Di cosa parliamo se parliamo di giustizia di Gustavo Zagrebelsky La Repubblica, 24 dicembre 2015 Per Socrate era più preziosa dell’oro. Ma anche l’ideale più inafferrabile di tutti. Devo parlare della giustizia. Siete in diritto di pensare ch’io sappia che cos’è. Invece no. Secondo il celebre detto di Wittgenstein: “ciò di cui non si può parlare con chiarezza deve essere taciuto”, essendo giustizia parola oscura, dovremmo iniziare e finire qui il nostro incontro. Tuttavia, da sempre proprio le massime questioni dell’esistenza si esprimono con parole tutt’altro che univoche. Dovremmo tacere? Se fosse tutto chiaro, perché parlare? Quante migliaia di parole Socrate ha dedicato alla giustizia, “cosa ben più preziosa dell’oro”? Eppure, perfino lui si diceva incapace di giungere ad afferrarla (Repubblica 336e). Se parliamo della giustizia, e non possiamo non parlarne, è proprio perché, socraticamente, sappiamo di non sapere. Possiamo però girarle intorno con qualche domanda e circondarla di parole prudenti. Iniziamo così: può ammettersi che per uno sia giusto ciò che non lo è per un altro? Alla luce dell’esperienza: “sì, dobbiamo ammettere che ciò che è giusto per uno, può essere ingiusto per un altro”. La storia dell’umanità è una grande contesa tra diverse concezioni della giustizia. Se, invece, dicessimo: “no, ciò che è giusto per gli uni deve essere giusto anche per gli altri”, dovremmo presupporre che esista la giustizia in senso assoluto e che noi si sia capaci di farla nostra. Prendiamo il più celebre tra i criteri di giustizia, “unicuique suum”: a ciascuno il suo. È facile essere d’accordo, perché ciascuno può riempire “il suo” del contenuto che vuole. Ricordate San Martino che, incontrando un ignudo, scende da cavallo e divide con lui il suo mantello. Ecco: a ciascuno il suo. Ma, all’ingresso del campo di sterminio di Buchenwald, sapete che cosa c’era scritto? “A ciascuno il suo”. Come è possibile che questa formula della giustizia valga per San Martino e per gli aguzzini nazisti? Perché è di per sé vuota. Lo stesso può dirsi per le altre formule generali come: a ciascuno secondo i suoi meriti o i suoi bisogni. Chi stabilisce che cosa sono i meriti e i bisogni? Si dice anche: non fare agli altri ciò che non vuoi che sia fatto a te o, in positivo, fai agli altri, ecc. Ma, chi sono “gli altri”? Sono “il prossimo tuo”. Ma, chi è il prossimo? Gesù di Nazareth ha risposto con la parabola del Samaritano. Ma, altri potrebbero dire: quelli che appartengono al mio clan, al mio popolo, alla mia stirpe; oppure, è tutta l’umanità. Ma, ancora, siamo d’accordo sulla parola “umanità”? Quanto s’è faticato a superare l’idea che “i selvaggi” non vi rientrino, e così “le razze inferiori”, i delinquenti-nati, i malati mentali! L’etica cristiana supera queste difficoltà, non però con la giustizia, bensì con l’amore, che è altra cosa dalla giustizia. L’amore disincarnato, che tanto piaceva anche agli Illuministi del XVIII secolo, entra in crisi, si svuota e s’affloscia non appena entra in contatto con esseri in carne e ossa. Allora compaiono le ghigliottine preparate per i “nemici dell’umanità”, o i roghi delle Inquisizioni per i “nemici della fede”. In breve: finché si parla di giustizia come ideale astratto, non si esce dall’inconcludenza. Immaginiamo, invece, che la giustizia sia non un’idea, ma un’emozione. Sapete che la filosofia occidentale ha svalutato le emozioni, considerandole perturbamenti della ragione. Negli ultimi tempi, però, c’è stata una rivalutazione. Gli esseri umani, fortunatamente, non sono a una sola dimensione. Ricordo, per esempio, un libro di Martha Nussbaum (L’intelligenza delle emozioni) in cui questo lato della coscienza è valorizzato, dicendo una cosa importante: le emozioni hanno capacità cognitive. Con le emozioni, talora, conosciamo più profondamente che non con i soli concetti. Ad esempio, quando i campi di sterminio nazisti furono liberati, gli Alleati obbligarono migliaia di tedeschi a un faccia-a-faccia con quegli orrori. Perché? Non era né crudeltà, né umiliazione del popolo tedesco, ma l’esigenza d’una reazione emozionale, fino ad allora assente, di fronte alle politiche razziste. Si trattava di educare provocando emozioni. Le emozioni possono, infatti, essere medicine delle malattie dell’astratta ragione. Considerate: non c’è abiezione nel mondo che non abbia trovato la sua giustificazione razionale: perfino il razzismo, con le sue conseguenze, aveva dietro di sé secoli di filosofie. I Quaderni neri di Heidegger ne sono impregnati. Si pensa, in questi giorni, alla riedizione del Mein Kampf di Hitler. Anch’esso, per quanto si stenti ad ammetterlo, è opera della ragione: ragione aberrante, ma non per i nazisti di ieri e di oggi. I mostri non sono generati solo dal “sonno della ragione”: talora vengono dalle veglie della ragione. L’antidoto del razzismo è certo la dimostrazione scientifica dell’infondatezza delle sue basi storiche e biologiche; ma la confutazione definitiva sta nell’insostenibilità morale concreta, nella sfera delle emozioni, delle sue conseguenze viste e documentate. Ma, c’è un’obiezione che viene da un grande giurista del secolo scorso, Hans Kelsen, che dice “come le idee di giustizia razionali sono tante, così anche le emozioni”. Un latifondista e un bracciante reagiscono emotivamente in maniera diversa davanti a un provvedimento di esproprio. Il primo s’affligge, il secondo si rallegra. Al relativismo delle concezioni razionali corrisponde il relativismo delle emozioni. Vero. Forse, però, riusciamo a individuare un terreno di comunanza tra tutti gli esseri umani se pensiamo non alla giustizia massima, ma all’ingiustizia massima. Di fronte all’ingiustizia massima forse tutti noi reagiamo nel medesimo modo. In I fratelli Karamazov c’è un dialogo sul tema dell’ingiustizia nel mondo. Ivan Karamazov, dice: “nel mondo regna l’ingiustizia, io lo rifiuto e il mio destino è il suicidio”. Porta alcuni esempi di ingiustizia radicale, somma, da ogni punto di vista intollerabile. È il male inferto agli innocenti. Chi sono gli innocenti? Sono gli animali e i bimbi. Una cavallina tirava un pesante carretto per una salita, cascava e continuava a cascare e il padrone la frusta fino alla morte sugli occhi dolci che lo guardano. Un principe russo, preparandosi alla caccia, ordina ai servi di scatenare i cani per far sbranare, davanti alla madre serva della gleba, il bimbo che giocando con una pietra aveva azzoppato uno di quelli. Ditemi voi se, di fronte a ingiustizie di questo genere, non reagiremmo tutti nello stesso modo emozionalmente, al di sopra delle nostre divisioni razionali. Gli atti aberranti cui gli uomini sono spesso indotti presuppongono che si spenga il loro senso di umanità. Gli uomini dei Sonderkommando (squadre