Passare dalla rabbia e dalla voglia di vendetta alla capacità di ascoltare Il Mattino di Padova, 21 dicembre 2015 Il progetto di confronto tra studenti e detenuti, che la redazione di Ristretti Orizzonti porta avanti ormai da dodici anni con tante scuole del Veneto, si arricchisce ogni giorno di riflessioni nuove: questa volta, è un’insegnante a spiegare il senso che ha il progetto, per lei ma soprattutto per i suoi studenti, che passano spesso da un’idea di giustizia come vendetta a una voglia di non giudicare, ma imparare ad ascoltare e a capire storie difficili di persone che hanno sbagliato, ma vogliono riparare al male fatto mettendo la loro esperienza negativa al servizio degli altri. E poi un detenuto di una sezione di Alta Sicurezza, che racconta quanto è difficile, ma anche importante, affrontare le domande "implacabili" dei ragazzi, e quanto quelle domande ti inchiodano alla tua responsabilità, più di tanti anni di galera. E ti costringono a smetterla di cercare alibi ai tuoi comportamenti sbagliati, e a scegliere la strada del confronto, imparando a non mentire più agli altri, a se stessi, alle proprie famiglie. Un progetto che aiuta a diffondere un po’ di umanità Cari redattori di Ristretti Orizzonti, innanzitutto un grande ringraziamento a tutti voi, che in modi diversi offrite ai ragazzi questa possibilità di conoscere e di pensare. So che non è facile, richiede molta fatica sia da parte dei volontari che dei detenuti, ma penso che gli scritti dei ragazzi con le loro riflessioni sugli incontri fatti vi daranno conferma che non è uno sforzo vano: ognuno di loro ha riconosciuto la validità del progetto, e si è posto in modo nuovo nei confronti dei problemi e delle persone. Colgo l’occasione per condividere con voi gli obiettivi che mi pongo nel proporre alle classi questo argomento. Penso che vi possa interessare conoscere il contesto in cui si inseriscono i vostri interventi. Il primo obiettivo, essendo la mia l’ora di Religione, è diffondere un po’ di umanità. Molti ragazzi si sono resi conto durante queste lezioni che la paura ci fa diventare duri, chiusi, non vogliamo neanche sapere, ci basta stare tranquilli. Passare dalla rabbia e dalla voglia di vendetta alla capacità di ascoltare, alla voglia di capire, in alcuni casi al desiderio che le cose cambino, o perfino ad una riflessione sul perdono, mi sembrano passi davvero importanti. Il secondo obiettivo è la prevenzione, perché ascoltando le vostre testimonianze si rendono conto che spesso la fragilità o l’orgoglio portano le persone a commettere reati anche gravi. In un mondo che ci vuole sfrontati, sicuri di sé e splendidi a tutti i costi, saper riconoscere che l’essere umano è fragile e spesso sbaglia può insegnarci la prudenza. Un terzo obiettivo è una riflessione sui pregiudizi. Spesso ci permettiamo di giudicare e perfino offendere senza sapere nulla. Tramite questo lungo percorso i ragazzi si rendono conto di quanto le conoscenze che avevano fossero limitate o distorte, e malgrado questo si sentissero assolutamente in diritto di esprimere giudizi anche molto duri. Riflettere sulla tendenza a generalizzare, sulla necessità di informarsi seriamente, ed infine evitare se possibile di giudicare gli altri, si rivelano comportamenti più degni. L’essere umano è un mistero così profondo da non permettere di essere racchiuso in una parola. Gesù per primo ci invita a non giudicare. Infine ritengo importante anche la riflessione in sé sui temi della giustizia, della legalità, della "sicurezza", del carcere, della riabilitazione, per i nuovi adulti che crescono nella nostra società. Mi conferma in questo percorso l’attenzione di papa Francesco verso i detenuti, perché dall’inizio del suo pontificato e poi con assiduità ha mostrato una premura particolare verso le persone che si trovano in questa condizione e verso le loro famiglie. Infine vi ringrazio personalmente perché in questi anni in cui ho partecipato con le classi ai vostri progetti ho imparato molto, e sono cambiata. Mi rendo conto delle vostre difficoltà, e anche per me non è sempre facile portare avanti queste attività, ma credo che sia una preziosa opportunità per tutti. Senza cercare la perfezione, accettando anche la nostra fragilità e qualche inconveniente, riconoscendo il valore e la delicatezza dei temi che stiamo affrontando. Un grazie particolare a Ornella e ai volontari per la grande disponibilità e professionalità. Luisa Gavagnin, docente dell’ITT Mazzotti, Treviso Le domande degli studenti ti inchiodano a riflettere sui tuoi comportamenti Sono da più di venti anni in carcere, provengo dalle sezioni di Alta Sicurezza nelle quali non è per niente facile incontrare persone esterne all’Amministrazione. Da quando sono arrivato a Padova ho avuto la possibilità di frequentare Ristretti Orizzonti, dapprima facevo parte al gruppo di discussione, poi sono entrato a tutti gli effetti a far parte della redazione. Con la redazione sto partecipando al progetto scuola/carceri che coinvolge la società civile con il mondo del carcere. Devo dire che nelle sezioni da cui provengo si resta ad oziare giorno dopo giorno, l’unico confronto che puoi avere è con le persone che vivono all’interno della tua stessa sezione e, bene che vada, puoi confrontarti su come poter perfezionare un reato o nutrire rabbia contro le istituzioni che ti hanno privato della libertà o dei tuoi diritti verso la tua famiglia. Il progetto scuola/carcere mi ha fatto vedere una prospettiva diversa, il confronto con la società, con persone che neanche conosci e soprattutto con ragazzi, che dopo aver ascoltato la tua testimonianza sono agguerriti, pronti a farti delle domande che ti imbarazzano non poco e spesso ti mettono di fronte a realtà che nel mondo carcerario sono tabù, quelle domande fanno crescere la tua consapevolezza e ti costringono a riflettere sui tuoi comportamenti. Da subito ho scoperto che quel mondo sconosciuto, quella parte di società alla quale mi sono sentito così imbarazzato a dare qualche risposta, mi ha lasciato riflettere più di quanto abbiano potuto fare le istituzioni in venti anni di carcerazione, quelle domande che gli studenti ti pongono e per cui ti mettono a cospetto della realtà vista da prospettive diverse, fa sì che la tua riflessione avviene in uno schema diverso. Non si ha più a che fare con la rabbia nutrita contro le istituzioni che ti hanno lasciato in stato di abbandono, chiuso in sezioni che sono autentici ghetti, adesso è la parte più giovane della società che vuole capire, sapere il perché sei arrivato a commettere il reato, ti chiede se non avevi altre alternative, se potevi essere aiutato o se per caso non hai voluto che ti aiutassero. Non puoi nutrire rancori per questa parte di società che si confronta con te, di certo ti imbarazza, ma ti inchioda alle tue responsabilità e ti fa pensare… e anche dopo che è finito l’incontro continui a riflettere. Credo che, in questi incontri, anche i ragazzi acquisiscono informazioni utili per il loro percorso di vita, come capire che in certi casi la vita può essere crudele e che da semplici cittadini lontani da ogni schema delinquenziale si può arrivare a compiere reati cominciando da piccole cose, da piccole bugie, fino ad essere inghiottiti da quel vasto mondo fatto di cose materiali dove domina la rincorsa al Dio denaro. Credo che gli incontri con le scuole andrebbero incentivati, tanto più la società civile entra nel carcere e si confronta con le persone detenute, più il risultato di questo confronto aiuterà la popolazione detenuta ad un reinserimento in quella stessa società. Agostino Lentini Come mai dal carcere escono notizie solo su pochi casi di violenza? di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 21 dicembre 2015 Sentirsi libero ma in catene a volte è ancora peggio di sentirsi prigioniero. (Diario di un ergastolano: carmelomusumeci.com). In questo periodo leggo sui giornali vicende (che ben conosco) sul dramma delle violenze delle nostre "Patrie Galere": "Il muro di gomma si sgretola, la verità si fa strada, ma come volete che mi senta? Penso alla sofferenza di mio fratello Stefano mentre lo massacravano di botte, penso a quel carabiniere che rideva raccontando i calci che gli avevano dato". (Fonte: Repubblica, 14 dicembre 2015) "Brigadiere, perché non hai fermato il tuo collega che mi stava picchiando? (Fonte: Repubblica, 5 dicembre 2015) "Le registrazioni di Rachid Assarag sono diventate un caso. Quelle voci che testimoniano botte e sevizie ai detenuti in diverse carceri italiane, violenze definite addirittura "educative" dagli