Il Consiglio Europa fissa gli "spazi minimi" delle celle Ansa, 22 dicembre 2015 Sei metri quadrati, a cui va aggiunto lo spazio per i servizi sanitari: queste le dimensioni minime che deve avere una cella occupata da un solo detenuto secondo lo standard fissato e reso noto oggi dal Comitato per la prevenzione della tortura (Cpt) del Consiglio d’Europa. Ogni carcerato deve comunque avere a disposizione come minimo 4 metri quadri - sanitari esclusi - anche se occupa una cella con altri detenuti. La definizione degli standard degli "spazi vitali" per detenuto nelle prigioni è stata ora fissata dal Cpt dopo che il Consiglio d’Europa e la Corte europea dei diritti umani sono ripetutamente intervenuti nei confronti di molti Paesi, tra cui anche l’Italia, in cui è stato evidenziato il fenomeno del sovraffollamento delle carceri. Nella comunicazione diffusa oggi si sottolinea tra l’altro come il tema degli spazi minimi sia sostanzialmente legato al rispetto degli obblighi che ciascun Paese aderente al Consiglio ha nel rispettare la dignità delle persone detenute. Nel documento dedicato agli spazi minimi per carcerato pubblicato dal Cpt è inoltre stabilito che la distanza tra le mura della cella deve essere di due metri e che tra il pavimento e il soffitto devono esserci due metri e mezzo. Verso il nuovo modello di esecuzione penale voluto dal Ministro Orlando? da Giunta e Osservatorio Carcere Ucpi camerepenali.it, 22 dicembre 2015 L’Unione Camere Penali Italiane ribadisce l’urgenza di abrogare l’ergastolo ostativo e gli ostacoli normativi al trattamento individualizzato dei detenuti. L’Unione delle Camere Penali Italiane, con il suo Osservatorio Carcere, apprende con soddisfazione che il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Santi Consolo, ha pubblicamente comunicato di aver dato parere favorevole all’abolizione dell’ergastolo ostativo. Abrogazione da sempre chiesta dalle Camere Penali, con le loro innumerevoli iniziative per la riforma degli artt. 4 bis, 58 ter e 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario. Il tema è oggetto dei lavori degli "Stati Generale sull’Esecuzione Penale", che dovrebbero, così come dichiarato dal Ministro della Giustizia, "definire concretamente un nuovo modello di esecuzione penale, una migliore fisionomia del carcere, più dignitosa per chi vi lavora e per chi è ristretto". La delega al Governo, del resto, non lascia dubbi, in quanto è esplicitamente dato mandato di "ridurre gli automatismi e le preclusioni che escludono i benefici penitenziari per i condannati all’ergastolo". Lo stesso Pontefice ha di recente equiparato l’ergastolo ostativo alla pena di morte ed il Capo dello Stato ha inoltre definito un "imperativo morale" la riflessione "sui temi cruciali dell’abolizione universale della pena di morte e sull’ergastolo ostativo". Ma nel nostro Paese, dove l’emergenza è perpetua, dove è stata abolita la cultura della Costituzione, il ripristino dei diritti civili è sempre incerto perché deve confrontarsi con una perdurante e diffusa mentalità forcaiola, alimentata da un’informazione che, spesso, ignora la cultura del garantismo, e da una politica che cavalca un bieco populismo. L’Unione delle Camere Penali Italiane, pertanto, invita a vigilare sul dibattito politico-giuridico che si svilupperà nei prossimi giorni sul tema dell’ergastolo ostativo e delle preclusioni normative al trattamento individualizzato dei detenuti. La promozione dell’individuo e la tutela della sua individualità e dignità, dovranno essere le linee guida della riforma, perché valori fondanti ed imprescindibili di ogni sistema sociale. Principi che, a maggior ragione, devono essere ricordati ed attuati nel sistema penale, che può dirsi degno di questo nome solo se opera in ragione ed all’interno di un corpus di regole che rispettino una legalità sostanziale e non solo formale. Nessuno Tocchi Caino: le voci al VI Congresso di Barbara Alessandrini L’Opinione, 22 dicembre 2015 I numeri contano e le circa 400 persone tra relatori, delegati e detenuti del carcere di Opera e giunti da altri istituti di detenzione italiani per portare le loro testimonianze e le loro storie al VI congresso di Nessuno Tocchi Caino svoltosi proprio ad Opera contano ancora di più. Perché a formare quei 400 partecipanti ha contribuito anche la presenza di molti studenti universitari e dei professori Andrea Pugiotto e Davide Galliani, autori insieme al detenuto ergastolano Carmelo Musumeci del libro "Gli ergastolani senza scampo. Fenomenologia e criticità costituzionali dell’ergastolo ostativo". Da questo congresso, intitolato "Spes contra spem" per richiamare l’urgenza di sperare contro ogni speranza ed andar oltre la speranza nel contrasto alla pena capitale di cui l’ergastolo, specialmente quello ostativo, non è che una variante altrettanto atroce, solo distillata più lentamente ed in cui è tra l’altro stato conferito il premio "L’Abolizionista dell’anno 2015" a Papa Francesco, che ha definito l’ergastolo come una "pena di morte mascherata", è arrivata una straordinaria notizia. Sì perché non capita tutti i giorni che l’autorità del sistema penitenziario italiano, il capo del Dap Santi Consolo che, dopo aver riconosciuto che il carcere modello di Opera rappresenta la prova della possibilità di miglioramento sotto il profilo delle condizioni trattamentali dei detenuti, proprio davanti a quella platea di detenuti molti dei quali di massima sicurezza che nella quotidiana mortificazione del sé e nella negazione di qualsiasi prospettiva di accedere alla funzione rieducativa del carcere vedono annichilita ogni speranza, si è dichiarato platealmente contro l’ergastolo ostativo, definito "costituzionalmente illegittimo". Ma anche totalmente fuori dalla giurisprudenza europea che, oltre a giudicarlo trattamento inumano e degradante della dignità umana, indica come indispensabile la prospettiva della rieducazione e del divieto di privare i detenuti della prospettiva del rilascio e della libertà. Ben venga, dunque "la critica intelligente esercitata dai radicali, un reale contributo", aggiungiamo un pungolo costante anche a suon di ‘controcifre e contro percentualì con cui Rita Bernardini ha sempre incalzato le rosee prospettive di normalizzazione dell’emergenza carceraria presentate dal dicastero della Giustizia. Tanto che "risolto in parte l’aspetto quantitativo, resta da lavorare su quello qualitativo, con attenzione volta anche alla polizia penitenziaria che ha contribuito a far crescere la speranza". Ad Opera sì, e forse in altri limitati istituti di pena è così. Anche se a smorzare parzialmente le parole di Consolo ci hanno pensato alcuni detenuti provenienti dal 41 bis in altre carceri prima del trasferimento ad Opera. A.S., ad esempio, ancora rivive la paralisi in cui si svegliava dopo che per mesi di notte è stato privato del sonno dallo sbattere della finestrella ad opera delle guardie ogni mezz’ora e la sua mente ha iniziato a rispondere meccanicamente all’attesa della violenza uscendo dal sonno prima che il fisiologico meccanismo di immobilità notturna con cui si impedisce al corpo e ai nostri arti di seguire i nostri sogni. E se di notizia si può parlare per Consolo lo è anche per quanto detto dall’ex presidente della Consulta ed ex ministro della Giustizia, Giovanni Maria Flick: "In sette anni si rinnovano le cellule quindi io sono stato soggetto a vero cambiamento", un’adesione convinta alla squadra di chi ritiene che "nelle carceri debba entrare a pieno titolo la Costituzione e la dignità perché ve ne sono in misura troppo scarsa ed un Paese come il nostro che si accinge a cambiare la carta costituzionale prima dovrebbe leggerla e deve abbattere l’emergenzialità del sovraffollamento per riaffermare il senso di umanità e della dignità contro il baratto tra libertà del detenuto e sicurezza sociale. Partendo dalla revisione del carcere duro e dal riesame del ruolo del magistrato di sorveglianza". Già perché, come spiega l’ergastolano R.C., "è il magistrato di sorveglianza che ha potere di scindere l’ergastolo dalla misura ostativa; io ad esempio quando sono stato condannato all’ergastolo non sapevo che sarei entrato in 41 bis, che tra l’altro deve essere temporaneo e non lo è mai". Ed è nel dubbio espresso successivamente che parla sottotraccia di quel feroce baratto tra collaborazione e concessione dei benefici penitenziari che si contrappone al fine rieducativo della pena annichilendo anche qualsiasi possibilità di dirsi innocente o privi delle informazioni necessarie alla collaborazione. "Ma chi non ha la possibilità - si chiede R.C. - di accedere alle ‘regolè, agli strumenti per ottenere i benefici che fa, deve morire in carcere?". Ma Flick ha insistito: "Di solito si dice, tutto cambi perché tutto resti come prima; io dico perché tutto cambi, perché ciò di cui si stanno occupando gli Stati generali delle carceri deve confluire nella legge delega che si sta discutendo in Parlamento sulla revisione del sistema penale. Ci si può dire per l’abolizione della pena di morte in un Paese in cui in carcere si seguita a morire per sovraffollamento, mala gestione salute ed in cui viene annichilita l’affettività?". Toni nel solco del messaggio inviato dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che nel riferirsi alla lotta alla pena capitale come irrinunciabile battaglia di diritto e umanità promossa dall’Italia si è poi riferito all’ergastolo ostativo ricordando che "è al centro di un animato dibattito politico e giuridico ed è all’esame del Parlamento una norma di delega che mira a ridurre gli automatismi e le preclusioni che escludono i benefici penitenziari per quei condannati". Sarà, ma forse un primo segnale concreto di disponibilità politica ad affrontare realmente lo scomodo tema dell’ergastolo ostativo con i suoi feroci automatismi e le sue preclusioni assolute lo si sarebbe potuto dare, prima di licenziare alla Camera il ddl sul processo penale. Invece, con piena soddisfazione di alcune voci della magistratura, come quella del Procuratore antimafia Franco Roberti e del Pm Nino Di Matteo, si è preferito schivare il rischio che l’opinione pubblica possa leggere una discussione sull’ampliamento della concessione dei benefici carcerari come favore all’associazionismo mafioso, sacrificando così all’imperativo della deterrenza una misura che oltretutto baratta i benefici carcerari con la collaborazione e quindi tradisce ulteriormente quella valenza rieducativa che la Costituzione ma anche pronunciamenti e carte della giurisprudenza europea assegnano alla pena. Certo è che a tener banco tra i pur lodevoli interventi al congresso sono state le testimonianze dei detenuti, snocciolate in un grumo di sarcasmo torrentizio ed ironia di chi ormai si sente non più vivo, in un gioco amaro di contrapposizioni lessicali in cui alla convinzione di Flick che "la dignità non è un problema di misericordia", è giunta la replica tuonata degli ergastolani che "la speranza non è illusione". Così se i dati del censimento realizzato tra gli ergastolani italiani forniti dal professor Galliani ci inchiodano al dato allarmante dei detenuti in ergastolo ostativo, arrivato a 1619 da quando è stato introdotto nel 1992 sul totale di 1172 ergastolani e il professor Pugiotto ha spiegato bene le ragioni dell’incostituzionalità del 4 bis e del 41 bis, addentrandosi nelle incongruenze tra Costituzione formale e materiale, sono loro i detenuti, sulle corde del crudo sarcasmo del dolore ma anche su quelle dell’ironia dei forti e della speranza, ad aver il maggiore merito di aver comunicato cosa significhi quel regime di privazione sensoriale, di vessazioni e di negazione dell’individuo contro cui rivendicano la volontà di volere ancora avere speranza. "Altrimenti uccideteci, prevedetelo, perché la nostra è una pena di morte più lunga" e distillata nel tempo a micidiali dosi anche in osservanza a quella formula "per esigenze di sicurezza" sotto cui si permettono spietate privazioni: "Cosa c’entra con la sicurezza l’ora d’aria al giorno consentita, o toglierci lo shampoo, o toglierci gli spaghetti?", si chiedono. E ancora, sul racconto di Della Vedova che ha parlato della dignità e dell’importanza del consenso come "parte necessaria di un racconto all’opinione pubblica sia per l’ergastolo sia per la pena di morte" o all’intervento di Emma Bonino instancabile nel richiamare con la Bernardini l’urgenza di un’amnistia come temporanea ma sacrosanta misura "per riportare le istituzioni italiane a misura e fare un passo avanti nei confronti della Costituzione in un Paese in cui sono troppi coloro che, oltretutto, sono in carcere per lunghezza dei processi in attesa di giudizio e dove si seguita a criminalizzare ciò che non ha vittime per cui le carceri si stipano" è il registro visionario e spiazzante di G.P., 18 anni e mezzo di carcere, a tener tutti inchiodati all’ascolto. Insieme all’amico F.DD si racconta il tira e molla dello spaghetto, concesso loro nel 2009 e poi ritolto per motivi di sicurezza esterna. "Lo spaghetto? Ecco perché siamo malati, non esiste la speranza". Ma l’apice che nessuno immagina arriva come un macigno scagliato con forza in acque fangose quando avverte tutti che il suo amico "F. vi sta fregando, sì perché si è ammalato del micidiale morbo di Burgher che manda in cancrena le vene e poi gli arti che gli stanno progressivamente amputando. Gli è stato negato il permesso di accedere a cure migliori nonostante nel 1996, uscito per scadenza dei termini, non sia scappato. Ma vi sta fregando perché ora sta uscendo a pezzi". Anche S.C., 23 anni di carcere in isolamento scontati a Pianosa, scegli le corde dell’ironia sulle parole di Flick: "A me allora le cellule mi si sono rinnovate tre volte e un po’. Dateci una possibilità di speranza". È l’ironia, per quanto velenosa, anch’essa distillata a piccole dosi, un’ottima arma con cui mitridatizzarsi contro la morte interiore. Così se i dati del Rapporto 2015 sulla pena di morte di Nessuno Tocchi Caino presentati dalla segretaria e tesoriera Elisabetta Zamparutti assegnano all’Asia il primato per numero di esecuzioni, A.C da 33 anni ad Opera, ringraziando NTC del lungo cammino fatto spera "che non sia una seconda Salerno-Reggio Calabria". Non tutti riescono a sdrammatizzare e O.P, 23 anni di carcere, di cui molti in 41 bis a Tolmezzo ma oggi ad Opera, racconta della lenta morte dei detenuti al 41 bis, molti dei quali soggetti a quella misura dal 1992. "Si vive in sezioni di massimo tre o quattro persone, se solo saluti prendi il rapporto disciplinare. Io sono padre ma non genitore perché non ho mai potuto toccare mio figlio, solo dopo 23 anni riuscirò ad abbracciarlo, attraverso il vetro sono consentiti una volta al mese e dopo il colloquio parenti e detenuti vengono spogliati tutti. Ditemi voi questo che c’entra con la sicurezza". G.F. spiega che "le notizie in cui vi sia un riferimento al luogo in cui abbiamo commesso il reato vengono oscurati, ma soprattutto si possono ascoltare alla radio solo le frequenze AM, il canale FM viene piombato e sulla vite messa la ceralacca così si accorgono se si prova ad aprirle, e scatta il rapporto disciplinare. Ma cosa ha a che vedere questo con le ragioni di sicurezza? E cosa c’entra con le ragioni di sicurezza non potersi lavare dopo le 18. O non poter mangiare alcuni alimenti semplici". G.F., che al 41 bis ha sofferto di claustrofobia, racconta che non c’è modo di gestirla, tanto viene sempre dichiarata simulazione, se non "con farmaci che ci vengono consegnati in bustina trasparente e che non si conoscono, senza verifiche sulle possibili interazioni. C’è gente rimasta paralizzata per una iniezione". Ma la malattia più grave che sopraggiunge, interviene G.P., è l’abitudine al dolore ed arrivare a credere che sia giusto ciò che non lo è. La giustizia deve esser riparatrice ma non può andare oltre". A.S. si dice che si inizi a vivere da quando iniziano i ricordi; ecco, io da 24 anni in carcere li ho persi perché qui è racchiuso tutto, è l’unica realtà che conosco". E all’invito di Sergio D’Elia ad aver "fiducia nella forza riformatrice del dialogo perché le cose mutano solo se ci sarà il reciproco", C.D.A. adotta il potente registro del sarcasmo crudo: "Mi sò fatto tutti i circuiti dal 41 bis all’As 1 all’As2 e ora qui ad Opera ma nun sò nisciuno. Eppure avrei potuto esser recuperato prima. È possibile che un Paese che si sbandiera contro la pena di morte lasci morire in condizioni disumane in carcere?". F.A. ricorre al professor Veronesi per dire che l’ergastolo è antiscientifico "perché si cambia e solo dando fiducia agli uomini si costruiscono altri uomini e io grazie all’area pedagogica mi sono laureato essendo entrato analfabeta". F.S. ha intravisto una speranza "attraverso un percorso trattamentale con l’area educativa che dopo 21 anni e mezzo mi ha consentito di accedere allo scorporo ed il mio ergastolo è diventato normale". Durissimo F.T.: "Dal 2005 sento che ergastolo verrà abolito - dice alla platea - Penso che fino a che non porterà voti questo non accadrà". Da ex ergastolano cui è stata commutata la pena in 37 anni, R.F. prova disagio "nei confronti dei compagni in ostativo cui resta solo la vita che scorre nelle vene, perché vivono nella tortura tutti i giorni. Ed io sento la libertà che mi accarezza e si avvicina". Infine R.C., che sta scontando l’ergastolo da innocente, ed è soltanto una delle innumerevoli vittime del malato sistema giudiziario italiano, che "con ingenuità da terzomondista, penso che la Cassazione sia roba seria e riconosca la mia innocenza per un omicidio su cui il Pubblico ministero ha già dichiarato che non erano in grado di chiarire le responsabilità ed essendosi già costituito il vero colpevole. Ma le pressioni xenofobe evidentemente hanno vinto. Devo attendere 20 anni per dimostrare la mia innocenza?". Così come innocente si è sempre proclamato Brega Massone, che seppur presente in sala non ha voluto prendere la parola insieme agli altri condannati ed a cui ieri hanno confermato l’ergastolo in appello. Ma alla fine la sensazione è che "qualcosa è cambiato" e che si sia rafforzato il percorso che sconfigga la violazione delle garanzie e riporti l’esecuzione della pena, anche la più cruda che la giustizia decida di infliggere, nell’alveo costituzionale. Populismo giudiziario, politica autoritaria di Dimitri Buffa L’Opinione, 22 dicembre 2015 La Rai non dovrebbe permettersi di fare fiction su processi penali ancora in corso. Come quello al medico Pierpaolo Brega Massone tanto per intendersi. Andato in onda circa un anno orsono. Fiction che oltretutto spesso sono piene di ricostruzioni di parte, quando non errate, dei fatti. Ma è purtroppo la regola visto che anche per il palinsesto 2016 sono previste tante iniziative di stampo forcaiolo e giustizialista in materia di anti mafia, anti corruzione e via dicendo. "Il mondo come volontà e rappresentazione del pubblico ministero". Per parafrasare Schopenauer. E citando anche il brillante intervento di Arturo Diaconale (che della Rai è membro del Cda in quota centrodestra, con la "mission impossible" di riportare equilibrio e garanzie civili per la gente, imputati compresi, nei palinsesti di viale Mazzini) al congresso di Nessuno Tocchi Caino appena concluso. Proprio Diaconale ci ha dato la ferale notizia di ciò che bolle ai piani alti di viale Mazzini. In materia di pensiero unico forcaiol-giustizialista-manettaro. Una maledizione, anche economica, da cui l’Italia non riesce ad emanciparsi da quando qualcuno, forse all’estero, si inventò l’operazione "Mani pulite". Per fottere Bettino Craxi, riuscendoci benissimo, e per mandare l’ex Pci al governo, in quest’ultimo caso fallendo l’obiettivo e anzi innescando il fenomeno politico di Silvio Berlusconi. Oggi forse al tramonto, dopo 20 anni di tentativi vani di cambiare l’Italia delle tricoteuses. E in effetti il dibattito più interessante dell’appena finito congresso di Nessuno Tocchi Caino, tenutosi nello speciale ambiente del carcere di Opera a Milano (nella foto), è stato proprio quello di sabato mattina cui aveva partecipato Arturo Diaconale, che delle suddette tematiche garantiste si è fatto interprete in questi mesi con il Tribunale Dreyfus le cui iniziative sono state coordinate da Barbara Alessandrini. Tra i presenti, oltre allo stesso Diaconale, c’erano Alessio Falconio (direttore di Radio Radicale), Piero Sansonetti (direttore de "Il Dubbio"), Roberto Cannavò, Luigi Crespi (sondaggista, direttore di Crespi Ricerche), Marco Pannella (presidente di Nessuno Tocchi Caino, Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito) e Sergio Segio (ex capo di Prima Linea, poi dissociatosi dalla lotta armata, e oggi direttore dell’Associazione SocietàINformazione). Il minimo comune denominatore dell’analisi di questo eterogeneo parterre era nel concordare sul fatto che l’emergenza sia diventata un vero e proprio progetto politico. La conseguenza di ciò è che, oltre a tante fortune editoriali costruite non di rado solo su carte di pm poi smentiti da giudici giudicanti, si è creato un humus il cui baricentro forcaiolo è passato dai "magistrati protagonisti sempre in televisione" ai giornalisti militanti "dall’instant book facile". Viene chiamato "populismo penale" ed è ormai vissuto come un vero e proprio "disegno politico", trasversale agli schieramenti, iniziato all’epoca del terrorismo, proseguito con la lotta alla mafia e poi fino a lotta alla pedofilia, al femminicidio, agli ultras degli stadi violenti e agli ubriachi dell’omicidio stradale. Le disgrazie della vita e i fenomeni del degrado sociale trasformati in voti passando attraverso leggi draconiane e spesso inapplicabili. Una specialità della casa. Il fondamento di questo progetto populista e pan-penalista consiste nel tenere il cittadino in costante e spesso immotivata angoscia mediatica per poi offrire la soluzione salvifica quasi sempre di stampo autoritario. Le carceri diventano così una forma di vendetta sociale di un Paese frustrato dall’impoverimento e assediato da una popolazione che tende a dare ai politici, non a torto, la colpa un po’ di tutto. E i politici, alla Angelino Alfano tanto per non fare nomi, come reagiscono? Fanno a gara nel bullismo mediatico che fa loro decantare in tivù le lodi del 41 bis o dell’ergastolo ostativo. Così l’olocausto mediatico di chi incappa nelle maglie pesanti della giustizia, le manette esposte in tv, serve ad esorcizzare il malcontento generale. E a dare ai cittadini italiani, nel frattempo trasformati tendenzialmente in "plebe", il contentino di repertorio. Il risultato è che, benché "la Costituzione più bella del mondo che mai nessuno dovrà cambiare" prevede all’articolo 79 i provvedimenti di clemenza (come l’indulto e l’amnistia) proprio come rimedi alle spinte demagogiche in campo penale che periodicamente hanno contraddistinto il nostro Paese fin dagli anni Trenta, in Italia sembra che solo il Papa abbia il coraggio di parlare di amnistia. Ma questo si può capire: lui non ha il problema di essere rieletto. La tortura del 41 bis di Maria Brucale L’Opinione, 22 dicembre 2015 Pubblichiamo di seguito l’intervento dell’avvocato Maria Brucale al VI Congresso organizzato da "Nessuno Tocchi Caino" e tenutosi nel carcere di Opera il 18 e 19 dicembre. "Per come è concepito, previsto, disciplinato e attuato il 41 bis è vendetta di Stato, è tortura. È interruzione dello stato di diritto. Una norma di natura emergenziale resa ormai stabile il cui obiettivo è, oggi più che mai, la mera punizione e afflizione. Si legge tra le righe della novella del 2009 che espressamente contempla l’indifferenza del tempo trascorso rispetto alla valutazione della necessità di mantenere in capo a un soggetto la misura restrittiva. Immanenza di un regime privato che è in ogni suo momento attuativo esclusione, annichilimento, fino alla privazione sensoriale. Indici da valutare. Per la proroga. Profilo criminale, rango rivestito dal soggetto, perdurante operatività del sodalizio, nuove incriminazioni sopravvenute. Unici indici valutati, tuttavia, da quando la competenza a giudicare è esclusivamente a Roma, sono il ruolo all’epoca (spesso molti anni addietro) - rivestito e l’esistenza in vita dell’associazione (nessun peso assenza di nuove contestazioni; di contatti; tempo trascorso), immanenza (esistenza in vita dell’associazione spesso equivale alla astratta affermazione che la mafia esiste). Supercarcere di Bancali: luogo di sepoltura a norma di legge, un alveare i cui spazi sono concepiti per isolare il detenuto, da tutto e da tutti, anche da se stesso. Le celle, collocate in una sezione in cui si trovano non più di 4 detenuti, ha accanto la sala video da cui assistere ai processi. Ogni sezione ha il suo rettangolo per l’ora d’aria. Una strettoia di cemento senza cielo. Tutta la vita avviene in uno spazio di 10 metri quadrati, neppure un corridoio da percorrere, un saluto accidentale e frettoloso da scambiare con qualcuno. Tortura a norma di legge, con una interpretazione della legge che volutamente travalica ogni ragionevolezza nel ritenere qualunque lesione della dignità umana rispondente a scopi di prevenzione e sicurezza. In realtà, pressoché nessuna delle prescrizioni imposte dal regime i 41 bis risponde a logiche di sicurezza e si prevenzione del crimine. Alcune risultano stridenti nella loro gratuita ferocia e nella esplicita e tracotante negazione dei diritti umani. Di recente un mio assistito è stato ricoverato nel reparto detentivo di un ospedale. In carcere una gastroscopia aveva svelato una massa sospetta. Ho incontrato il medico che lo aveva in cura e mi ha detto che temeva si trattasse di un tumore perché il colorito verdognolo del viso purtroppo era spesso un sintomo di quella malattia. L’ho rasserenato, con profonda sofferenza. Gli ho spiegato che era il sintomo di un’altra malattia, la reclusione in 41 bis per oltre 15 anni. Quindici anni senza la luce del sole; celle schermate in spazi aperti coperti da griglie. Quindici anni senza un angolo di cielo. Gli ho raccontato che vederlo in ospedale mi aveva spiazzata perché mi ero resa conto che, pur avendo finalmente una finestra sul cielo, aveva smesso di guardarlo. Quale rispondenza alla prevenzione? Alla sicurezza? I 41 bis non hanno prospettive visive. Il loro sguardo è interrotto dal cemento, in ogni direzione, a tutta altezza. Una visione kafkiana del mondo che si sposa appieno con la frequente, concorrente condizione di ergastolani ostativi. Una vita senza luce. Sono privati dell’affettività, di una carezza ai propri genitori, ai propri figli, per anni e anni. I loro figli non sono bambini come gli altri. Lo Stato pretende che non lo siano. I bambini di reclusi in 41 bis non hanno diritti. I protocolli dell’infanzia e i loro sperticati proclami sulla tutela delle esigenze dei minori cui sempre deve essere accordata prevalenza, sulla necessità che lo Stato aiuti e accompagni questa infanzia dietro le sbarre, perché la carcerazione di un congiunto non sia un trauma feroce, indelebile nella crescita di un bambino. La necessità, proclamata nei protocolli, che i colloqui avvengano in luoghi adatti all’infanzia, colorati, puliti, che il personale sia formato ad accogliere i minori, a tranquillizzarli, niente vale per i figli dei 41 bis. Una piccola cella di ferro e vetro, spoglia, vestita di niente, accoglie i figli dei detenuti in 41 bis. Un vetro antiproiettile a tutta altezza li separa dal loro caro che incontrano per un’ora, una volta al mese. Se il detenuto ne fa richiesta, possono toccarlo, abbracciarlo per dieci minuti, ma gli adulti che lo accompagnano devono essere allontanati. Altro che trauma! Vengono accompagnati da un agente penitenziario tra le braccia di un uomo che conoscono appena mentre i suoi familiari vengono allontanati. Dopo i dieci minuti concessi il feroce passaggio si ripete. Questo fino al compimento del dodicesimo anno di età. Dopo saranno adulti e pericolosi. Lo dice la legge! I bambini dei detenuti in circuiti diversi dal 41 bis. La loro infanzia è importante, è protetta. Non quella dei figli dei 41 bis. I loro genitori non sono uomini. Loro non sono bambini. Così sul detenuto grava oltre alla disperazione oggettiva della sua condizione, anche l’orrore di un male inflitto a causa sua ai suoi cari, ai suoi figli, ai suoi affetti, una condizione di disperazione oggettiva che si incancrenisce in un tempo che non si muove. La vita in ogni sua forma si interrompe nel silenzio delle mura di un 41 bis. Dal 2011 anche la possibilità di leggere, studiare, informarsi, è stata compressa inesorabilmente da una circolare che dopo altalenanti pronunce dei giudici di merito, è stata definitivamente avallata dalla Corte di Cassazione. Qualunque materiale di cultura o informazione può essere acquistato dal detenuto con il denaro che è custodito in carcere, attraverso l’amministrazione penitenziaria. Il detenuto deve sottrarre al vitto e alle sue piccole necessità la possibilità di informarsi e, soprattutto, deve affidare ai tempi ed alle risorse della amministrazione penitenziaria la stessa possibilità di ottenere i testi che desidera leggere. Spesso la risposta sarà che non è stato possibile reperirli e amen. Di recente a un mio assistito è stata negata la bibbia, impossibile trovarne una con la copertina rigida! Perfino i progetti universitari, cui le stesse carceri aderiscono, vengono risucchiati dalla legge del sospetto. Deprivazione sensoriale, sospensione del pensiero, della volontà e della speranza. Tortura, ecco tutto!". L’ergastolo ostativo e le nostre Guantánamo di Arturo Diaconale L’Opinione, 22 dicembre 2015 Pare che il film degli anni Sessanta di Gillo Pontecorvo "La battaglia di Algeri" venga riproposto nella accademie militari di alcuni Paesi per illustrare la tecnica più proficua per combattere il terrorismo. Questa tecnica altri non è che la tortura. Cioè una serie di atti di violenza fisica e psicologica diretta a spezzare la capacità di resistenza del terrorista spingendolo a confessare ed a rivelare i nomi dei propri compagni e complici. La tortura è bandita e condannata in qualsiasi Paese civile. Ma, troppo spesso, a dispetto di ogni proclamazione dei diritti umani, viene concretamente praticata. Sempre, ovviamente, in nome di una qualche emergenza che impone di subordinare il rispetto dei diritti alle esigenze della difesa della società sotto attacco. In Francia, forse nel ricordo dei paracadutisti che per vincere la battaglia di Algeri torturavano i terroristi del Fln, dopo gli attentati di Parigi il presidente Hollande ha proposto la modifica della Costituzione per combattere più efficacemente i suoi aggressori. Gli Stati Uniti, senza modificare alcunché, hanno Guantánamo. E l’Italia? Il nostro Paese non ha bisogno né di seguire l’esempio francese e neppure quello americano. Perché non solo ha già da tempo una legislazione emergenziale che, dopo aver dato buone prove contro il terrorismo nostrano degli anni di piombo, è stata applicata anche alla lotta alla mafia ed alla criminalità organizzata. Ma, soprattutto, perché ha da tempo le sue Guantánamo in quegli istituti penitenziari dove sono reclusi i condannati al cosiddetto ergastolo ostativo. La differenza tra l’ergastolo normale e quello ostativo è semplice. Il primo lascia accesa una speranza di tornare in libertà dopo aver espiato la maggior parte della pena grazie ai benefici della buona condotta. Il secondo la cancella perché esclude ogni forma di beneficio a chi, alla buona condotta, non aggiunga una adeguata collaborazione alla lotta alle diverse emergenze da fronteggiare. Siano esse terroristiche o mafiose. È difficile stabilire quale sia la forma di tortura più criticabile. Se quella dei parà francesi che si esplicava al momento della cattura del terrorista e puntava con la fiamma ossidrica, le scariche elettriche, i soffocamenti e le bastonate ad ottenere una collaborazione immediata. O se quella nostrana che punta sul "fine pena mai" e sulla costrizione psicologica di chi, senza pentimenti e collaborazione, sa che la sua è una condanna a morte differita. Di fatto tortura è la prima e tortura è la seconda. E non c’è emergenza che possa giustificare violazioni così gravi ed efferate di quei valori civili ed umani che si vogliono e si debbono difendere contro i terroristi ed i criminali decisi a calpestarli. Sono stato nel carcere di Opera per seguire il congresso di "Nessuno tocchi Caino". E ho registrato l’esistenza delle nostre Guantánamo degli ergastoli ostativi e ho avuto la conferma che la battaglia contro gli eccessi emergenziali è giusta è sacrosanta. Perché "sorvegliare e punire" resta un dogma invalicabile di Alessandro Leogrande pagina99we, 22 dicembre 2015 Rispetto all’anno record 2010, oggi nelle nostre carceri ci sono "solo" 52.636 persone. Oltre 18 mila non sono condannate in via definitiva. Eppure affollano celle in cui si consumano violenze e suicidi. È possibile ridurre l’impatto del carcere sulla nostra società? È possibile pensare, ideare, sostenere modi e forme diverse di scontare la pena? Benché la Costituzione approvata nel 