di ebrei che conducevano altri ebrei alla morte: averle concepite è stato il delitto più demoniaco del nazismo, ha scritto Primo Levi) erano privati della loro umanità da grandi distribuzioni di alcolici. Lo stesso, per i reparti militari incaricati delle esecuzioni di massa. Analogo effetto degli stupefacenti si otteneva con la propaganda martellante e i lavaggi del cervello. Ciò sta a dire che, senza l’avvelenamento della psiche, l’umanità si sarebbe ribellata. Concludo così. La giustizia solo razionale può diventare un mostro assassino. Se vogliamo cercare punti di accordo, non dobbiamo mirare alle utopie, alle “città del sole”, alla giustizia con la G maiuscola. Dobbiamo accontentarci, nel tempo che viviamo, del rifiuto dell’ingiustizia radicale. Sarebbe già una rivoluzione. Resta un’ultima considerazione. Si pensa che le passioni sfuggano a ogni regola. Ma è davvero così? O non dovremmo, invece, pensare all’educazione, nelle scuole e nelle nostre vite, anche delle nostre tendenze passionali, per orientarle nel senso dell’umanità? Grande questione pedagogica. E non dovremmo sottoporre a controllo l’uso che ne può fare la politica? Grande questione democratica. Nell’anno della paura, reati in calo del 10% di Claudia Fusani L’Unità, 24 dicembre 2015 Bilancio di fine anno del ministro dell’Interno. Diminuiscono omicidi e rapine. Stanziato un miliardo per la sicurezza. Gli sbarchi ridotti del 12,9 per cento. Aperto il secondo hot spot. Respinte il 58% delle richieste di asilo. Ma restano in Italia. L’anno peggiore, dopo il 2001, alla voce sicurezza diventa nei bilanci di fine anno l’anno migliore. Con i dovuti scongiuri, che anche il ministro Alfano fa con garbo e pudore, il 2015 segna un calo del 10,2% dei delitti. L’Italia che sta per varare una nuova legge sulla legittima difesa, che ha un milione e 100 mila armi detenute legalmente nelle case e ha imparato a sparare in caso di rapina, registra il 13% in meno di rapine (per l’appunto), il 9 per cento in meno di furti e l’11,16 per cento di omicidi. Non siamo la Svizzera ma neppure quella terra di nessuno secondo la narrazione leghista sulle rapine in casa e l’assedio fuori controllo degli immigrati. Numeri che fanno allargare il sorriso al ministro dell’Interno Angelino nella consueta cerimonia di bilancio annuale sullo stato della sicurezza alla presenza del capo della Polizia Alessandro Pansa, del comandante generale dei carabinieri Tullio Del Sette e della Guardia di Finanza il generale Saverio Capolupo. E che fanno a cazzotti con quella che è la percezione dei cittadini per cui invece il senso di insicurezza è in aumento. Una forbice tra reale e percepito che dalle stragi di Parigi è tenuta sotto controllo grazie alla massiccia presenza di uomini in divisa e soldati nella strade e nelle piazze che hanno anche contribuito al crollo dei reati (- 30 % solo a Roma). I record dell’antiterrorismo. Il 2015 si è aperto e chiuso con le stragi di Parigi, i17 gennaio l’attacco al giornale satirico Charlie Hebdo e il 13 novembre con l’attacco multiplo allo stadio, al Bataclan e ai ristoranti del X e XI arrondissment. L’Italia ha risposto alle minacce e alla legittima paura con un anno da record: 67 cittadini espulsi dalla fine del 2014 perché stranieri radicalizzati nel nostro paese soprattutto sul web ma con profili non sufficienti per motivare l’arresto; 259 arresti nell’ambito dell’integralismo religioso; 74.177 persone controllate perché sospette (significa una preziosa banca dati di nomi e profili); 489 persone indagate; 90 foreign fighters monitorati di cui 18 deceduti e 14 tornati in Italia. Su questo preoccupa che il numero è quasi raddoppiato nell’arco di sedici mesi. Nella prevenzione la battaglia si consuma soprattutto sul web grazie anche alla collaborazione con il Viminale e il ministero della Giustizia da parte delle grandi aziende digitali: sono 6.636 i contenuti web di propaganda jihadista oscurati grazie alla nuova legge antiterrorismo. Il decreto approvato a marzo scorso è stato infatti il passpartout che ha permesso a polizia, carabinieri, finanza, 007 e magistratura di ottimizzare sotto tutti i profili prevenzione e indagini antiterrorismo. I patrimoni delle mafie. Di Matteo Messina Denaro, il n.1 di Cosa Nostra, non c’è ancora traccia sebbene il suo cordone di protezione e prestanome perda pezzi mese dopo mese. Detto questo, oltre ai 53 latitanti e ai 1.794 presunti mafiosi arrestati, sono stati sequestrati beni per un valore di 4 milioni e 243 mila euro a cui corrispondono 616 milioni di beni già confiscati e disponibili quindi per lo Stato. Il ministro ha precisato che anche quest’anno il FUG (Fondo unico giustizia, il destinatario dei patrimoni confiscati) destinerà40 milioni al reparto sicurezza. A cui si aggiunge il miliardo della legge di Stabilità. Diminuiti gli sbarchi. L’annus horribilis anche sul fronte dell’immigrazione si chiude con un saldo positivo nei numeri. Luci e ombre invece con Bruxelles che ha avviato l’ennesima procedura di infrazione. “Dovrebbe invece farne una di ringraziamento” dice Alfano. Gli sbarchi sono diminuiti del 12,9% rispetto al 2014. Prevedibile, si dirà, visto che i flussi della disperazione hanno aperto la strada dei Balcani dando ad un altro specchio di mare, l’Egeo tra la Turchia e la Grecia, il primato degli orrori, e delle tragedie. Sono 144.205 i migranti sbarcati sulle coste italiane e 636 gli scafisti arrestati. Nel 90% dei casi sono partiti dalla Libia, “a dimostrazione - dice il ministro - di come la stabilizzazione del quadro libico sia fondamentale anche per fronteggiare il fenomeno e per costruire là, nel nord africa, campi dove poter smistare in partenza chi ha diritto e chi no”. I profughi “italiani” vengono da Eritrea (37.882), Nigeria (20.171) e Somalia (11.242), questi ultimi due in forte aumento. Bruxelles ci accusa di non identificare profughi ed immigrati come previsto dai protocolli. “Siamo all’80% delle identificazioni” ribatte Alfano che ha davanti a sé il sottosegretario con delega all’immigrazione Domenico Manzione e il prefetto Mario Morcone. A giugno eravamo al 60%. Una settimana fa è stato aperto anche il secondo hot spot a Pozzallo, altri 500 posti oltre a quelli già attivi da settembre a Lampedusa. Siamo decisamente migliorati. Anche sui tempi di esame delle richieste di asilo: ne sono state esaminate 1’83%. Il problema sono le domande respinte, il 58%, migliaia di persone che restano in Italia, fanno ricorso al Tar e sono nei fatti clandestini. Un problema soprattutto giuridico ancora non risolto. “Sono necessari i rimpatri assistiti organizzati da Bruxelles”. Peccato non possa fare l’Italia una procedura d’infrazione a Bruxelles. Mattarella firma la grazia agli 007 della Cia condannati per il rapimento Abu