constatazione: "Pochi in Italia conoscono a fondo la pianta. I malati hanno più conoscenza degli effetti della cannabis di quanta ne abbiano i medici: è un problema enorme". Nasce così un’associazione, Medicai Cannabis. E un sito, medical-cannabis.it, che si ripropone di dare sul tema informazioni accreditate e autorevoli. In Italia è stato il ministro della Difesa Pinotti a togliere le castagne dal fuoco al governo quando la discussione sulla cannabis terapeutica si era avvitata in una contrapposizione tra favorevoli e contrari. Sarà coltivata nello Stabilimento farmaceutico militare di Firenze, in un’area super protetta. Fino a oggi si è svolta la fase sperimentale. Solo nei prossimi mesi, tra marzo e aprile, la produzione andrà a regime. Nel frattempo Medicai Cannabis ha raccolto decine di adesioni. C’è l’ok di Umberto Veronesi e un primo gruppo formato da 7 medici e 4 farmacisti ha partecipato in Olanda a una master-class. Il prossimo passo: corsi per medici e farmacisti in Italia. Bertolotto: "La Liguria ha la legge più avanzata in Italia, con il rimborso delle spese dal servizio sanitario regionale. Il Piemonte ha approvato una legge analoga, ora servono i centri specializzati". Stati Uniti: operazione del governo per deportare intere famiglie di migranti La Repubblica, 27 dicembre 2015 Il dipartimento per la Sicurezza nazionale Usa ha organizzato una serie di operazioni per deportate centinaia di famiglie che si sono riversate nel Paese dall’inizio del 2014. Lo riferisce il Washington Post. La campagna, che scatterà a gennaio, sarebbe il primo tentativo su vasta scala di deportare persone fuggite alla violenza scoppiata in America Centrale. Più di 100mila famiglie hanno attraversato il confine sudovest, anche se la migrazione è stata ampiamente messa in ombra da un aumento relativo di minori non accompagnati L’operazione prenderebbe di mira solo gli adulti e i bambini a cui è già stato ordinato di lasciare il Paese da un giudice dell’immigrazione, secondo quanto riferisce un funzionario a conoscenza dei dettagli. La campagna, che sarà condotta dal dipartimento d’Immigrazione e dogana, è ancora in fase di preparazione e in attesa dell’approvazione della Homeland Security. Gli adulti e i bambini saranno detenuti dove sarà possibile e immediatamente espulsi. Il numero mirato dovrebbe essere nell’ordine delle centinaia e forse maggiore. Le deportazioni proposte sono stati argomenti controversi all’interno dell’amministrazione Obama e sui quali si è discusso per diversi mesi. Il segretario del dipartimento per la Sicurezza nazionale, Jeh Johnson, sta spingendo per portare avanti l’operazione, secondo quanto riferiscono fonti citate dal Wp, in parte a causa di un nuovo picco nel numero di immigrati illegali in Usa negli ultimi mesi. Le pressioni sono aumentata anche a causa della decisione della corte che ha ordinato al dipartimento di iniziare a lasciare andare le famiglie ospitate nei centri di detenzione. Medio Oriente: stillicidio di vite palestinesi, mentre Israele denuncia attacchi continui di Michele Giorgio Il Manifesto, 27 dicembre 2015 Intifada. Ieri altri due palestinesi uccisi da polizia ed esercito, uno a Gerusalemme Est l’altro in Cisgiordania. Avevano tentato di compiere attacchi, dice Israele. I palestinesi non confermano le versioni ufficiali. Intanto cresce la campagna della destra e dei coloni israeliani per far scarcerare i sospettati dell’assassinio cinque mesi fa di Ali Dawabsha, 18 mesi, e dei suoi genitori. Si allunga l’elenco dei palestinesi, aggressori veri o presunti, uccisi dalle forze di sicurezza o da civili israeliani armati per attacchi contro soldati e coloni. Dal 1 ottobre sono oltre 130, quasi tutti giovani. Questo numero include anche quelli uccisi dal fuoco dei soldati durante le dimostrazioni di protesta contro l’occupazione. L’ultimo, Hani Wahdan, è stato colpito venerdì lungo le linee tra Gaza e Israele. Nello stesso periodo sono stati uccisi oltre venti israeliani. Gli ultimi due, a metà settimana, alla Porta di Damasco di Gerusalemme: uno pugnalato da un palestinese, l’altro