1948 parli genericamente di "pene" e non di "istituti penali", e dica all’articolo 27 che tali "pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato", l’associazione tra condanna e istituzione carceraria si è talmente radicata nel sentire di tutti da apparire ormai insuperabile. Questa incapacità di ripensare il sistema carcere ha portato nel 2010 a raggiungere la soglia-limite di 66.561 detenuti, nonostante che la capienza regolamentare fosse di soli 43.327 posti. È allora che, anche in un dibattito pubblico periodicamente venato da pulsioni giustizialiste, si è fatta strada l’idea che il sovraffollamento delle carceri fosse qualcosa di inaccettabile. Di "situazione intollerabile" parlò anche più volte il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Oggi in Italia (i dati più recenti sono quelli del 30 novembre 2015) scontano la propria condanna in una cella "solo" 52.636 persone, tra cui 17.387 stranieri, all’interno di istituti che secondo il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) avrebbero una capienza regolamentare di 49.605 posti, ma che secondo l’associazione Antigone, che da anni si occupa di diritti e garanzie nel sistema penale, sarebbero in realtà qualche migliaio in meno. Tra i detenuti, solo 34 mila sono condannati definitivi: tutti gli altri sono in attesa del primo giudizio (quasi novemila) o di una sentenza passata in giudicato. Ad abbassare il numero della popolazione carceraria ha contribuito la sentenza Torreggiani pronunciata nel 2013 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. In seguito a una serie di ricorsi presentati da Mino Torreggiani e altri sei detenuti (due italiani, due marocchini, un ivoriano e un albanese), che lamentavano di aver subito un trattamento degradante, poiché erano stati costretti a vivere in celle di nove metri quadrati insieme ad altre persone, la Corte ha dato all’Italia un anno di tempo per adeguare le condizioni dei propri istituti di pena a parametri che fossero rispettosi della dignità umana e per risolvere le cause strutturali del sovraffollamento. Così, per non incorrere in ulteriori sanzioni, è stato approvato in tutta fretta il decreto svuota-carceri del 2014. A esso si aggiunge, quale ulteriore fattore di svuotamento, la sentenza della Corte costituzionale che ha abolito la Fini-Giovanardi, rigettando l’equiparazione tra droghe pesanti e droghe leggere, e permettendo ad alcune migliaia di detenuti per possesso di lievi entità di sostanze stupefacenti di uscire dalle proprie celle. Quando si parla di carceri italiane, bisogna sempre tenere a mente che un terzo dei detenuti è condannato a lievi pene per possesso, detenzione o spaccio. A fronte di questo ridimensionamento della popolazione costretta a scontare in una cella mesi o anni di detenzione, c’è stato negli ultimi anni un aumento delle misure alternative, quelle stesse misure cioè che, non prevedendo la reclusione, in Francia e in altri Paesi dell’Unione europea costituiscono ormai la principale forma di pena. Al 30 novembre 2015, sono 32.400 le persone che scontano già la propria condanna, o attendono il giudizio penale, fuori dal ristretto guscio di una cella sovraffollata. Rispetto al 2010, per esempio, ci sono quattromila persone in più che scontano una detenzione domiciliare e quattromila persone in più che usufruiscono dell’affidamento in prova. Insomma, rispetto all’annus horribilis 2010, oggi in Italia più o meno il 38% dei detenuti è temporaneamente affidato a misure alternative. Tuttavia è ancora presto per intravedere in questo miglioramento un cambiamento strutturale del pachiderma penitenziario italiano. E questo per almeno tre motivi. Il primo è di natura economica. Se guardiamo i dati del bilancio complessivo dell’Amministrazione penitenziaria per il 2015, ci accorgiamo che solo uno striminzito 2,5% è destinato alla cosiddetta "esecuzione penale esterna". Il grosso della torta è destinato alla polizia penitenziaria (67,7%) e alla gestione delle strutture (15,7%). Detto con altre parole, è lo stesso sistema carcere che continua ad alimentare se stesso, riducendo a un lumicino il sostegno economico a una alternativa. Il secondo motivo è che il parziale svuotamento delle carceri è stato determinato più dalla paura di non incorrere in ulteriori sanzioni Ue che non dalla volontà di pensare a una riforma strutturale dell’intero sistema. Prova ne è che all’inizio di quest’anno la stessa maggioranza ha fatto decadere i termini per convertire in legge il decreto che puntava a sostituire il carcere con i domiciliari per reati fino a 5 anni, dando un ulteriore impulso alle misure alternative. Ciò è accaduto unicamente per evitare di sottostare al fuoco di fila di Lega, M5S, Fratelli d’Italia e di tutti coloro che intravedono nel carcere il principale strumento per fronteggiare la questione sicurezza. Il terzo motivo riguarda il carcere stesso. Il dato caratteristico degli istituti italiani, ancora più del sovraffollamento, è la violenza intollerabile che sfocia al suo interno. Vi sono violenze degli agenti sui detenuti, come dimostra il recente caso di Rachid Assarag, detenuto marocchino che ha registrato di nascosto le voci di chi lo aveva ripetutamente picchiato. Violenze dei detenuti su altri detenuti. Violenze su se stessi. Dei morti in carcere (per suicidio, assistenza sanitaria disastrata, overdose o per cause non meglio chiarite) in genere si parla pochissimo, eppure sono tantissimi. Secondo un dossier pubblicato su www.ristretti.it, sono 2.481 i detenuti morti nelle nostre carceri negli ultimi quindici anni. Di questi, 884 per suicidio. Poi ci sono anche i casi di suicidio tra gli agenti di polizia penitenziaria, di cui si parla altrettanto poco. Come si legge nel volume Abolire il carcere di Manconi, Anastasia, Calderone e Resta (Chiarelettere): "Negli ultimi dieci anni oltre cento agenti che prestavano servizio in carcere si sono tolti la vita". È questa violenza strutturale che va posta sotto i riflettori. Da Parigi a Stoccolma, dove la pena non esclude di Valentina Calderone pagina99we, 22 dicembre 2015 Stupirebbe scoprire come, andando in giro per l’Europa, sia molto comune incontrare per strada persone che stanno scontando una condanna per aver commesso un reato. È impossibile riconoscerle, non indossano segni distintivi particolari. Così, se a Bruxelles vai a trovare un anziano in una casa di cura, potresti non accorgerti che l’uomo affaccendato intorno al letto del tuo caro sta espiando una pena. Si chiama lavoro nell’interesse della collettività, e può avere varie forme: l’obbligo di pulire delle aree pubbliche, di fare manutenzioni in spazi verdi o di prestare servizio presso un ospedale. Il fondamento di questa sanzione risiede nell’idea della riabilitazione dell’autore di un reato attraverso l’adesione volontaria a lavori di utilità sociale. Non trattandosi di un impiego retribuito non può essere obbligatorio, ma accettarlo significa risparmiarsi l’ingresso in carcere. I Paesi che hanno adottato questo metodo come pena principale - Belgio, Francia, Paesi Bassi - sanno bene quanto il carcere, soprattutto quando sanziona reati di lieve entità, sia estremamente dannoso (basti pensare che in Francia le pene non detentive arrivano al 69%: a fine 2014, per 77.291 persone in carcere ce n’erano 172.007 in misura esterna). Meglio allora investire in attività che abbiano come scopo quello della revisione critica dell’azione criminale, inserendo gli autori nella collettività, non escludendoli. Misure di comunità, appunto, proprio perché in quella società il reo prima o poi dovrà tornare. Certo, se nella comunità esistono persone responsabili di reati, allo stesso modo esistono le loro vittime ed è lecito chiedersi se e come queste ultime siano prese in considerazione. Il furto di un computer portatile, per esempio, ha diversi significati. Per chi lo ha rubato è solo uno strumento da possedere o vendere, per il tribunale è un oggetto con un valore di mercato, per il proprietario può essere il contenitore di fotografie, di appunti di lavoro o di musica collezionata in anni di ascolto. Trovarmi davanti la persona a cui ho rubato il computer, scoprire che con il mio gesto ho distrutto ricordi irrecuperabili e mesi di studio, può essere più efficace di qualche mese di carcere. Allo stesso modo avere l’occasione di parlare con chi mi ha fatto un torto, ascoltare le sue ragioni e poter avanzare delle richieste, è utile tanto quanto - se non più - del risarcimento in denaro. Questo istituto si chiama mediazione penale ed è il cardine della giustizia riparativa, contrapposta a quella retributiva. In Paesi come Germania, Francia, Svezia e Regno Unito viene applicato per reati che prevedono pene brevi, in Austria la possibilità di avvalersi della mediazione è prevista per quelli puniti fino a un massimo di cinque anni. Non è certo il denaro la soluzione a ogni problema di giustizia, ma di sicuro le sanzioni pecuniarie comminate come principali in luogo del carcere possono rappresentare un’importante opportunità, soprattutto in un sistema come quello italiano in cui il costo medio per detenuto è di circa 124 euro al giorno. In Germania, e in molti altri Stati, esiste l’istituto del giorno-ammenda: a fronte dell’individuazione della pena detentiva da infliggere, viene calcolato il corrispondente ammontare pecuniario dovuto dall’autore del reato. Nei Paesi in cui la sua applicazione ottiene migliori risultati in termini di riscossione, la somma dovuta non viene calcolata a parametri fissi (come avviene da noi), ma commisurata all’effettiva capacità del reo di farvi fronte. La principale differenza con l’Italia risiede proprio nell’idea di cosa debba essere la pena. Nel nostro Paese quasi tutto si risolve in pena detentiva o pena pecuniaria. Gli ultimi dati relativi ai condannati risalgono al 2011 e su 332.473 delitti compiuti, solo il 18,1% sono stati sanzionati con una multa e, inoltre, solo il 10,14% delle pene era superiore a due anni. Un esercito di condannati a pochi mesi i quali, se non possono usufruire della sospensione condizionale o di misure alternative, finiscono dentro un carcere. Pur essendoci nel nostro ordinamento molte misure diverse, il punto è proprio che queste sono "alternative" alla detenzione, innegabilmente utilizzata come pena principale. Sapere poi che per queste alternative viene destinato solo il 2,5% dei tre miliardi del bilancio dell’amministrazione penitenziaria (vedi il grafico in basso), e che negli uffici dell’esecuzione penale esterna sono impiegate 1.500 persone per gestire 32.400 pratiche, senza contare le messe alla prova, dà la misura di quanta strada ci sia ancora da fare per raggiungere l’Europa. Braccialetti elettronici, un investimento costoso e invisibile di Giuliana De Vivo pagina99we, 22 dicembre 2015 Avrebbe dovuto favorire la concessione degli arresti domiciliari agli imputati in attesa di giudizio o ai condannati con pena da scontare tra le mura di casa, facilitandone il controllo. Ridurre la popolazione carceraria e contenere i costi. Invece a oltre quindici anni di distanza il braccialetto elettronico, introdotto con il decreto legge n. 341 del 2000 (che ha modificato l’articolo 275 bis del codice di procedura penale) ha prodotto pochi effetti e molte polemiche: da ultima, tra il 30 novembre e il 4 dicembre scorsi, è stata l’Unione delle Camere Penali a promuovere l’astensione dalle udienze. "Più braccialetti elettronici, meno carcere", lo slogan per denunciare che la norma trova spesso applicazione solo virtuale, "perché nella maggior parte dei casi il giudice vincola il beneficio dei domiciliari alla verifica dell’effettiva disponibilità del braccialetto", spiega l’avvocato Valentina Alberta, referente per il carcere della Camera Penale di Milano: "Quando il dispositivo manca, l’imputato viene inserito in una lista d’attesa, e di fatto resta in cella finché non se ne libera uno". Di recente la Cassazione (sentenza n. 35571 dell’agosto scorso), cambiando il suo precedente orientamento, ha stabilito che la concessione della misura non può essere subordinata alla concreta possibilità di impiego dei braccialetti. Come mai questi strumenti - che in Italia in realtà sono delle cavigliere - scarseggiano? "Oggi ce ne sono in circolazione circa duemila, ne servirebbero almeno seimila", argomenta l’avvocato Riccardo Polidoro, presidente dell’Osservatorio Carcere. E già questi sono costati un occhio della testa: 11 milioni di euro ogni anno. Il contratto di fornitura stipulato nel 2001 dal ministero dell’Interno con Telecom Italia per il noleggio, l’installazione e il collegamento alle centraline di polizia, carabinieri e guardia di finanza, aveva durata decennale. Fino alla sua prima scadenza se ne sono visti in media appena 15 all’anno, secondo la Corte dei conti, che in una delibera del 2012 stigmatizzò "la sproporzione tra gli elevati costi e il numero veramente esiguo delle avvenute utilizzazioni". Il vice capo della polizia Francesco Cirillo, ascoltato in Parlamento, ammise: "Se fossimo andati da Bulgari avremmo speso meno". Eppure il Viminale nello stesso anno decise di rinnovare la convenzione fino al 2018, portando il numero di dispositivi dai 500 del primo appalto ai duemila attuali. "Essendo economie di scala, costerebbe meno produrne ancora di più", fa notare l’avvocato Alberta. A investimento fatto, almeno non vanificare del tutto la spesa. Quando la cella è una Porta Santa: le iniziative giubilari nelle carceri italiane di Patrizia Caiffa agensir.it, 22 dicembre 2015 Dal grande carcere romano di Rebibbia alla più piccola casa circondariale, in Italia tutti gli istituti penitenziari, con i loro cappellani, si stanno attrezzando per vivere al meglio l’Anno della Misericordia. Tante le Porte Sante aperte, altre se ne apriranno durante le festività natalizie e a seguire. Si moltiplicano catechesi, eventi e iniziative speciali. Il cammino di conversione è appena iniziato. Dal grande carcere romano di Rebibbia - che nelle sue quattro sezioni ospita oltre 2.200 detenuti - a penitenziari meno conosciuti come quello di Castrovillari o di Avellino: quasi tutti hanno aperto o apriranno nei prossimi giorni le loro Porte Sante, decorate con fiori, a volte con materiali di scarto riciclati e dipinti realizzati dai detenuti stessi. Perfino le zampogne sono entrate tra le mura del carcere, come avvenuto a Cassino. Tra i primi a celebrare con grande solennità l’apertura del Giubileo l’8 dicembre proprio il carcere di Rebibbia, che annuncia numerose iniziative pubbliche con i detenuti, e poi anche con gli operatori, dalla primavera 2016: un pellegrinaggio a San Pietro o al Santuario del Divino amore o all’ostello Caritas; una serata di preghiera del Rosario in piazza San Pietro; celebrazioni con le famiglie. Con una novità mai accaduta prima: dopo Natale i detenuti potranno sostare da soli in preghiera nelle cappelle del carcere. Anche lo storico istituto romano di Regina Coeli, a via della Lungara, ha in programma diversi eventi e catechesi mirate e aprirà la Porta Santa subito dopo le festività natalizie. Porte Sante sono già state aperte dai rispettivi vescovi nei penitenziari di Modena, Venezia, Milano, Castrovillari, Avellino, Salerno, Velletri, Cassino, una lunga lista che manca di tanti altri nomi e si arricchirà con il carcere di Rieti il 24 dicembre e di Padova il 27 dicembre. Il cardinale Angelo Scola incontrerà invece i detenuti del carcere di Monza il 23 dicembre. Papa Francesco, nella bolla di indizione del Giubileo della Misericordia, aveva invitato a considerare l’ingresso della propria cella come una Porta Santa, simbolica chiamata alla conversione. Cosa sta accadendo nelle carceri italiane? Ogni carcere sceglie come celebrare il Giubileo. "Ogni carcere ha scelto propri segni e modi espressivi per rendere visibile l’evento", spiega don Virgilio Balducchi, ispettore capo dei cappellani penitenziari, che ha aperto la Porta Santa al carcere femminile di San Vittore, a Milano: "Qualcuno considera la porta della cappella come Porta Santa, altri hanno messo dei simboli su ogni cella e hanno pregato. Si sono svolte processioni e preghiere, celebrazioni dell’Eucarestia". "C’è stata una bella risposta da parte dei detenuti - osserva -. I continui riferimenti di Papa Francesco al mondo del carcere, compreso l’ultimo accenno all’amnistia nel Messaggio per la Giornata mondiale della Pace, stanno dando un respiro di speranza a chi vive tra queste mura, facendo capire che Dio non abbandona nessuno". Dalle lettere che i detenuti hanno inviato al Papa, ad