Omar di Umberto Rosso La Repubblica, 24 dicembre 2015 Atto di clemenza “simbolico” per Seldon Lady e Medero, condannati per il rapimento Abu Omar e già liberi negli Stati Uniti. Con loro perdonato anche Massimo Romani, in Thailandia prese 40 anni per droga. Mattarella firma i decreti di grazia per due 007 americani del clamoroso sequestro di Abu Omar, è un provvedimento che assume anche “una forte carica simbolica come riconoscimento al nuovo corso nelle politiche di sicurezza della Casa Bianca”. Non avrà, comunque, nessuna conseguenza pratica nella scarcerazione dei due, “perché gli ex agenti della Cia dopo i fatti di cui sono accusati non hanno più messo in piede nel nostro paese, e negli Usa sono sempre stati in libertà”. Dal Quirinale filtra questa doppia chiave di lettura per la decisione del presidente Mattarella di concedere la grazia alle due super-spie della Cia coinvolte nel 2003 nel rapimento a Milano dell’imam Abu Omar. Il presidente della Repubblica ha “tagliato” due anni (da nove a sette da scontare) all’ex capo della “stazione milanese” dell’Agenzia, Robert Seldon Lady. Grazia completa invece per la 007 in gonnella Betnie Medero, con cancellazione dei tre anni e dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici che gli era stata inflitta dalla Corte di appello di Milano come pena accessoria. Mattarella ha inteso così “riequilibrare” le pene comminate ai due rispetto agli altri della “spedizione” di viale Jenner. Ma, appunto, né l’uno né l’altra, come del resto nessuno delle 24 spie americane condannate per la “extraordinary rendition” ha mai trascorso un giorno in cella in Italia. Napolitano, due anni fa, aveva già graziato il colonnello Joseph Romano, il capo della base di Aviano dove venne condotto Abu Omar prima di finire rinchiuso in Egitto, dove fu anche torturato. I vertici dei servizi italiani, Pollari e Mancini, dopo una prima condanna, sono stati prosciolti in Cassazione. Sergio Mattarella ha firmato ieri pure un terzo decreto di grazia, per Massimo Romani, che in Thailandia era stato condannato a quaranta anni per detenzione di stupefacenti, dal 2008 in carcere prima nel paese asiatico e poi in Italia. Per lui si spalancheranno adesso le porte della cella, in considerazione della “pena abnorme” rispetto alla legislazione italiana che gli era stata inflitta in Thailandia. Nella concessione dei provvedimenti di clemenza ai due funzionari dell’intelligence americana, nelle considerazioni di Sergio Mattarella hanno pesato - accanto al nulla osta arrivato dal ministero di Grazia e Giustizia - anche le valutazioni sul cambio di rotta dell’amministrazione Obama. Il capo dello Stato ha considerato la circostanza che “gli Stati Uniti, con Obama, hanno interrotto la pratica delle extraordinary renditions, giudicata dall’Italia e dalla Ue non compatibile con i principi fondamentali di uno Stato di diritto”. E un peso nelle decisioni di Mattarella, che a febbraio volerà negli Usa, ha avuto di riflesso anche la vicenda dei due nostri marò. Un provvedimento di grazia che il capo dello Stato spera possa essere da esempio per le autorità indiane e che comunque dovrebbe mettere gli americani dalla nostra parte, nel lungo braccio di ferro internazionale per liberare Girone e Latorre. Ma la giustizia “meglio tardi che mai” è ancora giustizia? di Vittorio Feltri Il Giornale, 24 dicembre 2015 Quando viene arrestato un criminale incallito c’è da essere soddisfatti, di più: salti di gaudio. A Torino hanno ammanettato un ‘ndranghetista con un ricco curriculum di fuorilegge, tale Rocco Schirripa, 62 anni, moglie e due figlie, ufficialmente panettiere e con molte illecite attività collaterali. Per arrotondare spesso si delinque e ciascuno lo fa a proprio modo. Costui, stando alle informazioni diffuse, si dedicava al traffico internazionale di droga. Nel suo carnet spiccano altri reati: anche un tentato omicidio. Insomma non si tratta di un boyscout. Lo certificano un paio di condanne patteggiate e un po’ di carcere che nel caso non hanno prodotto effetti dissuasivi. Vabbè. Veniamo al sodo. Rocco Schirripa, origini calabresi (Gioiosa Ionica) è stato blindato con l’accusa di avere partecipato all’assassinio di Bruno Caccia nella circostanza a spasso con il cane, un cocker, all’epoca procuratore del capoluogo piemontese, nientemeno. La notizia che fa maggiore scalpore è la seguente: la cattura è avvenuta ieri, a trentadue anni e rotti di distanza dal fatto di sangue, quattordici colpi d’arma da fuoco, l’ultimo dei quali quello di grazia - sarebbe stato esploso dal signore, si fa per dire, di cui stiamo parlando non in toni elogiativi. Ignoriamo come questi abbia potuto farla franca per tanto tempo. Evidentemente il soggetto in questione non è un apprendista nel campo della delinquenza. Non è finita. L’operazione è stata portata a termine dopo un’indagine che è superfluo definire lunga: trentadue anni sono un’eternità. Segnaliamo che a firmare gli atti conclusivi sono due magistrati: Ilda Boccassini - un nome, una garanzia - e Marcello Tatangelo. Cui vanno i nostri complimenti. Sulla dottoressa inutile spendere parole, essendo costei la magistrati più famosa d’Italia, autrice di inchieste memorabili che hanno fatto rumore a Milano e sollevato discussioni a volte esagerate, altre giustificate. Su Tatangelo non ci esprimiamo, poiché non abbiamo il piacere di conoscerlo. Se però lo dovessimo giudicare dalla prodezza che andiamo descrivendo, giù il cappello. Rimangono alcune considerazioni sulla tempistica. Come mai per decenni l’omicida (ammesso e non concesso che le accuse siano fondate) anziché in galera ha trascorso la propria esistenza sfornando pane fragrante nel proprio esercizio? Come ha potuto ingannare gli investigatori? Sono incognite che meriterebbero di essere scoperte e divulgate. Una giustizia dall’andatura così lumachesca suscita apprensione. Ci auguriamo di non trovarci di fronte a un altro errore giudiziario. Intendiamoci, non è nostra intenzione impegnarci in una difesa d’ufficio dell’arrestato e neppure dubitare della professionalità dei citati magistrati. Al contrario, siamo certi che essi abbiano svolto un lavoro eccellente. Tuttavia è opportuno domandarsi che cosa sia successo dal 26 giugno 1983 (data del delitto) a ieri. Anche perché, trascorsi tanti lustri, non sarà - supponiamo - facile incastrare con prove inconfutabili Rocco Schirripa, personaggio non limpido e con alle spalle un carrierone da ‘ndranghetista, ma non per questo indegno di usufruire del garantismo concesso, si spera, a chiunque abbia delle grane giudiziarie. D’accordo, meglio una giustizia lenta (della quale avevamo già nozione) che una giustizia impotente. D’altronde, gli omicidi non vanno mai in prescrizione. Però ci sia concesso chiedere alla dottoressa