ferito mortalmente da un proiettile sparato dalla polizia intervenuta sul posto. In quella zona ieri è stato ucciso un altro giovane palestinese, Musab al Ghazali. Le autorità israeliane hanno detto che si trattava di un "terrorista" che aveva cercato di accoltellare un poliziotto. Poco dopo però è emersa una versione più complessa. Ad al Ghazali sarebbe stato intimato di fermarsi "perché si aggirava nella zona con fare sospetto" e quando la polizia si è avvicinata per un controllo il palestinese avrebbe estratto un coltello e tentato di colpire un agente. Un testimone però ha raccontato a un’agenzia di stampa locale che un agente ha fatto fuoco quando al Ghazali, allo stop intimato dalla polizia, ha alzato le mani. Poco dopo in Cisgiordania è stato ucciso dai soldati un altro palestinese, Maher Jabi, di 56 anni, che avrebbe investito intenzionalmente e ferito un militare al posto di blocco di Huwara (Nablus). Stessa versione per Mahdia Hammad, la madre 38enne di quattro figli sepolta ieri, che due giorni fa avrebbe tentato di investire dei soldati. I palestinesi smentiscono. I centri per la tutela dei diritti umani denunciano la politica adottata dalle forze di sicurezza di Israele di sparare subito, senza esitare, contro i "terroristi palestinesi". Intorno alla città circa 200 palestinesi ieri si sono uniti in una catena umana per chiedere la restituzione alle famiglie dei corpi di "attentatori" uccisi nelle ultime settimane. La polizia ha disperso con la forza la protesta che ha anche voluto ricordare le vittime dell’offensiva israeliana "Piombo fuso" contro Gaza, cominciata negli ultimi giorni di dicembre 2008. Sullo sfondo dell’Intifada di Gerusalemme - l’Intifada dei coltelli per gli israeliani - si svolge la soap opera della destra israeliana che si sta spaccando sull’assassinio del bimbo palestinese Ali Dawabsha, 18 mesi, e dei suoi genitori avvenuto la scorsa estate, quando un gruppetto di giovani ultranazionalisti ha lanciato bottiglie incendiarie contro l’abitazione delle vittime divorata dalle fiamme in pochi attimi. Da una parte ci sono il premier Netanyahu e alcuni ministri che condannano e ribadiscono la "tolleranza zero" per qualsiasi "atto di terrorismo", anche ebraico, ma sino ad oggi non hanno fatto seguire fatti alle parole. Il ministro della difesa Moshe Yaalon, appena qualche giorno fa ripeteva che "non ci sono prove sufficienti" per rinviare a giudizio i quattro principali sospettati. In questa destra con il colletto bianco è grande il timore che la violenza degli estremisti finisca per generare una reazione internazionale negativa per Israele e contraria all’interesse del governo di continuare la colonizzazione dei Territori palestinesi occupati. Timore esagerato dato che i governi e i mezzi d’informazioni occidentali sottovalutano o fingono di non vedere la violenza della destra israeliana e denunciano solo quella palestinese. Dall’altra parte, quella più militante, ci sono altri ministri, come Uri Ariel, e deputati, come Bezalel Smotrich, che al contrario aderiscono alla campagna per la scarcerazione degli arrestati e attaccano lo Shin Bet (il servizio della sicurezza interna ) accusandolo di aver fatto uso della tortura contro altri ebrei. La campagna di questa destra, "eversiva" scrive qualcuno, va avanti a gonfie vele nonostante le intenzioni manifestate da Netanyahu. Ieri sera si sono svolti un po’ ovunque altri raduni a sostegno degli arrestati grazie anche alla mobilitazione organizzata attraverso la pagina Facebook "I prigionieri di Sion". È già lontano lo sdegno generato dal video circolato questa settimana che mostra decine di israeliani (alcuni armati di mitra) che a una festa di matrimonio danzano felici brandendo coltelli con i quali colpiscono foto del piccolo Ali Dawabsha. Intifada dei coltelli, 150 morti in 3 mesi di Fabio Scuto La Repubblica, 27 dicembre 2015 Da ottobre una lunga scia di sangue: 128 palestinesi colpiti dalle forze di sicurezza, 20 le vittime israeliane. A Gerusalemme l’ultimo agguato: un uomo ucciso dalla polizia mentre cerca di aggredire