agenti di custodia, hanno spinto ieri il ministro della Giustizia Andrea Orlando a chiedere al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) di inviare gli ispettori nei diversi istituti di pena dove gli abusi sarebbero avvenuti." (Fonte: Repubblica, 5 dicembre 2015). "Genova: "Detenuto pestato, 13 indagati tra agenti, dirigenti e medici" (Fonte: Il Fatto Quotidiano, 13 dicembre 2015). Mi fermo qui perché credo che molti definiranno questi episodi come casi isolati. E proprio l’altro giorno un volontario, attento e sensibile, che ben conosce la realtà delle nostre "Patrie Galere", mi ha domandato come mai dal carcere escono notizie solo su pochi casi di violenza e d’illegalità. Gli ho risposto che in realtà le violenze (o le "mele marce") in carcere sono molte, ma non è facile denunciare le persone che hanno in mano la tua libertà (o quello che ne è rimasto) o che possono renderti la vita ancora più dura. Ci vuole tanto coraggio o incoscienza per denunciare quello che accade realmente in carcere. Molti prigionieri preferiscono voltarsi dall’altra parte, altri accettano di subire il danno minore, altri ancora stanno zitti perché sanno che c’è sempre da rimetterci quando ti metti contro l’"Assassino dei Sogni" (come chiamo io il carcere) perché puoi rischiare di non essere creduto o a tua volta di essere denunciato per calunnia, oltraggio, resistenza. E i detenuti sanno che se affronti un processo i tuoi guardiani sono più credibili di te perché tu sei il "cattivo" e loro sono i "buoni". Allora in molti casi i detenuti le prendono e stanno zitti. Che altro possono fare? Mi ricordo che una volta durante una visita parlamentare denunciai alla senatrice Maria Luisa Boccia un pestaggio che era avvenuto nel carcere di Nuoro e fui per questo punito con una sanzione disciplinare e quindici giorni di cella di rigore e isolamento. Solo in seguito, dopo aver scontato la punizione, ebbi la "fortuna" che la magistratura di Sorveglianza di Nuoro mi diede ragione. Riporto letteralmente la motivazione di quel provvedimento per dimostrare quanto è difficile fare uscire la verità dalle mura di un carcere: "… Il reclamante stava avendo un colloquio con una parlamentare, figura istituzionale e facoltizzata ad accedere agli istituti di pena senza autorizzazione alcuna, proprio in ragione del particolare ruolo rivestito. L’episodio che il Musumeci ha riferito alla senatrice relativo ad una supposta aggressione del Comandante nei confronti di un detenuto è stata una vicenda che effettivamente ha avuto una risonanza pubblica, essendo all’epoca comparsi degli articoli sulla stampa locale, essendo stata investita della questione la competente procura, nonché notiziato il Ministero della Giustizia da parte di questo Ufficio. Infine l’esposizione che fece del fatto il Musumeci, non risulta essere caratterizzata da veemenza o particolare impeto, ma si delinea come una semplice esposizione di una vicenda, sicuramente spiacevole, ma avvenuta nell’ambito di una partecipazione, ad un soggetto qualificato, delle vicende carcerarie, p.q.m. dispone disapplicarsi nei confronti del reclamante la sanzione disciplinare erogatagli dal Consiglio di disciplina della Casa Circondariale di Nuoro". (Fonte: Ufficio di Sorveglianza di Nuoro, Ordinanza della Dott.ssa Carta, anno 2007). La battaglia dei Radicali contro l’ergastolo e il "41bis" di Dimitri Buffa Il Tempo, 21 dicembre 2015 I Radicali promettono battaglia contro ergastolo ostativo, una sorte di "morte bianca", e il regime carcerario disciplinato dal 41 bis, una vera e propria forma di tortura. E lo fanno nella mozione finale del sesto congresso di "Nessuno tocchi Caino" svoltosi eccezionalmente all’interno del carcere di Opera con la partecipazione dei massimi esperti del settore, dall’ex presidente della Consulta Giovanni Flick al capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Santi Consolo. Il documento impegna i militanti congressuali a "promuovere ricorsi in sede internazionale, in particolare al Comitato dei diritti umani delle Nazioni Unite, alla Corte europea dei diritti dell’uomo e, in Italia, alla Corte Costituzionale, volti al superamento dei trattamenti crudeli e anacronistici, come il regime di cui all’articolo 41 bis, e il sistema dell’ergastolo ostativo che, per modalità specifiche e durata eccessiva di applicazione, provocano, come ampiamente dimostrato dalla letteratura scientifica danni irreversibili sulla salute fisica e mentale del detenuto, tale da configurare la fattispecie di punizioni umane e degradanti". Nella tre giorni, che ha avuto anche momenti molto toccanti come quelli caratterizzati dagli interventi dei detenuti ergastolani di Opera e del direttore dello stesso carcere, si sono sentite quelle voci che cercano disperatamente di contrastare il pensiero unico focaiolo che in Italia ormai impera da almeno vent’anni. Le assise congressuali hanno ricevuto messaggi di apprezzamento anche dal capo dello stato Sergio Mattarella e dal presidente del Senato Piero Grasso fin dal primo giorno. Ma nei congressi è sempre così. Altra cosa è tradurre in leggi il garantismo che in Italia è diventata impresa quasi impossibile. Dal 1992 a oggi in realtà si è reso quasi impossibile l’istituto, previsto dalla costituzione più bella del mondo all’articolo 79, che regola l’amnistia e l’indulto come misure di razionalizzazione delle tante spinte autoritarie della politica. E in passato anche l’appello a cambiare le cose di un altro capo dello stato, Giorgio Napolitano, messaggio alle camere del 6 ottobre 2013, cadde nel vuoto della politica "politicante". Il presidente dell’Autorità anticorruzione Cantone: "Non sono un parafulmine" di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 21 dicembre 2015 "L’Autorità nazionale anticorruzione non si occupa né si occuperà di banche, così come non farà valutazioni su vicende delle quale si sta occupando l’autorità giudiziaria. Del resto io non ho gli elementi per dare giudizi né sono un "tuttologo", sebbene qualcuno voglia farmi passare per tale", assicura Raffele Cantone, chiamato ancora una volta dal presidente del Consiglio a risolvere una "grana". Come per l’Expo, come per gli appalti del Giubileo dopo lo scandalo di Mafia Capitale. Che cosa farà allora il suo ufficio, presidente Cantone? "Metteremo a disposizione la Camera arbitrale che già esiste all’interno della nostra struttura, ed è formata da personalità di assoluto valore; presieduta dal professor Auletta, che è un esperto della materia e s’è già occupato di arbitrati bancari. Il nostro compito sarà garantire la correttezza e la terzietà degli arbitrati. Rispetto alle rivendicazioni dei privati, cioè i risparmiatori, e alla parte pubblica chiamata a pagare i risarcimenti, cioè lo Stato, ci dev’essere un terzo che decide; l’arbitro, appunto, che sarà scelto dalla nostra struttura in base a criteri che in parte bisognerà scrivere nella legge che ci affida tale compito. Ad esempio quando scattano i presupposti, e la regolarità delle procedure". Ma il premier Renzi ha chiamato lei, non la Banca d’Italia né la Consob. Non è un atto di sfiducia nei loro confronti? "Questo non spetta a me dirlo. Quando sono stato chiamato io ho risposto che all’interno dell’Anac c’era già una struttura che poteva svolgere il ruolo riassunto prima; non fosse stato così non avrei dato la mia disponibilità. Se per ragioni di opportunità altri hanno ritenuto di non rivolgersi alla Banca centrale o chi vigila sulla Borsa, che alternativa c’era? Creare un altro ente ad hoc? Ho detto che potevamo farlo noi, con piccoli aggiustamenti necessari che potranno essere contenuti nella legge". La visita del governatore della Banca d’Italia al Quirinale ha dato la sensazione che volesse difendere il proprio ruolo, e magari mettere in guardia dalle invasioni di campo. "Il governatore ha spiegato che l’incontro col capo dello Stato era fissato da tempo, e non ho ragioni per non credergli. Tra l’altro io ho con lui un ottimo rapporto personale, e tra Anac e Banca centrale c’è una proficua collaborazione istituzionale. Venerdì mattina ho telefonato a Visco e al segretario generale della presidenza della Repubblica, per rassicurare tutti che la struttura che dirigo non ha alcuna intenzione di interferire con i poteri di vigilanza, né di sovrapporsi a competenze altrui". Però il risultato, anche sul piano mediatico, è che lei è stato chiamato a giocare pure questa partita; sugli arbitrati ci sarà il timbro dell’Anticorruzione. "Solo ed esclusivamente per garantire la correttezza degli arbitrati, nei quali è chiamato