Boccassini e al dottor Tatangelo qualche ragguaglio sulla vicenda che ci permetta di essere più sereni e fiduciosi. Grazie. Pistoia: detenuti utili per la comunità, anche nel 2016 il progetto di reinserimento gonews.it, 24 dicembre 2015 Anche per il 2016-2017 l’amministrazione comunale ha deciso di proseguire con i progetti di inserimento lavorativo rivolti ai detenuti della casa Circondariale di Pistoia che tornerà ad ospitare un numero adeguato di detenuti dopo il previsto intervento di recupero per i danni provocati dal vento dello scorso marzo. Nel biennio 2014 2015 sono stati sette i detenuti che hanno svolto attività di pubblica utilità attraverso il loro inserimento nel gruppo dei dipendenti del cantiere comunale adattandosi alle stesse modalità organizzative. L’attività è consistita nella manutenzione ordinaria o straordinaria degli spazi o edifici di competenza comunale, lavori di risanamento, messa in sicurezza di situazioni pericolose, assistenza tecnica in occasioni di elezioni, lavori di montaggio per manifestazioni di vario genere (artistiche, ricreative, sportive), operazioni di soccorso in caso di calamità naturali da svolgere secondo le indicazioni impartite dai referenti del Servizio. Con Delibera del 2013 fu delineato il mandato istituzionale che prevede la promozione del valore della cultura, del lavoro per il recupero dei detenuti e degli internati attraverso lo svolgimento di attività di pubblica utilità con l’obiettivo del reinserimento sociale e della riqualificazione dei detenuti che hanno ricevuto buoni lavoro (voucher Inps) in base all’impegno e al rispetto di quanto concordato nel provvedimento di ammissione al percorso. Durante gli incontri di équipe svolti con i referenti dei servizi sociali è emersa una buona capacità di adattamento da parte dei detenuti, un’ottima manualità nell’utilizzo degli strumenti ed una prontezza ad intraprendere iniziative legate allo svolgimento delle attività. I progetti che partiranno nel 2016-2017 sono due, entrambi per attività da svolgere in prima battuta presso il cantiere comunale: il primo è quello relativo alla prosecuzione del progetto “Inserimento lavorativo per detenuti” che prevede indicativamente l’inclusione di 6 detenuti. Il secondo, un nuovo progetto sperimentale, ha la caratteristica di essere finalizzato ad attività di volontariato, ovvero senza retribuzione. “Attivare interventi di trattamento rieducativo per i detenuti tramite lo svolgimento di lavori di pubblica utilità significa - afferma l’assessore alle politiche sociali Tina Nuti - ridurre le ricadute nel reato quindi, oltre a permettere ai detenuti di recuperare una propria autonomia uscendo da forme di assistenzialismo, determinerà progressivamente la condizione di maggiore sicurezza per la città e per i cittadini”. Parma: i Radicali “in Via Burla detenuti stranieri discriminati” parmaquotidiano.info, 24 dicembre 2015 Si è concluso con una visita ispettiva nel carcere di via Burla, nella giornata di martedì 22, l’anno associativo dei radicali di Parma. Accompagnata dalla vice comandante Samantha Mauro, la delegazione, guidata dal segretario provinciale Marcomaria Freddi, ha visitato la sezione di media sicurezza. Durante la visita l’attenzione dei delegati si è soffermata in particolar modo sugli spazi destinati ai disabili e agli extracomunitari. “Dopo aver visitato l’area destinata prevalentemente a detenuti di origine italiana o comunque comunitaria, dove è stata notata la presenza di ampi spazi ricreativi, un laboratorio di pasticceria e condizioni generali e igieniche di buon livello, abbiamo riscontrato un significativo contrasto delle condizioni negli spazi destinati a disabili ed extracomunitari - ha spiegato Marcomaria Freddi -. Rilevata la contraddizione di una così schiacciante separazione tra comunità, le persone di origine straniera da noi intervistate lamentavano la mancanza di spazi ricreativi e il forte sentimento di esclusione”. La visita rientra in un programma di attenzione verso le condizioni delle carceri italiane promosso dal Partito Radicale, ad autorizzare ogni ispezione è direttamente il Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria. “La sinergia con il Dipartimento è un riconoscimento del lavoro svolto dai radicali nelle carceri italiane, strutture che sono l’emblema del tradimento dello stato di diritto nel nostro paese” ha dichiarato Freddi. Durante il 2016 le visite proseguiranno con cadenza mensile ed in ogni occasione ispezioneremo una differente area prestando attenzione non soltanto alle condizioni dei detenuti ma anche a quelle degli agenti di polizia penitenziaria, anch’essi vittime di questo sistema. Cagliari: Sdr; Natale dietro sbarre per nonnina 83 anni, detenuta più anziana d’Italia Ristretti Orizzonti, 24 dicembre 2015 “Il prossimo 8 marzo compirà 83 anni. È la detenuta più anziana d’Italia, ma trascorrerà Natale e Santo Stefano, giorno del suo onomastico, dietro le sbarre. Stefanina Malu, la nonnina della Casa Circondariale di Cagliari-Uta, resterà in carcere. Nonostante le condizioni di salute precarie e l’età avanzata, la donna si è vista respingere l’istanza per ottenere gli arresti domiciliari. Una scelta certamente meditata ma che in considerazione dell’età lascia perplessi”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, avendo appreso che “la donna ha recentemente manifestato problemi respiratori e cardiologici”. “In particolare nelle ultime settimane, Stefanina Malu è apparsa - afferma Caligaris - depressa e confusa. Durante i colloqui con i volontari ha manifestato mancanza di memoria e una viva preoccupazione per la sua salute. Le sue condizioni sono costantemente monitorate dai Medici ma non lasciano indifferenti le Agenti della Polizia Penitenziaria che mostrano nei suoi riguardi una particolare attenzione”. “Affetta da numerosi gravi disturbi tra cui cardiopatia ipertensiva e aneurisma dell’aorta addominale, aveva ottenuto per le condizioni di salute il differimento della pena nel 2009. Era stata nuovamente condotta in carcere nel giugno 2012 perché le sue condizioni di salute erano risultate discrete a una visita di controllo. Successivamente era tornata a casa anche per poter accudire il figlio Casimiro non autosufficiente, poi deceduto. Durante i domiciliari però non avrebbe tenuto un comportamento corretto e ciò ha comportato il suo ritorno dietro le sbarre”. “Si tratta di una persona con una storia personale e familiare non certo esemplare ma vederla in una cella della Casa Circondariale in condizioni di sofferenza - conclude la presidente di SDR - non può lasciare indifferenti, anche perché l’età avanzata e la depressione senile limitano le attività trattamentali e di recupero sociale. Forse un ricovero in una Residenza Sanitaria