alcuni ebrei Da ottobre una lunga scia di sangue: 128 palestinesi colpiti dalle forze di sicurezza, 20 le vittime israeliane. Gerusalemme. L’Intifada dei coltelli ha raggiunto quota 150 morti senza che si intravveda la fine di questa scia di sangue in Israele e in Palestina. Tre mesi di attacchi a colpi di forbice, violenze e scontri nelle strade della Cisgiordania e lungo il confine di Gaza hanno scavato una trincea di guerra difficilmente colmabile, nonostante gli appelli e le pressioni della comunità internazionale. Non passa giorno senza un tentativo di accoltellamento o l’uso dell’auto come ariete per investire passanti o soldati israeliani di guardia ai check-point e ai principali incroci stradali. L’Intifada dei coltelli non ha leader e non ha strategia, libera la rabbia del "cane sciolto" che non ha legami con gruppi politici o religiosi. Prevenire questi attacchi è il "rompicapo" dello Shin Bet, la sicurezza interna israeliana, sono sconosciuti e giovani,e ci sono anche ragazze. Lo scenario spesso scelto è Gerusalemme, la Città Santa percorsa sempre da tensioni e un odio carsico destinato ciclicamente a esplodere. Come ieri pomeriggio quando due agenti di guardia all’ingresso della Porta di Jaffa hanno notato nel gran via vai, che c’è sempre a uno degli ingressi più affollati della Old City, un giovane palestinese che li ha insospettiti perché sembrava pedinare due fedeli ebrei che tornavano dalle preghiere al Muro del Pianto. All’avvicinarsi degli agenti, il giovane 26enne palestinese ha tirato fuori un coltello e ha cercato di pugnalare il poliziotto più vicino. Ma è stato ucciso dal suo collega. Nel pomeriggio un altro palestinese, che aveva cercato di investire dei militari a un posto di blocco nei pressi di Nablus, è stato ferito dai soldati ed è morto in serata. Dalla seconda metà settembre, 20 israeliani (e un americano) sono stati uccisi in attacchi con il coltello e quasi un centinaio feriti. E almeno 128 palestinesi (e un eritreo per errore) sono morti nello stesso periodo. Secondo la polizia 88 di loro stavano attaccando o tentando di attaccare israeliani, mentre il resto è morto in scontri con l’esercito in Cisgiordania e a Gerusalemme. La Città santa è da tempo "blindata" perché gli attacchi all’arma bianca sono avvenuti pressoché ovunque: alla fermata del tram, sui bus pubblici, per strada, all’uscita del supermarket o del ristorante. Un’ondata di terrore che ne ha profondamente mutato il volto, modificando abitudini e sistema di vita della gente. Bar e ristoranti, la sera sono semi-deserti, i cinema hanno cancellato l’ultimo spettacolo. Ci sono i marshals sugli autobus, i vigilantes fuori di scuole e negozi, militari in divisa quasi in ogni angolo di strada. Ma il senso di insicurezza è un virus che si è diffuso rapidamente. Nei quartieri arabi della città quasi ogni notte ci sono cassonetti in fiamme e sassaiole dei giovani palestinesi contro la polizia che risponde con gas lacrimogeni e pallottole di gomma. Il governo israeliano attribuisce la responsabilità di questa ondata di terrore all’incitamento degli estremisti palestinesi, attraverso radio e stazioni tv (che sono state chiuse) ma anche con i social network più popolari. L’Anp e i palestinesi sostengono che la violenza nasce dalla frustrazione per quasi cinque decenni di occupazione, per la totale mancanza di una prospettiva di vita migliore e per la fine nelle speranze di un accordo di pace. Vent’anni dopo, l’accordo di Oslo è stato dichiarato morto dal premier Benjamin Netanyahu e dal presidente palestinese Abu Mazen. Nella soluzione dei "due Stati" Usa, Ue e Onu sono rimasti senza i partner principali. Missili russi sul leader della guerriglia siriana di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 27 dicembre 2015 Eliminato Zaharoun Alloush, oppositore del regime di Damasco ma anche nemico dell’Isis. La Russia e il regime siriano vogliono davvero il dialogo per una soluzione negoziata della guerra in Siria, oppure ne approfittano per eliminare i leader delle opposizioni, che pure combattono contro Isis, e garantire