in causa lo Stato, non le banche. Non ci occuperemo della crisi del sistema bancario, bensì di situazioni specifiche". Le banche potrebbero rispondere di quanto lo Stato dovesse pagare all’esito degli arbitrati? E per stabilire se un risparmiatore dev’essere risarcito non si dovrà verificare se la banca ha rispettato le regole? "Forse sì, sebbene anche questi aspetti andranno chiariti dalla legge. Tuttavia l’arbitrato è uno strumento che si attiva su richiesta degli interessati, e non pregiudica altri interventi. In primo luogo quello della magistratura, che andrà avanti per la sua strada, a prescindere da ciò che deciderà l’arbitro "terzo" che noi contribuiremo a scegliere. Questo accade già con gli appalti: ogni realtà che passa dal nostro ufficio può essere oggetto di indagine da parte dell’autorità giudiziaria". Per scegliere gli arbitri, vi rivolgerete anche a Bankitalia e Consob? "Lo verificheremo, non è escluso che si possano realizzare sinergie utili. Si potrebbe accedere agli albi di quegli uffici, per non ricorrere a una sorta di reclutamento straordinario. Noi attualmente disponiamo di albi solo per gli appalti, la legge dovrà precisare anche questo". Che cosa pensa del fatto che il procuratore di Arezzo Roberto Rossi sia inquirente e al tempo stesso consulente del governo? "Per come conosco il procuratore Rossi, continuo a considerarlo un magistrato competente e integerrimo. L’incarico che ha ricoperto non è una consulenza per il governo, ma un contributo di studio su alcuni singoli provvedimenti legislativi richiesto a molti altri colleghi. Io non credo che si trovi in una situazione da conflitto d’interessi, ma le mie conoscenze sono limitate a ciò che ho letto sui giornali. Il Consiglio superiore della magistratura, che l’ha più volte autorizzato a svolgere anche questa funzione, ha avviato accertamenti e trarrà le sue conclusioni". Insomma, neanche stavolta Cantone si sente un parafulmine usato dal governo nei momenti di difficoltà? "Né un parafulmine né una foglia di fico. Se ci sono problemi da risolvere ed esistono già gli strumenti a disposizione, mi pare giusto utilizzarli. Senza snaturare la funzione dell’Anac né allargarne il campo d’azione. Peraltro ribadisco che la nostra Camera arbitrale è di altissimo livello, e per gli appalti è perfino sottoutilizzata. Sull’Expo abbiamo svolto un’attività di controllo garantendo che i lavori potessero proseguire, su realtà diverse da quelle in cui si trovano oggi le banche. Per il resto abbiamo continuato a lavorare, senza sconfinamenti, sulla corruzione". Un fenomeno che non accenna a diminuire; l’ultima indagine ha dimostrato che a Roma i lavori sulle strade si facevano male per garantire i soldi necessari a pagare le tangenti. È preoccupato? "No, perché finché ci sono inchieste che fanno venire alla luce la corruzione significa che gli anticorpi funzionano. La corruzione è un fenomeno sistemico se non strutturale, e la prevenzione non può prescindere dalla repressione. Sarebbe molto più preoccupante se non ci fossero indagini, e non producessero risultati". Aziende confiscate, il codice antimafia finisce fuori strada di Lionello Mancini Il Sole 24 Ore, 21 dicembre 2015 Qual è il giusto utilizzo dei beni mafiosi confiscati, un patrimonio da decine di miliardi alimentato senza sosta da misure di prevenzione e inchieste giudiziarie? Anche di questi aspetti si occupa, con importanti novità, il Ddl 2134/S che modifica il codice antimafia, licenziato in prima lettura alla Camera. Tra le previsioni della normativa in itinere, la nuova composizione del cda dell’Agenzia per i beni sequestrati e il nuovo profilo del suo direttore, oggi un prefetto ma che potrà essere scelto tra i magistrati anziani e i dirigenti del demanio che vantino "un’esperienza professionale specifica". Soprattutto, il nuovo codice disciplina le azioni necessarie per stabilire se un’azienda sequestrata (e che entrerà nell’orbita dell’Agenzia solo con la confisca di secondo grado) possieda i requisiti per sopravvivere. È una fase delicata, in cui si deve valutare se valga la pena di scommettere sul futuro della produzione, del business, dei posti di lavoro. Se tali requisiti verranno riconosciuti, l’amministratore giudiziario dovrà presentare un business pian dettagliato, sul quale si pronuncerà il giudice, ma - altra novità - nel contraddittorio tra le parti. Dunque il rito si apre alle ragioni dei soggetti colpiti, anche per decidere se l’azienda abbia le caratteristiche per restare sul mercato. Un nodo davvero cruciale. Non dev’essere un caso che proprio su questo nodo, il nuovo codice antimafia ingarbuglia anziché snellire, complica invece di semplificare. Il testo, infatti, moltiplica i passaggi delle pratiche su "tavoli" istituiti in ogni prefettura, attorno ai quali dovranno confrontarsi sindacati, imprenditori, cooperative, associazioni, in un encomiabile sforzo di coinvolgimento della società civile che finirà, invece, per pesare ulteriormente sul lavoro già gravoso delle propaggini periferiche dello Stato. Eppure l’esperienza delle white-list è recente: nel giro di poche settimane, prefetture e coordinamenti provinciali interforze sono diventati altrettanti colli di bottiglia nella selezione delle imprese, per carenze di personale, risorse, tecnologia. Perplessità sorgono anche sugli articoli del Ddl che prevedono di affiancare agli amministratori giudiziari, enti non profit o anche singoli imprenditori: tutti soggetti che potrebbero nei fatti godere di un affidamento gratuito dei beni sequestrati e di una sorta di prelazione quando, a confisca definitiva, l’azienda sarà affittata o ceduta. Meccanismi rugginosi già alla nascita, per quanto scritti in buona fede e all’insegna di una lodevole sinergia tra Stato e società civile, ma che finiscono per poggiare solo sulla sensibilità di quanti si offriranno di cooperare (si spera non di approfittare o di sbarcare il lunario), ovviamente in nome della legalità. Su tutti questi aspetti, la riforma sembra avvertire il peso delle aspettative di quel composito segmento del fronte antimafia che presidia ogni passaggio dell’iter della confisca, per mantenere costante l’afflusso dei beni da gestire, con le risorse (pubbliche e non) che tale attività accompagna. Alla base di questa serrata azione di lobbying, l’idea secondo cui ogni casa, azienda, terreno tolti ai boss trasmutano in trofeo intangibile da ostendere nei riti antimafia della società civile. Ma se il valore simbolico è innegabile, si tratta allo stesso tempo di cespiti da valorizzare - se ce ne sono le condizioni - oppure di cui liberarsi quando economicamente insostenibili. E molto spesso, dice l’esperienza, le aziende non sono vere realtà imprenditoriali in grado di reggersi dopo il sequestro, proprio perché, una volta sottratte al contesto criminale, perdono quei "vantaggi competitivi" che sono in realtà distorsioni del mercato. Teorizzarne il salvataggio indiscriminato solo perché tolte ai boss, è una filosofia due volte insana: innanzitutto, perché lo Stato dovrebbe impiegare denaro dei contribuenti per mantenerle in vita e, in secondo luogo, perché così verrebbero nuovamente beffate (dalla retorica antimafia) le imprese sane, fin lì sopravvissute alla concorrenza sleale dei mafiosi. Da Mafia Capitale alla condanna di Alberto Stasi, un anno di cronaca Adnkronos, 21 dicembre 2015 Dall’indagine Mafia Capitale, alla condanna definitiva ad Alberto Stasi per l’omicidio di Chiara Poggi, passando per il duplice delitto dei fidanzati di Pordenone, Trifone Ragone e Teresa Costanza, fino al giallo della fonderia di Brescia. Il 2015 è stato un anno ricco di cronaca, in cui ancora una volta i grandi gialli sono stati protagonisti. Ecco i principali. 