"Amnistia". Le parole censurate di Papa Francesco di Luigi Manconi Il Manifesto, 23 dicembre 2015 Per due volte il pontefice ha chiesto un’amnistia. Ma è sempre stato ignorato. Ogni parola pronunciata da Papa Francesco viene - giustamente, molto giustamente a mio parere - riportata con grande attenzione e ampio spazio. E viene spesso condivisa e approfondita. Ma anche questa regola prevede una eccezione e accade così che una parola del pontefice - quella parola - sia inesorabilmente censurata. E la parola è: amnistia. L’attuale papa la pronunciò una prima volta lo scorso settembre: "Il Giubileo ha sempre costituito l’opportunità di una grande amnistia, destinata a coinvolgere tante persone che, pur meritevoli di pena, hanno tuttavia preso coscienza dell’ingiustizia compiuta e desiderano sinceramente inserirsi di nuovo nella società portando il loro contributo onesto". Chiaro, no? Eppure si verificò un fatto singolare e istruttivo. Monsignor Rino Fisichella che, in qualità di presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, era il destinatario del documento, si affrettò manzonianamente a "sopire, troncare". Fisichella, da decenni definito "cappellano di Montecitorio" e aduso a comportarsi come tale, affermò che in quella lettera non c’era "alcuna intenzione di rivolgersi al governo e agli Stati". E così, "il monsignore più chic che c’è" (appellativo che un suo autorevole collega mi sussurrò un giorno all’orecchio) sostenne in sostanza che si era scherzato. Si potrebbe dire, uno scherzo da prete destinato a dare la baia a Giorgio Napolitano e ai radicali, al manifesto e a chi scrive, a numerosi e autorevoli giuristi e, soprattutto, a decine di migliaia di detenuti. Secondo Fisichella, insomma quella parola - amnistia - non andava presa alla lettera, non andava intesa in senso strettamente giuridico e non era indirizzata alle autorità politiche italiane e a quelle di altri paesi. La cosa venne così tanto apprezzata dalla classe politica, si fa per dire, laica, che la parola impronunciabile ritornò immediatamente nell’oblio. Ma ecco che il 16 dicembre, implacabile, il Pontefice riprende l’argomento e le sue parole non consentono più dubbi: "Desidero rinnovare l’appello alle autorità statali (attenzione: rinnovare, nda) per l’abolizione della pena di morte, là dove essa è ancora in vigore, e a considerare la possibilità di un’amnistia". E tuttavia anche questo secondo e vigoroso richiamo rimane assolutamente inascoltato: al punto che non si apre nemmeno uno straccio di discussione pubblica. Eppure - è proprio il caso di dire - dio solo sa quanto un’amnistia sia oggi indispensabile e indifferibile, tenuto conto che le positive misure adottate dagli ultimi due ministri della giustizia, Annamaria Cancellieri e Andrea Orlando, hanno deflazionato una situazione abnorme, ma certo non l’hanno avviata a soluzione. E se c’è stata una riduzione del sovraffollamento penitenziario, le condizioni complessive della reclusione in Italia restano drammatiche; e il sovraccarico di fascicoli e procedimenti per quanto riguarda l’amministrazione della giustizia penale, per limitarci a questa, costituisce un macigno che arriva a compromettere la stessa tenuta democratica del sistema. Ciò nonostante, quella parola o, meglio, quelle due parole, amnistia e indulto, rimangono sottoposte a censura. Una censura in primo luogo culturale e ideologica. E che è il frutto della combinazione perversa tra il populismo penale di una classe politica codarda e priva di autonomia e un senso comune nevrotizzato da campagne d’odio che producono allarme sociale e panico morale. Tutto ciò è già accaduto e tende a riprodursi all’infinito. Nel novembre del 2002 papa Giovanni Paolo II, in visita alla Camera dei deputati chiese "alle pubbliche istituzioni" di manifestare "un segno di clemenza" attraverso una "riduzione della pena per i detenuti". Ci vollero quasi quattro anni prima che il Parlamento approvasse quella "riduzione della pena" (l’indulto). C’è da chiedersi: quanto ce ne vorrà, oggi, di tempo? Buon Natale a tutti, custoditi e custodi. Alfano: "quest’anno reati in calo del 10%, presto nuovo Ddl su sicurezza urbana" Il Messaggero, 23 dicembre 2015 "Il 2015 è stato un anno positivo dal punto di vista della sicurezza, un anno che ha consentito di centrare molti importanti traguardi e di evitare che qualcosa di grave nel nostro Paese potesse accadere". Lo ha detto il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, nel corso della conferenza al Viminale, tracciando un bilancio dell’attività del 2015. Il ministro ha ringraziato tutte le forze dell’ordine e ha ricordato che il decreto approvato e poi convertito in Parlamento "ha funzionato". "I risultati raggiunti nel contrasto al terrorismo internazionale sono importanti, all’inizio dell’anno abbiamo approvato un decreto che ha funzionato. Questa notte abbiamo realizzato la 64esima espulsione dall’inizio 2015 e la 67sima espulsione dalla fine dello scorso anno". "Questa volta - ha detto il ministro - ad essere raggiunto dal provvedimento è stato un 30enne marocchino abitante a Bologna, era regolare, in attesa di permesso di soggiorno, impegnato sui social network a favore dell’Isis. È risultato essere un componente di una cellula operante in Marocco, operante in un forum. Si è trattato dunque di un ulteriore atto di forza del nostro paese in grado di individuare soggetti radicalizzati". "6.636 contenuti web di propaganda jihadista oscurati grazie alla nuova legge anti terrorismo". Oltre al dato sulle espulsioni "sono stati 259 gli arresti in ambito di integralismo religioso, - ha spiegato - 74177 le persone sospette controllate, 489 le persone indagate, oltre 11 mila i veicoli controllati e monitorati e 90 i foreign fighters, non tutti in Italia, di cui 18 già deceduti e 14 ritornati". "Abbiamo avuto fin qui meno 11,16% di omicidi, meno 13,8 percento di rapine e il 9,7 percento di furti. Un risultato molto importante e lo è ancora di più se viene letto in sequenza, perché il segno meno c’era già l’anno scorso, per un totale del meno 10,2 percento di delitti commessi nel paese nel 2015, che si somma al meno 7 percento scorso anno". "Nel nostro paese - ha continuato - stanno diminuendo i reati, è stata rafforzata l’azione di contrasto, si riduce l’indice di delittuosità anche se la percezione sembra differente dalla realtà". "Lavoriamo perché il 2016 sia ancora migliore del 2015. Oggi l’Italia è un paese più sicuro di tanti altri e lavora per essere ancora più sicuro". "Sono molto soddisfatto del dato sui furti e sulle rapine. Ciononostante penso si debba e si possa fare di più per il prossimo anno, per questo stiamo lavorando ad un disegno di legge che spero possa essere approvato rapidissimamente, sulla sicurezza urbana, che metta al centro il tema dei furti, sul quale investiremo tutte le nostre migliori energie. Non è possibile che in Italia ci si senta sotto attacco a casa propria". "Il 2015 è stato l’anno dell’Expo ed è stato anche l’anno del Giubileo. Per il Giubileo abbiamo fatto 2500 assunzioni straordinarie di unità di forze di polizia, 250 assunzioni straordinarie di Vigili del Fuoco, 1100 unità forze di polizia e sono stati assegnati 2271 militari per la vigilanza dei siti e degli obiettivi sensibili". Cucchi, il possibile movente: "non fece la spia sulla droga e fu pestato" di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 23 dicembre 2015 La testimonianza chiave di un detenuto vicino di cella del 31enne romano sentito dal pm Musarò nell’inchiesta-bis. C’è un possibile movente del "violentissimo pestaggio" subito da Stefano Cucchi, nelle carte dell’inchiesta bis che ha portato all’accusa contro tre carabinieri per le lesioni e altri due per falsa testimonianza. Ai militari-investigatori che cercavano informazioni sulla droga venduta (provenienza, fornitori, nascondigli), il trentunenne morto dopo una settimana di reclusione oppose un silenzio che potrebbe essere la causa delle percosse. Lo ha rivelato un nuovo testimone, ascoltato per la prima volta dalla Procura di Roma nel novembre 2014: Luigi L. ha 46 anni, è un ex detenuto che incontrò il geometra (tossicodipendente-spacciatore) nel centro clinico di Regina Coeli all’indomani dell’arresto; a confidargli la ragione delle botte, dice, fu proprio Stefano. "Io ero detenuto nella cella numero 3 al reparto Medicina - ha raccontato al pubblico ministero Giovanni Musarò -. Quando arrivò Cucchi lo vidi passare con la "zampogna" (cioè con gli effetti forniti all’amministrazione penitenziaria: una bacinella, una coperta, lo spazzolino, eccetera). Ricordo che si fermò davanti alla guardiola e io, quando lo vidi, immediatamente gli chiesi: "Chi ti ha ridotto così?". Cucchi alzò gli occhi al cielo e non mi rispose; forse ebbe paura a rispondere davanti all’agente della polizia penitenziaria, ma ritengo che fosse una paura infondata. Aveva il viso tumefatto... era evidente che era stato picchiato. Aveva tutto il viso gonfio, anche all’altezza del naso. In passato ho visto tante persone picchiate, ma non avevo mai visto nulla del genere". Il giorno successivo i due si incontrarono di nuovo, e Luigi L. tornò a fare domande: "Ricordo che non riusciva quasi a parlare, né a prendere il caffè, per come era ridotto. Aveva un forte dolore all’altezza della guancia destra... Aveva dolori dappertutto. Io in passato ho avuto diversi problemi con la polizia penitenziaria, per cui dissi al Cucchi che se era stata la Penitenziaria a ridurlo in quelle condizioni noi avremmo fatto un casino... Cucchi mi rispose che era stato picchiato dai carabinieri all’interno della prima caserma da cui era transitato nella notte dell’arresto. Aggiunse che era stato picchiato da due carabinieri in borghese, mentre un terzo, in divisa, diceva agli altri due di smetterla". Ed eccoci al motivo del pestaggio: "Quando mi disse di essere già comparso davanti a un giudice, io gli chiesi la ragione per la quale non avesse denunciato in aula quanto accaduto, ma lui rispose che non l’aveva fatto perché dopo l’udienza sarebbe stato preso in carico nuovamente dai carabinieri che lo avevano arrestato, i quali, se avesse denunciato, lo avrebbero picchiato di nuovo. Chiesi a Cucchi quale fosse stata la ragione di un pestaggio così violento e lui rispose: "Perché, non lo sai? E che dovevo fare, tu l’avresti fatto?". A quel punto compresi cosa intendeva dire e gli chiesi se gli avessero proposto di fare la fonte confidenziale (la "spia") e lui aveva rifiutato; il Cucchi mi fece intendere che le cose erano andate così e rispose: "Più o meno è andata come dici tu". A quel punto gli feci i complimenti e gli dissi: "Per me sei stato un grande"". Aggiunge il testimone che quando gli chiese di mostrargli i segni del pestaggio, Stefano "si tolse la maglietta; restai impressionato, sembrava una melanzana. In particolare faceva impressione la colonna vertebrale, che era di tanti colori (giallo, rosso, verde); aveva ecchimosi dappertutto". Per gli inquirenti Luigi L. è attendibile: altre persone hanno confermato i particolari riferiti, ma soprattutto il testimone - è scritto nell’informativa allegata alla richiesta di incidente probatorio, firmata dal capo della squadra mobile Luigi Silipo - "faceva riferimento a una circostanza che, nel momento in cui rendeva la dichiarazione, era ignota: il fatto