in ogni modo la sopravvivenza del presidente Bashar Assad? La domanda, che circola oggi tra i gruppi della rivoluzione sunnita, riflette il senso di rabbia e smarrimento dopo che venerdì dieci missili hanno centrato il quartier generale alla periferia orientale di Damasco di Jaysh Al Islam ("L’Esercito dell’Islam"), uno dei gruppi più forti della guerriglia, che pur volendo rovesciare Assad si oppone a Isis, e hanno ucciso sul colpo il suo leader 44enne Zaharoun Alloush assieme ai suoi consiglieri e altri dirigenti di organizzazioni impegnate nella lotta contro la dittatura di Damasco. Le conseguenze politiche e militari rischiano di essere molto gravi, tanto da mettere in forse i colloqui di pace organizzati a Ginevra per il prossimo 25 gennaio dall’inviato speciale dell’Onu per la Siria, Staffan de Mistura. Ancora non è chiaro chi abbia premuto il grilletto. Da Damasco i portavoce militari rivendicano la piena paternità dell’operazione. Ma i gruppi ribelli puntano il dito contro l’aviazione russa, che da fine settembre bombarda massicciamente in Siria, a parole contro Isis, ma in realtà contro qualsiasi formazione che metta a rischio il regime di Assad. Il blitz ha comunque sortito un effetto devastante. In quel momento Alloush stava incontrando gli alti dirigenti di formazioni simili alla sua, come Ahrar al Sham (particolarmente radicata nelle regioni di Idlib e Aleppo) e Faylaq al Rahman. Ma è specialmente la sua morte che crea sconforto e rabbia. Alloush, militante del radicalismo islamico della prima ora, era in carcere all’inizio della "primavera araba" siriana del marzo 2011. Venne liberato dal regime assieme a centinaia di altri jihadisti e grazie al suo intenso carisma, ai modi spregiudicati e al sostegno saudita e turco, riuscì in breve tempo a mobilitare tra i suoi ranghi decine di migliaia di volontari. Il suo potere era tale che agli inizi di dicembre fu tra gli esponenti di punta della lotta armata siriana a partecipare al summit di Riad, dove il governo saudita cercò di creare un fronte sunnita internazionale capace di sostenere i suoi "protetti" in Siria e controbilanciare il campo sciita aiutato dall’Iran. A renderlo politicamente rilevante, anche gli occhi dell’amministrazione americana, fu la sua scelta sempre più netta negli ultimi mesi di opporsi a Isis. Tanto che le sue milizie erano riuscite a scacciare gli estremisti jihadisti dalle zone ad est di Damasco. Con la sua morte però torna la logica del muro contro muro. "Il regime di Putin mira a sterminarci tutti", sostengono le milizie sunnite che accusano Mosca e Damasco di non volere un autentico negoziato di pace. Mosca tra l’altro ha di recente divulgato una lista dei "gruppi terroristi" in cui è incluso Jaysh Al Islam. Filippine: assalto dei miliziani islamisti, uccisi nelle risaie 9 contadini cattolici di Michele Farina Corriere della Sera, 27 dicembre 2015 Duecento appartenenti al gruppo Bangsamoro hanno colpito i villaggi di Mindanao, nel Sud Nella battaglia con l’esercito di Manila caduti anche 5 ribelli. Lavoravano nelle risaie, alla vigilia di Natale. Spruzzavano insetticida sui loro fazzoletti di terra, quando i miliziani li hanno uccisi a colpi di arma da fuoco. Così sono morti cinque contadini filippini di un villaggio cristiano nella provincia di Maguindanao. In un paese vicino, che ha nome Esperanza, gli stessi "Combattenti per la libertà del Bangsamoro Islamico" (acronimo inglese: Biff) hanno preso in ostaggio una famiglia. Il bilancio: una madre e un bambino salvi, 3 uomini trucidati, così come un funzionario nella provincia di Nord Cotabato. Secondo la polizia 200 uomini hanno preso parte ad almeno otto raid (e 5 sono stati uccisi) nel cuore di Mindanao, grande isola con significativa presenza di musulmani in un Paese di 100 milioni di abitanti (per il 92% cristiani). Il Biff è una formazione minore staccatasi dal Moro Islamic Liberation Front (Milf) perché contraria all’accordo di pace firmato a inizio 2014 tra il governo di Manila e il principale movimento ribelle dell’isola. Accordo ancora sulla carta, con la