23 Gennaio: Dopo oltre cinque ore di Camera di Consiglio arriva la sentenza della Corte d’Appello di Ancona per l’aggressione a Lucia Annibali, l’avvocato sfregiata con l’acido il 16 aprile 2013 davanti all’ingresso della sua abitazione. Per l’ex fidanzato, Luca Varani, accusato di essere il mandante dell’aggressione la Corte d’Appello conferma la condanna a 20 anni decisa in primo grado, mentre Altistin Precetaj e Rubin Ago Talaban, i due albanesi considerati esecutori materiali vengono condannati a 12 anni. 17 Marzo: I due fidanzati, Trifone Ragone e Teresa Costanza, vengono trovati morti in auto, nel parcheggio vicino al palazzetto dello Sport di Pordenone, raggiunti alla testa da alcuni colpi di pistola. Teresa, laureata alla Bocconi, fa l’assicuratrice, Trifone invece è sottufficiale dell’esercito con la passione per la palestra. Ed è proprio all’uscita dall’ultimo allenamento che avviene il delitto. Un istruttore passa, vede l’auto con il finestrino in frantumi e i corpi e lancia l’allarme. Inizialmente si pensa a un omicidio-suicidio, ipotesi smentita subito dopo dagli investigatori che si mettono a caccia del killer. Una persona, sono convinti fin dall’inizio i carabinieri che si occupano del caso, che conosce bene il posto, le abitudini e i movimenti delle vittime. Tanto da entrare in azione in pochi minuti e, come un professionista, far perdere le proprie tracce. Si scava nella vita, nel passato dei due fidanzati, bellissimi e descritti da tutti come una coppia felice. Mesi e mesi di indagini, durante i quali spuntano le ipotesi più disparate: la pista passionale, quella legata al mondo della palestra e a un presunto commercio di anabolizzanti. E, ancora, l’ambiente militare. Poi i carabinieri, coordinati dal pm Marco Martani, trovano il caricatore di una pistola, compatibile con l’arma del delitto, in un laghetto, poco lontano dal luogo del delitto. Il cerchio si stringe intorno a una persona, amico e collega militare di Trifone, che viene iscritto nel registro degli indagati. Si conclude dopo cinque processi e quattro anni di carcere per gli imputati la vicenda giudiziaria di Amanda Knox e Raffaele Sollecito accusati dell’omicidio di Meredith Kercher, avvenuto a Perugia nel novembre 2007. La Cassazione assolve gli imputati per non aver commesso il fatto. Entrambi erano stati condannati in Appello: Sollecito a 25 anni di reclusione e Amanda Knox a 28 anni e sei mesi e a tre anni per calunnia. 9 Aprile: Claudio Giardiello, ex imprenditore di 57 anni, armato di una pistola 7.65, entra nel tribunale di Milano e spara per 13 volte colpendo a morte il giudice fallimentare Fernando Ciampi, l’avvocato 37enne Lorenzo Alberto Claris Appiani e Giorgio Erba, 60 anni, coimputato. Davide Limoncelli di 40 anni, socio di Giardiello nella società Immobiliare Magenta, rimane ferito mentre il commerciale Stefano Verna viene colpito a una gamba. Una scia di sangue interrotta solo dai carabinieri che riescono a fermare Giardiello a Vimercate, prima che per sua stessa ammissione puntasse nuovamente la pistola, legalmente detenuta, contro un altro dei presunti colpevoli di una vicenda giudiziaria di cui Giardiello, usando le parole del suo ex difensore Valerio Maraniello, "era convinto di essere vittima". 4 Luglio: Maria Luisa Fassi, tabaccaia di Asti, viene uccisa con oltre 40 coltellate durante una rapina nel suo negozio. Un uomo attende che la tabaccaia resti sola ed entra nel negozio minacciandola con un coltello e dicendole "dammi tutti i soldi". A questo punto la donna inizia a urlare e l’uomo perde la testa colpendola decine di volte con il coltello prima di prendere una busta con 800 euro da un cassetto e fuggire. Per il delitto viene arrestato Pasqualino Folletto che confessa l’omicidio. L’uomo, 46 anni, è padre di tre figli, tra cui una bambina di 11 anni molto malata. Secondo quanto emerge dalle indagini l’uomo aveva stipulato due finanziamenti di circa 5-6mila euro ciascuno, e aveva alcune cartelle esattoriali non pagate, oltre ai problemi per le spese mediche. 15 Luglio: Giancarlo Nocchia, gioielliere 70enne di via dei Gracchi a Roma, nel quartiere Prati, viene ucciso durante una rapina con un colpo alla testa inferto con un corpo contundente. Le indagini vengono affidate al Reparto operativo e al Nucleo investigativo dei carabinieri che il 18 luglio fermano un 32enne con precedenti a Latina a bordo di un treno. L’uomo viene portato nel carcere di Regina Coeli. Due giorni dopo il 32enne si suicida in carcere impiccandosi con un lenzuolo. 15 Agosto: Nella clinica Mangiagalli di Milano nasce il figlio di Martina Levato e Alexander Boettcher, i due giovani condannati a 14 anni di carcere in primo grado, per aver sfigurato con l’acido Pietro Barbini. 10 Settembre: Con la riduzione delle condanne inflitte in primo grado ad alcuni degli imputati e la conferma della sentenza per altri cinque si è conclude in Corte d’Appello il processo riguardante la prostituzione di due minorenni nella zona dei Parioli a Roma. A godere della riduzione è il principale imputato Mirko Ienni. Confermate invece la condanna inflitta a Nunzio Pizzacalla e alla madre di una delle minorenni che si prostituivano. Circa un mese dopo, il 22 ottobre, arriva poi la condanna a un anno di reclusione e una multa di 1.800 euro per Mauro Floriani, marito di Alessandra Mussolini. A emettere la condanna è il gup Riccardo Amoroso, che accoglie la richiesta di patteggiamento che Floriani aveva concordato con la procura della Repubblica a conclusione delle indagini sui clienti delle ragazze accusati di prostituzione minorile. 8 Ottobre: Mario Bozzoli, imprenditore proprietario insieme al fratello Adelio, di una fonderia di Marcheno, in provincia di Brescia, scompare. Il 16 ottobre non si hanno più notizie di un operaio della fonderia, Giuseppe Ghirardini. L’operaio era addetto al forno che alle 19.40 dell’8 ottobre ha avuto una fumata anomala. Ghirardini viene trovato morto nella località montana sopra Ponte di Legno il 18 ottobre. Da un primo esame sul corpo non vengono rintracciati segni di violenza ma dagli accertamenti emerge che l’uomo è morto per avvelenamento da cianuro. Il 18 ottobre arriva la svolta nelle indagini e la procura di Brescia iscrive nel registro degli indagati i nipoti dell’imprenditore Giacomo e Alex Bozzoli e gli operai Oscar Maggi e Abu. A l momento della scomparsa i quattro sarebbero stati presenti in azienda con Giuseppe Ghirardini, trovato morto dieci giorni dopo per avvelenamento da cianuro. L’ipotesi prevalente degli inquirenti è che Mario Bozzoli sia stato gettato nel forno della fonderia. 3 Novembre: L’indagine Mondo di mezzo, più conosciuta come "Mafia Capitale", vicenda giudiziaria cha ha fatto tremare Roma a dicembre 2014, arriva in Tribunale e vengono emesse le prime quattro condanne per gli imputati che avevano scelto il rito abbreviato. Si tratta di Emilio Gammuto, ex collaboratore di Salvatore Buzzi, condannato a 5 anni e 4 mesi, di Emanuela Salvatori, ex funzionaria del Comune di Roma e responsabile dell’attuazione del piano nomadi di Castel Romano, condannata a 4 anni, e di Raffaele Bracci e Claudio Gaudenzi, entrambi condannati a 4 anni. Due giorni dopo, il 5 novembre, inizia il maxi processo con rito immediato nell’aula Occorsio del Tribunale di Roma che si trasferisce dopo la prima udienza nell’aula bunker di Rebibbia, dove si sono celebrati alcuni dei più importanti dibattimenti della storia italiana. Quarantasei imputati, centomila atti processuali, nove mesi di processo, 136 udienze già in programma. 4 Novembre: Michele Buoninconti viene condannato a 30 anni per l’omicidio della moglie Elena Ceste dal gup di Asti Roberto Amerio. La casalinga di Costigliole d’Asti era scomparsa da casa a gennaio 2014 e il suo corpo era poi stato trovato solo nove mesi dopo in un canale di scolo poco distante. 7 Novembre: Fabio Giacconi e la moglie Roberta Pierini vengono raggiunti da colpi di pistola nella loro abitazione ad Ancona. La donna muore sul colpo mentre il marito viene ricoverato nell’ospedale Torrette di Ancona dove muore il 1 dicembre scorso. Per il duplice omicidio vengono arrestati la figlia delle vittime, una ragazza di 16 anni, e il fidanzato 18enne Antonio Tagliata. 17 Novembre: Colpo di scena nell’omicidio del piccolo Loris Stival, il bambino di 8 anni, trovato morto in un canalone di scolo il 29 novembre 2014. La madre, Veronica Panarello, cambia versione e racconta che suo figlio si sarebbe strangolato da solo mentre giocava con una fascetta di plastica in casa. L’incidente, sostiene la donna, sarebbe avvenuto mentre lei accompagnava a scuola il fratello. Il 19 novembre si tiene la prima udienza del processo a carico di Veronica Panarello, accusata di omicidio volontario aggravato del figlio Loris e occultamento di cadavere. 