potrebbe ridurre i disagi consentendo all’anziana donna una condizione più idonea ai suoi problemi e più dignitosa”. Livorno: gli auguri al mondo del carcere di Porto Azzurro di Nunzio Marotti (Garante dei diritti dei detenuti di Porto Azzurro) elbareport.it, 24 dicembre 2015 Quest’anno desidero rivolgere pubblicamente gli auguri natalizi e di Buon 2016 a quanti, a vario titolo, hanno a che fare con la Casa di reclusione di Porto Azzurro. Con la speranza di non dimenticare qualcuno. Il primo augurio va al nuovo direttore, Francesco D’Anselmo, da sei mesi alla guida dell’Istituto elbano. Gli auguro di vivere sempre con entusiasmo il suo ruolo, continuando a mettere al primo posto la seconda opportunità per chi ha sbagliato. Che questo anno veda concretizzarsi alcune delle necessarie e belle iniziative in programma, rafforzando quanto già fatto dal suo arrivo. Un augurio va al nuovo comandante della polizia penitenziaria, Giuliana Perrini, e per suo tramite a tutti gli agenti. Il loro operato è apprezzabile: non è facile tenere insieme esigenze della sicurezza, del trattamento e della relazione. Per questo è richiesto equilibrio, competenza e umanità che sono presenti ma sempre messi alla prova da nuove sfide, legate alle storie delle persone e alle situazioni sociali. Un altro augurio è per gli educatori che sostengono il peso dell’azione trattamentale. Un lavoro complesso e delicato svolto con competenza. C’è da augurarsi che l’area venga potenziata per poter dare respiro (soprattutto nei momenti di maggior carico) e sviluppare ulteriori attività da affiancare a quelle esistenti. Auguri al personale amministrativo e a tutte le figure professionali presenti, dalle sanitarie alle sociali fino a quelle scolastiche. Auguri ai volontari che contribuiscono al raggiungimento degli obiettivi costituzionali della rieducazione e del reinserimento sociale della persona condannata: auguro di poter trovare nuovi volontari e risorse sul territorio elbano. Gli auguri vanno anche a tutte le istituzioni e i privati che collaborano con il carcere in varie forme, anche offrendo soluzioni lavorative per i detenuti. Infine, ma non certo per importanza, auguri a coloro per i quali esiste il carcere di Porto Azzurro. Ai detenuti l’augurio che il periodo detentivo rappresenti una crescita in consapevolezza e dignità personale: un ripensamento del proprio passato per non ripetere gli errori, un potenziamento delle proprie capacità umane, culturali e lavorative, la possibilità di esprimere la parte bella che è in ciascuno di noi senza alcuna eccezione. E auguri anche per il territorio elbano, perché il carcere non sia realtà lontana e dimenticata, ma risorsa per tutti, anche creando occasioni per rispondere alla richiesta degli stessi detenuti di poter risarcire la collettività attraverso i lavori socialmente utili e il volontariato. Spero che il penitenziario di Porto Azzurro possa ritrovare (e la speranza è fondata) quello stile che lo ha contraddistinto nel passato, con una ricchezza di opportunità lavorative e culturali. Perché rendo pubblici questi auguri? Perché possano esprimere e contribuire a rafforzare il legame fra il territorio e il “suo” carcere. Del resto, il ruolo di garante è anche quello di essere ponte fra l’interno e l’esterno. Una figura voluta con consapevole sensibilità dal sindaco Luca Simoni e dal consiglio comunale, ai quali rivolgo l’augurio di serenità e impegno. Francia: stato d’emergenza e strappo nello ius soli di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 24 dicembre 2015 Riforma costituzionale in Francia. Hollande lacera la sinistra. Front de Gauche, verdi e parte del Ps indignati per la proposta di privazione della nazionalità. Riforma costituzionale in Francia. Hollande lacera la sinistra. Front de Gauche, verdi e parte del Ps indignati per la proposta di privazione della nazionalità per i bi-nazionali condannati per terrorismo nati francesi. “È una vittoria ideologica del Fronte nazionale”. La ministra Taubira in difficoltà Una lacerazione nella sinistra e nei suoi valori. E, peggio ancora, uno strappo nella Carta dei diritti fondamentali, con una rimessa in causa dello jus soli a livello costituzionale. Ieri, è stata presentata in Consiglio dei ministri la riforma della Costituzione, che sarà sottoposta al voto dell’Assemblea dal 3 febbraio prossimo e in seguito passerà al vaglio del Senato. La riforma contiene due proposte dirompenti, decise sull’onda dell’emozione e della paura create dagli attentati del 13 novembre: l’introduzione dello stato d’emergenza nella Costituzione e l’estensione della possibilità di ritirare la nazionalità francese a tutti i cittadini con un doppio passaporto, anche coloro che sono nati francesi, in caso di condanna definitiva per terrorismo. Una prova di forza. Hollande ha voluto dare una prova di forza, mostrare che “mantiene la parola”, spiegano al governo, dopo il discorso marziale fatto di fronte al Congresso (Assemblea e Senato riuniti) lo scorso 22 novembre. La ministra della giustizia, Christiane Taubira, che alla vigilia in un’intervista a una radio algerina aveva assicurato che la riforma costituzionale non avrebbe contenuto la privazione della cittadinanza per i bi-nazionali nati francesi. è messa in scacco, anche perché dovrà difendere la proposta che non approva. L’opposizione chiede le sue dimissioni. La Francia si mostra con il volto di Hobbes. La costituzionalizzazione dello stato d’emergenza mira soprattutto ad evitare che la decisione del governo di imporre uno stato d’eccezione nel paese possa venire contestata come anti-costituzionale. Oggi in Francia vige lo stato d’emergenza, imposto il giorno dopo gli attentati del 13 novembre e riconfermato per tre mesi (fino al 26 febbraio) dal parlamento, senza che questa misura sia inscritta nella Costituzione. Il governo, sulla scia dell’emozione sollevata dal massacro del 13 novembre e a causa della “minaccia” terroristica che sussiste, ha evitato espressamente che ci fossero eventuali ricorsi sulla costituzionalità, ma con la riforma proposta evita definitivamente questo rischio per il futuro. Valls ha annunciato che la fine dello stato d’emergenza non è vicina: “Il rischio non è mai stato così grande” di nuovi attentati, un migliaio di francesi combattono in Siria o in Iraq per la jihad. L’impossibilità di contestare l’imposizione dello stato d’emergenza apre nel futuro la porta a tutte le derive: eludendo il potere giudiziario, la polizia potrà proibire, per esempio, le manifestazioni, invocando il rischio per l’ordine pubblico. Le quasi 3mila perquisizioni e i domiciliari decisi in modo extragiudiziario contro dei militanti ecologisti durante la Cop21 hanno già mostrato all’opera queste derive. Una “misura simbolica”. Sulla privazione