nascita di un’entità autonoma denominata "Bangsamoro" prevista per il 2016. È nel clima di questa incerta transizione che l’ala dura del Biff attacca i cristiani. Da una parte soffiando sui contrasti per il controllo della terra. E dall’altra sfruttando, secondo i negoziatori governativi, la novità e l’ appeal esercitati dal marchio Isis su una minoranza radicale. Le simpatie per il Califfato quest’anno hanno trovato voce nei messaggi di un portavoce su YouTube, mentre il Milf è storicamente legato ad Al Qaeda. Sempre nel Sud, nell’arcipelago di Sulu, ha base il gruppo di Abu Sayyaf, specializzato in sequestri di stranieri (dal 7 ottobre è prigioniero Rolando Del Torchio, ex sacerdote italiano). Da sempre sinonimo di povertà e terrorismo, Mindanao va raccogliendo i segni di un boom legato all’agricoltura: cocco, banane, ananas. Tre quarti della frutta nazionale viene da lì. Negli ultimi 5 anni la produzione di banane è cresciuta del 256% (terzo esportatore mondiale). Banca Mondiale e gruppi internazionali pompano investimenti (cresciuti di sei volte dal 2010). Le condizioni per la riscossa pacifica di una terra martoriata da decenni di guerra civile (120 mila morti) rappresentano al tempo stesso un bacino di raccolta per i rancori di chi è tagliato fuori dalla crescita. In questo contesto si muovono i Bangsamoro Islamic Freedom Fighters. La polizia aveva lanciato l’allarme su attacchi "modello Isis" durante le feste. In Somalia le autorità hanno proibito le celebrazioni pubbliche del Natale, mentre anche il piccolo sultanato del Brunei ha bandito le manifestazioni definite "eccessive". Ma le Filippine sono un Paese diverso. E d’altra parte i raid della vigilia non sono avvenuti nelle chiese (dove alcuni fedeli anzi si sono rifugiati) ma nelle campagne. Ieri papa Francesco, ricordando il martirio di Santo Stefano, ha invitato via Twitter a pregare "per i cristiani che sono perseguitati, spesso con il silenzio vergognoso di tanti". Gli ultimi della lista, quei contadini ammazzati nelle risaie di Esperanza. Marocco: voglia di lotta armata tra i giovani saharawi di Gilberto Mastromatteo Il Manifesto, 27 dicembre 2015 Nei campi profughi del deserto algerino per il 14mo congresso del Fronte Polisario. Per ottenere l’indipendenza dal Marocco sì all’"intifada" pacifica e alla via della diplomazia, ma senza escludere l’opzione militare. Abdelaziz rieletto a capo della Rasd. "Non c’è alternativa" gridano i saharawi da ormai 40 anni, la badil. L’unica soluzione è l’autodeterminazione del Sahara Occidentale, occupato dal Marocco nel 1975. Ma sembra non esserci alternativa neppure rispetto alla leadership, per l’ultimo Stato non ancora decolonizzato d’Africa. Sarà ancora Mohamed Abdelaziz a guidare la Repubblica araba saharawi democratica (Rasd), per il dodicesimo mandato consecutivo e dopo 39 anni ininterrotti di presidenza. Lo ha deciso il Congresso numero 14 del Fronte di liberazione popolare di Saguia el Hamra e del Rio de Oro, il Frente Polisario, che si è riunito a Dakhla, nei campi di rifugiati saharawi, tra il 16 e il 22 dicembre scorsi. Questa volta Abdelaziz correva da solo. Il Congresso lo ha indicato come unico candidato sia per la segreteria generale del movimento indipendentista, che per la presidenza della Repubblica. E lo ha votato con il 90% dei consensi. Un verdetto su cui, per la verità, erano pochi i dubbi già alla vigilia. E dire che era stato lo stesso presidente, oggi sessantottenne e in condizioni di salute non ottimali, a chiedere ancora una volta di potersi fare da parte. "È tempo di trovare un nuovo segretario generale" si era raccomandato pubblicamente, appena una settimana prima dell’inizio del Congresso. Non lo hanno esaudito i 2.742 delegati riuniti nella località desertica, nel sud-ovest algerino, la wilaya più colpita dalla devastante alluvione dello scorso autunno. Deluse le attese per un completo ricambio generazionale, resta tuttavia un congresso importante, specie dal punto di vista politico, quello andato in scena a Dakhla, sotto lo slogan "forza, determinazione e tenacia per imporre