17 Dicembre: Colpevole, per la prima volta. È Alberto Stasi, per i giudici milanesi dell’appello ‘bis’, l’assassino della fidanzata Chiara Poggi, uccisa nella villetta di via Pascoli a Garlasco (Pavia) il 13 agosto 2007. Già assolto in due gradi di giudizio con sentenze poi annullate dalla Cassazione, per l’imputato, da sempre sospettato numero uno dell’inchiesta, arriva la condanna a 16 anni di carcere. Accolta in parte la tesi dell’accusa: esclusa l’aggravante di aver ucciso Chiara "con crudeltà", la richiesta di condanna a 30 anni viene di fatto dimezzata. Vittime delle forze dell’ordine. Il numero identificativo sulle divise è fermo da un anno di Michele Azzu vanpage.it, 21 dicembre 2015 Stefano Cucchi, Davide Bifolco, Federico Aldrovandi: sono le giovanissime vite interrotte dalle forze dell’ordine. Ma ancora manca in Italia il numero identificativo sulle divise. E il reato di tortura. Stefano Cucchi è morto il 22 ottobre 2009 all’ospedale Sandro Pertini di Roma, una settimana dopo essere stato arrestato dai carabinieri. Ora, la Corte di Cassazione ha assolto definitivamente tre agenti della polizia penitenziaria - più un medico e tre infermieri - ma ha annullato l’assoluzione per cinque medici che andranno a un giudizio d’appello "bis" per omicidio colposo. L’accusa è quella di non aver rilevato le importanti lesioni fisiche che aveva Cucchi. Ma è in corso anche una seconda inchiesta, quella sui cinque carabinieri della stazione Roma Appia che arrestarono Stefano. La Corte d’Assise, pochi mesi fa, aveva accertato che: "Le lesioni subite da Cucchi debbono essere necessariamente collegate a un’azione di percosse; e comunque da un’azione volontaria". Non c’è "solo" Stefano a morire in questo modo. Ci sono Giuseppe Uva, Federico Aldrovandi, Davide Bifolco e tantissimi altri. E sono spesso giovanissimi, i morti ammazzati dalle forze dell’ordine. Chi con un colpo di pistola, chi con torture durate ore. C’è chi, come Cucchi, viene arrestato in possesso di un piccolo quantitativo di hashish e cocaina. Chi, come Bifolco, non si ferma col motorino a un alt della volante, e chi come Aldrovandi torna a casa dalla discoteca. Può accadere ad ognuno di noi. In città diverse, in situazioni diverse, persone fra loro molto diverse: le storie sono tutte riportate sul sito dell’Acad, l’associazione contro gli "abusi in divisa" che monitora queste vicende. E assiste legalmente i familiari delle vittime, porta avanti campagne, fa informazione. "Abbiamo un numero verde", dice a Fanpage.it Luca Blasi di Acad, "Che squilla tutto il giorno. Il fenomeno in Italia esiste ed è importante". La mente torna a quanto successo negli ultimi mesi negli Stati Uniti. A quell’escalation di violenze da parte delle forze dell’ordine, culminate nell’omicidio del giovane Freddie Gray a Baltimora - e prima ancora del giovane Michael Brown a Ferguson - che avevano portato alle sommosse della popolazione nelle due città. E a movimenti di protesta al grido di "Black Lives Matters", ovvero: le vite dei neri contano. Tutto questo ha avuto una conseguenza. Lo scorso 9 dicembre, l’FBI americano, cioè la polizia federale, ha dato un annuncio storico: adotterà un nuovo sistema di database sulle uccisioni da parte delle forze dell’ordine, con dati anagrafici e modalità dei decessi. Nei mesi scorsi, il giornale The Guardian aveva creato il progetto "The Counted" - Il conteggio - in cui aveva verificato 1.058 uccisi dalle forze dell’ordine negli ultimi sei mesi. Dati molto discordanti dall’FBI, che ne contava solo 461 dal 2009 ad oggi (gli ultimi sei anni). Per il direttore dell’FBI James Comey è stato "ridicolo ed imbarazzante" che i media avessero dati più completi del bureau stesso. "Non è buono per nessuno", ha concluso Comey. Viene difficile immaginare una reazione simile, e tantomeno una riforma in questo senso delle forze dell’ordine, nel nostro paese. Perché ad ogni richiesta di monitoraggio su abusi, violenze ed omicidi, i sindacati delle forze dell’ordine hanno sempre risposto con un muro. È vero, non siamo in America. I numeri sono di certo inferiori, e la questione razziale non c’entra. Ma questa realtà esiste. E raramente si riesce ad individuare i colpevoli. Anche perché il reato di tortura, che non ha prescrizione, in Italia non esiste. "A 13 anni dal G8 di Genova", scrive Amnesty International, "molti dei responsabili di gravi violazioni dei diritti umani sono sfuggiti alla giustizia e in Italia mancano strumenti idonei per prevenire e punire efficacemente le violazioni". Proprio a seguito dei fatti di "macelleria messicana" accaduti alla Caserma Bolzaneto e alla scuola Diaz durante il G8 di Genova, il Consiglio d’Europa nel settembre 2001 adottò il primo "Codice di etica della polizia", che riportava l’adozione di strumenti identificativi per gli agenti delle forze dell’ordine. Da allora, quasi tutti i paesi europei hanno adottato i numeri identificativi sulle divise degli agenti. Tutti, meno che l’Italia. Nel 2013 la petizione online di Paolo Scaroni - diventato invalido dopo le manganellate della polizia - aveva raccolto oltre 100mila firme. Come fanno da anni le associazioni e i familiari delle vittime, la petizione chiedeva il numero identificativo su caschi e divise d’ordinanza. Lo scorso marzo, sono arrivati in senato tre diversi disegni di legge - l’803, il 1307 e 1412 scritti da membri di M5S, Sel e Pd - per l’adozione dei numeri identificativi. L’ultima lettura risale allo scorso 14 ottobre: in quell’occasione il sindacato di polizia Supu definì una "idiozia" il fatto che il testo in esame indicasse i numeri identificativi anche sulle scarpe dei pubblici ufficiali. Il 21 ottobre, un successivo esame dei ddl viene cancellato dal senatore Gasparri: "Ha comunicato di non poter partecipare ai lavori della Commissione programmati per la settimana corrente, a causa del concomitante congresso del Partito Popolare Europeo a Madrid". Da allora è tutto fermo, e lo sarà ancora a lungo. Perché dopo l’esame iniziale dei ddl il ministro Alfano aveva annunciato un disegno del governo, e bisognerà aspettare quello - quando non si sa. Ma il numero identificativo serve ora: "Permetterebbe di individuare i responsabili di un fatto, anziché incolpare tutte le forze dell’ordine quando i responsabili non si trovano", spiega Luca Blasi di Acad. "Nel caso del pestaggio di Stefano Gugliotta", racconta Blasi, "È stata possibile l’identificazione dei responsabili grazie ai video sui cellulari, ma ci sono voluti anni". Lo scorso aprile la band folk romana "Il Muro Del Canto" aveva realizzato assieme all’associazione Acad il video della canzone "Figli come noi", in cui erano presenti tanti familiari delle vittime delle forze dell’ordine, tra cui la sorella di Stefano Cucchi, Ilaria, e diverse celebrità a supporto della causa: il cuoco Chef Rubio, il fumettista Zerocalcare. "Chi è al centro di questa problematica? Le famiglie delle vittime", avevano detto a Fanpage.it i membri della band. "Chi incrocia i loro sguardi non può dimenticare queste storie, che possono accadere a ognuno di noi, indiscriminatamente". Per Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva e tutti gli altri, sarebbe degno si procedesse ad introdurre anche in Italia il numero identificativo sulle divise. È una questione di civiltà. Che servirebbe alle forze dell’ordine stesse. Perché è ridicolo e imbarazzante, come ha detto il direttore dell’FBI James Comey, quando la polizia non tiene conto delle proprie violenze e costringe la società civile a farlo per ottenere giustizia. Patteggiamento e sospensione condizionale della pena: i vincoli per il giudice di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 21 dicembre 2015 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 9 novembre 2015 n. 44775. La Cassazione con la sentenza n. 44775 chiarisce l’ambito dei poteri/doveri del giudice del "patteggiamento" relativamente al beneficio della sospensione condizionale della pena. Il principio - Si afferma che: "in sede di "patteggiamento", allorquando l’accordo sia subordinato alla concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena, senza alcun riferimento ad altri incombenti, è illegittima la determinazione del giudice di concedere il beneficio subordinandolo però a uno degli obblighi indicati nell’articolo 165 del Cp (nella specie, la pubblicazione dell’estratto della sentenza su un quotidiano)". In tal modo, la Corte di legittimità segue il principio consolidato in forza del quale nel procedimento ex articolo 444 del Cpp, il giudice deve accettare integralmente la richiesta delle parti, ove la ritenga legittima, ovvero respingerla in toto e procedere nelle forme ordinarie, ove la ritenga anche solo in parte non conforme alla legge. Al giudice, invece, non è consentito modificare i termini dell’accordo intervenuto tra le parti, in quanto in tal modo verrebbe meno la base consensuale su cui questo si fonda. Il caso specifico - Per l’effetto, nella specie, è stata appunto ritenuta illegittima l’imposizione ex officio di uno degli obblighi cui può essere subordinata la concessione del beneficio della sospensione condizionale: il giudice, piuttosto, avrebbe potuto e dovuto respingere il patteggiamento, laddove