esempio, traspare "grande gratitudine e la percezione dell’incontro con un Dio che non vuol giudicare ma incontrare". "Bisogna far lavorare Dio in profondità nel cuore dell’uomo - dice. Penso che alcuni potranno fare grandi cambiamenti. Papa Francesco sta facendo riavvicinare molte persone". Senza dire nomi e cognomi riferisce di molti detenuti che gli confessano la loro intenzione di riavvicinarsi alla fede e cambiare vita: "L’incontro con Dio è qualcosa di molto personale. È normale che si tenga al segreto se il proprio cuore si sta aprendo". A Regina Coeli si aprirà nel 2016. A via della Lungara a Roma, la Porta Santa dell’antico carcere di Regina Coeli, che accoglie circa 1.000 detenuti, sarà aperta ufficialmente nel 2016. Nella grande rotonda saranno posti dei cartelloni per illustrare i temi dell’Anno Santo e i detenuti che decideranno di partecipare saranno preparati con una approfondita catechesi. Intanto l’associazione di volontari Vo.re.co ha inaugurato in questi giorni un piccolo ambulatorio di strada davanti al carcere, che aiuterà chiunque. In questa sede aprirà anche un "angolo del pellegrino", con un caffè caldo per chi passa. La scorsa settimana, nella seconda rotonda, si è svolta una piccola cerimonia per benedire una statua della Madonna restaurata dai detenuti. Ogni domenica vengono letti i testi del Papa che parlano del carcere. Ogni settore ha sacerdoti volontari che si occupano delle confessioni, per raggiungere più persone possibili. "Stiamo attrezzando una cappella per il Giubileo e stilando un programma di iniziative con tutti i settori - racconta padre Vittorio Trani, cappellano di Regina Coeli da oltre 35 anni. Abbiamo due èquipe di catechisti". Sul tema misericordia e possibili conversioni padre Trani osserva: "Il percorso della fede è personale e delicato, bisogna prendere le persone per mano e accompagnarle in questo cammino. La figura e la vicinanza del Papa è sicuramente trainante per persone che vivono una esperienza di emarginazione". A Rebibbia tante iniziative e novità. Nelle quattro carceri di Rebibbia il Giubileo è stato aperto in giorni diversi, a partire dall’8 dicembre, per permettere a tutti i cappellani di celebrare insieme. "Siamo appena all’inizio ma stiamo cercando di far capire il senso del Giubileo. È ancora presto per verificare se sia sentito o meno, ma siamo partiti alla grande e vogliamo continuare a fare altri gesti significativi". Così don Sandro Spriano, cappellano di Rebibbia che svolge il suo servizio in carcere da 25 anni. "Abbiamo addobbato decorosamente le porte delle cappelle e coinvolto tutti i detenuti - racconta. Siamo partiti in processione dai vari reparti per raggiungere tutti insieme la porta della chiesa. Poi abbiamo celebrato l’Eucarestia. C’era un’atmosfera di grande silenzio e raccoglimento". Il percorso giubilare è già iniziato con le catechesi e con una grande novità: dopo Natale sarà permesso ai detenuti, in alcuni orari e giorni della settimana, di recarsi liberamente in chiesa per una preghiera spontanea o per una adorazione eucaristica. "Di solito si va insieme, vengono stilati degli elenchi. Ovviamente ci saremo anche noi per aiutarli a riflettere", spiega don Spriano, che ha intenzione di focalizzare molto l’attenzione sulla richiesta di amnistia o di un altro gesto di clemenza, come auspicato da Papa Francesco. "Il passaggio di uscire dalla porta della cella ed entrare in quella di Cristo non è immediato. Però in carcere c’è il tempo per pensarci e la voglia, in molti casi, di riscattarsi". Don Spriano incontra spesso alcuni capi mafia, ogni domenica celebrano l’Eucarestia. Con loro il percorso di conversione "deve partire da molto lontano - afferma. Ricorderò sempre un grande capo mafia che mi disse: don Sandro è la prima volta che mi fa pensare che un omicidio fatto a fin di bene è comunque un male". Non fu terrorismo, assolti i No Tav di Marco Vittone Il Manifesto, 22 dicembre 2015 Confermate in appello le altre accuse. Il terrorismo non c’entra nulla con i No Tav. Lo hanno ribadito i giudici della Corte d’assise d’appello di Torino assolvendo dall’imputazione di terrorismo i quattro attivisti No Tav che nel maggio 2013 parteciparono all’attacco al cantiere della Torino-Lione di Chiomonte, in Val di Susa. La Corte ha confermato la pena di 3 anni e 6 mesi, comminata in primo grado, nei confronti di Claudio Alberto, Niccolò Blasi, Chiara Zenobi e Mattia Zanotti, per i reati di danneggiamento, fabbricazione e trasporto di armi e resistenza a pubblico ufficiale. A sostenere l’accusa di terrorismo in secondo grado è stato il procuratore generale Marcello Maddalena, al suo ultimo processo, che per i quattro aveva chiesto una condanna a 9 anni e 6 mesi, rilanciando l’ipotesi avanzata in primo grado dai pm Padalino e Rinaudo e già scartata dal tribunale di primo grado. Nella mattinata il pg aveva sottolineato che "il sabotaggio è considerato terrorismo dalla legge" rievocando la storia del "traliccio di Segrate dove trovò la morte Giangiacomo Feltrinelli". Nel 1979, ha ricordato il pg, "le Brigate Rosse lessero un comunicato, durante un processo, in cui spiegavano che Osvaldo (riferendosi a Feltrinelli, ndr) non era una vittima, ma un rivoluzionario caduto combattendo in una operazione di sabotaggio". Il processo ha riguardato l’assalto avvenuto nella notte tra il 13 e il 14 maggio 2013: un gruppo di persone incappucciate prese di mira il cantiere con un fitto lancio di petardi e oggetti. Quella sera fu incendiato un generatore. La procura di Torino ipotizzò l’accusa di attentato con finalità di terrorismo. E a dicembre finirono in carcere i 4 No Tav di area anarchica, sottoposti per un anno a un regime detentivo di massima sicurezza e ora ai domiciliari. Ieri sono usciti dall’aula bunker delle Vallette fra abbracci e applausi dei numerosi No Tav presenti. L’avvocato della difesa Claudio Novaro, ha commentato: "Per la quinta volta un’autorità giudiziaria ci ha dato ragione, affermando che il teorema terrorismo non c’entra con i fatti in questione. È forse ora che la Procura di Torino cominci a porsi domande". Secondo Alberto Perino, leader storico del movimento, "ha vinto la Maddalena Libera Repubblica e non Maddalena che pensava fossimo "terroristi", la procura si è voluta intestardire ed è stata sconfitta un’altra volta, facendo sprecare soldi e tempo ai cittadini". Ieri, l’Autorità garante della concorrenza ha invece sancito "l’incompatibilità post-carica" di Mario Virano, già Commissario straordinario del governo per la Tav Torino-Lione, in relazione al suo incarico di direttore generale di Telt. Condannato il carabiniere che sferrò il calcio al motorino di Massimo Casalnuovo di Giuseppe Galzerano Il Manifesto, 22 dicembre 2015 La Corte d’Appello di Potenza ha condannato il maresciallo dei carabinieri Giovanni Cunsolo - un’ennesima "mela marcia", dirà qualcuno - per omicidio preterintenzionale a 4 anni e 6 mesi di reclusione, all’interdizione dai pubblici uffici per 5 anni e a risarcire i genitori e i fratelli della vittima con la somma di centomila euro. La sera del 20 agosto 2011 aveva sferrato un violento calcio al motorino di Massimo Casalnuovo, un giovane e tranquillo meccanico 22enne di Buonabitacolo (Sa), "colpevole" di guidare senza casco e di non essersi fermato all’alt dei carabinieri della locale stazione. Massimo cade e muore. Una morte assurda e senza motivo, se non per l’ennesimo abuso di potere da parte di un uomo in divisa. Una storia di malapolizia. Al processo lampo di primo grado, svolto a porte chiuse e senza sentire i testimoni, il tribunale di Sala Consilina, poi soppresso, il 5 luglio 2013 assolve il maresciallo perché "il fatto non sussiste", nonostante il pm avesse chiesto una pena di 9 anni e 4 mesi. La Corte di Potenza riparte da zero. All’Appello, iniziato a febbraio, il maresciallo Cunsolo non si è mai presentato in aula ma ha chiesto che il processo si svolgesse a porte chiuse. L’avvocato Cristiano Sandri, fratello di Gabriele, il giovane tifoso romano ucciso sull’autostrada da un colpo di pistola sparato da un poliziotto, chiede di sentire i testimoni, perché non è possibile un processo senza ascoltare i testimoni oculari, che vengono così interrogati per la prima volta. Il carabiniere Luca Chirichella naturalmente si trincera dietro i "non ricordo" e i "non so". Ma gli altri ragazzi fermati quella sera riferiscono con precisione del calcio sferrato dal maresciallo, sotto la cui scarpa la polizia scientifica di Roma riscontra microparticelle della vernice blu del motorino del ragazzo, che dopo una giornata di lavoro nell’officina paterna aveva detto alla madre: "Esco per un giro". Andava lentamente nella piazza del piccolo paese, in una curva trova il posto di blocco. Forse non vede l’alt, non si ferma. Il maresciallo sferra il calcio, che fa tornare Massimo a casa in una bara. La versione ufficiale, a cui nessuno crede, afferma che il ragazzo aveva tentato di fuggire. A ragione Osvaldo, il padre, dice: "Senza quel calcio mio figlio sarebbe stato ancora vivo e non si sarebbe processato nessuno". Il collegio giudicante entra in camera di consiglio alle 10:50, esce alle 13:15 e "con nostro grande stupore", dice una componente del Comitato, le porte si aprono anche per il pubblico. Ancora una volta Cunsolo è contumace. Con la sua condanna, un raggio di sole entra nell’infreddolita Corte d’Appello. "Spero che la sentenza di Potenza serva da monito per tutti gli altri casi - dichiara il padre della vittima - c’è da essere contenti perché l’aria è cambiata". Ora anche i marescialli dei carabinieri vengono condannati per i loro abusi. Cosentino per i giudici è peggio di Riina di Luca Rocca Il Tempo, 22 dicembre 2015 Alla moglie è stato vietato di incontrarlo in carcere. Però può scrivergli. Non si vedono da 9 mesi ma per il gip potrebbero esserci riflessi sulle indagini. Manco fosse il più pericoloso dei boss mafiosi. A Nicola Cosentino, ex sottosegretario all’Economia del governo Berlusconi accusato di concorso esterno in associazione camorristica e per questo imputato da più di quattro anni e detenuto da due e mezzo in custodia cautelare, è stato persino impedito di vedere la moglie. Lo ha deciso ieri il gip del Tribunale di Napoli Nord, che ha negato alla moglie dell’ex parlamentare, Marisa Esposito, l’autorizzazione a recarsi nel penitenziario di Terni dove il marito è rinchiuso. Nel motivare la sua pronuncia, il giudice ha fatto riferimento a un altro processo, quello in cui proprio la consorte dell’ex esponente del Pdl è sotto processo, con rito abbreviato, nell’ambito dell’inchiesta sui presunti favoritismi che Cosentino avrebbe ricevuto, mentre era detenuto nel carcere di Secondigliano, da un agente di polizia penitenziaria. Procedimento che vede imputati, ma con rito ordinario, anche l’ex deputato e lo stesso agente. È da questa premessa che ha preso le mosse la decisione del gip, secondo il quale un incontro fra Cosentino e la moglie, che non si vedono da ben nove mesi, potrebbe avere riflessi imprevedibili sui procedimenti in corso. La motivazione del giudice, però, ha lasciato di stucco i legali di Cosentino, Agostino De Caro e Stefano Montone, che hanno sottolineato con queste parole l’illogicità della pronuncia: "Cosentino può telefonare e scrivere alla moglie ma non può vederla. È un controsenso assoluto". Non solo. Gli stessi legali, che hanno presentano una nuova istanza per domani, evidenziano che "gli incontri in carcere sono i più controllati, essendo video-registrati, e inoltre il gip deve pensare solo ai riflessi sul suo processo, non agli altri procedimenti". Di una cosa gli avvocati sono certi: "Neanche ai boss al 41bis si toglie questo diritto". L’inchiesta che ha coinvolto anche la moglie del politico risale a pochi mesi fa, dopo che il 21 marzo scorso scattò una perquisizione nel carcere di Secondigliano, seguita da una nuova ordinanza di custodia cautelare in carcere per Cosentino, stavolta per corruzione in concorso con altre tre persone. Tra queste, appunto, Marisa Esposito, che venne raggiunta da un obbligo di dimora. Il cognato di Cosentino, Giuseppe Esposito, e l’agente di polizia penitenziaria presunto complice, Umberto Vitale, vennero arrestati. Dopo quella perquisizione, che portò al ritrovamento di un iPod introdotto, probabilmente, in modo illecito, Cosentino venne trasferito a Terni, dov’è tutt’ora detenuto. Sotto la lente d’ingrandimento dei magistrati finirono anche una trentina di incontri che non sarebbero stati consentiti. A parte l’iPod, in cella vennero scovati molti oggetti che, da regolamento carcerario, non si sarebbero dovuti trovare lì. E, fra le "sorprese" rinvenute dal Nucleo investigativo carcerario, anche mozzarelle di bufala e dolci tipici di Casal di Principe. I carabinieri di Caserta, inoltre, filmarono decine di incontri, avvenuti presso un distributore di benzina, fra il cognato di Cosentino e l’agente penitenziario sotto processo. A causa di queste circostanze, che hanno prodotto il processo a carico della moglie, l’ex sottosegretario, dunque, potrà continuare a telefonare alla consorte, ma di vederla, salvo diversa pronuncia prevista per domani, non se ne parla. Di fatto, dunque, Cosentino non solo è detenuto da 850 giorni senza che sia stata ancora emessa nemmeno la sentenza di primo grado, non solo è rinchiuso "preventivamente" dietro le sbarre per fatti risalenti a più di dieci anni fa, ma ora gli viene pure negato di vedere la moglie. Nemmeno fosse Totò Riina. Il Gip può dissequestrare solo se viene meno la funzione probatoria del bene di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 22 dicembre 2015 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 21 dicembre 2015 n. 50169. In caso di sequestro probatorio, il relativo dissequestro può essere chiesto ed accordato soltanto perché il vincolo non è più necessario ai fini della raccolta delle prove. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, sentenza 50169/2015, specificando che il giudice delle indagini preliminari non può ordinare il rilascio per motivi che attengono alla "legittimità del provvedimento", in quanto la competenza a decidere sulla fondatezza del fumus del reato contestato è riservata in via esclusiva al tribunale del riesame. Il caso - La vicenda parte dall’acquisto in Svizzera e poi dall’importazione in Italia di un frammento di un sarcofago egizio risalente all’VIII-VI secolo avanti Cristo rinvenuto a casa dell’imputato a seguito di una perquisizione domiciliare. L’acquirente venne indagato per una serie di reati, fra cui: l’essersi impossessato di un bene culturale appartenente allo Stato; l’averlo introdotto di contrabbando violando le leggi doganali, ecc. Proposta istanza di restituzione, la domanda venne respinta dal Pm. A questo punto l’indagato fece opposizione e il Gip di Sondrio ordinò il dissequestro del bene per assenza del "nesso di pertinenzialità" con i reati contestati. Secondo il magistrato, infatti, l’acquisto, avvenuto a Basilea, era regolare, il bene non risultava tra le opere d’arte censite dai beni culturali e sottratte illecitamente, e via dicendo. Contro questa ordinanza, a sua volta, il Procuratore di Sondrio ha proposto ricorso in Cassazione sostenendo che il Gip si era basato sull’"acritico recepimento" di documenti dell’indagato. La motivazione - I giudici di legittimità, senza entrare nel merito delle contestazioni, hanno affermato che il procedimento che ha ad oggetto la richiesta di dissequestro "deve vertere solo ed esclusivamente sulla necessità di mantenere il vincolo a fini di prova e non anche alla opportunità o legittimità del sequestro". Così stando le cose, prosegue la sentenza, "appare del tutto evidente" che il giudice per le indagini preliminari ha ritenuto l’insussistenza del nesso di pertinenzialità fra il bene sequestrato ed i reati per cui si procede, "non perché fosse venuta meno la necessità di mantenere il vincolo a fini di prova, ma perché, a suo giudizio, in pratica, i reati contestati, o erano insussistenti o, comunque, si erano prescritti". Il magistrato, dunque, "esorbitando dai limitati poteri che la legge gli concede nell’ambito del procedimento di restituzione, si è, di fatto, appropriato dei poteri del Tribunale del Riesame disponendo il dissequestro per motivi del tutto eccentrici e diversi da quelli solo consentitigli". Per queste ragioni la Cassazione ha annullato l’ordinanza di dissequestro, trasmettendo gli atti nuovamente al Gip che dovrà attenersi al seguente principio di diritto: "In tema di sequestro probatorio, con