che Cucchi avrebbe avuto un contatto diretto con due carabinieri in borghese". Un dettaglio svelato solo dalle nuove indagini; i due in borghese non comparivano nemmeno nei verbali d’arresto, non erano stati interrogati durante la prima inchiesta né al processo, e ora sono fra i nuovi indagati. L’ipotesi che da Cucchi i carabinieri volessero informazioni non deriva solo dal successivo ritrovamento, nella casa dove abitava da solo (sconosciuta agli investigatori), di un etto di cocaina e un chilo di hashish. In un’intercettazione telefonica del luglio scorso il maresciallo Roberto Mandolini - all’epoca dei fatti comandante della stazione dei carabinieri Roma Appia, ora indagato per falsa testimonianza - rivela a una sua interlocutrice che Cucchi in altre occasioni era stato collaborativo con i carabinieri: "Perché qualche nome gliel’ha fatto, e gli ha fatto fare altri arresti". Un particolare che Mandolini non riferì al processo, come tacque sui altri dettagli che gli avrebbe riferito lo stesso Cucchi; per esempio i presunti cattivi rapporti tra Stefano, i genitori e la sorella "che da due anni non gli faceva vedere i nipotini". Se le parole del maresciallo rispondessero a verità, e quindi se in passato Cucchi abbia fatto il confidente, rafforzerebbero l’ipotesi che i carabinieri pretendevano da lui nuove informazioni; soprattutto dopo l’inutile perquisizione a casa dei genitori. Altrimenti Mandolini (che poteva immaginare di essere intercettato) può aver tentato di screditare la figura del detenuto morto. Certamente il padre e la madre di Stefano, scoprendo che era riceduto nel giro della droga, poterono apparigli adirati e ostili. Con la conseguenza di provocare qualche atteggiamento violento da parte di Cucchi nei confronti dei carabinieri, come raccontano i nuovi indagati in qualche recente intercettazione. Con successiva reazione. Ma all’epoca nulla di tutto questo fu scritto nei verbali, né resistenze né altro. Perché? Solo Mandolini e i suoi colleghi possono sciogliere questi retroscena, ma quando sono stati convocati da inquisiti in Procura hanno preferito non rispondere alle domande del pm. Com’è loro diritto. Bruno Caccia, il giudice che aveva capito tutto di Marco Neirotti La Stampa, 23 dicembre 2015 Nella Torino criminale degli anni 80 ‘ndrangheta e clan dei catanesi in guerra. Caccia intuì dalle indagini sul riciclaggio che la mala stava facendo il salto di qualità. Dietro le sbarre Domenico Belfiore e Placido Barres durante il processo per l’assassinio del procuratore Bruno Caccia, celebrato a Milano nel 1989. Belfiore fu condannato all’ergastolo, Barresi assolto. "Hai visto Caccia? L’abbiamo fatto noi. Dovreste dirci grazie". Ha la parlata orgogliosa Domenico Belfiore, boss della ‘ndrangheta a Torino, quando, un anno e mezzo dopo l’assassinio del Procuratore, si confida in carcere con Francesco "Ciccio" Miano, il capo dei catanesi. Non sa che Ciccio è un pentito e gira per l’infermeria con un registratore nelle mutande. Catanesi e calabresi avevano trovato una convivenza nella spartizione degli affari, ma Belfiore guardava avanti e guardando avanti aveva intuito che non gli scontri fra mafie, bensì quel magistrato era la barriera inaggirabile tra loro e il futuro. Caccia aveva consapevolezza che il fenomeno cruento ma rozzo degli Anni 80 si stava affinando per entrare come olio in ogni tessuto della società attraverso il riciclaggio del denaro (allora assiduo nei casinò) per poi assimilarsi a commercio, impresa e di qui a politica e voti e appalti. "L’abbiamo fatto noi" era orgoglio d’un gesto feroce e orgoglio d’aver spianato la via. Da metà Anni 70 Torino viveva con inquietudine sui suoi marciapiedi le pagine noir di Giorgio Scerbanenco, ma a cavallo fra ‘70 e ‘80 era ancor più provata dalla cascata di sangue del terrorismo: dopo i primi omicidi (dall’avvocato Fulvio Croce a Carlo Casalegno e Carlo Ghiglieno) erano brucianti quelli dell’82 (le guardie Mondialpol Antonio Pedio e Sebastiano d’Alleo) e la lotta armata era priorità assoluta. E la mafia "liquida" si espandeva silenziosa. Torino nera aveva convissuto con una delinquenza arcaica che da casa e dai night club organizzava bische e prostituzione e cominciava a trovare appetitoso uno spaccio di droga ancora disordinato. Negli Anni 70 il capo indiscusso si chiamava Rosario Condorelli, catanese d’origine. Una sera, nel ‘75, entrò alla pizzeria Marechiaro, per mangiare un boccone, il commissario di polizia Francesco Rosano. Gli sguardi s’incrociarono, i due si riconobbero e Condorelli gli sparò subito, uccidendolo tra gli avventori. Torino capì che il "finché i malviventi si ammazzano fra loro..." non era una grande verità. La guerra "fra loro" ricominciò presto, e dura. Dalla stessa Catania salirono i fratelli Miano, Francesco detto "Ciccio" era il capo. Condorelli arrestato e incarcerato, i Miano fecero piazza pulita dei suoi. Presero possesso della città, a colpi di pistola e scalando nuovi affari, droga soprattutto, che apriva un altro fuoco, quello con i calabresi, fino allora impegnati più sul fronte dell’edilizia, del racket delle braccia, delle estorsioni, dei sequestri di persona. Se già i calabresi si muovevano in silenzio, più "liquidi" appunto, i catanesi erano spavaldi. Dirà poi Ciccio Miano: "Ero il capo. Avevo il mondo ai piedi. Mia moglie era una regina, i negozianti le regalavano tutto". Abitavano in un grande cascinale sontuosamente ristrutturato fuori Torino, nel cortile Ferrari e Mercedes. Incontravi uomini del clan nei bar. Uno di loro (poi finito con una palla da cinghiale in fronte sul pianerottolo di casa) sfotteva i cronisti affannati intorno a un telefono a gettoni: "Pieni di fantasia, ma, poveretti, devono mangiare anche loro". Il 28 settembre 1984, in lungo Dora Voghera, un ometto piccolo e tozzo, davanti a un distributore di benzina, uccide un uomo a rivoltellate. Passa una volante e la sparatoria si allarga. Lui si butta nel fiume e gli agenti dietro, lo catturano. Si chiama Salvatore Parisi, è il killer di fiducia dei Miano (confesserà sedici omicidi). In questura siede davanti a funzionari d’eccezione - Piero Sassi, Aldo Faraoni, Salvatore Longo, oggi questore di Torino - e con loro e con i magistrati incomincia a parlare. Come prova di credibilità, offre un nome e un indirizzo: la Squadra Mobile di Torino cattura Angelo Epaminonda, boss della malavita a Milano. È la fine dei catanesi. Si pente Ciccio Miano (suo fratello sarà ucciso per vendetta) e si presta alle registrazioni in carcere. "Caccia l’abbiamo fatto noi", gli dice Belfiore. Ma non svela a fondo la vera ragione, che nel clima di quegli Anni 80 era inquinata anche da fasulle e subito poco credibili rivendicazioni delle Br. Tanto che al maxiprocesso di terrorismo si alzò Francesco Piccioni dell’ala militarista e dichiarò: "Noi non c’entriamo. Quello è un omicidio al quale purtroppo siamo estranei". La ‘ndrangheta si ritrovò liberata in un colpo solo dall’ingombro dei catanesi e del magistrato che, partendo dal riciclaggio (proprio per questo filone d’indagine il 13 dicembre 1982 subì un attentato Giovanni Selis, magistrato ad Aosta), si muoveva in anticipo verso le future strategie affaristiche nel Nord. Quelle che troveremo nel 1995 con l’operazione Cartagine, nel 2012 con l’operazione Minotauro, nel 2010 con l’operazione Infinito. Il disegno per il quale andava eliminato l’uomo che trentadue anni fa costituiva la più potente barriera. Una lettera anonima al sospettato, così hanno incastrato il killer del giudice Caccia di Giuseppe Legato e Massimo Numa La Stampa, 23 dicembre 2015 La Questura di Torino aveva inviato alla famiglia Belfiore una missiva "per smuovere le acque". "Sai che c’è? C’è che non sto dormendo bene la notte. Per l’altra cosa sono tranquillissimo, ma c’è quest’altra storia che…la notte dormo male". Rocco Schirripa, uno dei componenti del commando che uccise il procuratore capo Bruno Caccia, ammazzato dalla ‘ndrangheta nel 1983, non si preoccupava minimamente della recente accusa di associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga che da un mese gli era arrivata tra capo e collo dopo un’indagine della squadra Mobile. Era tranquillo, per quella storia. Non dormiva per le lettere anonime - una pagina de La Stampa pubblicata il giorno dopo l’omicidio Caccia con scritti i nomi dei killer, tra cui il suo - che la Questura di Torino aveva inviato alla famiglia Belfiore "per smuovere le acque", per far riaffiorare discorsi sopiti dal tempo. Dove non sono arrivati 32 anni di indagini, decine di racconti di pentiti, altrettante informative e richieste di riaperture del caso, c’è arrivato un escamotage investigativo. Per decenni, i Belfiore non hanno mai parlato di quell’omicidio. Non lo ha fatto Mimmo, il capofamiglia che, in carcere, ha trascorso più di 30 anni in silenzio. Non ne aveva mai parlato Rocco Schirripa che a un vecchio boss della Torino nera destinatario di quella missiva rispondeva: "Assolutamente. Non ho mai parlato. Ma stiamo scherzando? Sono cose delicatissime queste". Ma quella lettera, quella pagina de La Stampa arrivata per posta a ottobre, li ha turbati molto. "Ormai mi sono fatto 20 anni e Mimmo ne ha passati 40 in carcere. Voglio capire perché è uscito fuori il nome di Rocco" dice uno dei Belfiore. Con un virus informatico inoculato nel tablet del vecchio capo malato Domenico e negli Iphone dei suoi parenti, la Mobile è riuscita a sentire tutto, trasformando quegli apparecchi in delle microspie ambientali. In 104 pagine di ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Stefania Pepe, Carte che svelano come non tutti i boss della malavita calabrese conoscano bene i meandri del diritto e del processo penale. Tutt’altro. In un’intercettazione Schirripa parla con gli uomini dei Belfiore: "Ma scusa - chiede - ma l’omicidio non va in prescrizione dopo 30 anni?". L’altro "Certo". E il killer: "Ma allora di cosa stiamo parlando?". Per l’imputato Nicola Cosentino una giustizia senza pietà di Marco Imarisio Corriere della Sera, 23 dicembre 2015 In occasione del Natale, dopo 28 mesi di custodia cautelare, 4 processi e nessuna sentenza, Nicola Cosentino non può neanche incontrare la moglie, che non vede da quasi un anno. Un trattamento che per ragioni di civiltà giuridica non è previsto neppure per i boss sottoposti al 41bis scatta invece nei confronti dell’ex sottosegretario berlusconiano e potente leader di opposizione in Campania. Perché? Il giudice si è opposto all’incontro per due ragioni. La prima: potrebbe compromettere i giudizi in corso. La seconda: Cosentino è in carcere a Terni, accusato, tra l’altro, di partecipazione esterna in associazione camorristica; la moglie è invece sottoposta all’obbligo di dimora a Caserta per tentata corruzione, essendo riuscita, tempo fa, a far pervenire al marito in cella oggetti non permessi, vale a dire un iPod con le loro canzoni preferite e una confezione di mozzarella di bufala. Esigenze cautelari e geografia, nonché debolezze sentimentali e alimentari hanno dunque prodotto l’effetto di un clamoroso accanimento giudiziario. Eppure, prima ancora di chiedersi a chi possa giovare una giustizia senza pietà - "contraria al senso di umanità", dice la Costituzione - qui si tratta di valutare cui prodest una giustizia del tutto priva di logica. L’illogicità sta nel fatto che Cosentino