avesse ritenuto che il beneficio doveva essere sottoposto a una specifica condizione secondo la disciplina generale dell’articolo 165 del Cp. Infatti, a fronte di un accordo subordinato alla concessione del beneficio della sospensione condizionale, il giudice resta comunque investito del potere-dovere di verificare la concedibilità del beneficio e deve rigettare la richiesta, a norma del comma 3 dell’articolo 444 del Cpp, se la verifica conduca a rilevare la sussistenza di condizioni ostative alla concessione del beneficio. Un precedente - Negli stessi termini, in precedenza, la Corte di legittimità ha ritenuto illegittima, annullandola senza rinvio, la sentenza di "patteggiamento" con la quale il giudice, a fronte di un accordo che subordinava l’applicazione della pena alla concessione della sospensione condizionale della pena, riteneva, nel ratificare l’accordo, di "subordinare" il richiesto beneficio, ai sensi dell’articolo 165 del Cp, alla prestazione, da parte dell’imputato, di un’attività non retribuita a favore della collettività (sezione VI, 28 ottobre 2009, Frascogna). Droghe: applicabilità circostanza attenuante del contributo causale di minima importanza Il Sole 24 Ore, 21 dicembre 2015 Stupefacenti - Concorso di persone nel reato - Circostanze attenuanti - Partecipazione di minima importanza al reato - Custodia di stupefacenti - Esclusione. La circostanza attenuante del contributo concorsuale di minima importanza trova applicazione laddove l’apporto del correo risulti così lieve da apparire, nell’ambito della relazione di causalità, quasi trascurabile e del tutto marginale; il relativo giudizio non può limitarsi a una mera comparazione tra le condotte dei vari soggetti concorrenti, dovendosi invece accertare il grado di efficienza causale dei singoli comportamenti rispetto alla produzione dell’evento, onde verificare se detta efficienza causale sia minima, cioè tale da poter essere avulsa dalla seriazione causale senza apprezzabili conseguenze pratiche sul risultato complessivo dell’azione criminosa. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 20 agosto 2015 n. 34985. Concorso di persone nel reato - Circostanze attenuanti - Partecipazione di minima importanza al reato - Accompagnamento di un coimputato per rifornimento e cessione di stupefacenti - Applicabilità della circostanza di cui all’art. 114 cod. pen. - Esclusione. La circostanza attenuante del contributo concorsuale di minima importanza trova applicazione quando l’apporto del correo risulti obiettivamente così lieve da apparire, nell’ambito della relazione causale, quasi trascurabile e del tutto marginale, sicché essa non può qualificare il contributo costituito dall’accompagnamento di un coimputato per i rifornimenti e le cessioni di stupefacente nel luogo di acquisto e nel portare il denaro necessario per l’acquisto delle partite di droga. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 21 luglio 2011 n. 29168. Concorso di persone nel reato - Circostanze attenuanti - Partecipazione di minima importanza al reato - Acquisto o codetenzione di stupefacenti - Applicabilità al correo che non abbia ricevuto o custodito lo stupefacente - Esclusione. La circostanza attenuante della partecipazione di minima importanza non può essere riconosciuta al correo che, imputato di acquisto o di codetenzione di sostanza stupefacente, sia stato presente alla cessione e abbia fornito il proprio contributo come staffetta, seppure non abbia ricevuto o materialmente custodito la sostanza. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 18 marzo 2010 n. 10642. Concorso di persone nel reato - Circostanze attenuanti - Partecipazione di minima importanza al reato - Preparazione della droga - Riconoscimento dell’attenuante - Esclusione. In tema di concorso di persone nel reato, la circostanza attenuante di cui all’art. 114, comma primo, cod. pen. è configurabile solo quando l’opera del concorrente sia stata non solo minore rispetto a quella dei correi, ma abbia avuto minima importanza nella preparazione ed esecuzione del reato. • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 29 marzo 2007 n. 12811. Detenzione stupefacenti: distinzione tra connivenza non punibile e concorso nel reato Il Sole 24 Ore, 21 dicembre 2015 Stupefacenti - Detenzione - Concorso del convivente - Mera connivenza - Differenze. In tema di detenzione di sostanze stupefacenti la distinzione tra connivenza non punibile e concorso nel reato commesso da altro soggetto risiede nel fatto che la prima postula che l’agente mantenga un comportamento meramente passivo, inidoneo ad apportare alcun contributo causale alla realizzazione del reato, mentre il secondo richiede un consapevole contributo positivo - morale o materiale - all’altrui condotta criminosa, anche in forme che agevolino o rafforzino il proposito criminoso del concorrente. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 20 agosto 2015 n. 34985. Stupefacenti - Attività illecite - Concorso di persona nel reato - Connivenza - Differenze. In tema di detenzione di sostanze stupefacenti, la distinzione tra connivenza non punibile e concorso nel reato va individuata nel fatto che, mentre la prima postula che l’agente mantenga un comportamento meramente passivo, inidoneo ad apportare alcun contributo alla realizzazione del reato, nel concorso di persona punibile è richiesto, invece, un contributo partecipativo - morale o materiale - alla condotta criminosa altrui, caratterizzato, sotto il profilo psicologico, dalla coscienza e volontà di arrecare un contributo concorsuale alla realizzazione dell’evento illecito. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 29 novembre 2013 n. 47562. Stupefacenti - Attività illecite - Detenzione - Concorso di persone nel reato - Connivenza - Differenze. In tema di detenzione di sostanze stupefacenti, la distinzione tra connivenza non punibile e concorso nel reato commesso da altro soggetto va individuata nel fatto che, mentre la prima postula che l’agente mantenga un comportamento meramente passivo, il secondo richiede un contributo partecipativo positivo all’altrui condotta criminosa, anche in forme che agevolino la detenzione, l’occultamento e il controllo della droga, assicurando all’altro concorrente, anche implicitamente, una collaborazione sulla quale questi può contare. • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 4 febbraio 2010 n. 4948. Stupefacenti - Detenzione - Concorso nel reato e connivenza non punibile - Differenze. In tema di detenzione di stupefacenti, la distinzione tra connivenza non punibile e concorso nel delitto va individuata nel fatto che, mentre la prima postula che l’agente mantenga un comportamento meramente passivo, nel concorso è richiesto un contributo quanto meno all’occultamento, custodia e controllo dello stupefacente che, per essere finalizzati ad evitare che lo stesso venga rinvenuto e quindi a protrarne la illegittima detenzione, costituiscono apporto concorsuale al reato in questione. • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 13 ottobre 2004 n. 40167. Il paradosso delle regole (inesistenti) per i magistrati di Sabino Cassese Corriere della Sera, 21 dicembre 2015 Prima un magistrato siciliano e uno napoletano, ora, per condotta ben diversa e persino autorizzata dal Consiglio superiore della magistratura (incarico non retribuito all’ufficio legislativo della presidenza del Consiglio dei ministri), uno aretino: nell’attesa di rapidi chiarimenti da parte degli inquirenti e del Consiglio superiore della magistratura, questi segni di crisi di alcune parti del sistema giudiziario, complessivamente sano, indicano che c’è un vuoto di regole di condotta. Un vuoto che potrebbe essere riempito da un forte spirito di corpo, da un’etica condivisa dalla maggioranza; o che potrebbe essere colmato da una coraggiosa reazione del Consiglio superiore della magistratura; oppure un vuoto al quale dovrà porre rimedio il legislatore. C’è carenza di regole morali e giuridiche e, dove presenti, sono elementari o rudimentali. E non basta siglare protocolli di intesa con Cantone, invocando l’Autorità nazionale anticorruzione da mettere per ogni dove. Bisogna rendersi conto che più il sistema giudiziario si sposta verso il centro del potere e il cuore dello Stato, più diventa inaccettabile che i magistrati siano tanto legati ai luoghi dove si esercita il potere, sia la sanità, o l’amministrazione, o la politica, o gli uffici legislativi. Questo è un paradosso di cui il corpo dei magistrati dovrebbe rendersi conto: più essi parlano al popolo e all’opinione