l’indipendenza e la sovranità". Ancora una volta, come già nel 2011, vi hanno preso parte circa 60 delegati provenienti dai territori occupati dal Marocco. Oltre un centinaio quelli provenienti dalla diaspora europea e africana, specie dalla Mauritania, rappresentata con 40 delegati. "Il dibattito interno è serrato, come mai in passato - rivela Abeid, uno dei congressisti provenienti dai campi - il Polisario ha scelto la via del rispetto delle norme internazionali. Ma l’attesa dura ormai da troppi anni. I giovani, specie qui nelle wilaye, sono stanchi di questa situazione". Una questione su tutte. Sul tavolo c’è una questione su tutte: ritornare o meno alla guerra contro il Marocco invasore. Uno scenario evocato spesso, negli ultimi anni, senza mai concretizzarlo. L’apparato del Polisario, Abdelaziz in testa, continua a contenere la disperata impazienza dei giovani, cercando di dar tempo alla diplomazia. Ma quella militare resta un’opzione. "La lotta armata - spiega il presidente - lungi dall’essere un semplice strumento di minaccia, è un dovere sacro per tutti i membri del Fronte Polisario. Essa è un legittimo diritto sancito dalla Carta costituzionale e avallato da varie risoluzioni delle Nazioni Unite. Rimarrà un’opzione permanente, finché non si raggiungerà la fine dell’occupazione". "Intensificheremo la preparazione della nostra forza militare - rimarca il primo ministro uscente Abdelkader Taleb Omar - di pari passo continueremo a dialogare con l’Onu, cercando una soluzione diplomatica. Una priorità resta l’intifada por la independencia, la lotta pacifica contro l’occupazione marocchina, che prosegue nei territori occupati, sfidando una repressione continua". Nel 2009 era stato lo sciopero della fame della nota attivista Aminatou Haidar a catalizzare, per una volta, l’attenzione sul Sahara Occidentale. Un movimento che ha raggiunto il suo apice nel 2010, quando andò in scena la grande protesta di Gdeim Izik, nei pressi di Al Aaiun. "Il campo della dignità", definito da Noam Chomsky come il vero inizio della "primavera araba", radunò per un mese 25 mila saharawi, prima che l’esercito marocchino lo mettesse a ferro e fuoco. Da allora, la reazione della monarchia di Mohamed VI è stata dura. Espulsioni arbitrarie di cooperanti, parlamentari e giornalisti dai territori occupati. E poi arresti e carcerazioni nei confronti dei saharawi. È il caso dei 24 attivisti condannati nel 2013 dal tribunale militare di Rabat a pene che vanno dai 20 anni all’ergastolo, per i fatti di Gdeim Izik. Uno di loro, Hassanna Aalia, era riuscito a sottrarsi alla cattura, riparando in Spagna. Oggi è ancora in lotta con il governo iberico per ottenere l’asilo politico. "A Gdeim Izik ho capito per la prima volta cosa fosse la libertà", afferma il giovane congressista Ahmed Brahim Ettanji, proveniente da Al Aaiun occupata, dove è mediattivista nella piattaforma informativa di Equipo Mediatico. "La guerra - dice - è un’opzione che avrebbe ripercussioni innanzitutto su chi vive nei territori occupati. Io credo che la lotta pacifica possa portarci più lontano. Posso capire la stanchezza dei miei coetanei che vivono qui, nei campi e attendono da anni un cambiamento che non arriva mai. Ma continuo a credere che la via pacifica debba prevalere. La guerra ha insanguinato gli anni Ottanta, fino al cessate il fuoco del ‘91 e ha tagliato in due un popolo che oggi, dopo 40 anni, dimostra di essere ancora unito. L’intifada por la independencia lo dimostra". La soluzione diplomatica. Il Polisario continua a caldeggiare la via diplomatica per una soluzione pacifica della crisi, da ricercare ancora assieme all’Onu. Malgrado le componenti più giovani del movimento di indipendenza del popolo saharawi siano ormai scettiche. "La comunità internazionale è latitante - dice Abdeslam, studente della wilaya di Dakhla - lo scorso maggio le Nazioni Unite hanno prorogato il mandato della Minurso, snobbando completamente la nostra richiesta di dotare i caschi blu della vigilanza sul rispetto dei diritti umani. Ci stanno prendendo in giro". Uno studio sociologico, condotto