e la moglie possono, con una certa frequenza, sia parlarsi al telefono, sia scambiarsi lettere. Quello che invece non possono fare è incontrarsi, cioè guardarsi negli occhi o sfiorarsi con una carezza. E non possono farlo sebbene parole anche sussurrate e gesti appena accennati non sfuggirebbero alla videosorveglianza del carcere. Colpisce, poi, il paradosso per cui tanta intolleranza nei confronti di Cosentino coincida con il massimo di considerazione per i cosentiniani, diventati centrali nell’attuale sistema politico. A Roma come in Campania. Cassazione, non esiste un diritto a non nascere di Silvia Marzialetti Il Sole 24 Ore, 23 dicembre 2015 Cassazione - Sezioni unite civili - Sentenza 22 dicembre 2015 n. 25767. Non esiste un diritto a non nascere: "la vita, e non la sua negazione, è sempre stato il bene supremo protetto dall’ordinamento". Lo affermano le Sezioni unite di Cassazione, bocciando l’istanza di risarcimento presentata dai genitori di una bambina down contro l’Asl di Lucca e i primari dei reparti di ginecologia e del laboratorio di analisi che avevano seguito la gestante, colpevoli - a loro dire - di non aver diagnosticato la patologia da cui era affetta il feto. Se correttamente informata - si legge nelle motivazioni - la madre avrebbe infatti deciso di abortire. Nel disporre un nuovo processo davanti alla Corte d’appello di Firenze per approfondire la possibilità di una "prova presuntiva" del fatto che la madre avrebbe realmente optato per l’interruzione di gravidanza, i giudici ribadiscono che non esiste un diritto a non nascere, tanto più che di esso di farebbero unici interpreti i genitori, attribuendo alla volontà del nascituro il rifiuto "di una vita segnata dalla malattia e, come tale, indegna di essere vissuta". Ma, aggiungono le Sezioni unite, si tratta di "cosa diversa dal cosiddetto diritto di staccare la spina, che comunque presupporrebbe una manifestazione di volontà ex ante, attraverso il testamento biologico". Dunque, l’accostamento tra le due situazioni "è fallace". I giudici mettono poi in guardia dal "rischio di una reificazione dell’uomo, la cui vita verrebbe ad essere apprezzabile in ragione dell’integrità psico-fisica": una "deriva eugenica" che ha caratterizzato il dibatto in altri Paesi, come in Francia, dove nel 2002 è intervenuta una legge ad hoc, la Kouchner, prescrivendo che nessuno può far valere un pregiudizio derivante dal solo fatto della nascita. La Cassazione ricorda, infine, quanto la pretesa risarcitoria del nato disabile verso il medico finisca con l’assegnare al risarcimento "un’impropria funzione vicariale, suppletiva di misure di previdenza e assistenza sociale". Sul penale tributario deleghe da accertare nelle Snc Il Sole 24 Ore, 23 dicembre 2015 Corte di cassazione, Terza sezione penale, sentenza 22 dicembre 2015 n. 50201. La sottoscrizione da parte di un socio amministratore di una società in nome collettivo non esonera automaticamente gli altri soci amministratori dalle responsabilità fiscali. È necessario invece accertare in concreto se gli altri soci svolgono attività gestionali in quella specifica materia e qual è "l’apporto concorsuale penalmente rilevante nella gestione della materia fiscale da parte dell’altro (o altri) socio". La Guardia di finanza deve cioè procedere a un accertamento mirato indirizzato a verificare se nell’organigramma della società è previsto un conferimento di delega in materia fiscale a uno die soci in via esclusiva. Ricorso in Cassazione anche per le sentenza su notifiche e giurisdizione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 23 dicembre 2015 Può essere immediatamente impugnabile in Cassazione la sentenza con cui il giudice di appello nei casi previsti dagli articoli 353 e 354 del Codice di procedura civile riforma o annulla la sentenza di primo grado. Lo stabiliscono le Sezioni unite civili della Corte di cassazione con la sentenza n. 25774 depositata ieri. La pronuncia sposa l’orientamento sinora assolutamente minoritario sulla base di una serie di considerazioni che fanno leva in larga parte sul riconoscimento del carattere definitivo della sentenza di secondo grado. I casi cui fanno riferimento le Sezioni unite sono quelli nei quali la sentenza di appello, dichiarando la giurisdizione negata in primo grado, la nullità della notificazione della citazione, la necessità del litisconsorzio, l’erronea estromissione di una parte, l’errata dichiarazione di estinzione o la nullità della sentenza non sottoscritta, dispone la rimessine della causa al primo giudice. Per le Sezioni unite le sentenze che non possono essere oggetto di un ricorso autonomo in Cassazione sono solo quelle interne al processo, che non chiudono il processo davanti al giudice che le ha pronunciate visto che la controversia è destinata a proseguire davanti allo stesso giudice in vista della decisione definitiva. Nei casi invece affrontati negli articoli 353 e 354 del Codice di procedura la sentenza è definitiva perché concludendo il procedimento davanti al giudice di appello "esclude un ulteriore potere decisorio del giudice che l’ha pronunciata, essendo l’unica sentenza di quel grado di processo". Anche se non definisce ancora la lite sul piano sostanziale, tuttavia chiude il compito del giudice di appello mettendo fine al giudizio davanti a lui. A corroborare poi ulteriormente il carattere definitivo della sentenza è la liquidazione delle spese che dovrà essere fatta non sulla base del principio della soccombenza virtuale rispetto alla domanda, ma tenuto conto della soccombenza effettiva in relazione all’unica questione dibattuta e decisa. È vero che si tratta di trovare un equilibrio tra esigenze in conflitto (da una parte quella di non frammentare il processo, disperdendosi in una pluralità di impugnazioni, dall’altra la necessità di tutelare il diritto di difesa della parte soccombente), ma va tenuto presente, sottolineano le Sezioni unite, che davanti a pronunce come quelle in discussione che definiscono il grado di appello, con il giudice che si spoglia della cognizione dell’intera causa e rimette le parti in primo grado, verrebbe imposto alle parti interessate di attendere altri due gradi di giudizio, quello di primo grado dopo la rimessione e il successivo appello prima di potere sottoporre la questione alla Cassazione. Riforme costituzionali e risarcimenti per ingiusta detenzione negati di Giulio Petrilli Ristretti Orizzonti, 23 dicembre 2015 All’attenzione della Ministra per le riforme costituzionali On. Maria Elena Boschi. Gentile Ministra, lei che sta nell’occhio del ciclone sulla vicenda dei risparmiatori che hanno perso i risparmi. Le chiedo di impegnarsi affinché’ il governo conceda il risarcimento agli stessi, ma nello stesso tempo rivolga lo sguardo anche alle tante persone che hanno subito lunghi anni di detenzione ingiusta e non hanno avuto nessun risarcimento. Le chiedo di impegnarsi affinché’ anche chi è stato detenuto ingiustamente, possa avere il giusto e doveroso risarcimento. L’Italia è l’unico paese in Europa dove esiste una norma che vieta lo stesso a coloro che pur essendo stati assolti, hanno avuto cattive frequentazioni. Chiedo pubblicamente a lei di impegnarsi per cancellare questa norma e consentire il risarcimento a tutti coloro sono stati vittima di errori giudiziari. Ho scritto tante volte al premier Renzi e al ministro della giustizia Orlando, senza avere risposta, ma penso che con lei possa trovare maggiore attenzione. L’inviolabilità della libertà personale è il cardine del diritto e quando la persona che ha subito questa ingiustizia non viene risarcita, subisce una doppia incredibile ingiustizia. Chi le scrive l’ha subita all’età di diciannove anni e per la durata di sei anni, con l’accusa poi risultata infondata di partecipazione a banda armata. Ho fatto tante istanze per avere il risarcimento, ma nulla, sempre le risposte giudiziarie inerenti il risarcimento, motivavano il diniego con la motivazione di "cattive frequentazioni" e così non solo non ho avuto nulla, ma ho dovuto pagare anche le spese processuali. Come dire dopo il danno la beffa. Le chiedo di poterla incontrare, per illustrarle meglio la mia vicenda e di quella di tante persone come me, affinché lei possa fare qualcosa per proporre l’abolizione della norma che vieta il risarcimento per cattive frequentazioni. Scrivo a lei, perché essendo ministra per le riforme costituzionali, constati che la norma che le ho citato è palesemente anticostituzionale, in quanto lede la libertà delle persone di frequentare le persone che si vuole ed è assurdo che una frequentazione pur non essendo reato, è ostativa per il risarcimento di chi è stato assolto. Cordiali saluti. Il governo sani le ingiustizie sociali ed economiche con lo stesso metro di Marcello Pesarini (Sel Forum Diritti) Ristretti Orizzonti, 23 dicembre 2015 Prosegue la campagna a favore della ridiscussione del processo che ha visto la condanna di Giulio Petrilli, per il quale il legale di Petrilli ha già depositato il ricorso in cassazione, e per la riapertura dell’iter per l’allargamento del risarcimento per ingiusta detenzione ai giudicati prima del 1989. Parlamentari, giuristi, cittadini, stanno approntando un’interlocuzione verso il Ministro Orlando dopo l’interruzione natalizia dei lavori parlamentari, che stanno culminando con la legge di stabilità. Come sottoscrittori in sede politica puntiamo il dito sulle numerose sofferenze in un Paese nel quale ritarda la ripresa occupazionale e sociale, ed il Governo è invece costretto per salvare la faccia a tamponare le difficoltà sorte per lo scandalo delle obbligazioni delle quattro banche fallite, che ha causato un suicidio e numerosi crolli di piccoli risparmiatori. Settori dell’economia che dovrebbero tornare a pieno controllo e missione pubblica, hanno invece per anni alimentato la finanziarizzazione dell’economia, distorcendo anche i comportamenti dei lavoratori che hanno cullato il sogno del profitto slegato dal lavoro. Nessun salvataggio delle banche ed aiuto agli obbligazionisti restituiranno alle stesse ed ai cittadini uno strumento di sostegno al risparmio senza una riforma delle stesse. In netta contrapposizione ci sono numerosi settori dell’economia dove spesso i buoni propositi per creare lavoro e solidarietà, sono isolati nel loro operato contro precarietà e disoccupazione reiterata. È per questo che sosteniamo Giulio Petrilli e la sua azione. In qualità di presidente dell’Aret (azienda regionale economia e territorio) dal 2006 al 2008 aveva regolarizzato 5 dipendenti part time, ma per queste azioni è stato condannato per abuso di ufficio, senza le attenuanti perché scomodo. Sembra che, come per altre lotte (No Tav, No Triv), l’impegno civile sia segno di asocialità. La mobilitazione prosegue. Noi cittadini, impegnati nella costruzione della reciproca convivenza basata sulla giustizia amministrativa e sociale, chiediamo alla Giustizia Italiana ma anche alla Politica di riconsiderare tante vicende come momenti dell’impegno politico e sociale nel paese. Revisione del processo e riconsiderazione politica dell’azione dell’imputato. Palermo: detenuto di 64 anni si uccide in cella al carcere di Pagliarelli Giornale di Sicilia, 23 dicembre 2015 Nel carcere dei Pagliarelli si è ucciso Francesco Gattuccio, 64 anni, ex impiegato dell’Agenzia delle