della nazionalità, Valls ha ammesso che si tratta di una “misura simbolica”. Il primo ministro è stato dubbioso fino all’ultimo su questa decisione, contestata da Taubira ma appoggiata nel governo dalla “guardia ravvicinata” di Hollande (Jean-Yves Le Drian ministro della Difesa, Ségolène Royal, responsabile dell’Ecologia). Valls chiede l’union sacrée contro il terrorismo a tutte le forze politiche, ma il dibattito all’Assemblea sarà infuocato e il risultato resta incerto, visto che ci vogliono i due terzi dei voti per una riforma costituzionale. Il Ps è spaccato, molti parlamentari voteranno contro, l’ala sinistra è indignata e la direzione si è limitata a pubblicare un comunicato laconico: “Il governo segue il parere del Consiglio di stato”, che aveva dato il via libera alla costituzionalizzazione dello stato d’emergenza, avvertendo però che sarebbe servito a poco. Il Front de gauche e Europa Ecologia si opporranno, i Verdi parlano di “scandalo assoluto”. La destra dovrebbe votare a favore, anche se ora molti chiedono di andare ancora più lontano. Florian Philippot, candidato sconfitto alla presidenza dell’Alsazia-Lorena-Champagne, ha annunciato un probabile voto favorevole dei parlamentari di estrema destra (2 deputati, 2 senatori) e ha sottolineato che Hollande si “marinizza”, cioè riprende le idee di Marine Le Pen. “È il risultato del voto delle regionali” afferma la leader frontista. L’economista Thomas Piketty ha riassunto l’indignazione che sta sollevando la proposta di riforma della Costituzione: “All’incompetenza economica ecco che il governo aggiunge l’infamia. Non contento di essersi sbagliato su tutta la linea sulla scelta delle politiche economiche fin dal 2012, con il risultato di un aumento della disoccupazione e della xenofobia, ecco che il governo francese si mette a correre dietro al Fronte nazionale imponendo una misura di privazione della nazionalità che la sinistra ha sempre combattuto, creando un’ineguaglianza insopportabile e stigmatizzante - oltre ad essere totalmente inutile e inefficace nella lotta al terrorismo - per milioni di francesi nati in Francia, il cui solo torto è di aver acquisito nel corso della vita una seconda nazionalità per ragioni famigliari”. Oggi, la privazione di nazionalità in caso di condanna per terrorismo è prevista per i soli naturalizzati da meno di 15 anni con doppio passaporto. Il precedente di Vichy. Il deputato socialista Pascal Cherqui voterà contro: “Come combattere l’estrema destra riprendendone il programma?”. Cherqui ricorda il precedente del regime di Vichy, quando Pétain aveva abrogato i decreti Crémieux che nel 1870 avevano dato la nazionalità francese agli ebrei d’Algeria (ma non agli arabi), una decisione che ha poi favorito la deportazione. La giustizia d’eccezione ha anche un riferimento a Vichy con i tribunali speciali, allora istituiti per gli anarchici e i comunisti. Olivier Dartigolles, portavoce del Pcf, parla di “catastrofe per i valori di sinistra, nella sostanza e nella forma”, di “momento doloroso per la République” e denuncia un “correre dietro al Fronte nazionale per i giochi politici del 2017”. È una mossa tattica di Hollande per mettere in difficoltà la destra e assicurarsi un posto al ballottaggio alle presidenziali, contro Marine Le Pen? “Miserabile e perdente”, taglia corto un socialista dell’ala sinistra. Siria: Amnesty accusa Mosca “200 civili uccisi” di Chiara Cruciati Il Manifesto, 24 dicembre 2015 “Crimini di guerra”, dice l’organizzazione. L’associazione Airwars conta le vittime dei raid Usa: oltre 700. Nella polemica si infila anche la Turchia per screditare la Russia nel giorno in cui Lavrov accoglie a Mosca il leader dell’Hdp, opposizione a Erdogan. Una carneficina dietro l’altra: a chi ancora si chiede, con falsa ingenuità, perché i siriani sfidino la morte in mare pur di fuggire basta guardare le immagini che arrivano da Aleppo, Idlib, Hama, Homs. La Siria, cuore del Medio Oriente e suo riferimento culturale, colonna del movimento panarabista, è devastata: città in macerie, malnutrizione, tifo, economia al collasso. Resta poco dello splendore architettonico e culturale e del benessere economico. A pagarne le spese sono i civili, nel mirino di tutti gli attori della guerra globale siriana e poi lasciati ai margini quando c’è da disegnare il futuro del paese, lontani dai tavoli del negoziato dove nessuno li rappresenta. Massacrati dallo Stato Islamico, schiavizzati, puniti, oppressi in nome di una falsa interpretazione dell’Islam; ostaggio degli scontri armati tra opposizioni e governo; target delle bombe dal cielo e dei missili da terra; “danni collaterali” delle coalizioni anti-terrorismo. Ieri nel mirino di Amnesty International è finita la Russia, fenice rinata dalla sue ceneri e oggi super potenza nel caotico campo di battaglia siriano: sono almeno 200 i civili - dice l’organizzazione internazionale - uccisi in raid lanciati da Mosca. Venticinque i raid registrati tra Aleppo, Idlib, Homs, in un periodo di due mesi, dal 30 settembre (quando iniziò la campagna aerea) al 29 novembre. Il rapporto si fonda su interviste telefoniche e testimonianze video e foto fornite dai residenti delle zone colpite. Tra i casi riportati un raid contro una moschea, uno contro un ospedale da campo, un terzo contro il mercato delle verdure nella città di Ariha e un altro contro un convoglio che trasportava aiuti umanitari ad Azaz. “Alcuni dei bombardamenti russi sembrano diretti ai civili perché colpiscono zone residenziali dove non ci sono evidenti target militari - spiega Philip Luther, direttore di Amnesty Medio Oriente e Nord Africa - Ciò risulta nella morte e il ferimento di civili. Sono attacchi che possono rientrare nella categoria dei crimini di guerra”. Un’accusa pesante che segue ad un’altra già mossa nelle settimane precedenti: la Russia avrebbe usato ad ottobre bombe a grappolo, ordigni vietati dal diritto internazionale. Mosca nega: il Comitato per la Difesa e la Sicurezza del Ministero della Difesa definisce il rapporto di Amnesty “una provocazione” e si dice sicuro che la comunità internazionale avrebbe sollevato la questione al Consiglio di Sicurezza dell’Onu se quanto denunciato fosse vero. La notte dove tutte le vacche sono nere: i jet della coalizione occidentale non sono certo più “precisi” di quelli russi. Secondo il gruppo Airwars i civili vittime di bombardamenti statunitensi, dall’agosto del 2014, sarebbero oltre 700. Difficile fare bilanci precisi a causa dell’ovvio ostracismo di Mosca e Washington, riluttanti a lavare i panni sporchi fuori casa. Anche la Turchia si infila nella polemica dei raid russi per screditare l’avversario: martedì Ankara è tornata ad accusare Mosca di aver colpito in modo indiscriminato la città di Idlib, uccidendo