quest’anno dal professor Carlos Vilches dell’Università pubblica di Navarra, fotografa la sfiducia dei saharawi di età compresa tra i 16 e i 30 anni nei confronti delle Istituzioni internazionali. E non solo. Stando ai dati, l’istituzione che risulta più apprezzata è l’Esercito di liberazione popolare saharawi (Elps). Al secondo posto viene il Frente Polisario. Mentre all’Onu spetta l’ultima piazza. Appena un gradino sopra ci sono le ong internazionali. Tuttavia, la maggior parte dei giovani saharawi, nati e cresciuti nei campi di rifugiati e talvolta figli di genitori a loro volta nati nei campi, non scinde il proprio progetto di vita da quello di liberazione nazionale. E c’è chi non lesina critiche all’immobilismo del Polisario: "Dopo 40 anni, ancora nessun cambio al vertice - dice Said Zarwal, direttore della rivista Futuro Sahara, per la prima volta accreditata a seguire i lavori del Congresso - le nuove generazioni dovranno aspettare ancora quattro anni per potersi proporre. Alcuni movimenti, come la Juventud de la Revolución Saharaui, non sono stati ammessi al dibattito. Non è questa la via per preparare un cambio generazionale". Turchia: 33 giornalisti in carcere di Murat Cinar popoff.it, 27 dicembre 2015 Sono 33 i giornalisti che festeggeranno l’arrivo del nuovo anno in carcere. La Turchia si vanta ancora una volta del numero di giornalisti detenuti. L’ultima arrivata è Beritan Canözer, dell’Agenzia Stampa JinHa, tutta al femminile, arrestata il 16 dicembre durante una manifestazione per chiedere la fine del coprifuoco nel Sur, la città vecchia di Diyarbakir. Canözer si trovava là per documentare le proteste contro questa decisione del governo centrale. Dopo il suo arresto, basato su uno dei mille pacchetti sicurezza introdotti dal governo, Canözer è stata portata in carcere per aspettare l’inizio del processo, con l’accusa di "collaborazione con un’organizzazione terrorista". Secondo i giudici e il governo centrale le persone che si definiscono giornalisti sono terroristi o collaboratori di criminali; diamo un’occhiata alle motivazioni di alcune detenzioni. Can Dündar ed Erdem Gül sono stati arrestati il 26 novembre e accusati di "appartenenza a un’organizzazione terroristica armata" e "pubblicazione di materiale in violazione della sicurezza dello Stato" (articoli 314, 328 e 330). Tuttavia nella documentazione che li ha fatti finire in prigione mancano ancora le prove di queste gravi accuse. Dundar e Gul non hanno fatto altro che parlare nel quotidiano per il quale lavorano, Cumhuriyet, del sequestro dei Tir avvenuto il 19 gennaio 2014, pubblicando le interviste con i giudici che sono stati poi denunciati e processati con le stesse accuse e le fotografie del giorno del sequestro, come avevano già fatto altri giornalisti. Il processo di questi due giornalisti ha subito una svolta, portandoli in prigione, dopo la dichiarazione del Presidente della Repubblica Recep Tayyip Erdogan seguita all’abbattimento dell’aereo russo al confine con la Siria da parte dell’esercito turco: "Vi ricordate del caso dei Tir guidati dai servizi segreti e come qualcuno ha tentato di fare un colpo di stato sfruttando questo caso? Quei Tir portavano degli aiuti alle popolazioni turcomanne di Bayirbucak, in Siria. Adesso qualcuno si metterà a dire: "Secondo il Primo Ministro non c’erano delle armi in quei Tir." "E allora? Stavamo portando degli aiuti umanitari in quella zona. Loro sono nostri fratelli in difficoltà. In questo gioco di spionaggio c’è un quotidiano coinvolto. Pagheranno caro quello che hanno fatto. Attraverso i nostri avvocati ho già avviato un procedimento legale". Nel 2012, quando la Turchia si vantava di avere 42 giornalisti in prigione, l’organizzazione non governativa Reporter Senza Frontiere la definiva come il "carcere più grande del mondo per i giornalisti". In seguito i numeri sono scesi leggermente, ma le motivazioni per mettere dentro i lavoratori dell’informazione sono sempre le stesse. Un altro elemento che il governo centrale sfrutta per limitare la libertà di stampa è l’articolo 313 del