l’opposizione avverso il decreto del P.M. di rigetto della richiesta di restituzione delle cose sequestrate, sono deducibili esclusivamente censure relative alla necessità di mantenere il vincolo a fini di prova, ex art. 262 cod. proc. pen., e non anche alla opportunità o legittimità del sequestro, che possono essere fatte valere con la richiesta di riesame: di conseguenza, non può il giudice per le indagini preliminari ordinare il dissequestro per motivi che attengono alla legittimità del provvedimento genetico, in quanto la competenza a decidere la fondatezza del fumus del reato contestato è riservata in via esclusiva al Tribunale del riesame". Maltrattamenti in famiglia per la madre manesca di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 22 dicembre 2015 Corte d’Appello di Trento - Sezione penale - Sentenza 12 giugno 2015 n. 185. Il genitore che picchia il figlio con sberle o con oggetti contundenti commette il reato di maltrattamenti in famiglia - e non di semplice abuso di mezzi di correzione - anche se le condotte violente sono poste in essere con una finalità correttiva ed educativa. Lo ha ricordato la Corte d’appello di Trento nella sentenza 185/2015, condannando una donna thailandese al reato di cui all’articolo 572 del codice penale, ritenendo irrilevante altresì la circostanza che il modo manesco di crescere la figlia era per la madre proprio della concezione culturale di cui la stessa era portatrice. Il caso - La violenta protagonista della vicenda, sposata con un uomo italiano, era stata denunciata dal marito, una volta avviato l’iter della separazione, per le frequenti percosse e maltrattamenti cui aveva sottoposto la loro figlia di cinque anni, sin da quando la piccola aveva l’età di due anni. Nel procedimento di primo grado svoltosi dinanzi al Gup era emerso che la donna, quando la piccola "si comportava male", colpiva abitualmente quest’ultima con utensili da cucina e altri oggetti contundenti, o le attorcigliava i lobi delle orecchie, o ancora la pizzicava in più punti del corpo. E ciò avveniva non solo in casa, ma anche presso la piscina e la scuola materna che frequentava la bambina. La madre veniva così imputata per il reato di maltrattamenti in famiglia, ma il giudice la condannava al meno grave delitto di abuso dei mezzi di correzione, in quanto la perizia svolta nell’incidente probatorio aveva escluso in capo alla piccola il sorgere di alcun disturbo postraumatico in ragione dagli atteggiamenti materni, "non potendo avere valore esimente la particolare concezione "pedagogica" - di cui la madre era portatrice - essendo stata cresciuta in Thailandia con identici metodi". Le motivazioni - La Corte d’appello cambia però la lettura della vicenda in senso ancor più sfavorevole per la donna. Per i giudici, infatti, la riscontrata assenza di un disturbo postraumatico da stress in capo alla bambina non assume alcuna rilevanza in ordine alla configurabilità del reato di maltrattamenti, in quanto l’accertamento di una malattia derivante dalla condotta violenta integrerebbe al più l’aggravante prevista dal comma 2 dell’articolo 572 cp. Nel caso di specie, poi, è dimostrato che le percosse non erano episodiche, bensì costanti nel percorso di crescita ed educazione della piccola. E ciò nel nostro ordinamento non può essere tollerato: "le finalità di correzione educazione del minore, infatti, "non possono essere perseguite utilizzando un mezzo violento […] né diversi criteri possono essere adottati in relazione al particolare bagaglio socioculturale di cui è portatore l’agente". E tali principi "non sono suscettibili di deroghe di carattere soggettivo e non possono essere oggetto, da parte di chi vive e opera nel nostro territorio ed è quindi soggetto alla legge italiana, di valida eccezione di ignoranza scusabile". Ingiurie dal verbale di assemblea, è diffamazione di Luana Tagliolini Il Sole 24 Ore, 22 dicembre 2015 Corte di cassazione - Sentenza 44387/2015. Attenzione a non riportare frasi ingiuriose nelle lettere inviate ai condomini, anche se riproducono fedelmente ciò che è stato trascritto nel verbale di assemblea. Tale divulgazione, infatti, non inerisce al diritto - dovere di informare i condomini sull’andamento dell’assemblea ma implica il reato di diffamazione (articolo 595 Codice penale). Così si è espressa la Corte di cassazione (sezione penale, sentenza n. 44387 del 2015 ) che ha confermato la condanna dell’amministratore, per il citato reato, per aver inviato una lettera a tutti i condomini in cui riportava le frasi ingiuriose espresse, nel corso di un’assemblea, da un geometra contro due condomini dicendogli che "non capivano niente ed erano malfattori, gentaglia e delinquenti" (uno dei due condòmini offeso era il presidente dell’assemblea che aveva contestato il bilancio predisposto dall’amministratore che si era, successivamente, dimesso). L’amministratore, a sua difesa, richiamava a giustificazione l’articolo 51 Codice penale ("esercizio di un diritto o adempimento di un dovere"), per cui egli aveva il diritto - dovere di informare i condomini sulle vicende relative all’assemblea e su tutte le vicende in generale. Sosteneva che la lettera non era finalizzata a offendere la reputazione dei due condomini - in quanto era indirizzata ai soli diretti interessati - e che le espressioni non erano a lui imputabili (essendosi limitato a riportarle). Non sono stati dello stesso avviso i giudici di legittimità i quali hanno ritenuto che in ordine all’articolo 51 Codice penale "la libertà di riferire i fatti, ed anzi, il dovere quale amministratore di informare i condomini (...) doveva accordarsi con l’interesse della persona offesa a che non venisse amplificata l’espressione ingiuriosa asseritamente pronunciata da un terzo ai suoi danni" non sussistendo alcun interesse generale dei condòmini a conoscere le espressioni ingiuriose pronunciate durante l’assemblea. In pratica l’unico interesse effettivo che andava divulgato a tutti poteva essere quello di far conoscere le dichiarazioni del geometra non avendo utilità alcuna, per i condomini, apprendere l’esistenza di offese nei confronti di alcuni di essi. Nei fatti, la Cassazione ha ribadito che tale divulgazione (accertata dalle lettere inviate a tutti i condomini e non spedite solo ai due soggetti interessati e contenenti anche una serie di ulteriori comunicazioni di interesse condominiale) faceva comodo all’amministratore perché costituiva un canale di trasmissione con il quale le ingiurie potevano diffondersi il più possibile allo scopo di offendere la reputazione dei due condomini. Non è la prima volta che un giudice nel valutare il comportamento dell’amministratore ha configurato il reato di diffamazione quando, per esempio, affigge nell’atrio del condominio i nomi dei condomini morosi. Il comportamento divulgativo ha trovato rilievo anche sotto il profilo della violazione del diritto alla privacy. La disciplina del codice in materia di protezione dei dati personali, di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, prescrive che il trattamento dei dati personali deve avvenire nell’osservanza dei principi di proporzionalità, di pertinenza e di non eccedenza rispetto agli scopi per i quali i dati stessi sono raccolti. La Cassazione, nella fattispecie in esame, ha applicato tali principi della proporzionalità delle condotte in funzione dello scopo da perseguire (divulgare i fatti a scopo informativo e non divulgare le offese non pertinenti allo scopo informativo). Decreto 231, avvocati distinti fra società e rappresentante dell’ente di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 22 dicembre 2015 Corte di cassazione - Sentenza 50102/2015. Il legale rappresentante dell’ente, imputato per il reato sul quale si basa la responsabilità della società, non può nominare il difensore di fiducia destinato a "seguire" anche gli interessi della persona giuridica nel procedimento che la coinvolge. Né la società può costituirsi tramite il suo legale rappresentante imputato. Se lo fa sono nulli tutti gli atti compiuti dal legale incompatibile e si deve ripartire dall’udienza preliminare, per violazione del diritto di difesa dell’ente. La Corte di cassazione, con la sentenza 50102 depositata ieri, accoglie il ricorso di una srl contro la condanna per truffa aggravata che gli era stata inflitta dalla Corte d’appello per aver conseguito erogazioni pubbliche non dovute. A travolgere l’intero giudizio, l’esistenza di interessi contrastanti tra l’ente e il suo legale rappresentante imputato per il reato presupposto e per questo non legittimato a rappresentare la società in prima persona e neppure a scegliere il difensore di fiducia. La Suprema corte ricorda che il Dlgs 231/2001 ha dedicato una disciplina speciale alle modalità di partecipazione dell’ente al procedimento, allo scopo di garantire l’esercizio del diritto di difesa e la rappresentanza nel processo attraverso una persona fisica. Una tutela della quale si occupa l’articolo 39 che prevede la possibilità di partecipazione tramite il legale rappresentante a meno che questo non sia imputato per il reato dal quale discende l’illecito amministrativo. In tal caso è prevista, infatti, un’incompatibilità che deriva dalla presunzione della sussistenza di un conflitto di interessi tra l’ente e il suo rappresentante "destinata a rivelarsi già nel primo atto di competenza di quest’ultimo e cioè la scelta del difensore di fiducia e procuratore speciale senza la cui nomina il soggetto collettivo non può validamente costituirsi". I giudici della Quinta sezione penale sgombrano i dubbi, avanzati in passato, sull’incostituzionalità del paletto posto dall’articolo 39. Il legislatore ha, infatti, fatto in modo che la società non "subisca " un difensore nominato dall’esterno, preferendo lasciare all’ente la scelta del suo rappresentante nel processo, anche nell’ipotesi di conflitto di interessi, facendo ricorso a quanto previsto dallo statuto o dall’atto costitutivo. La violazione del diritto di difesa è dunque scongiurata dalla possibilità di sostituire il legale incompatibile con uno ad hoc. Non resta, ovviamente privo di difesa, neppure l’ente che decide di restare inerte, perché l’articolo 40 del decreto legislativo assicura la nomina del difensore d’ufficio. Nel caso esaminato, l’ente - assistito da un difensore di fiducia incompatibile - era rimasto, di fatto, privo di assistenza. La sentenza impugnata viene annullata senza rinvio. Una nullità che non si ferma al secondo grado, ma si estende anche al primo, fino all’udienza preliminare e al decreto che ha disposto il rinvio a giudizio dell’ente. Si riparte dalla trasmissione degli atti al tribunale per la fissazione di una nuova udienza preliminare in considerazione della richiesta di rinvio a giudizio proposta dal pubblico ministero. L’unico atto che resta valido e in grado di produrre effetti. Se la giustizia non ha pietà di Gian Marco Chiocci Il Tempo, 22 dicembre 2015 Insomma, se Cosentino è colpevole o meno lo stabilirà un processo che procede a rilento e con tanti imbarazzi per le contraddizioni dei pentiti e le risposte a tono di un imputato - innocente fino a prova contraria - scortato a ogni udienza da cinque secondini. Attendiamo fiduciosi. Nell’attesa repelle l’accanimento terapeutico, vedi l’ultimo, col divieto di incontrare la moglie Marisa nella sala colloqui del penitenziario di Terni. Ciò perché, a detta del giudice, in un altro processo la signora è alla sbarra per presunti favori al coniuge quand’era recluso a Secondigliano. Un incontro fra marito e moglie (non si vedono da 9 mesi) per i giudici potrebbe avere riflessi imprevedibili sui procedimenti in corso riferiti a fatti di oltre 10 anni fa. Però i due possono scriversi, anche parlarsi al telefono. Ma guardarsi negli occhi no. Una cattiveria, sbraitano gli avvocati, visto che in galera è tutto intercettato e videoregistrato. Che non ci sia pietà per quanti marciscono in cella in attesa di giudizio è provato dalle condizioni dei detenuti e dalle statistiche sulle assoluzioni. Ma non c’è pietà nemmeno per chi ha l’ergastolo passato in giudicato. Prendete il capomafia Bernardo Provenzano: ridotto un vegetale, in stato di incoscienza totale, il Padrino sta andando incontro alla morte murato vivo in 41 bis. Alla moglie e ai figli che lo vedono spegnersi dietro un vetro blindato, è fatto divieto di toccarlo, accarezzarlo, baciarlo per l’ultima volta. Siamo ai sacramenti della vendetta, all’estrema unzione della giustizia. Contro i No Tav si chiuda la stagione della repressione di Livio Pepino Il Manifesto, 22 dicembre 2015 Dalla magistratura torinese una prova di incomprensibile accanimento accusatorio. Ora si volti pagina. Anche la Corte d’assise d’appello di Torino ha, infine, detto l’ovvio: che l’incendio di un compressore nel cantiere del Tav della Maddalena di Chiomonte (a seguito di un’azione dichiaratamente finalizzata solo contro le cose e priva, in concreto, di qualsivoglia effetto sulle persone) è un reato ma non un attentato con finalità di terrorismo. Lo aveva già detto la Corte di primo grado, nella sentenza 17 dicembre 2014, usando parole di elementare buon senso: "Pur senza voler minimizzare i problemi per l’ordine pubblico causati da queste inaccettabili manifestazioni, non si può non riconoscere che in Val di Susa - e a fortiori nel resto del Paese - non si viva affatto una situazione di allarme da parte della popolazione e se il contesto in cui maturò l’azione non era oggettivamente un contesto di particolare allarme, neppure l’azione posta in essere rivestiva una "natura tale da essere idonea a raggiungere la contestata finalità". E lo aveva confermato la Corte di cassazione con due sentenze emesse in sede di impugnazione contro misure cautelari, tanto che - nel processo parallelo contro tre altri imputati - la stessa Procura aveva rinunciato alla contestazione del reato di terrorismo. Ma, evidentemente, tutto questo ancora non bastava se il Procuratore generale in persona ha voluto esibirsi in una prova di incomprensibile accanimento accusatorio chiedendo alla Corte il ribaltamento della sentenza di primo grado. La speranza, a questo punto, è che si chiuda definitivamente non solo la vicenda processuale di quattro giovani (costretti a una custodia cautelare in carcere di oltre un anno in condizioni di sostanziale isolamento) ma anche una stagione di repressione senza precedenti nei confronti del movimento No Tav. È una stagione iniziata nel gennaio 2012, con una serie di misure cautelari a pioggia per fatti di resistenza di sette mesi prima, in cui la magistratura inquirente ha assunto un ruolo di diretto protagonismo nel contrasto del conflitto sociale e nella tutela dell’ordine pubblico. Non si è trattato del doveroso esercizio dell’azione penale, ma di un intervento la cui durezza e sistematicità, lungi dall’essere "obbligate", sono state determinate da precise scelte discrezionali. Nulla, infatti, hanno a che fare con l’obbligatorietà dell’azione penale fenomeni e prassi come l’attribuzione di una corsia privilegiata ai processi nei confronti di esponenti No Tav, la coreografia che circonda i relativi dibattimenti (celebrati in un’aula bunker annessa al carcere costruita per i processi di terrorismo e mafia), l’istituzione presso la Procura di un pool di sostituti con competenza esclusiva nel settore (solo di recente smantellato), l’immediato e sollecito perseguimento - in caso di collegamento con l’opposizione al Tav - anche di reati di minima entità sanzionabili con la sola pena pecuniaria, l’uso massiccio delle misure cautelari persino nei confronti di incensurati, la dilatazione delle ipotesi di concorso nel reato fino a costruire una impropria "responsabilità da contesto", l’utilizzazione nelle motivazioni di sentenze e ordinanze di espressioni truculente (quasi a supportare o sostituire i fatti con gli aggettivi), l’omessa considerazione di scriminanti e attenuanti pur previste nel sistema (talora addirittura dal codice Rocco), l’accurata costruzione di un processo a mezzo stampa parallelo a quello formale e via elencando fino, appunto, all’evocazione dei fantasmi del terrorismo. Queste prassi sono, all’evidenza, frutto di scelte rispondenti alla concezione - propria dei poteri forti e assai diffusa nella politica - secondo cui le società si governano in modo centralizzato e autoritario e il confitto sociale è un elemento di disturbo praticato da "nemici" meritevoli di repressione esemplare. Non è stata una bella pagina quella scritta al riguardo dalla magistratura torinese. Per