Entrate, che doveva scontare una pena fino al 2021 per avere ucciso il 19 novembre 2011 la badante romena della madre, Florina Luminita Ciobanu, 25 anni, colpita con un martello alla testa in una casa di via La Masa, a Trabia. A soccorrere l’uomo sono stati gli agenti penitenziari, ma per lui non c’è stato nulla da fare. Il medico legale intervenuto all’interno del penitenziario ha constatato la morte. "L’uomo si trovava nel reparto Laghi, a vigilanza dinamica - dice Calogero Navarra, segretario regionale del sindacato di polizia penitenziaria Sappe. Chiediamo maggiori investimenti per le carceri. Ai Pagliarelli non c’è un reparto psichiatrico ma in questo periodo stanno portando diversi detenuti con problemi anche psichici. Il personale non è tale da sopperire ai controlli continuativi. La sicurezza sta soprattutto nel tutelare i reclusi". Cagliari: detenuto 29enne tenta il suicidio per la terza volta in un mese sardiniapost.it, 23 dicembre 2015 Un detenuto di 29 anni, padre di quattro figli di cui uno di appena un anno, ha tentato di togliersi la vita per la terza volta in un mese nel carcere di Uta ed è stato salvato dagli agenti della polizia penitenziaria. Lo denuncia Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo diritti riforme". "La vicenda, che riguarda un tossicodipendente con disturbi psichici - spiega - ripropone l’impossibilità per le strutture detentive di accogliere persone con gravi problematiche legate all’abuso di sostanze stupefacenti. L’uomo, attualmente ricoverato in osservazione nel reparto di Psichiatria nell’Ospedale di Is Mirrionis, è stato salvato grazie all’immediato intervento dei responsabili della sicurezza dell’Istituto che, allertati dai compagni di cella, hanno fatto intervenire il personale medico". Secondo i dati forniti dalla Caligaris il 40% dei detenuti delle strutture penitenziarie, in particolare quella di Cagliari-Uta, ha problemi legati alla dipendenza da eroina, cocaina, alcol e gioco d’azzardo. "Si tratta di percentuali inaccettabili in un sistema di privazione della libertà in cui le attività di recupero e risocializzazione, anche nelle migliori prospettive, contrastano con la condizione fisica e psicologica di chi ha una dipendenza - ha detto la presidente dell’associazione - occorre trovare alternative alla detenzione utilizzando strutture adeguate e Comunità il cui operato deve però essere costantemente monitorato". Venezia: detenuto incendia una cella, vengono ricoverati due intossicati di Giorgio Cecchetti La Nuova Venezia, 23 dicembre 2015 Santa Maria Maggiore: soccorso in infermeria il coraggioso agente della Penitenziaria che li ha salvati Sgomberate le altre stanze del braccio. È l’ennesima protesta dopo quelle della scorsa estate. Fuoco a Santa Maria Maggiore. Quando le fiamme sono state coraggiosamente spente da un agente della Polizia penitenziaria, sia lui sia due detenuti che si erano rinchiusi nella cella dove era stato appiccato il fuoco hanno dovuto ricorrere alle cure dei medici dell’ospedale a causa di un’intossicazione da fumo. Non è la prima volta che accade: in numerose carceri, la protesta dei detenuti, spesso per le condizioni in cui sono costretti a vivere nelle celle, sfocia in questa manifestazioni, che mettono a rischio prima di tutto la loro vita, oltre a quella degli agenti. Da mesi, in particolare, nel carcere veneziano sia i detenuti sia gli agenti vivono una condizione di tensione anche a causa di una serie di decisioni e provvedimenti da parte della direzione, scelte che sono state contestate sia dagli uni sia dagli altri. Nell’estate scorsa i detenuto hanno inscenato manifestazioni di protesta, per la maggior parte pacifiche (sciopero del rancio, battitura delle sbarre), mentre in un’occasione si sono chiusi in un braccio ed hanno impedito agli agenti di entrate per alcune ore. Le organizzazioni sindacali degli altri hanno duramente criticato le decisioni della direzione, in particolare per quanto riguarda la gestione del carcere e l’organizzazione dei turni. Ieri, uno dei detenuti stranieri di una cella si è chiuso all’interno con un compagno, straniero pure lui, e ha cominciato a incendiare i materassi e tutto il materiale infiammabile che c’era dentro. È già accaduto in passato, ma a differenza di altre volte in questo caso i due detenuti sono rimasti all’interno della cella e rischiavano di soffocare a causa del fumo, che i materiali incendiati sprigionavano. Un agente in servizio in quel braccio si è coraggiosamente lanciato all’interno della cella, seppur senza alcun particolare strumento anti incendio e ha cercato di spegnere le fiamme, inoltre ha trascinato fuori i due detenuti già mezzi svenuti a causa del fumo. Gli altri agenti hanno svuotato tutte le celle del braccio, visto che il fumo le stava invadendo, hanno fatto uscire tutti i detenuti e li hanno sistemati nel cortile dove solitamente passano l’ora d’aria. Quindi, all’esterno, in modo che non respirassero la nuvola di fumo. Nel frattempo, sono arrivati i sanitari del 118 che con le idro-ambulanze hanno trasferito i due detenuti intossicati presso l’ospedale, mentre l’agente è stato soccorso dal medico in servizio a Santa Maria Maggiore all’interno dell’infermeria del carcere. Oltre all’intossicazione, per il detenuto che ha incendiato materassi e il resto del materiale della cella, scatterà l’accusa di danneggiamento e verrà coinvolto il pubblico ministero di turno. Velletri (Rm): Sippe; detenuto colpisce un ispettore con un pugno in faccia lanotiziaoggi.it, 23 dicembre 2015 Nella tarda serata di domenica 20 dicembre un detenuto italiano sofferente di attacchi epilettici ha iniziato a compiere gesti autolesionistici praticandosi dei tagli sulle braccia con una lametta. L’uomo si trova in cella soltanto con un altro detenuto (cosiddetto detenuto-piantone) che sembrerebbe soffrire anch’egli di turbe psicologiche, emerse in precedenti carcerazioni con scatti d’ira e violenze verso altri detenuti. Un agente di Polizia penitenziaria si è accorto di ciò che stava succedendo, ha fermato l’uomo e lo ha accompagnato assieme all’altro, in infermeria. L’Ispettore di sorveglianza venendo a conoscenza di quanto stava accadendo si è recato in infermeria per capire il motivo del gesto ma proprio mentre poneva stava ponendo delle domande, il detenuto piantone si è scagliato contro l’Ispettore sferrandogli un pugno violento contro il viso tanto da richiedere il suo trasporto in ambulanza presso l’Ospedale di Velletri, dove è stato sottoposto alle cure e agli accertamenti del caso. A denunciare il caso è il Segretario Locale del Sippe (Sindacato Polizia Penitenziaria) Ciro Borrelli: " Questi episodi - ha denunciato Borrelli - devono fare riflettere l’ Amministrazione Penitenziaria, perché i detenuti con disturbi psichiatrici o che hanno manifestato atti di violenza nelle precedenti carcerazioni, devono essere gestisti diversamente rispetto alla presente gestione dei detenuti". "Come sindacato - ha concluso il sindacalista -faremo sentire la nostra voce affinché tutta la classe politica e gli uffici competenti prendano provvedimenti concreti su cosa o su come si vuole lavorare nel penitenziari. La Polizia Penitenziaria non è a servizio privato, ma al Servizio del Paese". Pesaro: la maglietta di Said contro l’Isis in Consiglio comunale comune.pesaro.pu.it, 23 dicembre 2015 All’indomani degli attentati di Parigi tra i corridoi del carcere di Pesaro si aggira Said, un giovane detenuto di fede islamica. Tra le mani ha una maglietta bianca, simbolo di pace, sulla quale ha scritto una frase in arabo e in italiano: "Siamo tutti contro Daesh (Isis)". Gira le varie sezioni ripetendo a ognuno la stessa domanda: "Vuoi firmare anche tu?". Così, poco alla volta, raccoglie l’adesione di quasi trecento detenuti. Tra loro ci sono tanti italiani ma anche decine di egiziani, tunisini, marocchini. Qualcuno scrive altre frasi: "Sono musulmano; Je suis Parìs; Sono arabo; Sono italiano; Sono francese…". La storia di Pesaro è un esempio di protesta pacifica, nata in maniera spontanea per esprimere una netta scelta di campo. Una storia che non sarebbe neppure uscita dal "muro" se i redattori di "Penna Libera Tutti", il periodico del carcere di Pesaro, realizzato insieme al settimanale inter-diocesano "Il Nuovo Amico", non l’avessero presa nella giusta considerazione. "È un manifesto voluto dai musulmani che vivono qui dentro - spiegano redattori e detenuti - e colpisce il fatto che le scritte sono tutte con lo stesso pennarello marrone, segno indelebile di uguaglianza e di vicinanza al dolore per i fatti di Parigi. Dimostra inoltre l’integrazione, il legame e il rispetto che i nostri compagni islamici esprimono con il loro gesto. A noi l’onore di averli conosciuti". E ora i detenuti vorrebbero che la maglietta di Said potesse uscire dalla cella per essere vista da tutta la città. "L’abbiamo esposta ieri, in occasione dell’ultimo Consiglio comunale di fine anno, - racconta Luca Bartolucci, presidente del Consiglio Comunale di Pesaro - e ora insieme al sindaco Matteo Ricci abbiamo pensato di collocarla in Municipio per tutto il periodo delle feste". Padova: domenica il Vescovo aprirà la porta della misericordia in carcere padova24ore.it, 23 dicembre 2015 Il Giubileo arriva tra i carcerati del Due Palazzi. "Il mio pensiero va anche ai carcerati, che sperimentano la limitazione della loro libertà. A tutti costoro giunga concretamente la misericordia del Padre che vuole stare vicino a chi ha più bisogno del suo perdono. Nelle cappelle delle carceri potranno ottenere l’indulgenza, e ogni volta che passeranno per la porta della loro cella, rivolgendo il pensiero e la preghiera al Padre, possa questo gesto significare per loro il passaggio della Porta Santa, perché la misericordia di Dio, capace di trasformare i cuori, è anche in grado di trasformare le sbarre in esperienza di libertà". Con queste parole papa Francesco - nella lettera a mons. Rino Fisichella con cui esplicita il senso profondo e le modalità per vivere il Giubileo straordinario della Misericordia - sottolinea, in questo "tempo santo" un’attenzione particolare alle persone detenute che, anche nel chiuso delle loro carceri possono vivere e sperimentare il passaggio della "porta santa" e la misericordia senza confini di Dio. A Padova, come in altre realtà italiane, il vescovo Claudio Cipolla ha desiderato elevare la cappella del carcere Due Palazzi a chiesa giubilare non solo per i detenuti ma anche per quanti durante l’anno visiteranno il carcere (la visita ai carcerati, tra l’altro è anche una delle opere di misericordia corporale sollecitate da papa Francesco in questo anno straordinario) e potranno ricevere l’indulgenza in questo particolare e significativo contesto. "La misericordia è un’ispirazione per il nostro pensiero e anche per le nostre azioni" aveva detto mons. Cipolla annunciando la sua scelta, e per questo "Tra le chiese giubilari ci sarà anche quella del carcere perché in carcere c’è il massimo della consapevolezza del proprio errore e lì Dio annuncia la sua misericordia e sarà molto importante che i carcerati, e chiunque vive nello spirito del Vangelo, sappiano riconoscere questo gesto. Dio cerca proprio là dove, anche dal punto di vista giuridico è riconosciuto e condannato, giustamente, l’errore. Non si pone limite alla misericordia