pubblica in nome della giustizia, più forte diventa il bisogno che la loro legittimazione discenda dalla loro indipendenza e imparzialità. Un altro paradosso è questo. Grazie a leggi che hanno affidato la loro attuazione all’Autorità garante della concorrenza e del mercato e all’Autorità nazionale anticorruzione, il personale politico e il personale amministrativo è ora stretto da norme talora eccessivamente severe in materia di incandidabilità, conflitti di interesse, incompatibilità, incarichi esterni, altre regole di condotta miranti ad assicurare l’imparzialità dello Stato. I magistrati, quelli ai quali spetta il potere ultimo, quelli che possono decidere della dignità e della libertà delle persone, quelli che possono mettere alla gogna e talora tenere alla gogna per anni indagati, sono invece immuni da queste norme di condotta. Conosco l’obiezione: anche i magistrati vivono in una società, hanno famiglia, fanno parte di gruppi, associazioni, comitati di volontari, sono depositari di saperi specialistici, non possono recidere tutti i legami con il mondo circostante. Ma a speciali poteri debbono corrispondere doveri particolari di astenersi, di isolarsi, di evitare rapporti. La Corte costituzionale l’ha detto a chiare lettere, sia in termini generali, sia quando si è trattato di salvaguardare stipendi e pensioni dei magistrati dai tagli disposti dal Parlamento. Per la loro posizione, i magistrati non debbono essere costretti a negoziare con il governo il loro trattamento economico. Ma proprio perché non debbono essere costretti ad agire come gruppo di pressione a difesa del loro trattamento economico, essi debbono astenersi da rapporti che possano stabilire legami, o dare il segno esterno di legami in conflitto con la loro funzione imparziale e indipendente. Per questi motivi sono urgenti interventi moralizzatori, non quelli sanzionatori, ma quelli preventivi, che fissino regole chiare sulla partecipazione, in generale, dei magistrati alla vita pubblica, sui conflitti di interesse, sulle incompatibilità, sugli obblighi di astenersi, sulle incandidabilità, sugli incarichi esterni. In una parola, c’è bisogno anche e soprattutto per i magistrati di quelle "regole dell’onestà" che essi fanno valere ogni giorno nei confronti di tanti cittadini. Napoli: Opg di Secondigliano, traslocano gli ultimi detenuti di Claudia Procentese Il Mattino, 21 dicembre 2015 Chiude in Italia il primo ospedale psichiatrico giudiziario. I cinque internati trasferiti nelle Rems. Sa che da oggi la sua casa cambierà e non sarà più una cella, ma chiede all’infermiere se potrà portare con sé l’armadietto che ormai contiene i resti della sua vita, appiglio materiale del suo precario equilibrio interiore. Lui è uno degli ultimi cinque pazienti che stamattina lascerà l’ospedale psichiatrico giudiziario di Secondigliano, 4 campani e 1 laziale, destinati alle Rems regionali di appartenenza, cioè alle strutture alternative, le cosiddette residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Chiude così per sempre l’Opg napoletano. È il primo dei 6 italiani che cessa di esistere dopo l’entrata in vigore della legge del 2012, dopo la proroga firmata dall’ex presidente della Repubblica Napolitano, dopo la scadenza perentoria del 31 marzo scorso. Un primato, dunque, che se da un lato premia il lavoro degli operatori che sul campo si sono impegnati per il superamento degli ex manicomi criminali, dall’altro pone dubbi e timori sul futuro del post-Opg. "Il testimone adesso deve passare non dall’Opg alle Rems, ma ai territori - ci tiene a sottolineare Michele Pennino, responsabile sanitario dell’Opg di Secondigliano. La Rems rappresenta una delle opzioni per i casi di maggiore pericolosità e comunque temporanea". Due le Rems definitive previste dalla Regione Campania, a San Nicola Baronia (Avellino) e a Calvi risorta (Caserta), per un totale di 40 posti letto. Ma l’unica da poco attivata è quella di Avellino, la Rems di Caserta entrerà in funzione invece a gennaio. "L’Asl di Caserta, però - spiega prontamente Pennino, ha riconvertito alcuni post in Sir, già sedi di Rems provvisorie, raggiungendo perciò il numero prestabilito ed evitando il commissariamento regionale". La lettera di pre-commissariamento, infatti, che pone va il 6 dicembre come termine ultimo per mettersi in regola con l’attivazione dei posti letto regionali ha fatto accelerare le procedure. Nell’Opg di Secondigliano erano 23 gli internati fino a dieci giorni fa. Nel 2013 il picco di 127 ricoverati, per passare ai 100-105 nel 2014 ma con un turnover del 110 per cento, e ad un’ottantina di presenze agli inizi del 2015. "È in questo che si vede l’effettività del nostro lavoro come Asl Napoli 1 Centro - aggiunge Pennino, nel non permettere l’automatismo "Misura di sicurezza-Rems", offrendo un ampio ventaglio di possibilità alternative alla magistratura con cui ci auguriamo maggiore dialogo. A parte i reati bagattellari che non devono prevedere detenzione, se il magistrato di sorveglianza ritiene che esso è avvenuto sulla base di un disturbo mentale, sono predisposti i 18 posti nel reparto di articolazione sanitaria in carcere. Laddove, poi, si convince che la patologia è rilevante e che c’è bisogno di un percorso riabilitativo e curativo, solo allora si ricorre alla Rems". Appello, dunque, alla corretta comunicazione. "Occorre che per le Rems il servizio sanitario non dialoghi solo con la magistratura di sorveglianza, ma con tutta quella del distretto - avverte Francesco Mai-sto, presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna e coordinatore del X Tavolo nazionale Salute e disagio psichico degli Stati generali dell’ esecuzione penale, voluti dal ministro Orlando, perché il problema oggi non è quello delle revoche delle misure di sicurezza detentive, m a quello dell’applicazione provvisoria. Il fenomeno che si sta verificando in questa fase è l’incremento notevole di persone che vengono mandate nelle Rems e le ingolfano a seguito delle applicazioni provvisorie da parte dei gip. Il primo vero lavoro di deistituzionalizzazione degli Opg è quello di preparare programmi individuali terapeutici efficaci, quindi potenziare i dipartimenti di salute mentale territoriali e disporre comunità del privato sociale che ospitino i pazienti psichiatrici". Maisto ricorda anche come "l’Opg di Secondigliano fu un’approssimazione normativa a cui nessuno si oppose, perché non si fa un Opg dentro un carcere". Ma qual è adesso il destino della struttura in cui sorgeva l’Opg di Napoli? "Tomerà ad essere parte del centro penitenziario com’era prima della chiusura dell’Opg di Sant’Eframo - chiarisce Liberato guerriero, direttore del carcere di Secondigliano. Quasi sicuramente diventerà reparto aperto per detenuti comuni, mentre quello attuale accoglierà l’Alta sicurezza". Perplesso il presidente dell’associazione "Il carcere possibile Onlus". "Ma esiste personale adeguatamente formato per gestire le Rems? - si domanda Sergio Schlitzer. La nostra preoccupazione è che le Rems diventino Opg in scala ridotta che si riempiranno a breve". Viterbo: Claudia e Irene, l’esempio di due donne in un incontro coi detenuti viterbonews24.it, 21 dicembre 2015 La moglie di un carabinieri e la madre di chi l’ha ucciso insieme in un incontro coi detenuti di Mammagialla: messaggio di perdono e misericordia. I detenuti entrano alla spicciolata nel teatro di Mammagialla, si siedono dove l’agente che accompagna ogni gruppetto dice loro di sedersi, arrivano alcuni dei volontari che svolgono la loro attività presso la casa circondariale. Sedute sotto al palcoscenico ci sono due donne giovani che accolgono con un sorriso dolce e timido chi arriva. Il dottor Claudio Mariani vice presidente dal Gavac,una delle associazioni di volontari carcerari che operano qui, presenta le due signore che a turno raccontano la loro storia. È venerdì 18 dicembre e nel silenzio più assoluto, nella attenzione più totale, i detenuti ascoltano ciò che le due donne dicono con molta pacatezza. Si chiamano Claudia e Irene, sembrano amiche da tempo, si guardano mentre parlano, serenamente. Claudia era la moglie di un appuntato dei carabinieri, Antonio, deceduto dopo 13 mesi di agonia causata da un forte colpo alla testa. Irene è la mamma di Matteo, il giovane che fermato per effettuare l’alcol-test e trovato positivo, ha inferto con un pezzo di legno un colpo che poi si è rivelato fatale, all’appuntato che stava facendo il suo dovere. Matteo ha ferito gravemente anche l’altro carabiniere in servizio, Domenico, che perderà l’occhio in seguito al fatto. Il racconto