codice penale, che punisce chi "incita la popolazione per provocare una rivolta armata contro il governo centrale". Infatti Cevheri Guven e Murat Capan, rispettivamente direttore e capo redattore della rivista Nokta, si trovano ancora in carcere con le accuse di "istigazione a delinquere" ed "eversione". La loro vera "colpa" è l’aver pubblicato un fotomontaggio del Presidente della Repubblica nella copertina del ventiquattresimo numero della rivista, in cui Erdogan si fa un selfie davanti alla bara di un soldato morto. Il numero è stato ritirato dalle edicole e la sua distribuzione bloccata; poi Guven e Capan sono stati arrestati. Il 17 dicembre sedici organizzazioni attive nel campo dell’informazione in Turchia e in vari paesi balcanici hanno diffuso una lettera aperta al Presidente Erdogan e al Primo Ministro Ahmet Davutoglu, in cui si dicono "preoccupate del fatto che il suo governo sta aumentando la pressione su alcuni media, perché non seguono una linea editoriale vicina alle politiche del governo. La pressione fiscale, i licenziamenti, gli sgravi fiscali ingiusti nei confronti dei media vicini al governo e le detenzioni prolungate nei confronti dei giornalisti sono alcuni dei mezzi che vengono utilizzati in Turchia per reprimere la libertà di stampa". Tra i detenuti non ci sono solo giornalisti o cittadini turchi. Il 27 agosto sono stati arrestati due giornalisti britannici e l’interprete irakeno Muhammed Ismail Resul, che lavorava per il portale giornalistico Vice News. Resul si trova in carcere in Turchia da circa 4 mesi ed è accusato di "collaborazione con un’organizzazione terrorista". In settembre più di 70 giornalisti e scrittori hanno pubblicato una lettera aperta al Presidente della Repubblica chiedendo la scarcerazione di Resul; tra i firmatari c’erano Elif Safak, Monica Ali e diversi membri del Pen Club, la più antica organizzazione internazionale di letterati. Ben otto giornalisti del quotidiano in lingua curda Azadiya Welat - Ali Konkar, Cengiz Dogan, Deniz Babir, Ensar Tunca, Ferhat Ciftci, Hamit Duman, Nuri Yesil e Seyithan Akyuz - si trovano tuttora in carcere. L’ultimo arrivato tra questi è Babir, arrestato con altri cinque giornalisti l’11 dicembre durante le pause del coprifuoco in località Sur. Mentre gli altri quattro sono stati rilasciati, Babir è stato portato in carcere con l’accusa di "appartenenza a un’organizzazione terrorista". Ormai sono più di tredici anni che la Turchia è governata dal Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp), una realtà politica che si presenta come una ventata contro le oligarchie e la repressione dell’esercito e una nuova svolta popolare in difesa della libertà di scelta ed espressione dei cittadini. Tuttavia i numeri ed i fatti dimostrano che nel mirino dell’AKP ci sono anche tanti giornalisti, accusati e detenuti grazie alle nuove norme introdotte in questi anni. Cina: vietato scrivere delle minoranze, espulsa giornalista francese Avvenire, 27 dicembre 2015 Le autorità cinesi hanno di fatto espulso la giornalista francese Ursula Gauthier, corrispondente a Pechino del Nouvel Observateur, alla quale non sarà rinnovato il visto dal 31 dicembre. Lo annuncia il sito del giornale. "Ursula Gauthier - si legge - è oggetto da un mese di una violenta campagna di attacchi sui media di Stato cinese. Le autorità cinesi, che l’hanno ricevuta diverse volte, chiedono pubbliche scuse per un articolo pubblicato sul nostro sito lo scorso 18 novembre in cui descriveva la politica repressiva condotta da Pechino nello Xinjiang, una vasta regione a maggioranza musulmana". Authier è la prima corrispondente straniera in Cina a essere espulsa dal 2012. Secondo l’Obs, il ministero degli Esteri francese "è rimasto particolarmente silenzioso sulla vicenda. A una domanda posta in un punto stampa, il portavoce del ministero ha risposto solo: "Siamo attenti alla situazione della signora Ursula Gauthier. Speriamo che una soluzione soddisfacente possa essere rapidamente trovata. La Francia è attenta alla libero esercizio del mestiere dei giornalisti ovunque nel mondo".