di Dio". L’apertura della porta della Misericordia della cappella del Carcere Due Palazzi di Padova si terrà nella mattina di domenica 27 dicembre 2015 ed è resa possibile grazie alla collaborazione tra Dipartimento di Amministrazione penitenziaria, parrocchia del Carcere, Officina Giotto; vi parteciperanno i detenuti, la parrocchia del carcere Due palazzi e altri due gruppi parrocchiali - provenienti da Chiesanuova e Villa di Teolo - che già avevano programmato la presenza in carcere per la celebrazione domenicale (ogni quarta domenica infatti due gruppi parrocchiali possono entrare a celebrare la messa in carcere). Dopo l’annuncio del vescovo Claudio molte altre parrocchie si sono prenotate per poter vivere il Giubileo insieme ai detenuti e nella cappella del carcere e - confida il cappellano del carcere don Marco Pozza "ce ne sono una cinquantina in lista d’attesa, oltre quelle che già avevano fissato la loro visita, segno che questo "segno" di misericordia sta davvero muovendo i cuori". La Porta della Misericordia della cappella del Carcere per l’occasione sarà rivestita da una riproduzione a colori della Porta Santa di San Pietro, realizzata dal fotografo Giorgio Deganello sulla base dell’immagine fornita dalla Fabbrica di San Pietro. In questo modo, per tutto il tempo del Giubileo, quanti varcheranno la porta della Misericordia del carcere Due Palazzi idealmente varcheranno la porta di San Pietro. Salvo imprevisti dell’ultimo momento la celebrazione con l’apertura della Porta della Misericordia verrà trasmessa a partire dalle ore 9.45 in diretta streaming sui siti: diocesipadova.it, difesapopolo.it. Roma: "Cittadinanzattiva" firma il protocollo con il carcere di Rebibbia Vita, 23 dicembre 2015 L’obbiettivo è promuovere iniziative per la tutela dei diritti umani e civili e per la diffusione di una cultura alternativa alla devianza e al carcere attraverso la compagnia teatrale "Stabile assai". Un impegno congiunto tra Cittadinanzattiva e Carcere di Rebibbia per promuovere, attraverso la compagnia teatrale "Stabile assai" attiva nel carcere romano da oltre 15 anni, iniziative per la tutela dei diritti umani e civili e per la diffusione di una cultura alternativa alla devianza e al carcere. "Stiamo lavorando da anni per una struttura sempre più aperta alle realtà associative. È per noi fondamentale far emergere le buone pratiche e tutto quello che di positivo si fa all’interno del carcere, con la finalità di favorire il reinserimento e la risocializzazione dei detenuti", ha dichiarato il Direttore del penitenziario Stefano Ricca. È questo l’obiettivo del Protocollo, firmato ieri presso l’istituto penitenziario di Roma, alla presenza di Stefano Ricca, Direttore della Casa di reclusione di Rebibbia, Antonio Gaudioso, Segretario generale di Cittadinanzattiva, Antonio Turco, responsabile attività culturali presso la Casa di Reclusione di Rebibbia e fondatore della compagnia teatrale Stabile Assai e Laura Liberto, coordinatrice nazionale di Giustizia per i Diritti-Cittadinanzattiva. "Il protocollo assume un significativo valore culturale perché conferma l’importanza dei messaggi che il Teatro penitenziario può esprimere, soprattutto quando pone al centro delle rappresentazioni i detenuti e la loro capacità di rivisitare il proprio agire deviante in una azione congiunta con organismi territoriali e realtà associative in grado di promuovere la cultura dell’accoglienza e del reinserimento", ha dichiarato Antonio Turco. L’oggetto centrale dell’accordo, si legge nel protocollo, riguarda l’impegno, da parte della Direzione della Casa di reclusione di Rebibbia, per favorire la partecipazione della Compagnia teatrale "Stabile Assai", costituita da detenuti, operatori istituzionali e volontari, alle iniziative promosse da Cittadinanzattiva per far crescere l’attenzione collettiva per la tutela dei "diritti umani e civili" e volte a diffondere una "cultura alternativa alla devianza e al carcere come unico strumento di controllo sociale". "Un’iniziativa di cui siamo orgogliosi, che ci darà modo di dare vita ad un ricco ed entusiasmante percorso di collaborazione e di contribuire a favorire l’interazione ed il dialogo tra comunità e carcere", ha concluso Laura Liberto. Napoli: la Comunità di Sant’Egidio organizza un pranzo per i carcerati di Poggioreale di Federica Urzo Roma, 23 dicembre 2015 La redenzione può avvenire anzitutto attraverso il riconoscimento dei propri errori. Questo dovrebbe essere l’obiettivo delle carceri: aiutare i detenuti a trasformare positivamente la loro vita. Se è vero che coloro che sbagliano debbano pagare le conseguenze delle loro azioni, è altrettanto vero che ogni singola vita vale. È questo il messaggio che si respira al pranzo di Natale organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio per 150 detenuti scelti tra i più poveri e bisognosi del carcere di Poggioreale dove ieri si sono riuniti attorno alle tavole allestite nella chiesa dell’istituto penitenziario. I detenuti hanno pranzato insieme agli agenti, il direttore Antonio Fullone, Antonio Mattone responsabile della Comunità di Sant’Egidio e i suoi volontari. Presenti anche il vescovo Pasquale Cascio delegato delle conferenza episcopale Campania per la pastorale carceraria, Emilio di Marzio portavoce del governatore della Campania Vincenzo De Luca, Giuseppina Troianiello vedova di Giuseppe Salvia vicedirettore del carcere di Poggioreale trucidato in un agguato organizzato di camorra nell’81 e Pasquale Palma di "Made in sud" che ha organizzato un piccolo show per i carcerati. Il pranzo giunge quest’anno alla sua dodicesima edizione portando con sé una significativa novità: la presenza dell’Imam Nasser Hidouri della moschea di San Marcellino, invitato dalla Comunità di Sant’Egidio, in rappresentanza dei detenuti di fede musulmana e della coesistenza pacifica tra diversità. "Sono lusingato per l’invito ricevuto. È un segno di grandissimo amore questo gemellaggio tra cristiani e musulmani", spiega l’imam Nasser Hidouri soprattutto in vista dei recenti atti terroristici che hanno colpito Parigi. "Questi attacchi di odio non devono innalzare muri fra noi perché questa fede professata con violenza non ci rappresenta, L’Isis non ci rappresenta". Il direttore del carcere Antonio Fullone interviene invece riconoscendo l’importanza di questi eventi sociali, come il pranzo di Natale, perché il carcere fa parte della vita sociale e serve a reintegrare il detenuto e questo non può essere ignorato. "Cerchiamo di contribuire a un miglioramento alleviando i problemi dei detenuti, ad esempio abbiamo creato anche più collegamenti con le loro famiglie e in generale con l’esterno poiché la solitudine è la nemica giurata dei reclusi". Inoltre, negli ultimi tempi sono stati raggiunti anche altri importanti obiettivi come ad esempio il fatto che il sovraffollamento non rappresenta più la piaga centrale di Poggioreale. Oggi la struttura raccoglie all’incirca 1.900 detenuti. Adesso però si fanno i conti con la struttura stessa del carcere che, aperto agli inizi del 900 risulta essere un edificio in continua richiesta di manutenzione: "Per questo motivo stiamo collaborando con il dipartimento di architettura dell’Università Federico II". Parole d’incoraggiamento per i detenuti anche da parte del Vescovo Pasquale Cascio: "Sono qui a ricordarvi e portarvi l’affetto che noi tutti nutriamo per voi". Questo il menù previsto per il pranzo: un antipasto, cannelloni con spinaci e ricotta, polpettone in bianco con patate, frutta secca e di stagione un dolce natalizio e un immancabile caffè napoletano a fine pranzo con tanto di regalo di Natale offerto dalla Comunità per ciascun detenuto cioè un kit composto da felpa, cioccolatini, sigarette, carta e penna per scrivere. Sondrio: Monsignor Coletti ai detenuti "il Natale è anche per chi soffre" di Camma Martina Il Giorno, 23 dicembre 2015 Una giornata speciale con il Vescovo. Il messaggio d'amore del vescovo spalanca le pone del carcere di Sondrio e abbraccia i sui 36 detenuti. Non solo quelli che hanno partecipato ieri al piccolo momento di raccoglimento, ma tutti, indistintamente. “Sono io che ringrazio voi che rappresentate una piccola fetta di umanità, portatrice di sofferenza”, esordisce Monsignor Diego Coletti, alla guida di una diocesi vasta (non tanto per il numero di persone, quanto per la superficie che ricopre), ma che, come lui stesso sottolinea, sì avvale di preziose spalle. Non ultima quella del cappellano del carcere, don Ferruccio Citterio, che ha predisposto la funzione e che, tutti ì giorni, si rapporta con i detenuti. Prendendo spunto dal pensiero sui carcerati di Papa Francesco, richiamato dal libretto con traduzione in arabo, Coletti parte con le riflessioni. “Dopo le parole del Papa, ho poco da aggiungere. Vi faccio solo un invito: coltivate i desideri. Nessuno di noi può vivere senza. Pensate a cosa abita nel vostro cuore, magari anche qualcosa di più dell'essere liberi e del tornare a casa, che già sono desideri grandi. La fede cristiana dice che la cosa più bella sia di essere amato e di amare. Che qualcuno dica: tu sei più importante di me e io sono pronto, se serve, a morire per te. Un po' l'atteggiamento delle nostre mamme, l'atteggiamento di Dio. Di desideri ne abbiamo tanti, ma questo lo dobbiamo coltivare. Voglio e dobbiamo capire di essere amati”. Riporta alla mente il comandamento di Gesù: Come io vi ho amato, così amatevi anche voi, gli uni gli altri. “Dare rende più Mici che ricevere. E il donarsi deve essere una scelta libera”. La forma che prende l'augurio di Natale del vescovo è proprio questa: “il Natale è migliore se sentiamo il sapore buono della vita e, cioè, la gratuità dell'amore. Spero facciate vostra questa riflessione”. Parla davanti ai detenuti, principalmente ragazzi giovani, che lo ascoltano attenti, nel corso della funzione introdotta dal direttore del carcere Stefania Mussio. “Sono davvero contenta della presenza del vescovo - commenta - in tanti anni di lavoro posso testimoniare che non è cosa usuale. Quest'anno, poi, è speciale, perché siamo chiamati ad avere un cuore più grande. Se si sta bene dentro, non può che uscire qualcosa di bello. La presenza del vescovo ci aiuta a ricordare l'importanza di fermarsi. Di carcere un momento per riflettere e attendere. La detenzione è brutta, ma può essere colta come opportunità per comprendere gli sbagli da non ripetete”. Dopo il benessere spirituale, ecco quello materiale con panettone, musica e la distribuzione di doni per i papà detenuti, dei prodotti offerti dal gruppo della parrocchia di Delebio e dalia bottega Equosolidale. Palermo: libri giochi da tavolo e scacchiere ai detenuti delle carceri palermitane blogsicilia.it, 23 dicembre 2015 L’iniziativa del deputato Alongi (Ncd). "La letteratura, i libri come primo step di un percorso di educazione o di rieducazione alla cultura della legalità" dice Pietro Alongi, annunciando che, in due successivi appuntamenti che si terranno domani e dopodomani, consegnerà trecento volumi di saggistica e di narrativa ai direttori di Pagliarelli e di Ucciardone, da destinare alla fruizione dei detenuti delle due case di detenzione insieme con alcune scacchiere e a una serie di giochi da tavolo. "Libri e giochi di plancia - specifica il componente Ncd della commissione Antimafia all’Ars - accanto