fortuna alcuni dibattimenti cominciano a riportare i fatti in un alveo di maggior distacco e attenzione alle garanzie proprio della giurisdizione. Anche ad evitare il verificarsi di quanto denunciato con riferimento alla situazione francese in un documento dell’11 luglio 2014 del Syndicat de la magistrature: "Oggi come ieri, le azioni collettive (…) provocano alle cittadine e ai cittadini in lotta un trattamento penale fuori dal normale: fermo di polizia, test del Dna, comparizione immediata davanti al giudice, una giustizia lampo che produce carcere. (…) Ricorrere alla criminalizzazione di queste lotte - per di più, troppo spesso selettiva - vuol dire rendere illegale ogni prospettiva di contestazione e stigmatizzare un movimento sociale composto da sentinelle che esercitano la libertà di contestare l’ordine costituito". L’auspicio che si volti pagina risponde anche a una esigenza di governo razionale della società e di recupero, da parte della giurisdizione, del ruolo che le è proprio perché - come ha scritto un maestro come Francesco Palazzo - "un diritto penale che vede nemici ogni dove rischia di accreditare l’immagine di una società percorsa da una generalizzata guerra civile, contribuendo così a fomentare una conflittualità, anzi uno spirito sociale d’inimicizia, che è del tutto contrario alla sua vera missione di stabilizzazione e pacificazione della società". Abruzzo: Di Nanna (Radicali); sul Garante dei detenuti nessun "miracolo di Natale" di Elisabetta Di Carlo certastampa.it, 22 dicembre 2015 "Nonostante la lettera del Papa, che ha concesso l’indulgenza scrivendo ai detenuti affinché il passaggio per la porta della cella possa significare per loro il passaggio per la Porta Santa, purtroppo nelle carceri abruzzesi il Giubileo della misericordia non è arrivato: il Consiglio regionale li ha lasciati senza Garante anche a Natale", ha dichiarato Vincenzo Di Nanna, segretario di Amnistia, Giustizia e Libertà Abruzzi. "Dopo i recenti fatti gravissimi accaduti nelle carceri riportati da tutte le principali testate, questo ennesimo rinvio della discussione sulla nomina del Garante dei detenuti appare ancora più incomprensibile", ha proseguito l’avvocato Di Nanna. "La legge, intanto, resta inapplicata e il Consiglio si è arenato purtroppo su un ostruzionismo privo di proposte, non essendoci di fatto una candidatura concorrenziale a quella straordinaria di Rita Bernardini, che per soli tre voti non è stata eletta nel corso dell’ultima votazione". "Basti dire che i consiglieri grillini e l’on. Paolo Gatti di Forza Italia sono rimasti i soli a insistere sulla presunta ineleggibilità della candidata radicale per via dei suoi precedenti penali dovuti alle azioni di disobbedienza civile per la legalizzazione della cannabis. Una concezione giustizialista, in netto contrasto con la cultura liberale a cui si richiama Forza Italia, che ha infatti espresso fermamente il suo sostegno alla candidatura di Rita Bernardini attraverso le parole di esponenti del partito come Renato Brunetta, ma, purtroppo, nonostante gli auspici di Marco Pannella, il quale si augurava la fine di quella che ha definito una "£solfa indecente", sembra che questa solfa debba continuare. Allo stesso modo continuerà la campagna a sostegno di Rita Bernardini Garante dei detenuti, forte per le eccellenti e numerose adesioni ricevute", ha concluso il segretario di Amnistia, Giustizia e Libertà Abruzzi. Napoli: storia di G., l’ultimo internato a salutare l’Opg di Secondigliano di Antonio Mattone Il Mattino, 22 dicembre 2015 Erano le 10 del mattino quando l’ultimo internato ha lasciato l’Ospedale psichiatrico giudiziario di Secondigliano. Da ieri l’istituto napoletano ha chiuso definitivamente i battenti e potrà ospitare nuovamente i detenuti comuni. Dopo vari annunci, proroghe e rinvii, chiude il primo dei 6 Opg presenti sul territorio nazionale. Era emozionato L., dopo 28 anni trascorsi girovagando in diversi ospedali psichiatrici: finalmente ha visto aprire le porte dell’inferno. Si è informato se avrebbe avuto una stanza tutta per lui e se l’avrebbero chiuso a chiave così come nella sua cella. L’abitudine all’istituzionalizzazione è più forte dell’aria di libertà. Rassicurato, ha voluto mettere i suoi bagagli nel carrello e caricare lui stesso il blindato della Polizia penitenziaria che l’avrebbe condotto fuori da quelle mura. Destinazione una Rems (Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza) del Lazio, sua regione di origine. Alle 8, di buon’ora, era invece partito G., considerato l’internato simbolo dell’Opg di Napoli. Non ha commesso reati efferati, tali da giustificare la sua permanenza in un contesto carcerario. La mancanza di un ambiente e di strutture sul territorio capaci di gestire la sua malattia mentale, lo hanno costretto ad un lungo soggiorno dietro le sbarre. Nei 10 anni trascorsi in Opg non ha mai messo il piede fuori dalla struttura, neanche per una licenza premio, perché non prevista per chi è sottoposto a misura di sicurezza provvisoria. Una indeterminatezza durata ben 10 lustri. Gli operatori Osa che in questi anni lo hanno lavato, vestito e calmato erano più emozionati di lui. Qualcuno si è fatto mettere apposta di turno per poterlo salutare per l’ultima volta. La sua grande stazza ha reso difficile l’allestimento di un guardaroba personale, ma qualcuno ha suggerito l’esistenza di un negozietto che si chiama "Tu sì na cosa grande " e così, vestito in modo casual, si è presentato alla partenza. C’era molto timore per questo distacco: G. restio ad ogni piccolo cambiamento avrebbe potuto creare tensioni e problemi. Invece tra sorrisi e abbracci ha salutato le persone che in questi anni gli sono state più vicino. Grazie a tutti e via. L’operazione doveva restare riservata, ma la tentazione di celebrare questo memorabile momento ha preso il sopravvento e così dopo la partenza dell’ultimo internato, si sono aperti i festeggiamenti con tanto di discorsi e telecamere ad immortalare lo storico evento. La chiusura dell’Opg di Secondigliano è un importante risultato e va dato merito soprattutto a chi all’interno del tavolo dell’Osservatorio Regionale sul Superamento degli Opg ha voluto con ostinazione che si raggiungesse questo importante obiettivo. Tuttavia permangono dubbi e interrogativi sul futuro di quelli che la follia ha reso "scarti" della società. La chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari più che un traguardo raggiunto è un punto di partenza. Le Rems non possono essere considerate la nuova risposta dopo il superamento degli Opg, non sono il nuovo contenitore manicomiale, ma rappresentano solo un passaggio come previsto dalla legge 81/14. C’è bisogno di progetti terapeutici individuali, di avviare laddove possibile percorsi di reinserimento sociale. In ogni caso i Dipartimenti di Salute Mentale devono farsi carico di queste persone per evitare che finiscano parcheggiati in nuovi contesti ancora più anonimi e isolati. La vera risposta è costruire comunità residenziali capaci di accompagnare chi vive il dramma del disagio psichiatrico. Anche la pazzia merita i suoi appalusi diceva Alda Merini. Ieri alla cerimonia di addio per la chiusura della struttura di Secondigliano, i protagonisti erano altri, mentre gli internati sono usciti di scena. Speriamo di non vederli marcire nelle galere o in quelle villette anonime e degradate di cui sempre più spesso si sente parlare. Tuttavia sono comunque rimasti sullo sfondo, perché un senso di vuoto e di commozione ha preso chi gli è stato accanto in questi anni. All’Opg di Napoli resta solo il tabernacolo recuperato dal manicomio di Sant’Eframo e appena restaurato. Testimone del dolore e delle preghiere di chi ha visto sprofondare la propria vita nell’oblio della follia. Fossano (Cn): dal 2016 internet e skype per i colloqui dei detenuti coi familiari quotidianopiemontese.it, 22 dicembre 2015 A partire dal 2016 i detenuti del carcere di Fossano potranno utilizzare una connessione ad internet per navigare e skype per avere colloqui con i propri familiari. Il carcere di Fossano è il primo in Italia a recepire una circolare del Dipartimento penitenziario. Per il direttore del carcere Domenico Arena internet è un modo per restituire umanità ai detenuti. Il carcere prevede la detenzione fisica ma prevede anche che i detenuti continuino ad essere considerati persone. Venezia: Uil-Pa; incendio in carcere, gli agenti penitenziari evitano una tragedia lavocedivenezia.it, 22 dicembre 2015 Un detenuto di origine marocchina ristretto presso la Casa Circondariale di Venezia Santa Maria Maggiore in data odierna, nella tarda mattinata, ha appiccato il fuoco nella propria cella. Immediatamente il fumo ha invaso l’intera sezione, ma solo grazie al provvidenziale intervento degli agenti della Polizia Penitenziaria si è potuto evitare il peggio; infatti una volta scattato l’allarme sono intervenuti immediatamente spegnendo con estintori e idranti l’incendio e tirando fuori dalla cella i due detenuti che sono stati portati al pronto soccorso per le cure del caso e nel contempo mettendo in sicurezza l’intera area interessata. Solo grazie alla professionalità e tempestività del personale che si è riusciti ad evitare che la situazione degenerasse, a tutti Loro il sindacato Uil esprime la massima solidarietà e vivi ringraziamenti per il lavoro svolto. A renderlo noto è il Segretario Provinciale della Uil Penitenziari di Venezia Umberto Carrano, che aggiunge: auspichiamo che arrivino a breve delle risposte concrete all’ormai annosa situazione che interessa il carcere di Venezia, una su tutte il continuo depauperamento del personale. Infatti si è costretti a compensare il deficit con moltissime ore di straordinario, e paradossalmente gli organi superiori hanno aggravato ancora di più la situazione autorizzando anche distacchi "in uscita" da Venezia per altre sedi. Siamo realmente preoccupati per la grave carenza di uomini, ma nonostante i continui proclami, sciopero del personale, visite e ispezioni parlamentari e quant’altro, le richieste di aumento del personale per una sede così "disagiata" sono rimaste inascoltate nella totale indifferenza. Milano: ragazzo evade dal carcere minorile Beccaria "scalando" un muro di 9 metri milanotoday.it, 22 dicembre 2015 Il ragazzo ha scalato con agilità il muro di nove metri, aiutato dal punto dove questo confina con un cancello, poi ha percorso la cima della parete fino a trovare un tetto per calarsi. Un giovane albanese di 17 anni è evaso dal carcere minorile di Milano, Cesare Beccaria, dove si trovava per scontare una pena per rapina. L’episodio è avvenuto nella giornata di domenica tra le 9.15 e le 10. Il ragazzo ha scalato con agilità il muro di nove metri, aiutato dal punto dove questo confina con un cancello, poi ha percorso la cima della parete fino a trovare un tetto per calarsi. Infine è svanito nel nulla. Il giovane, L.R., era al Beccaria da due mesi. Il fatto è avvenuto durante l’ora d’aria: una volta dato l’allarme, le ricerche si sono concentrate all’interno del muro di cinta perché l’impianto anti-scavalcamento non si era attivato. "Si è quindi perso moltissimo tempo - spiega il Sappe (sindacato polizia penitenziaria) in una nota - cercando nei vasti spazi non presidiati né dalle telecamere né dagli agenti". C’è di più: "L’unica telecamera - scrive ancora il Sappe - che avrebbe potuto inquadrare l’effettiva fuga al di fuori delle mura, cioè quella del cancello d’ingresso, era disattivata da tempo". Un dettaglio imbarazzante per l’istituto di pena. V’è poi il sospetto che il 17enne possa essere stato aiutato da qualcuno all’interno, i compagni che hanno distratto le guardie, e da qualcuno all’esterno. Di certo il giorno prima aveva ricevuto la visita dei genitori e del fratello. L’evasione è solo l’ultimo caso di cronaca che ha coinvolto la casa circondariale. Tra rivolte, pestaggi, incendi, tentativi di suicidio e denunce del personale della penitenziaria. Roma: chef stellati in cucina per i detenuti, il Natale a Rebibbia di Heinz Beck di Gabriella Sassone affaritaliani.it, 22 dicembre 2015 Natale in galera. Non è il titolo del prossimo cine-panettone prodotto da Aurelio De Laurentiis né una maledizione da lanciare a qualche acerrimo nemico, ma l’ultima lodevole iniziativa a cui hanno aderito svariati svippati e chef stellati per dimostrare ancora una volta il loro buon cuore. Visto che a Natale bisogna essere tutti più buoni. In 5 carceri italiane, a Roma, Milano, Palermo e Modena, il 23 dicembre verrà offerto a tutti i detenuti un pranzo di Natale a cinque stelle. Siamo o non siamo nel Giubileo della Misericordia? A servire in tavola saranno una serie di volti noti di cinema, tv e musica, in guanti bianchi e parannanza d’ordinanza. Si chiama "L’altra cucina… per un pranzo d’amore", l’evento ideato da Prison Fellowship Italia Onlus, una organizzazione ecumenica internazionale che lavora in oltre 130 Paesi, e promosso con il Rinnovamento nello Spirito Santo. Dopo averlo testato con successo il 24 dicembre dello scorso anno nel romano carcere di Rebibbia, il presidente di RnS Salvatore Martinez ha deciso di riproporlo e ingrandirlo. Così il pranzo natalizio stellato verrà apparecchiato simultaneamente a Roma non solo a Rebibbia ma anche a Casal del Marmo, a Milano al carcere Opera, a Modena al Sant’Anna e a Palermo al Pagliarelli. Non sarà di sicuro un pranzo pizza&fichi tanto per lavarsi la coscienza, visto che ai fornelli sono stati chiamati chef blasonatissimi. A partire da Heinz Beck che si cimenterà in cucina per le 340 detenute di Rebibbia. Camerieri d’eccezione, un vero plotone di svippati: direttamente dal Bagaglino arriveranno Pamela Prati, Martufello, Carlo Frisi e Enzo Piscopo, immancabili le curve pericolose di Valeria Marini e la simpatia di Luca Barbarossa. Presenti anche i giornalisti Franco Di Mare, Francesca Fialdini e Adriana Pannitteri, il comico di Made in Sud Marco Capretti e Sara Galimberti. Nell’Istituto Penale Maschile e Femminile per Minorenni di Casal del Marmo lo chef Marco Moroni si occuperà del pranzo per i 70 detenuti divisi in tre sezioni, due maschili e una femminile. Prima del pranzo, alle 10, i minori verranno riuniti nel teatro dove si esibiranno Mariella Nava, Annalisa Minetti, Fioretta Mari, la cantante Ida Elena De Razza, Beatrice Fazi, i comici Gabriele Marconi e Nino Taranto. Benedizione di Monsignor Paolo Selvadagi, vescovo ausiliare della diocesi di Roma per il settore Ovest, e Mario Landi, coordinatore nazionale RnS. Nella casa di reclusione Opera di Milano sarà lo chef Filippo La Mantia a preparare i suoi manicaretti per 60 detenuti del carcere, riuniti con i loro familiari (mogli, mamme, figli, fratelli per un totale di 250 persone). A dar loro gli auguri e portare un po’ di divertimento saranno Edoardo Bennato, Lorella Cuccarini, i comici di Zelig e Colorado Renzo Sinacori, Nando Timoteo, Max Pieriboni, Francesco Rizzuto, Beppe Altissimi, la salottiera Daniela Javarone e Giampiero Ghidini. Dopo il pranzo ci si sposterà nel teatro dove sarà allestito uno spettacolo per i detenuti. Saranno presenti Monsignor Pierantonio Tremolada, vescovo ausiliare della Diocesi di Milano, e Marcella Reni, Presidente di Prison Fellowship Italia Onlus. Nella Casa circondariale Sant’Anna di Modena il campione di MasterChef Carmine Giovinazzo si metterà a spadellare insieme a due colleghi per 40 detenute e 300 detenuti. Anche qui, prima del pranzo, alle ore 11.30, i detenuti avranno la possibilità di riunirsi nella "falegnameria" per uno spettacolo in cui si esibiranno Fiordaliso, Linda Bastista, Alessandro Greco e Beatrice Bocci. Sarà presente Amabile Guzzo, direttore RnS, insieme a volontari di Prison Fellowship Italia. Dulcis in fundo, a Palermo, nella Casa Circondariale Pagliarelli, 49 detenute potranno festeggiare insieme ai familiari (160 persone) grazie allo chef Giampiero Colli. I maestri pasticcieri Giovanni Cappello e Francesco Perrone della Coinpat, prepareranno dal vivo cassate e cannoli siciliani per i detenuti. Allieteranno il pranzo, i simpaticissimi attori siciliani Ficarra e Picone. Sarà presente il Vescovo di Palermo, Monsignor Corrado Lorefice, e Luciana Leone, direttore edizioni RnS. Bene, bravi, bis! Modena: da Masterchef al carcere, a Sant’Anna pranzo natalizio con un grande chef modenatoday.it, 22 dicembre 2015 Sarà Carmine Givinazzo ad allietare il palato dei detenuti di Modena con un menù natalizio nell’ambito dell’iniziativa benefica "L’altra cucina… per un pranzo d’amore". Prima concerto con Fiordaliso, Alessandro