civili e miliziani delle opposizioni moderate. Gli fanno eco i gruppi armati a terra, secondo i quali i raid sulla città (occupata dai qaedisti di al-Nusra) avrebbero ucciso 40 persone, di cui molti civili. A interessare la Turchia non è tanto la sorte dei civili, avendo dimostrato in passato di non averla a cuore lasciando Kobane in pasto all’Isis, quanto la guerra fredda in corso con la Russia. Mosca risponde a tono: ieri il ministro degli Esteri Lavrov ha accolto nella capitale Selahattin Demirtas, leader del Partito Democratico del Popolo (Hdp), fazione di sinistra e opposizione all’Akp del presidente. Uno schiaffo in faccia ad Erdogan che ha visto in poche settimane sbriciolarsi anni di amichevoli relazioni diplomatiche ed economiche con la Russia. Il presidente russo Putin lo sa e assurge l’avversario Demirtas (che dovrebbe aprire un ufficio a Mosca, a mo’ di consolato per i turchi che lavorano e studiano in Russia) ad interlocutore sulla crisi. “Abbiamo criticato le azioni del governo quando l’aereo russo è stato abbattuto - ha detto ieri Demirtas a Lavrov - Dal primo giorno abbiamo dichiarato, come opposizione, di non sostenere la posizione di deterioramento delle relazioni con la Russia”. Da parte sua Lavrov si è detto pronto a cooperare con i kurdi che combattono l’Isis tra Siria e Iraq: “Sappiamo che ci sono kurdi siriani e iracheni tra quelli che resistono alla minaccia dello Stato Islamico, con le armi in pugno”. Mosca vuole infastidire ulteriormente Erdogan dialogando con chi viene considerato il portavoce del Pkk, il rappresentante politico dei kurdi turchi e quindi nemico da affossare come, con la violenza e la repressione, viene affossato il movimento popolare kurdo a sud-est della Turchia. Medio Oriente: Natale di sangue in Cisgiordania, quattro palestinesi uccisi La Repubblica, 24 dicembre 2015 I militari israeliani hanno ucciso due assalitori a Hebron e nella zona di Arile: un terzo è stato abbattuto dopo essersi lanciato con l’auto contro un gruppo di militari a Gerusalemme nord. Un altro morto durante scontri in un campo di rifugiati. La polizia indaga su un video in cui estremisti ebrei festeggiano la morte di un bambino palestinese bruciato vivo. Natale di sangue in Cisgiordania. Un palestinese armato di cacciavite ha cercato di colpire uomini della sicurezza israeliana vicino Hebron, in Cisgiordania, ed è stato ucciso a colpi di arma da fuoco. Lo ha annunciato l’esercito dello stato ebraico. “Le forze hanno risposto all’imminente minaccia, sventato l’attacco e sparato all’autore, che è morto”, ha spiegato in una nota l’esercito. Nelle stesse ore un altro palestinese ha attaccato e ferito in modo non grave con un coltello due guardie all’ingresso di una zona industriale all’interno dell’insediamento di Ariel, nel nord della Cisgiordania occupata: l’attentatore è stato ucciso. Un soldato israeliano è stato poi ferito in modo leggero da un auto lanciata contro un gruppo di militari in Cisgiordania a nord di Gerusalemme. Lo dice la Radio militare secondo cui l’assalitore è stato ucciso dalla reazione delle forze di sicurezza. È il terzo episodio della giornata e il terzo assalitore palestinese ucciso oggi. Scontri tra palestinesi e forze di sicurezza israeliane sono poi scoppiati in un campo rifugiati tra Ramallah e Gerusalemme e hanno provocato la morte di un palestinese. La notizia è stata diffusa da responsabili sanitari. Il ministero della sanità palestinese ha identificato l’uomo come Wissam Abu Ghuela. La situazione nei territori e in Israele resta molto tesa. La polizia israeliana ha aperto un’indagine su un video girato a una festa di nozze, in cui estremisti ebrei ballano, cantano e celebrano la morte del bimbo palestinese bruciato vivo in Cisgiordania nel luglio scorso. Le immagini, registrate una decina di giorni fa, mostrano il gruppo di ebrei ortodossi: alcuni danzano con pistole e coltelli, uno, con il volto coperto, ha una bomba molotov in mano, un altro pugnala la foto di Ali Dawabsheh. L’immagine poi passa di mano in mano finché non viene distrutta. Il piccolo, 18 mesi appena, morì nella casa paterna incendiata da ignoti ultrà ebrei, nel villaggio di Duma, in Cisgiordania. Secondo i media israeliani, la sposa del matrimonio è una nota militante dell’estrema destra israeliana, tra l’altro interrogata perché sospettata di azioni di “terrorismo ebraico”; e molti invitati erano amici o parenti proprio degli ultrà arrestati nel quadro della stessa inchiesta. Il video è stato condannato non solo dal premier, ma da esponenti dell’intero panorama politico. La spinta dell’Onu per la Libia “Sostegno al governo d’unità” di Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, 24 dicembre 2015 La risoluzione approvata ieri apre la strada a un impegno internazionale in Libia. Un paio di correzioni suggerite dai diplomatici russi e poi via libera alla risoluzione sulla Libia. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu l’ha approvata all’unanimità nella serata di ieri. Il testo riconosce, innanzitutto, l’accordo firmato dalle fazioni libiche di Tripoli e Tobruk lo scorso 17 dicembre a Skhirat, in Marocco. I venti punti del documento indicano quale dovrà essere la prospettiva della Nuova Libia. Entro il 17 gennaio l’esecutivo di transizione, il Consiglio di Presidenza, dovrà formare un governo di unità nazionale con sede a Tripoli. È il passo più difficile: vuol dire ricondurre le milizie, le 140 tribù sotto il tetto di uno Stato finito in frantumi nel 2011 con la cacciata di Gheddafi. L’accordo di Skhirat ha seminato divisioni. Si stima che almeno la metà dei deputati sia contraria, tanto nel Consiglio nazionale libico di Tripoli, dominato dagli islamisti, quanto nel Parlamento di Tobruk, l’unico riconosciuto a livello internazionale. I rappresentanti dei due organismi rivali hanno inviato una lettera al segretario dell’Onu, Ban Ki-moon per lamentare di essere stati tagliati fuori dall’intesa di Skhirat. La diplomazia russa ha ottenuto di discuterne nella riunione ristretta del Consiglio di sicurezza, tra i cinque membri permanenti (Stati Uniti, Cina, Francia, Gran Bretagna e appunto Russia). Risultato: una versione più morbida del punto 5 della risoluzione, dove si invitano “tutti i protagonisti” della crisi libica a “impegnarsi in modo costruttivo” con le nuove istituzioni nazionali. In questa prima fase il punto di riferimento sarà l’inviato Onu per la Libia, il tedesco Martin Kobler. Il Consiglio di Sicurezza “si appella a tutti gli Stati membri affinché sostengano gli sforzi per dare efficacia al governo di unità nazionale”. Il ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni, ieri, ha subito telefonato al premier designato, Fayez al Serraj, assicurando che l’Italia “è pronta a sostenere l’accordo di