al mio personale contributo, sono anche il frutto di una cospicua raccolta da me lanciata nella mia schiera di amici i quali hanno proficuamente risposto all’appello". Entrambi gli incontri "nel corso dei quali - conclude Alongi - ci scambieremo anche gli auguri di Natale e per il nuovo anno con i direttori e i detenuti", si terranno in mattinata, domani ai Pagliarelli e dopodomani nello storico carcere palermitano. Presto in edicola "Il dubbio", giornale del Consiglio Nazionale Forense La Repubblica, 23 dicembre 2015 Sarà un quotidiano. È stato presentato nel corso del congresso di "Nessuno Tocchi Caino". Il pronunciamento del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, contro l’ergastolo "ostativo". Contrarietà espressa anche da Santi Consolo, capo del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) "Il dubbio" è un nuovo giornale che sarà in edicola dalla fine del prossimo febbraio. È stato presentato nel corso del VI congresso di "Nessuno Tocchi Caino", che si è svolto nel carcere milanese di Opera, alla presenza di molti detenuti e di una cinquantina di ergastolani, con il titolo "Spes contra spem". Durante i lavori, il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha inviato un messaggio di auguri, esprimendo anche l’auspicio per l’abolizione universale della pena di morte e dell’ergastolo ostativo". Il giornale - attualmente in preparazione per uscire a febbraio - avrà diffusione nazionale e sarà in edicola tutti i giorni, tranne il lunedì. Sarà diretto da Piero Sansonetti, mentre l’editore sarà una società che fa riferimento al Cnf (Consiglio Nazionale Forense) e cioè l’organo istituzionale che rappresenta tutti gli avvocati italiani. Le parole di Sergio Mattarella. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella - come accennato - nel suo messaggio al congresso di Nessuno Tocchi Caino ha posto l’attenzione sulla necessità di abolire l’ergastolo ostativo. Il Capo dello Stato ha fatto gli auguri all’assise, anche come "utile occasione per riflettere su temi cruciali come l’abolizione universale della pena di morte e l’ergastolo ostativo", quando cioè viene negato l’accesso a alcuni benefici, come i periodici permessi e ad altre misure alternative al carcere. Il Presidente ha ricordato che "l’Italia ha fatto dell’abolizione della pena di morte uno dei punti cardine della sua politica internazionale a difesa dei diritti umani", e in particolare nell’ambito delle Nazioni Unite, una "irrinunciabile battaglia di diritto e umanità" mossa da un "imperativo morale". Ancora il Capo dello Stato. Il tema "dell’abolizione del cosiddetto "ergastolo ostativo" è al centro di un animato dibattito politico e giuridico", scrive Mattarella, ricordando che "è all’esame del Parlamento una norma di delega che mira a ridurre gli automatismi e le preclusioni che escludono i benefici penitenziari per i condannati all’ergastolo". Un argomento questo "di indubbia delicatezza", convinto che il congresso di Nessuno tocchi Caino affronterà "con il necessario approfondimento, tenendo conto di tutti gli aspetti problematici che esso coinvolge", contribuendo a "consolidare i concreti risultati già ottenuti e conseguire nuovi traguardi". Le dichiarazioni del capo del Dap. Al congresso ha partecipato anche il capo del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) il magistrato Santi Consolo, il quale ha dichiarato: "Sono anche io a favore alla abolizione dell’ergastolo ostativo. Il vostro titolo "spes contra spem", "essere speranza contro l’avere speranza" - ha aggiunto Consolo - aiuta il cambiamento in atto, anche la polizia penitenziaria ha cambiato motto, "assicurare la speranza", questo è il ruolo della nostra amministrazione". L’ergastolo ostativo "prima non c’era - ha spiegato il capo del Dap - prima l’articolo 176 del codice penale era compatibile con l’articolo 27 della Costituzione, che parla di umanità, cioè di speranza, e se non si ha speranza come si può migliorare?" Il retaggio degli "Anni di piombo". "Come è successo allora tutto questo? - ha detto ancora Consolo - perché abbiamo avuto gli anni di piombo. Da un lato, ci siamo calati in un regime differenziato, il 41 bis, e dall’altro c’è stata l’incentivazione della legislazione premiale fino a prevedere, e lì c’è la violazione della Costituzione che ci porta ad essere incostituzionali, che c’è uno sbarramento alla liberazione condizionale laddove non c’è collaborazione". Il capo del Dap ha concluso dicendo: "Auspico che il sistema italiano in fatto e in diritto offra la possibilità che in regime di ergastolo ci possa essere la liberazione anticipata". Radio Carcere, Radio Radicale: Porto Azzurro, parla il Direttore Francesco D’Anselmo Ristretti Orizzonti, 23 dicembre 2015 Rubrica Radio Carcere, Radio Radicale: Carcere di Porto Azzurro, parla il Direttore Francesco D’Anselmo: "così sto cambiando quel vecchio carcere". A seguire le lettere scritte dalle persone detenute. Link: http://www.radioradicale.it/scheda/461945/radio-carcere-carcere-di-porto-azzurro-parla-il-direttore-cosi-sto-cambiando-quel Il mistero del 2015 "Quei 45mila scomparsi come in una guerra" di Michele Bocci La Repubblica, 23 dicembre 2015 L’Istat: decessi aumentati dell’11%, ai livelli degli anni Quaranta E gli esperti si interrogano: ci ammaliamo di più o ci curiamo peggio. Come durante la guerra, ma senza la guerra. Come se vivessimo sotto i bombardamenti. Uno studio interroga e preoccupa esperti in mezza Italia: nel 2015 il numero di morti nel nostro Paese è salito dell’11,3%. In un anno significherebbe 67mila decessi in più rispetto al 2014 (ad agosto sono già 45mila), per un incremento che davvero non si vedeva da decenni. I dati del bilancio demografico mensile dell’Istat raccontano qualcosa di abnorme, che già impegna i demografi e presto, quando saranno note le fasce di età e le cause, darà molto da lavorare anche agli esperti della sanità. Le schede appena pubblicate sul sito dell’Istituto di statistica arrivano fino all’agosto scorso e dicono che nei primi otto mesi sono stati registrati 445mila decessi, contro i 399mila nello stesso periodo dell’anno precedente. Si è passati cioè da una media di meno di 50mila al mese a una di oltre 55mila. "Il numero è impressionante. Ma ciò che lo rende del tutto anomalo è il fatto che per trovare un’analoga impennata della mortalità, con ordini di grandezza comparabili, si deve tornare indietro sino al 1943 e, prima ancora, occorre risalire agli anni tra il 1915 e il 1918", scrive sul sito di demografia Neodemos il professor Gian Carlo Blangiardo. "Certo, si tratta di dati provvisori, ma negli anni scorsi l’Istat ha sempre confermato alla fine dell’anno i numeri pubblicati mensilmente. Magari ci saranno correzioni, ma nell’ordine di alcune centinaia di casi. L’unità di grandezza che ci aspetta è quella", chiarisce il docente. Nel 2013 e nel 2014, tra l’altro, il numero dei morti era calato, ma sempre di poco: mai si erano raggiunte percentuali in doppia cifra. Che cosa sta succedendo? Non è ancora chiaro. Anche Agenas, l’agenzia sanitaria delle Regioni, ha deciso di avviare un approfondimento. "Stiamo lavorando per dare una spiegazione a questo fenomeno", dice il direttore Francesco Bevere. I ricercatori raccolgono i dati dei decessi negli ospedali, perché in quel modo è più semplice risalire alle cause. Sono già state contattate alcune Regioni, tra le quali l’Emilia Romagna e la Lombardia, che avrebbero confermato tassi di crescita dei decessi in corsia in linea con quelli registrati dall’Istat sulla popolazione generale. Per ora si può lavorare solo sui nuneri mensili, ma anche quelli possono essere comunque utili. Intanto, gli incrementi maggiori si sono avuti a gennaio, febbraio e marzo (+6, +10 e +7mila morti rispetto all’anno precedente). Si tratta dei mesi più freddi, quelli in cui colpisce l’influenza. Come noto, l’anno scorso la vaccinazione è calata molto a causa di un allarme poi rivelatosi falso partito dall’Aifa riguardo ai vaccini. Difficile però che la malattia stagionale da sola abbia prodotto effetti di quelle dimensioni. La conta dell’Istituto superiore di sanità si è fermata a quota 8mila morti provocati dal problema con la vacinazione. E la crescita dei decessi non si giustifica neanche con l’invecchiamento della popolazione, che secondo Blangiardo può essere responsabile di un incremento di circa 15mila morti l’anno. Un altro mese che ha segnato una differenza importante, circa 10mila casi, è luglio. Ma il caldo quest’anno non è stato particolarmente pesante. Insomma, il giallo delle morti in Italia non è risolto. E sullo sfondo c’è un timore, sollevato sempre su Neodemos. Che la crisi economica e i tagli al Welfare c’entrino qualcosa. Ci vorranno mesi di studio per capire se davvero tra le cause della "nuova guerra" ci sono anche queste. Migranti e rifugiati, nel 2015 superato il milione di arrivi di Carlo Lania Il Manifesto, 23 dicembre 2015 I dati dell’Onu. Il numero più alto in Europa occidentale dalla fine delle guerre degli anni 90 nell’ex Jugoslavia. La cifra record è stata raggiunta e subito superata lunedì: 1.005.404. Sono i migranti e rifugiati arrivati quest’anno in Europa, uomini, donne e bambini che nella stragrande maggioranza dei casi sono fuggiti da guerre e persecuzioni nella speranza di trovare qui, sull’altra sponda del Mediterraneo, un futuro migliore. Una massa enorme di persone che in 12 mesi ha messo in crisi l’Unione europea sbattendole in faccia tutte le sue debolezze e ipocrisie e costringendola a fare i conti con gli egoismi nazionali. Al punto che lo stesso presidente del parlamento europeo Martin Schulz non ha esitato a parlare di un’Europa ormai prossima al collasso se non sarà capace di ritrovarsi al più presto come vera comunità politica. Ad annunciare il superamento del milione di profughi e immigrati è stata ieri l’Organizzazione internazionale per i migranti (Oim) ricordando come rispetto a solo un anno fa il numero delle persone in fuga sia quadruplicato, confermandosi così come il più imponente che ha investito l’Europa occidentale dalla fine dalle guerre degli anni ‘90 nell’ex Jugoslavia. Numeri che testimoniano anche l’aggravarsi dei conflitti in Medio oriente, a partire da quello siriano. La maggior parte dei profughi, 455 mila, arriva infatti da quel paese devastato da cinque anni di guerra civile, intere famiglie e che dopo aver aspettato nei campi allestiti in Giordania, Libano o Turchia di poter tornare nelle proprie case, alla fine hanno rinunciato alla speranza e si sono messe in marcia. E con loro afghani (20% del totale), iracheni (7%) ed eritrei. Molti, purtroppo, sono anche coloro che non ce l’hanno fatta: 3.695 sono i migranti affogati o che risultano dispersi nel 2915 nel tentativo di attraversare il Mediterraneo. E di questi, stando ai dati forniti dalla Fondazione Migrantes, ben 700 erano bambini. "Non è sufficiente contare il numero di coloro che arrivano o dei quasi 4.000 dati per dispersi o affogati. Dobbiamo anche agire", ha detto ieri il direttore generale dell’Oim William Lacy Swing. "La migrazione deve essere legale, sicura e protetta per tutti, i migranti stessi e i paesi che diventeranno la loro nuova casa". Interi popoli in fuga. Il 2015 si conferma come il loro anno, e non solo per quanto riguarda l’Europa. L’Unhcr, l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati, solo