Greco e Beatrice Bocci. "L’altra cucina… per un pranzo d’amore" è l’evento ideato da Prison Fellowship Italia Onlus in collaborazione con il Rinnovamento nello Spirito Santo, ad apertura del Giubileo della Misericordia, che si terrà il 23 dicembre in simultanea in cinque carceri italiane: nella Capitale a Rebibbia e a Casal del Marmo, a Milano nel carcere Opera, ma anche al Sant’Anna di Modena e al Pagliarelli di Palermo. Dopo il felice esito della prima esperienza realizzata lo scorso anno nel carcere di Rebibbia, quest’anno, il presidente di RnS Salvatore Martinez ha deciso di riproporlo ed allargarlo ad altri carceri, consentendo così di offrire a centinaia di detenuti e detenute un pranzo natalizio preparato da chef "stellati" e servito da testimonial d’eccezione del mondo ecclesiale, dello spettacolo, della musica, del cinema, della televisione e del teatro. Nella Casa circondariale Sant’Anna di Modena Carmine Giovinazzo, campione di MasterChef, insieme a cinque colleghi, cucinerà per 40 detenute e 300 detenuti. Anche qui, prima del pranzo, alle ore 11.30, i detenuti avranno la possibilità di riunirsi nella "falegnameria" per uno spettacolo in cui si esibiranno Fiordaliso, Alessandro Greco e Beatrice Bocci. Sarà presente Amabile Guzzo, direttore RnS, insieme a volontari di Prison Fellowship Italia. Roma: apre un ambulatorio di strada con i fondi della carità del Papa Il Velino, 22 dicembre 2015 Per celebrare il Giubileo straordinario dedicato alla Misericordia voluto dal papa, apre a Roma nuovo ambulatorio di strada per l’assistenza e cura delle fasce sociali più deboli. L’arredamento è stato donato direttamente dall’Elemosineria Apostolica. Accoglierà i primi pazienti in queste vacanze di Natale il nuovo ambulatorio di strada per l’assistenza e cura delle fasce sociali più deboli dedicato a san Francesco e realizzato dall’associazione Voreco insieme all’associazione Medicina Solidale onlus nella storica sede dei Volontari Regina Coeli a via della Lungara. Un segno concreto per celebrare il Giubileo straordinario dedicato alla Misericordia voluto da papa Francesco, che ha finanziato direttamente l’iniziativa attraverso l’Elemosineria Apostolica, che ha provveduto ad acquistare tutti gli arredi per allestire i locali per i servizi medici. Inaugurato il 21 dicembre, l’ambulatorio all’inizio, sarà aperto il sabato mattina dalle ore 9,00 alle 12,00, dove sarà attivo il servizio di medicina generale, e due mercoledì al mese dalle ore 9,00 alle 12,00 come centro di ascolto e di orientamento psicologico. La collaborazione tra Voreco, l’associazione di volontariato che si occupa dell’emarginazione legata al mondo del penale e l’associazione Medicina solidale, impegnata a dare assistenza e cura alle tante fasce più deboli (poveri, ex carcerati, immigrati, persone senza fissa dimora) ha fatto maturare l’idea di realizzare un "Ambulatorio di strada" nei locali del "Centro Voreco", ubicati vicino al carcere di Regina Coeli, su Via della Lungara. I servizi dell’ambulatorio, che saranno garantiti da medici volontari e dagli studenti del Policlinico di Tor Vergata, sono: assistenza medica di base di base; parametri vitali; medicazioni; stick glicemici; supporto psicologico. Aosta: concerto nel carcere di Brissogne per l’orchestra del Liceo musicale Ansa, 22 dicembre 2015 L’Orchestra del Liceo musicale di Aosta si è esibita oggi pomeriggio nel carcere di Brissogne davanti ad un pubblico formato, tra l’altro, da una quarantina di detenuti. L’evento è stato organizzato dal Consiglio regionale della Valle d’Aosta e dall’Istituzione classica, artistica e musicale di Aosta. "È stata un’esperienza bellissima - raccontano Giulia, Corinne e Giorgia, studentesse della quinta Liceo musicale - ed è stato meraviglioso quando, a fine concerto, tutti si sono alzati per applaudire: non ci aspettavamo un tale calore. Noi pensavamo di fare un regalo ai detenuti con questa iniziativa benefica e sono loro che lo hanno fatto a noi, dimostrando come la musica unisca il mondo". "Per noi è come un miracolo - ha commentato Said, detenuto - e ringraziamo questi ragazzi perché hanno avuto il coraggio di venire in un posto così, regalandoci una giornata diversa dalle altre. Per una volta non ci siamo sentiti dei detenuti, ma esseri umani che erano a teatro con altri essere umani". Gli studenti hanno presentato musiche di Johann Sebastian Bach, Gaetano Donizetti, Antonio Vivaldi, Béla Bartók e alcuni brani della tradizione natalizia. "Abbiamo lavorato per tre mesi a questo progetto - ha spiegato Davide Mancini, professore del Liceo musicale -, è importante che la scuola si apra a tutte le realtà, anche quelle di emarginazione e di sofferenza, per far capire ai ragazzi che la vita è fatta di tante sfaccettature". Per il presidente del Consiglio Valle, Marco Vierin, "questo concerto ha voluto essere una testimonianza concreta della nostra vicinanza al sistema penitenziario e, come recentemente pronunciato da Papa Francesco, tutti noi dobbiamo lavorare per stimolare, accompagnare e realizzare il reinserimento delle persone". Gli studenti che hanno partecipato all’iniziativa sono: Alexia Melina (Classe 1A); Edoardo Emilio Milleret, Gaia Prete (1B); Matilde Armenghi, Simone Cane, Alessia Menegolo (2A); Elisabetta Gianotti (2B); Elisa Aral, Adele Hadda Bonvicini, Michel Chenuil, Marco Engaz, Matteo Giacone, Asia Guzzon, Martina Ledda, Alessio Pressendo (3A); Edoardo Bandirola, Giulia De Francesco, Giulia Giovinazzo, Flavia Giuliano, Martina Luccini, Michele Mammoliti, Christel Marcoz, Michela Panella, Lorenzo Plataroti, Martina Talarico, Melita Vuillermin, Matteo Yon, Alica Zoja (4A); Giulia Battaglia, Giorgia Gorret, Corinne Hugonin (5A). Firenze: il cardinale Betori celebra una messa nel carcere di Sollicciano Ansa, 22 dicembre 2015 L’arcivescovo di Firenze, card. Giuseppe Betori, ha celebrato stamattina la messa in preparazione al Natale nel carcere di Sollicciano. "Il Giubileo - ha detto il cardinale ricordando quanto scritto da papa Francesco - ha sempre costituito l’opportunità di una grande amnistia, destinata a coinvolgere tante persone che, pur meritevoli di pena, hanno tuttavia preso coscienza dell’ingiustizia compiuta e desiderano sinceramente inserirsi di nuovo nella società portando il loro contributo onesto. Ed ha aggiunto il suo appello affinché "siano create nel carcere le condizioni concrete per superarne la visione di luogo di pena, per farne invece un percorso in cui si possa attuare la ricostruzione di un’umanità ferita e perduta". "Il cammino del Giubileo - ha aggiunto Betori - indica la nostra volontà di conversione, meglio ancora il nostro desiderio di entrare nell’abbraccio della misericordia di Dio Padre e l’impegno a uscirne trasformati, convertiti, per diventare strumenti di misericordia verso i nostri fratelli. Se entrando nella Porta Santa, anche in quella Porta Santa che potrà essere per ciascuno di voi la porta della cella attraversata con cuore pentito, vogliamo manifestare che ci riconosciamo peccatori, che siamo pronti ad accogliere il perdono misericordioso di Dio e quindi disposti a lasciarci trasformare dal suo amore, a lasciarci convertire da lui, questo ci impegna a uscirne per farci testimoni dell’amore ricevuto con una vita riconciliata e spesa al servizio dei fratelli" ha concluso. "Io non taccio", storie di giornalisti in carcere, aggrediti e querelati di Sergio Menicucci L’Opinione, 22 dicembre 2015 Sono ormai troppi i giornalisti che hanno perso la vita, sono stati incarcerati o hanno subito aggressioni a causa del loro lavoro. L’informazione che non tace è a rischio. Ovunque. In Italia e nel mondo. Da pochi giorni la giornalista del Corriere della Calabria è sotto tutela. Dopo le querele subite sono arrivate le minacce. La giovane cronista non vuole, però, la scorta. La Polizia ha così messo una " volante" sotto casa durante l’orario notturno. Il problema delle minacce, delle aggressioni, degli " avvertimenti" mafiosi o camorristici si allarga. I boss " con la penna o con la pistola" tentano di imbavagliare la stampa nei territori di frontiera ma anche nelle grandi città come Milano, Napoli, Roma. Un cartello apparso di recente in Lombardia diceva " che scrive di tangenti muore" mentre in Campania l’avvertimento era " le disgrazie a Napoli primo o poi succedono all’improvviso". Aggredito, pestato a sangue dai mafiosi, ricoverato in ospedale, a Paolo Barometri hanno cercato di bruciare la casa. Non si è dato per vinto e appena ha potuto ha scritto " alla fine una penna vale più di una pistola". Molti di questi racconti si trovano nel libro "Io non taccio", edito da Cento Autori nel quale un gruppo di giornalisti (Federica Angeli, Arnaldo Capezzuti, Ester Catano, Marilù Mastrogiovanni, David Oddone, Roberta Polea, Paolo Barrometi) racconta gli episodi che hanno subito di minacce di morte, ricevuti proiettili in busta chiusa, querele con richieste di risarcimenti stratosferici. Il fenomeno è stato analizzato per il giornale online "Huffington Post" dal docente dell’Università di Verona Franz Foti. Nei primi 349 giorni dell’anno l’associazione "Ossigeno per l’informazione" ha documentato minacce a 372 giornalisti e reso noto minacce non conosciute prime per altri 116. Gli episodi sono tutti catalogati in ordine cronologico e dal 2006 i casi di minacce, intimidazioni e aggressioni sono stati 2.633. L’associazione avverte inoltre che dietro ogni intimidazione documentata ce ne sono almeno altre 10 che restano ignote perché le vittime non hanno avuto la forza di renderle pubbliche. In questi giorni di dicembre le organizzazioni mondiali dei giornalisti hanno tracciato un quadro allarmante dei pericoli che incontrano i cronisti nello svolgimento del loro lavoro per informare l’opinione pubblica da zone altamente a rischio. Il bilancio è pesante. Sono quattro i giornalisti siriani uccisi. Ahmond Mohamed al- Mousa è stato assassinato da un gruppo di uomini mascherati a Ibid. Faceva parte del collettivo chiamato Raqqa is Being Slaungterek Silently ed aveva ricevuto di recente il premio libertà di stampa 2015. Gli altri uccisi dall’Isis sono Ibrahim al-Qader Abd, Fares Hamadi nella Turchia sud -orientale ( ottobre 2015) e Al-Moutaz Bellah Ibrahim ucciso nel maggio. Tutti giovani cronisti in prima linea a descrivere la guerra del proprio paese e documentare i raid aerei e le conseguenze degli attacchi. Circa 900 giornalisti di tutto il mondo aveva espresso solidarietà al collettivo di Raqqa, città chiave e quartiere generale del cosiddetto Stato islamico. Secondo un rapporto di " reporter senza frontiere" 54 giornalisti si trovano in ostaggio nel mondo, tra cui una donna: 18 sono in mano all’Isis mentre la Cina tiene la maglia nera della classifica con 23 reporter dietro le sbarre, seguita a poca distanza dall’Egitto. Secondo però un censimento del Comitato per la protezione dei giornalisti la situazione è più grave ed elenca 199 giornalisti ancora in prigione. Non meraviglia poi che il più alto numero di ostaggi sia in Siria. " Siamo molto allarmati dall’aumento dei reporter rapiti, ha osservato il segretario generale dell’associazione RSF Christophe Deloire, perché il fenomeno è legato soprattutto all’aumento dei sequestri in Yemen dove agiscono i miliziani di Houthi e al Qaeda". Mancano nell’elenco anche 8 giornalisti dichiarati dispersi in particolare nelle zone di guerra in Libia. L’allarme deriva anche dal fatto che è diventato sempre più difficile avere informazioni affidabili. I membri turchi dei giornalisti appartenenti al G9 hanno lanciato una campagna di solidarietà nei confronti dei 32 giornalisti che attualmente si trovano in stato di detenzione nel paese, tra cui figurano Can Dundar e Erem Gul, direttore e capo redattore dello storico quotidiano " Cumhuriyt" incarcerati il 26 novembre con l’accusa di spionaggio, divulgazione d’informazioni sensibili e propaganda a favore di organizzazioni terroristiche. L’accusa si basa sulla pubblicazione di immagini relative al passaggio di camion carichi di armi al confine turco-siriano, passaggio che avrebbe invece avuto il placet dei sevizi segreti turchi. La Chiesa: così aiutiamo i migranti di Fulvio Fulvi Avvenire, 22 dicembre 2015 Sono oltre 27mila i profughi accolti a tutt’oggi in Italia nelle 27mila parrocchie ma anche nelle comunità religiose, negli "hospitum" di santuari e monasteri e nelle famiglie che hanno dato la disponibilità ad ospitare i richiedenti asilo. La Chiesa italiana si sta muovendo per affrontare il dramma dei circa 70mila immigrati che hanno fatto domanda per il riconoscimento della protezione internazionale e per aiutare tutti gli altri arrivati nel nostro Paese (160mila solo nel 2015). Il 6 settembre, giorno dell’appello nel quale Papa Francesco, nel discorso dopo l’Angelus, invitava le realtà ecclesiali d’Europa, attraverso i vescovi, a "dare loro una speranza concreta" come gesto concreto in preparazione dell’Anno Santo, i migranti ospitati dalla Chiesa in Italia erano 22.600: in cento giorni, dunque, si registra un incremento di oltre 4.500 unità, anche se dati esatti si conosceranno dopo la Giornata Mondiale dei Rifugiati, nel giugno prossimo. "In ogni caso possiamo dire che c’è stata una grande risposta finora, tenuto conto che il percorso previsto dal vademecum della Cei indica precise modalità, forme e strumenti per informare la rete, coinvolgere le istituzioni, formare gli operatori e varare i progetti che devono accompagnare sia l’accoglienza sia il rientro dei migranti nella loro terra" commenta monsignor Giancarlo Perego, direttore generale di Migrantes, l’organismo pastorale della Cei incaricato, insieme con le Caritas diocesane, di rispondere a questo bisogno di solidarietà. "Va detto inoltre che un migrante richiedente asilo su quattro è ospitato attualmente in una struttura ecclesiale - prosegue don Perego - e, in particolare, in Lombardia 1 su 2, in Basilicata 1 su 3, come in Piemonte: queste le risposte più significative nelle regioni anche se non è solo una questione di numeri ma anche di qualità dei servizi offerti e di impegno per evitare la conflittualità sociale, e poi va detto che soltanto 450 Comuni italiani sugli 8.100 accolgono tuttora i migranti all’interno del Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (Sprar)". "Un quarto dell’accoglienza dei profughi è gestito in Italia dalla Chiesa - gli fa eco Oliviero Forti, responsabile dell’ufficio immigrazione della Caritas italiana - e non solo per l’ospitalità nelle famiglie e nelle parrocchie ma anche per quanto riguarda gli aspetti legali, sanitari e amministrativi e per l’assistenza ad altri soggetti bisognosi, ad esempio le donne vittime della tratta". Le realtà più attive? Bari, Verona, Torino (con 200 famiglie coinvolte in un progetto di ospitalità), Roma, Parma, Bologna, Vicenza, Cremona, Brescia (dove 52 appartamenti destinati a famiglie di migranti sono in via di ristrutturazione), Chiavari, Treviso ma a anche Aversa, Lecce, Messina e Siracusa, con decine di progetti in fase di attuazione o già varati. A Milano, da settembre, hanno dato la disponibilità a ospitare profughi 113 parrocchie e 11 enti religiosi per un circa 450 posti, come risposta all’appello del Pontefice e del cardinale Angelo Scola. Impegno che si aggiunge a quello della Caritas Ambrosiana che gestisce 781 posti assegnati: complessivamente la diocesi lombarda si sta attrezzando per realizzare un sistema di accoglienza stabile di oltre 1.000 posti. E ha già preso corpo il "Progetto Rifugiato a casa mia" della Caritas che in più di un anno ha garantito un luogo dove vivere, all’interno di nuclei familiari, a 953 stranieri in difficoltà in 65 diocesi sparse nello Stivale, iniziativa che favorisce il raggiungimento dell’autonomia ai richiedenti protezione e ai rifugiati attraverso l’accoglienza presso famiglie della comunità cristiana che sono così aiutate a vivere, attraverso la convivenza con persone provenienti da altri Paesi, un’esperienza di solidarietà e condivisione nelle realtà ecclesiali locali. Mattarella: privare i rifugiati dei loro beni, misura crudele di Ilaria Solaini Avvenire, 22 dicembre 2015 "A fronte dei tanti bambini morti in mare, giorno dopo giorno, assume un sapore crudelmente beffardo ferire la dignità stessa dei migranti, prevedendo addirittura di spogliarli dei beni che sono riusciti a salvare nella fuga dalle tribolazioni nei paesi natali, come si propone di fare un Paese dell’Unione". Lo ha detto il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in un passaggio del suo intervento