concordia nazionale secondo le necessità che verranno manifestate dal popolo libico”. Nello stesso tempo, però, la comunità mondiale insiste su un passaggio fondamentale: non ci possono essere alternative al percorso individuato a Skhirat. Ecco allora che sempre al punto numero 5 si legge: “Si fa appello a tutti gli Stati membri a interrompere ogni azione di sostegno con le istituzioni parallele che rivendicano un’autorità legittima al di fuori del quadro delineato dall’Accordo”. Qui si chiede a Egitto ed Emirati di interrompere i collegamenti con Tobruk e a Turchia e Qatar di fare altrettanto con Tripoli. Ci sarà, poi, il problema di riportare sotto il controllo del nuovo governo l’esercito del generale Haftar, oggi di stanza a Bengasi e largamente appoggiato dal presidente egiziano, Al Sisi. Qualsiasi missione internazionale, umanitaria o militare, dovrà essere sollecitata da Tripoli. È scritto con chiarezza nella risoluzione, a scanso di equivoci. Iran: 6 anni di carcere al regista curdo che ha “offeso le sacre istituzioni” di Marta Rizzo La Repubblica, 24 dicembre 2015 La condanna inflitta a Keywan Karimi. Nel 2015 sono state uccise oltre 850 persone e incalcolabile è il numero di chi entra ed esce dalle carceri del paese per oltraggi contro il regime. Campagne, petizioni, lettere in difesa di uno tra i perseguitati dalla teocrazia iraniana. Si chiama Keywan Karimi, 30 anni. La campagna internazionale che lo difende è #FreeKeywanKarimi. La sua condanna consiste in carcere e frustate. La sua colpa, come in un romanzo di Kafka, non esiste. O meglio, è un regista che racconta storie e in Iran è quasi impossibile scrivere, disegnare, raccontare, battersi per la libertà d’opinione. Karimi racconta la sua pena, con il trailer del film accusato L’accusa che non c’è. Il torto del regista di offendere le istituzioni sacre dell’Iran (istituzioni dello Stato e sacralità sono 2 concetti di per se stessi difficili da far coincidere), si fonda sul documentario Scrivere sulla città, mai proiettato, che tratta dell’uso dei graffiti dalla rivoluzione islamica del 1979 alla rielezione di Mahmoud Ahmadinejad, nel 2009. Secondo Karimi, colpevole è anche Frontiere Spezzate, cortometraggio sul contrabbando di gasolio verso il Kurdistan iracheno. Perché quando non esiste una colpa per la quale si è, però, accusati, la si trova comunque dentro di sé, quanto meno per non perdere la ragione. “Forse l’accusa di “insulto al sacro” - ipotizza Keywan Karimi stesso - si riferisce a una foto che avevo nel computer, in cui bacio mia cugina sulla guancia”. L’iter giudiziario Karimi. Il 14 dicembre 2013 la polizia entra in casa del regista, come ne Il Processo di Kafka; lo preleva, confisca i suoi materiali filmati, lo porta in carcere, dove è interrogato e tenuto in isolamento per due settimane. Il 26 dicembre 2013, Karimi viene rilasciato su cauzione. Tra marzo 2014 e settembre 2015, il regista si presenta in tribunale otto volte per fornire prove in sua difesa. Il 22 settembre viene condannato a due anni di carcere e 90 frustate per “aver insultato l’Islam”. Il 13 ottobre, però, la sentenza è di 6 anni di detenzione e 223 frustate. Karimi si difende, ora, preparando una causa d’appello, fissata il 23 dicembre. “Nel trailer ci sono immagini della polizia che colpisce studenti in corteo nel 2009, ma non le ho girate io - confida Karimi stesso - Mi hanno accusato di essere stato presente, invece non c’ero. Ho usato materiale d’archivio e non sono contro il mio paese. Certo, sono critico, ma voglio costruire, non distruggere. Spero che in Iran, dopo il patto sul nucleare, arrivino anche migliori condizioni per gli artisti, le donne, la libertà d’espressione”. Un caso tra migliaia, in Iran. Da Gennaio 2015 a oggi oltre 850 persone sono state uccise. Per quanto riguarda i dissidenti, come conferma la presidentessa di Iran Human Rights, Cristina Annunziata: “È assai difficile fornire un numero anche approssimativo degli arrestati: da oltre 40 anni, e dalle elezioni del 2009 soprattutto, attivisti, giornalisti, vignettisti, avvocati, poeti, intellettuali vengono perseguitati”. L’Esercito di Liberazione Nazionale dell’Iran, partito tra i più attivi nell’opposizione al regime teocratico che ha preso il potere dopo la rivoluzione del ‘79, attualmente propone un modello laico, nazionalista e islamo-socialista, ma è fuori legge e la magistratura teocratica fa sì che i dissidenti vengano impiccati, arrestati, stuprati, frustrati, torturati. Il caso Karimi, è dunque emblematico, ma il regista non è certo solo nel subire le violenze del regime. “Con la presidenza Rouhani si sperava in un cambio di rotta - denuncia Iran Human Rights - ma non si intravede, nemmeno con la fine delle sanzioni internazionali”. Difendere Karimi è una questione internazionale. Il regista, noto a livello internazionale per il cortometraggio L’avventura di due sposi, basato su una novella di Italo Calvino, è difeso da una campagna internazionale: #FreeKeywanKarimi. 137 cineasti iraniani, tra i quali il premio Oscar Jafar Panahi, colleghi stranieri, festival di cinema in Francia, Spagna e Italia hanno condannato l’arresto. Due documentari di Karimi, Marz-e Shekasteh (Broken Border) e Zendegi-e Zan va Shohar (La vita di un marito e moglie) hanno vinto premi internazionali. Lo difende il Festival di San Sabastian, il sindacato dei giornalisti e quello dei critici cinematografici in Italia, l’associazione 100 autori. La Casa del Cinema di Roma, a novembre scorso, ha ospitato un incontro sul suo caso. Amnesty International, Iran Human Rights, The voice of America, una petizione di 45 europarlamentari al Presidente iraniano, una petizione dall’India, la petizione per scongiurare la pena su change. org, una lettere di Iran Human Rights a Matteo Renzi perché anche le istituzioni si battano per l’assurda pena (perché proprio 223 frustate, non una di più e non una di meno, per esempio?). Diritti umani violati da sempre in Iran, ora più che mai. “Se la vicenda giudiziaria di Keywan Karimi fosse accaduta ai tempi di Ahmadinejad (e non c’è dubbio che avrebbe potuto accadere), il mondo si sarebbe mobilitato per impedire la sua condanna - denuncia Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International - Ora, sotto la presidenza di Rouhani, parlare di diritti umani in Iran è più difficile. Chiuso il dossier nucleare, si è aperta la caccia agli affari e agli scambi commerciali, con le imprese italiane in prima fila. Eppure, la situazione dei diritti umani non è cambiata da un presidente all’altro: giornalisti, artisti, difensori dei diritti umani, attivisti delle minoranze etniche e religiose continuano a finire in carcere. Negli ultimi giorni, dopo anni che non accadeva, una donna è stata condannata alla lapidazione”.