pochi giorni fa ricordava come siano ormai 60 milioni in tutto il mondo le persone che sono state costrette a lasciare le proprie abitazioni spinte dalla necessità di fuggire a persecuzioni e guerre, ma anche alle catastrofi ambientali che affliggono il pianeta. Il 45% in più rispetto a soli quattro anni fa, ricorda sempre l’Unhcr, il numero più alto mai registrato dalla fine della seconda guerra mondiale. La crisi è così imponente che il presidente degli Stati uniti ha annunciato di voler dedicare proprio al tema di profughi un summit straordinario da tenere a settembre del 2016. Per quanto riguarda l’Europa, sono sei i paesi dai quali sono avvenuti gli ingressi: Grecia, Bulgaria, Italia, Spagna, Malta e Cipro. La maggior parte dei profughi, circa 800 mila, è arrivata dal mare partendo dalla Turchia e sbarcando in Grecia per poi da lì risalire l’Europa lungo la rotta balcanica passando attraverso Macedonia, Serbia, Croazia, Slovenia, Austria fino ad arrivare in Germania e Svezia. Un viaggio non privo di rischi e ostacoli, durante il quale i migranti hanno dovuto fare i conti con l’ostilità di governi come quello ungherese o polacco tutt’altro che disponibili ad accoglierli, e che per fermarli non hanno esitato ad alzare muri ai propri confini. Ostacoli che non sono però riusciti ad arginare il flusso dei migranti, che continuano a partire. E purtroppo anche a morire L’ultimo naufragio è avvenuto ieri sempre nel tratto di mare che separa la Turchia dalla Grecia dove un barcone con 18 persone a bordo si è rovesciato al largo di Kusadasi: a morire, questa volta, sono stati in undici, tra i quali tre bambini. Droghe, l’Onu è ancora in mezzo al guado di Marco Perduca Il Manifesto, 23 dicembre 2015 Dall’otto all’undici dicembre s’è tenuta nella sede dell’Onu di Vienna l’ultima sessione della Cnd ("Commission on Narcotic Drugs") del 2015 dedicata alla preparazione della sessione speciale dell’Assemblea generale (Ungass 2016), che dal 19 al 21 aprile prossimi si terrà a New York per affrontare il tema del controllo mondiale delle droghe. Il fronte conservatore del modello proibizionista comprende i paesi che fanno parte della Conferenza islamica, gli stati asiatici e la Russia: questi ritengono che Ungass 2016 debba semplicemente ratificare i documenti in fase di definizione a Vienna che, sostanzialmente, riaffermano gli obiettivi tradizionali presenti nella dichiarazione politica del 2009: la riduzione, fino all’eliminazione, dell’offerta e della domanda di droga attraverso la repressione penale e la lotta al narcotraffico. Il fronte aperturista, che raccoglie la stragrande maggioranza dei paesi latino-americani e, in teoria, gli europei, vuole invece che il dibattito di New York sia vero, aperto, e che includa punti di vista e riflessioni anche di altre agenzie dell’Onu: in questa luce, i documenti finali dovrebbero essere messi a punto all’Assemblea per riflettere le conclusioni del dibattito al Palazzo di Vetro. È previsto che il dibattito affronti cinque temi chiave, dai diritti umani, agli aspetti socio-sanitari, allo sviluppo alternativo nei paesi produttori. La Cnd ha una presidenza che varia ogni dodici mesi, dopo la Tailandia toccherà alla Repubblica Ceca, e le sessioni dedicate alla definizione dell’agenda dell’Ungass sono state affidate a una giunta coordinata dall’ambasciatore egiziano, che non sempre aiuta l’emergere di compromessi al rialzo. Comunque sia siamo anni luce avanti rispetto all’Ungass del 1998. Dall’Oms, all’Undp (programma Onu per lo sviluppo), da Unaids all’Alto Commissario per i diritti umani, passando per tutti gli speciali Rapporteur, si sono consolidate posizioni che pongono al centro il rispetto dei diritti umani e le ripercussioni negative dell’aver affidato al diritto penale il governo del fenomeno della circolazione e del consumo delle sostanze contenute nelle tre Convenzioni. Rispetto al passato, si arriva a riconoscere un "margine di manovra" interpretativo delle tre Convenzioni sulle droghe: la Convenzione del 1961 afferma infatti che "il possesso personale può esser considerato come reato" e non "deve" e che comunque ciò verrà stabilito dal singolo stato sulla base della propria Costituzione, delle caratteristiche del sistema penale nazionale, rispettando i principi basilari secondo cui non può esserci reato senza vittima e la pena deve essere proporzionale alla gravità del reato. Se all’Unodc, l’ufficio per le droghe e il crimine, esiste un dibattito in merito alle priorità e agli approcci da perseguire, lo Incb, l’organismo di controllo sull’applicazione delle Convenzioni, resta sostanzialmente ancorato a posizioni di retroguardia, da depositario unico dell’interpretazione autentica delle Convenzioni che non riconosce alcun approccio alternativo a quello proibizionista. Da notare che il sistema creato con le Convenzioni del 1961, 1971 e 1988 non prevede un regime sanzionatorio in caso lo Incb ritenga che non siano rispettati gli obblighi assunti al momento della ratifica. A gennaio e febbraio prossimi ci saranno ulteriori incontri informali per la definizione dell’agenda. La prossima riunione della Cnd si terrà dal 14 al 22 marzo e solo allora si capirà se il Palazzo di Vetro sarà solo un palcoscenico per interventi rituali dei governi o se si potrà davvero discutere nel merito: per prefigurare un futuro in discontinuità piuttosto che riaffermare le fallimentari ricette del passato. Difesa di privacy e sicurezza alla rete serve una governance di Edoardo Segantini Corriere della Sera, 23 dicembre 2015 Se lo strapotere statunitense sui nostri dati è inaccettabile, altrettanto sbagliata sarebbe una frammentazione nazionale di Internet proprio quando è più necessario il massimo di collaborazione per la lotta al terrorismo. Chi ha detto che Internet non ha confini? Li ha eccome. L’ambito territoriale è anzi l’oggetto di una nuova disputa che contrappone le due sponde dell’Atlantico. Il contrasto origina dal fatto che, nonostante il 90% degli utenti del web viva fuori dagli Usa, i dati personali che li riguardano sono in America, custoditi nei server delle cinque maggiori aziende digitali del pianeta: Google, Facebook, Microsoft, Amazon e Yahoo!. Parafrasando Churchill sull’eroismo dei piloti della Raf, si potrebbe dire che mai, nella storia umana, tante persone siano state creditrici d’informazioni verso così poche. "Questo paradosso - scrive il giurista Andrew Keane Woods sul New York Times - poteva essere tollerabile quando era alta la fiducia verso gli Stati Uniti. Ma dopo che Edward Snowden ha rivelato le attività della Nsa e le sue intrusioni nella privacy degli utenti, questo sentimento è venuto meno". I dati di cui parliamo sono informazioni preziose non solo per la lotta contro i crimini cibernetici, ma anche per le indagini su reati comuni che lasciano tracce e prove elettroniche, ad esempio omicidi, furti e rapine: email inviate durante i rapimenti o frasi sui social network che possono rivelarsi utili a identificare i criminali e - naturalmente - a captare comunicazioni tra terroristi. Solo dal Regno Unito sono partite verso l’America 54 mila richieste di dati, rivolte ai cinque big della Rete. Le richieste attendono in media un anno. Lo squilibrio nella gestione globale del "magazzino dati personali" poggia su due pilastri. Il primo è la legge americana del 1986, che prescrive alle aziende tecnologiche di cedere i file conservati in America solo in risposta all’ordine di un giudice americano. Non è difficile capire quali assurde conseguenze comporti questo esasperato senso del "territorio" e della giurisdizione, che fa a pugni con la logica della tecnologia e del cloud (la "nuvola" decentrata dei computer). Il secondo è il "Safe Harbour Agreement" tra Ue e Stati Uniti, l’accordo approvato dalla Commissione europea 15 anni fa, che ha consentito a Facebook di raccogliere i dati sui suoi 23 milioni di utenti italiani per poi trasferirli sui propri server in territorio americano. Il "porto sicuro", per l’appunto. Ma sicuro per chi? si è chiesta la Corte di Giustizia europea. Così, due mesi fa, ha bocciato l’accordo, provocando una crepa nel secondo pilastro. Il primo invece resta lì, solido e ben piantato, a rallentare le indagini. E crea le condizioni per due conseguenze estreme, che sembrano inventate dal demoniaco protagonista de Il giudice e il suo boia di Friedrich Dürrenmatt. Poiché la legge americana, con i suoi tempi, scoraggia la ricerca di prove digitali attraverso vie legali, sostiene Keane Woods, le polizie europee cominciano a imboccare quelle illegali: diventano hacker e usano i software pirata per penetrare nei database che racchiudono i dati. L’altra conseguenza è che alcuni Stati membri adottano norme che, pur di ottenere il risultato, diventano anti-democratiche. Come nel caso - criticato anche dal Garante italiano della Privacy, e, sul Financial Times di ieri, da Apple - della proposta di legge inglese chiamata "Snooper’s Charter" (Carta dell’impiccione), che autorizzerebbe la polizia a violare i computer e obbligherebbe gli Internet provider a tener traccia per un anno delle attività di navigazione dei clienti. Si corrono insomma due rischi: da un lato quello di sostituire all’indagine la raccolta preventiva dei dati, che, come ha scritto Luigi Ferrarella su queste pagine, è, oltre che anti- privacy, totalmente inutile; dall’altro quello di confondere il diritto alla riservatezza con il dovere degli investigatori di investigare. Se lo strapotere Usa sui nostri dati è inaccettabile, altrettanto sbagliata sarebbe una frammentazione nazionale di Internet proprio quando più serve, per la lotta al terrorismo, il massimo della collaborazione. La bocciatura del "Safe Harbour Agreement" crea un vuoto e un’opportunità che ci possono aiutare. E le nuove regole europee per la protezione dei dati vanno nella giusta direzione. Iraq, tra i curdi alla diga di Mosul. "Italiani? Siete benvenuti, ma mandateci più armi" di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 23 dicembre 2015 Mosul, catturata dall’Isis nel 2014, è stata riconquistata grazie ai raid americani. Il 15 dicembre Renzi ha annunciato l’invio di 450 militari italiani a difesa della diga, che sarà ristrutturata da una ditta italiana. Arrivando alla diga è impossibile non restare impressionati da quanto vicine siano le prime linee dei peshmerga e la terra di nessuno ove opera l’Isis. Ci sono lunghi tratti di strada, almeno quattro o cinque chilometri, dove la barriera di terra smossa dai bulldozer con davanti le trincee fatte per fermare i mezzi jihadisti corrono parallele a solo una cinquantina di metri dal nastro d’asfalto. Le postazioni curde sono piccole roccaforti circondate da muri di cemento poste sulle alture più prominenti. Arrivando in prossimità dei punti delicati gli autisti schiacciano sull’acceleratore e i soldati di scorta guardano nervosi verso sud. Così avveniva anche martedì pomeriggio sul tardi, quando siamo giunti ai larghi bastioni della diga. Alla luce ambrata del tramonto le prime lampadine stavano accendendosi nei villaggi sunniti ben visibili tra il paesaggio collinoso e dolce che permette allo sguardo di spaziare lontano. Alcuni sono posti solo quattro a cinque chilometri dalla strada. "I villaggi sono punti pericolosi. Si chiamano Aski Mosul, Tel