alla cerimonia per lo scambio di auguri di fine anno con i rappresentanti delle istituzioni. "Una misura che riconduce alla memoria i momenti più oscuri dell’Europa", ha sottolineato il presidente della Repubblica. Perché Mattarella ha parlato di togliere ai rifugiati in fuga i beni da loro salvati nella traversata del Mediterraneo? Il riferimento di Mattarella è alla notizia, uscita nei giorni scorsi che riguarda la Danimarca. Il governo danese ha discusso una misura estrema: una legge che permetterebbe di confiscare i gioielli dei richiedenti asilo che entrano nel Paese. Il ministro danese per l’Integrazione aveva spiegato in una mail al quotidiano americano Washington Post: "La legge presentata il 10 dicembre 2015 dà alle autorità danesi il potere di perquisire vestiti e bagagli dei richiedenti asilo - e di altri migranti senza il permesso di stare in Danimarca - anche con l’obiettivo di trovare beni che possono coprire le spese" dell’accoglienza. La disposizione potrebbe coinvolgere anche i rifugiati che sono già in Danimarca ed è inclusa in una legge più ampia sulle politiche di asilo che ci si aspetta venga approvata in Parlamento a gennaio e che dovrebbe entrare in vigore il prossimo febbraio. Medio Oriente, va in scena il grande ritorno dei gattopardi di Alberto Negri Il Sole 24 Ore, 22 dicembre 2015 Grande la confusione sotto il cielo del Medio Oriente e nelle cancellerie occidentali e arabe cinque anni dopo l’episodio che innescò le primavere arabe, quando il 17 dicembre 2010 il giovane Mohammed Bouazizi si bruciò per protesta davanti al municipio di Sid Bouzid, dimenticata località della Tunisia profonda. Forse un paio di anni dopo si sarebbe arruolato nel Califfato come hanno fatto altri 5mila giovani tunisini, che costituiscono il maggiore contingente di foreign fighters dell’Isis. Qual è adesso la strategia degli Stati Uniti che allora con Obama sembravano dalla parte dei giovani radunati nelle piazze Tahrir contro i raìs? Buttare dentro tutti nel campo di battaglia contro l’Isis in modo da evitare di mettere lo stivale a terra e salvare la faccia delle petro-monarchie che hanno finanziato il terrorismo e inviato ovunque nel mondo musulmano gli Imam più radicali ed estremisti, avvelenando le società islamiche musulmane e anche quelle occidentali. Gli Usa negoziano con la Russia, e quindi anche con l’Iran, l’uscita di scena di Assad e garantiscono sia Israele che i sauditi. Impressionante il silenzio di Gerusalemme: una guerra in casa e gli israeliani, sempre pronti a dire la loro su tutto, che non proferiscono parola, probabilmente hanno un patto con Mosca sul Golan e gli Hezbollah in Libano ma anche con i sauditi perché sono persino circolate le foto di guerriglieri qaedisti di Al Nusra, reduci dai campi di battaglia siriani, curati negli ospedali israeliani. La coalizione a guida saudita appare un altro fronte anti-sciita per sostituire quello jihadista e dare magari una veste accettabile ai gruppi più radicali sostenuti dalla monarchie del Golfo sia nel Siraq che in Yemen dove Riad utilizza al Qaeda contro gli Houthi sciiti, chiamati chissà perché ribelli quando sono sostenuti anche dall’ex presidente Saleh. Ribelli forse ai voleri di Riad. In occidente la stampa britannica esulta per la coalizione saudita anti-terrorismo, quasi un ossimoro, che però permette di mantenere ricchi contratti e continuare a vendere pezzi di industrie e compagnie europee alle monarchie del Golfo. Le fazioni libiche firmano l’accordo per il governo di unità nazionale, nato con l’idea di trasferirlo a Tripoli, un evento per ora ancora improbabile. La partizione libica è in atto da tempo ed è forse l’unica che funzionerà: dipende da come si divideranno le risorse e dalla concorrenza per spartire traffici e petrolio con l’Isis. E infine anche l’Italia, che spera di dire la sua sulla Libia, è costretta a mettere piede in Iraq con la storia alquanto confusa di proteggere i lavori alla diga di Mosul: è da vedere se l’Isis e i jihadisti lo permetteranno senza reagire. Ma così vogliono gli americani e Obama per darci uno strapuntino al tavolo dei negoziati e consentirci di portare a casa petrolio e gas nel Mediterraneo, dopo avere strepitato contro i tedeschi per il Nordstream 2 con la Russia. Inutile prendersela solo con questo governo: è assente il Parlamento, è assente un intero Paese, e non da oggi. Quanto alla Turchia, il vero grande malato dell’Occidente, bisogna tenere in piedi Erdogan al quale forse la situazione è sfuggita dal controllo anche in casa: ma siamo proprio sicuri che sia stato lui a decidere di abbattere il caccia russo? Dovrà accontentarsi del petrolio di Massud Barzani continuando ad accanirsi sui "suoi" curdi. Addio sogni di gloria di un Sultano dimezzato. La realtà è che tutti adesso cercano di mettere di soppiatto un piede in Siria per potere dire la loro sulla futura spartizione del Paese e del resto della regione: non è detto che la divideranno ma ogni contingente militare proteggerà le proprie maggioranze o minoranze di riferimento settario o etnico. Si evita così di cambiare ufficialmente le frontiere, come si ribadisce a ogni vertice internazionale, e si certifica allo stesso tempo la libanizzazione o la balcanizzazione del Siraq. Quanto alla democrazia, al progresso, alla crescita economica di un’intera regione di disoccupati, se ne parla sempre meno, se non come in uno stanco rituale da ripetere nei meeting di spompati conferenzieri. È la versione del Gattopardo in salsa mediorientale: tutto cambia perché nulla cambi. Siria: benzina sul cessate il fuoco di Manlio Dinucci Il Manifesto, 22 dicembre 2015 La Risoluzione 2254 sulla Siria, approvata all’unanimità dal Consiglio di sicurezza dell’Onu, sottolinea "lo stretto legame tra un cessate il fuoco e un parallelo processo politico". Disinnescando il conflitto, ciò favorirebbe un allentamento delle tensioni in Medio Oriente. C’è però un problema: sui cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza, tre - Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna - sono quelli che hanno più pesantemente violato "la sovranità e integrità territoriale della Repubblica Araba di Siria", che nella risoluzione dicono di "sostenere fortemente". Quelli che hanno organizzato "il crescente afflusso di terroristi in Siria", per il quale nella risoluzione "esprimono la più grave preoccupazione". Il "cessate il fuoco" dipende quindi soprattutto da queste tre potenze della Nato e dalla Turchia, avamposto della guerra coperta contro la Siria, e dagli altri membri dell’Alleanza a partire dalla Germania. Dipende anche da un’altra potenza, Israele, che ha le mani in pasta in questa e altre guerre. Quali sono le loro intenzioni? Più delle parole valgono i fatti. Il 18 dicembre, il giorno stesso in cui il Consiglio di sicurezza varava la "road map per la pace" in Siria, la Nato annunciava l’invio di navi da guerra tedesche e danesi e aerei radar Awacs in Turchia per rafforzare le sue "difese al confine con la Siria", mossa diretta in realtà contro la Russia il cui intervento contro l’Isis sta cambiando l’esito della guerra a favore di Damasco. E il giorno dopo la Nato annunciava che è pronto il primo dei droni Global Hawk che saranno schierati a Sigonella, insieme a quelli Usa, per la "sorveglianza terrestre", ossia per lo spionaggio nei paesi inquadrati nel mirino strategico Usa/Nato. Sempre lo stesso giorno in cui il Consiglio di sicurezza varava la "road map per la pace" in Medio Oriente, la Germania annunciava la consegna a Israele del quinto sottomarino da attacco nucleare. Come documenta Der Spiegel, sono Dolphin modificati per il lancio di missili cruise nucleari, i Popeye Turbo con raggio di 1500 km, derivati da quelli statunitensi. Con il nuovo sottomarino ribattezzato Rahav (Poseidone) - il cui costo supera i 2 miliardi di dollari, un terzo dei quali finanziato dal governo tedesco - Israele rafforza la sua posizione di unica potenza nucleare della regione, mentre l’Iran (che a differenza di Israele aderisce al Trattato di non-proliferazione) rinuncia alle armi nucleari e la Siria consegna le armi chimiche costruite quale deterrente contro quelle nucleari di Israele. Il 19 dicembre, il giorno dopo che il Consiglio di sicurezza aveva riaffermato "la sovranità e integrità territoriale" della Siria, Israele distruggeva a Damasco un intero palazzo con missili lanciati da due caccia, assassinando (insieme a diversi civili) il militante libanese Samir Kuntar: dopo 30 anni di carcere in Israele per aver combattuto per l’indipendenza del Libano e della Palestina, rilasciato in uno scambio nel 2008, aveva aderito agli Hezbollah andando a combattere l’Isis e per questo era stato iscritto da Washington nella lista dei "terroristi globali". Contemporaneamente la Francia, sostenitrice al Consiglio di sicurezza del cessate il fuoco in Siria, annunciava di aver ricevuto l’acconto sui 7 miliardi di dollari per la fornitura di 24 cacciabombardieri Rafale al Qatar: il regime che ha alimentato, anche con commandos infiltrati, la guerra in Siria dopo quella che ha demolito la Libia. Insieme all’Arabia Saudita che, dopo aver finanziato con miliardi di dollari l’Isis e altri gruppi terroristi, partecipa alla coalizione a guida Usa "contro l’Isis" e ha promosso una "coalizione islamica anti-terrorismo". India: caso marò, l’Italia chiama gli Usa per riportare in patria Girone di Danilo Taino Corriere della Sera, 22 dicembre 2015 Renzi avrebbe chiesto alla Casa Bianca di premere sul governo indiano. Girone, ancora in India, e Latorre, in convalescenza in Italia, potrebbero essere liberati e New Delhi potrebbe congelare il caso fino alla fine dell’arbitrato internazionale. C’è attesa, in questi giorni prenatalizi, per qualche novità nel caso dei marò. Ambienti politici romani indicano che Matteo Renzi avrebbe preso un’iniziativa per cercare di dare una svolta alla vicenda, se non definitiva almeno parziale in attesa del giudizio del collegio arbitrale da poco costituito che dovrà stabilire dove tenere il processo a Salvatore Girone e Massimiliano Latorre. Il presidente del Consiglio avrebbe coinvolto nella vicenda - non si sa in quale misura - il presidente americano Obama, il quale sarebbe preoccupato di come il caso stia avendo riflessi negativi sull’ingresso a pieno titolo dell’India nel novero delle potenze mondiali affidabili. Nella visione più ottimista, il governo di Narendra Modi darebbe indicazione all’avvocato dello Stato e ai ministeri degli Interni, della Giustizia e degli Esteri di chiedere alla Corte suprema indiana di congelare il caso in attesa dei risultati dell’arbitrato e di liberare Girone, oggi in libertà provvisoria a Delhi, e Latorre, in convalescenza in Italia. Si tratterebbe di una mossa distensiva dell’India che tra l’altro metterebbe il collegio arbitrale in una posizione di maggiore tranquillità per decidere dove si deve svolgere il processo per l’uccisione di due pescatori dello Stato del Kerala avvenuta il 15 febbraio 2012. I marò aspetterebbero la decisione in Italia. Una seconda ipotesi è che il governo di Delhi dia in qualche modo indicazione al giudice indiano che fa parte del collegio arbitrale, Chandrasekhara Rao, di tenere un atteggiamento positivo quando il collegio stesso discuterà la richiesta italiana di misure provvisorie da applicare al caso. Roma ha infatti avanzato una richiesta affinché i cinque giudici stabiliscano, tra le altre cose, che Girone e Latorre possono aspettare la scelta della giurisdizione in patria. Verso metà gennaio, dovrebbe arrivare la risposta indiana. Poi, in febbraio ci saranno le audizioni del collegio e attorno a marzo ci dovrebbe essere la decisione. Se Delhi dovesse essere collaborativa, le misure provvisorie avrebbero più chance di essere accettate: gli arbitri sono Rao, il coreano Jin-Hyun Paik, il russo Vladimir Golitsyn - tutti e tre membri del Tribunale internazionale per la legge del mare di Amburgo - il giamaicano Patrick Lipton Robinson della Corte internazionale di Giustizia dell’Aja, il professore italiano Francesco Francioni, docente di diritto internazionale a Siena. In ambedue le ipotesi, anche se l’iniziativa italiana andasse in porto i due marò dovrebbero poi rispettare le decisioni degli arbitri e accettare di essere giudicati là dove questi decideranno, in India, in Italia o in un Paese terzo. Barack Obama e l’Amministrazione americana sarebbero stati presi di sorpresa dalla decisione italiana di quest’autunno di bloccare l’ingresso dell’India nell’Mtcr, il gruppo tecnologico che si occupa di missili, del quale fanno parte 43 Paesi e che è considerato un club rilevante tra i Paesi che lavorano per rafforzare la non proliferazione di armi potenzialmente nucleari e svolgono controlli all’esportazione di sistemi missilistici. Nella sua azione diplomatica tesa a rafforzare i rapporti strategici con l’India, Washington aveva promesso a Modi, lo scorso 25 gennaio, che gli Stati Uniti avrebbero favorito l’ingresso di Delhi nell’Mtcr e in altri tre organismi simili che si occupano di forniture nucleari (Nsg) e di armi di distruzione di massa (Wassenaar Arrangement e Australia Group). Dal momento che per entrare nell’Mtcr serve l’unanimità dei membri, l’opposizione italiana ha però bloccato l’ammissione dell’India. Ciò avrebbe preoccupato la Casa Bianca. La prossima riunione nella quale l’ingresso di Delhi sarà di nuovo discusso si terrà in primavera. Da qui, la finestra di opportunità per coinvolgere Washington e tentare un passo ulteriore nella lunghissima vicenda dei marò. Cina: 3 anni di carcere, con sospensione pena, per l’avvocato dissidente Pu Zhiqiang Adnkronos, 22 dicembre 2015 L’avvocato dissidente cinese Pu Zhiqiang è stato condannato a tre anni di carcere con sospensione della pena per alcuni commenti pubblicati online. Un tribunale locale ha ritenuto Pu, che rischiava fino ad un massimo di otto anni, colpevole di "incitamento all’odio etnico". In occasione della lettura della sentenza, come riferito dai media locali, l’avvocato per i diritti umani si sarebbe scusato e avrebbe accettato il verdetto. Dopo avere trascorso più di 18 mesi in custodia, ha fatto sapere il suo legale Shang Baojun, Pu dovrebbe essere presto rilasciato e trascorrere i prossimi dieci giorni in un luogo designato dal tribunale. L’avvocato potrebbe anche presentare ricorso, ma, ha precisato Shang all’agenzia Dpa, non lo farà. Per restare fuori dal carcere, ha sottolineato il legale, Pu dovrà rispettare cinque restrizioni: non potrà esercitare la professione, se vorrà lasciare Pechino nei prossimi tre anni dovrà avvertire la polizia, dovrà riferire abitualmente ad un addetto alla sorveglianza, non potrà parlare con i media e, infine, dovrà presentarsi ad una stazione di polizia con regolarità. Iraq: ambasciatore a Riad, Baghdad rilascerà 10 dei 70 sauditi detenuti nelle carceri Nova, 22 dicembre 2015 Il governo iracheno rilascerà 10 dei settanta sauditi detenuti nelle carceri del paese: lo ha annunciato l’ambasciatore iracheno a Riad, Rushdie al Ani, che ha sottolineato come la scarcerazione arriverà in occasione della riapertura dell’ambasciata saudita a Baghdad. L’ambasciatore ha aggiunto che nel prossimo periodo verranno sviluppati i rapporti commerciali tra i due paesi. Ani ha poi affermato di aver recentemente incontrato l’ambasciatore saudita in Iraq, Thamer Sabhan, con il quale ha discusso di progetti per rafforzare la cooperazione tra i due paesi in tutti i settori di reciproco interesse. Burkina Faso: arrestati due giornalisti accusati di aver collaborato a tentato colpo di stato Nova, 22 dicembre 2015 Due giornalisti in Burkina Faso sono stati arrestati con l’accusa di essere complici del tentato colpo di stato del settembre scorso. I due giornalisti, secondo quanto riferisce l’edizione online della rivista "Jeune Afrique", sono Adama Ouedraogo, caporedattore della sezione politica del quotidiano "The Observer Paalga", e Caroline Yoda, reporter dell’emittente televisiva "Bf1". I due, attualmente detenuti nel carcere di Ouagadougou, sono accusati in particolare di aver minato la sicurezza dello Stato, oltre che per concorso in omicidio e nella distruzione di proprietà privata. Ouedraogo è accusato di aver partecipato a diversi incontri preparatori con i golpisti e di aver condotto alcune missioni all’estero in funzione del tentato golpe, mentre la Yoda è accusata di aver collaborato con il Reggimento di sicurezza presidenziale (Rsp), il corpo speciale dell’ex presidente Blaise Compaorè che ha guidato il tentato golpe di settembre.