Zaab, Sdhelich, Hadhemi, Masraj, Tanniah. La loro popolazione sostiene in massa l’Isis, nasconde i terroristi, li aiuta a occultare armi, munizioni e mine. Per questo motivo abbiamo dovuto ridurre in macerie i più militanti. Non avevamo alternative se volevamo assicurarci il controllo della diga", spiegano gli accompagnatori peshmerga. Parole confermate dal paesaggio. Già all’inizio del vasto bacino, dove il Tigri entra nel lago, le rovine di decine di abitazioni sono mute testimonianze delle battaglie dell’agosto 2014, quando l’Isis per alcuni giorni riuscì a prendere possesso dello sbarramento. Appena prima dei recinti che segnano la cittadella di tecnici e operai della centrale elettrica e degli impianti idrici, il villaggio di Semelhi è stato completamente raso al suolo. Le case minate una per una. Restano in piedi solo la moschea, un edificio adibito a pronto soccorso e la villona del capo degli Hadida. "Sono uno dei clan che con più forza aiuta Isis", dicono ancora i peshmerga, che ora usano l’edificio come caserma. La calma del lago, una trentina di anatre che giocano nell’acqua immobile, i tappeti di erba verde tutto attorno, sembrano rassicurare. Ma in lontananza, verso Mosul, si odono i rombi cupi dei bombardamenti americani. Le loro squadre speciali sono sul terreno assieme ai curdi con il compito specifico di fornire le coordinate delle postazioni Isis all’aviazione. È appena stata colpita una base jihadista, che qui chiamano "la fabbrica delle medicine". Due colonne di fumo nero si stagliano nette all’orizzonte. Sulla diga il 41enne comandante delle Zerevani, le truppe speciali curde incaricate di difendere il sito, colonnello Adnan Osman Salah, ci accoglie con un grande sorriso. "Benvenuti gli italiani. Grazie per la vostra disponibilità ad effettuare i lavori di mantenimento della diga e grazie per l’offerta di mandare truppe. A dire il vero noi abbiamo più bisogno di armi tecnologicamente avanzate, munizioni e missili, che soldati. Ma saremo ben contenti di cooperare con qualsiasi forza militare straniera sia stata coordinata con il nostro governo di Erbil", dice. E non nasconde la portata della rinnovata tensione tra l’enclave curda e il governo centrale a Bagdad, questa volta provocata proprio dal progetto di arrivo del contingente italiano. I media iracheni segnalano che le autorità di Bagdad vorrebbero farne a meno. Lo avrebbe specificato anche il ministro delle Risorse Idriche, Mohsen al Shammari, all’ambasciatore italiano nella capitale. "I nostri soldati sono perfettamente in grado di garantire i vostri tecnici e operai civili", avrebbe detto. Per contro, Erbil sarebbe ben contenta di ricevere i soldati stranieri. In gioco torna il braccio di ferro tra il centralismo iracheno e le aspirazioni indipendentistiche curde, come è stato evidente anche per la recente vicenda del contingente di truppe turche a nord di Mosul, che ha causato una mini crisi tra Ankara e Bagdad. Parlando della logistica per accogliere gli italiani, il colonnello Salah pare propendere per la costruzione di una base di container nella zona della diga: "Qui è assolutamente sicuro. L’Isis si trova a 13 chilometri di distanza, non dispone di cannoni o mortai pesanti" spiega. E tuttavia non nasconde le grandi capacità combattenti dei jihadisti. "Sono ottimi soldati, non vanno mai sottovalutati. Pericolosissimi, pronti a morire, sanno adattarsi alle circostanze. I loro volontari arrivati dai conflitti in Cecenia, Afghanistan, Africa e Medio Oriente combinano le loro esperienze in una macchina militare ben oliata. Ma noi ora conosciamo le loro tattiche. La copertura aerea alleata è di grande aiuto. Li stiamo battendo". Medio Oriente: 90 studenti dell’Università di Birzeit detenuti nelle carceri israeliane di Domenica Zavaglia infopal.it, 23 dicembre 2015 Il portavoce del blocco islamico all’università di Birzeit presso Ramallah, Mohammed Zaid, ha rivelato che il numero di studenti detenuti dalle forze di occupazione israeliane ha superato i 90. In una dichiarazione al Quds Press, il portavoce ha spiegato che gli studenti trascorrono mesi o addirittura anni interi in prigione. Ha inoltre aggiunto che le forze di occupazione israeliane hanno recentemente arrestato 16 studenti attivisti dell’università, 12 dei quali sono membri del blocco islamico, incluso il segretario del Comitato Culturale del Consiglio degli studenti, Asmaa Abdul HakimKedah, 20 anni, che è stata arrestata sabato mattina proprio mentre si recava all’università. Il blocco islamico all’università di Birzeit ha denunciato la pratica israeliana, sottolineando che la feroce campagna di arresti condotta dalle forze di occupazione nei confronti degli studenti avrà come unico effetto quello di "aumentare la forza, la determinazione e la costanza nel perseguire il loro dovere nazionale ed accademico". Soppressione del ruolo degli studenti. Per quanto riguarda il motivo degli arresti, il portavoce ha affermato che "tutti gli arresti sono privi di accuse o giustificazioni, e molti degli studenti sono stati trasferiti in detenzione amministrativa senza interrogatorio o accusa". Zaid pensa che l’occupazione israeliana "stia cercando di ostacolare il lavoro del consiglio, e del movimento degli studenti all’università, il cui ruolo è stato efficace durante l’Intifada di Gerusalemme. Ha aggiunto: "E inoltre diventato chiaro che l’occupazione vuole logorare il blocco islamico, e sospendere i suoi servizi accademici per gli studenti universitari". Ha citato il fatto che lo stesso giorno dell’arresto del Presidente del Consiglio e dei leader del blocco, all’alba di Mercoledì scorso, c’era una festa organizzata a supporto della moschea di al-Aqsa. Tuttavia, il blocco islamico ha portato a termine l’evento, che ha fatto tanto parlare i media israeliani in merito al suo successo e alla capacità di continuare il proprio lavoro malgrado le difficili circostanze. Zaid ha osservato che il Consiglio degli Studenti e il blocco islamico presso l’università sono stati in grado di eccellere in tutti gli ambiti; dal sindacato al servizio civile, compreso il livello di impegno nazionale. Ha inoltre fatto notare che l’occupazione israeliana insieme all’Autorità Palestinese con i loro continui arresti che avevano come principale target gli studenti del blocco islamico, hanno causato un forte ritardo nella laurea di molti studenti per anni. Alcuni studenti, invece di passare solo 4-5 anni al college, non riuscivano a laurearsi prima dei 10 anni trascorsi tra vita universitaria e detenzione nelle carceri israeliane e in quelle dell’Autorità Palestinese. A sua volta, l’Università di Birzeit ha condannato la feroce campagna dell’occupazione israeliana contro gli studenti. L’università ha sottolineato, in un comunicato, che l’istruzione è un diritto garantito da tutte le leggi internazionali, e che l’adesione dell’università alla campagna per il diritto allo studio consentirà di rendere pubbliche le pratiche repressive dell’occupazione israeliana, che continua a dire al mondo che è uno stato democratico. L’università ha osservato che si rivolgerà a tutte le istituzioni accademiche e alle organizzazioni per i diritti umani di tutto il mondo, per informarli dei crimini dell’occupazione israeliana contro il diritto all’istruzione in Palestina, che si impegna con falsi pretesti. L’università ha invitato le istituzioni internazionali a mettere sotto pressione l’occupazione israeliana per la liberazione dei prigionieri palestinesi nelle sue carceri, compresi gli studenti. L’università ha aggiunto che la perseveranza delle pratiche repressive da parte dell’occupazione israeliana contro il popolo palestinese in generale e gli studenti in particolare, non farà altro che aumentare le azioni internazionali delle campagne di boicottaggio accademico contro le istituzioni di occupazione israeliane. Essa afferma, inoltre che tali pratiche non impediranno mai all’università di Birzeit di svolgere il suo ruolo di primo piano nei confronti dell’occupazione. Il numero di studenti detenuti nelle carceri israeliane ha raggiunto i 90, tra maschi e femmine, oltre ad un dipendente presso l’Università e a due professori. Stati Uniti: il software sbaglia a fare i conti, detenuti scarcerati per errore di Lucio Di Marzo Il Giornale, 23 dicembre 2015 È successo a Washington, per un "baco" del programma che calcola la buona condotta. In 3.200 fuori dalle celle. Nessuno, in tredici anni, si era mai accorto di nulla. Sono 3.200 i detenuti che in questi anni sono stati scarcerati per errore a Washington. Un errore di cui ora qualcuno si è accorto. La colpa è del software che calcola i crediti necessari per essere rilasciati per buona condotta. Un baco del programma aumentava sistematicamente i "punti" di chi si trovava in carcere e ha portato alla scarcerazione anticipata di più di tremila persone che avrebbero dovuto trascorrere più tempo in detenzione. Tutto è iniziato nel 2002, quando una sentenza della Corte suprema ha imposto di calcolare i punti guadagnati durante i soggiorni nella prigioni delle contee anche per le sentenze statali. "Che questo problema si sia protratto per tredici anni mi delude profondamente", ha commentato il governatore Jay Inslee. E fino a che le cose non torneranno a posto, i conti saranno fatti a mano. Malawi: l’Anno della Misericordia nelle carceri nei racconti di un missionario fides.org, 23 dicembre 2015 "Dopo l’iniziativa di Patrizia Lavaselli di portare i disegni delle donne della prigione di massima sicurezza di Zomba all’Accademia Carrara di Bergamo, questa nuova avventura ha del miracoloso" scrive all’Agenzia Fides p. Piergiorgio Gamba, missionario monfortano, commentando la nomina dell’album "I have no everything here" eseguito dalla Zomba Prison Band, formata da detenuti del carcere malawiano, al Grammy Awards che verranno assegnati il 15 febbraio 2016 a Los Angeles. "Un sogno, una tappa nuova nel lungo cammino di riconciliazione con se stessi e con il mondo, una preghiera e un lamento, ma anche un segnale che la Misericordia non ha confini" afferma il missionario. Nell’anno della Misericordia anche in altre carceri del Malawi, uno dei Paesi più poveri del mondo, si moltiplicano i progetti per dare condizioni di vita dignitose. "La popolazione del Malawi raddoppia ogni diciotto anni fino a raggiungere gli attuali diciassette milioni di abitanti. Di questi circa quattordici mila sono rinchiusi nelle stesse carceri che già cinquanta anni fa erano insufficienti. Il sistema giudiziario e penale rimane una delle eredità del periodo coloniale ed è tutto incentrato su un unico metodo: la punizione del carcerato. Un sistema che disumanizza la persona rendendola incapace di ricostruire la propria vita" sottolinea p. Gamba, che è Chairman del Prison Felloship Malawi e membro dell’Ispettorato delle Prigioni. Grazie a questi incarichi p. Gamba partecipa alla stesura del Rapporto Annuale sulle carceri per il Parlamento. Tra le iniziative promosse dal missionario c’è il rinnovamento del carcere di Ntcheu, un lavoro effettuato dagli stessi detenuti che "hanno quasi completato l’opera di un carcere dove vivere con dignità di persone durante la detenzione al fine di riscattare la propria vita". "Una storia che vuole aiutare chi ha offeso e chi è stato offeso, nel nome della Misericordia" conclude il missionario.