delle due donne si svolge davanti ai detenuti che sono sempre più presi e che, alla fine, porranno delle domande alle signore con un senso di partecipazione, una attenzione, una delicatezza, una sensibilità esemplari. Del fatto di cronaca non vale più la pena di parlare, sono passati i cinque anni. Se lo può andare a leggere, chi vuole, se ne è scritto anche dalle nostre parti perché è avvenuto in Maremma ai confini con la nostra provincia. Quello che si deve assolutamente dire è che due donne segnante dal dolore, ognuna in un modo diverso hanno deciso di raccontare, soprattutto ai detenuti, ma non solo, come dopo un percorso lungo, articolato e sofferto, sono riuscite a parlarsi, a capire, ognuna la sofferenza dell’altra e a voler condividere l’esperienza di portare in mezzo agli altri la loro storia perché aiuti a riflettere, a comprendere. Claudia ha incontrato Matteo che ora si trova detenuto a Bollate, ha ricevuto precedentemente lettere sia da Matteo che dalla sua mamma Irene. Irene è andata a trovare Antonio prima che morisse mentre era ad Imola in coma vegetativo. Irene e Claudia si sono parlate, ognuna ha messo nelle mani dell’altra, nel cuore dell’altra, la propria sofferenza. Claudia ha perdonato il giovane Matteo che sta facendo un lungo percorso all’interno della sua detenzione. Irene e Claudia hanno tenuta riservata la loro frequentazione fino al secondo gradi di giudizio. Irene non voleva minimamente che la richiesta di perdono fatta da Matteo alla moglie di Antonio potesse influenzare i giudici o sembrare finalizzata a riduzione di pena. Claudia per perdonare Matteo e trovare con Irene un rapporto tale da consentirle di andare insieme a testimoniare il loro percorso di vita, a dovuto subire la non accettazione da parte dei congiunti di Antonio del suo gesto. Irene ha dovuto pian piano superare il complesso di colpa nei propri confronti che si era autoinflitta. Esiste una associazione, la Ami Caino e Abele che serve proprio a testimoniare che il perdono è possibile, che da un dolore immenso può nascere qualcosa di buono. Sono queste due splendide donne che l’hanno voluta e serve a portare un messaggio di perdono e misericordia. I detenuti dopo una raffica di domande pertinenti, acute, garbate, hanno voluto mandare i saluti ai figli delle due signore, Matteo e il giovane Stefano, figlio del carabiniere, Hanno fatto un omaggio alle signore e le hanno volute abbracciare in molti. Pordenone: per i detenuti un’Oasi di speranza di Chiara Benotti Messaggero Veneto, 21 dicembre 2015 La cooperativa festeggia il ventennale: ha regalato una nuova vita a quasi duecento persone. "Non era un miraggio: dopo 20 anni di carcere ho trovato la dignità nell’Oasi e ho visto le stelle nel cielo". Storie di gente così, come Luca: gente che ha un passato "storto" da dimenticare e che ha il coraggio di metterci la faccia, rimboccarsi le maniche, sudare nel lavoro e ricominciare nella Cooperativa sociale Oasi 2, a Pordenone. In via Ferraris 63 ci sono le storie incrociate alle speranze e, ieri mattina con lo staff dell’Oasi, tanti sacerdoti, i volontari e il vescovo monsignore Giuseppe Pellegrini, hanno incardinato il film delle memorie e dei risultati concreti. Fatti, magoni, entusiasmi, disperazioni condivise e la gioia sobria di 20 anni di lavoro, accoglienza e comunità per 200 ex detenuti accolti. Il 98 per cento non è più tornato in cella: miracoli? Primi 20 anni. "Una grande esperienza di vita". È la sintesi di 20 anni di volontariato: quello di Sandro Castellari direttore della coop sociale che cura il verde pubblico e privato con il presidente Sergio Chiarotto e tanta gente di buona volontà. Collaborano e partecipano l’associazione "Carcere e comunità", la Casa circondariale di piazza della Motta, la "San Vincenzo", la Provincia il Comune di Pordenone, quello di Cordenons dove c’è la casa Oasi 1, poi la Fondazione Crup che non si tira indietro e ha promesso il sostegno alla vita della cooperativa nel 2016. Alla festa anche don Pier Giorgio Rigolo, don Galliano Lenardon e don Gian Carlo Stival che della cooperativa hanno condiviso il percorso. La storia. "Di 20 anni di vita e attività si possono ricordare in sintesi - hanno detto Castellari e Chiarotto - alcuni momenti fondamentali". L’ispirazione originaria è quella del Cedis, l’associazione di don Galliano che si dedicava al recupero delle persone disagiate, e con dipendenze tossiche. I corsi di formazione professionale ai carcerati per la gestione del verde gestiti con l’Irfop e Bepi Franchi, sono stati una tappa fondamentale. "Dopo l’allontanamento dal Villaggio del Fanciullo e la difficile parentesi ad Azzano (in una stalla parzialmente ristrutturata) - mette in fila i fatti il libro di memorie "20 - 1995-2015" - la svolta è stata con l’acquisto, come sede, di una vecchia casa colonica abbandonata in via Seduzza. A Cordenons ai margini delle Grave". Il sostegno della fondazione Crup, il supporto morale e materiale dei vescovi della diocesi Concordia-Pordenone hanno dato gambe all’utopia possibile. La rete. "L’amicizia e collaborazione di don Pier Giorgio Rigolo sono un pilastro della rete sociale - ha continuato Castellari -. Si è assunto l’impegno di gestire la prima casa in via Seduzza, dopo che la cooperativa aveva trasferito la sede operativa in via Ferraris. Per offrire l’accoglienza, il sostegno materiale e psicologico a chi, uscendo dal carcere, non trova altro luogo di vita". La vita della coop Oasi va avanti: con il finanziamento dei progetti e l’affidamento di lavori "verdi". Va avanti con tanti amici, come la società Gea che offre lavoro e occupa 25 soci. "Una storia di 20 anni intrecciati di sogni, fede - hanno detto il vescovo monsignore Pellegrini e don Galliano - e fatti concreti". Bravi e basta, quelli dell’Oasi. Bologna: una trattoria nel carcere minorile del Pratello di Caterina Giusberti La Repubblica, 21 dicembre 2015 L’idea del direttore della struttura: "Potremmo ospitare 20-25 persone. È giusto che ci apriamo alla città". Una trattoria al Pratello. C’è da dire: e dove sta la novità? C’è e non è piccola, se per "Pratello" si intende l’Istituto penale minorile, dove il direttore Alfonso Paggiarino ha in animo di allestire un ristorante aperto al pubblico una volta a settimana. "Potremmo ospitare tra le 20 e le 25 persone alla volta, abbiamo già fatto una cena con alcuni ospiti poche settimane fa, è andata benissimo. E gli avventori potranno comprare il biglietto da casa, via web". Il modello, anche se non lo dice espressamente, è quello del carcere milanese di Bollate, che ha inaugurato proprio a fine ottobre il primo ristorante "InGalera" d’Italia. Al Pratello la discussione del progetto è già avviata. Ne hanno già parlato con il Fomal, l’ente che si occupa del corso di formazione alberghiero che già frequentano tre giorni a settimana alcuni giovani detenuti. Il loro insegnante è Mirko Gadignani, cuoco del Bologna Calcio. A oggi i detenuti al Pratello sono diciannove. "Facciamo tantissime cose qui - spiega il direttore - Questo istituto è nel centro di Bologna, è giusto che si apra alla città". E snocciola l’elenco delle attività che si svolgono ogni giorno dietro ai cancelli: oltre all’alberghiero e alla scuola dell’obbligo (che riconosce ai giovani detenuti crediti formativi che possono spendere una volta fuori, se decidono di continuare il percorso di studi) c’è anche il corso di edilizia e falegnameria che proseguirà nel 2016. Poi la pet therapy, l’arte terapia, la musica con l’Orchestra Mozart, la pallacanestro, fino al teatro di Paolo Billi ("che dal 2016 speriamo di riaprire al pubblico"), e alle tante associazioni di volontari che frequentano il carcere nel fine settimana. Alcuni ragazzi che hanno frequentato il corso di formazione alberghiero negli anni scorsi, racconta Paggiarino, ora lavorano in due mense cittadine. "Voglio invitare anche l’arcivescovo Zuppi a venirci a trovare appena ha un po’ di tempo - conclude - Proprio l’altro giorno un ragazzo mi ha chiesto: "Direttore, ma cosa significa che possiamo aprire la porta della nostra cella?". Volterra (Pi): in 150 al Maschio per la serata natalizia delle Cene galeotte di Sabrina Chiellini Il Tirreno, 21 dicembre 2015 A marzo il progetto con i detenuti del carcere di Volterra compie dieci anni. Oltre tredicimila le presenze a tavola. Decorazioni rosse con stelline e fiocchi. Il pungitopo e i cappelli colorati di Babbo Natale. La sala, allestita per 150 persone, è dietro le sbarre del carcere di Volterra. Ma una volta varcato il cancello e superati i controlli, quasi non te ne rendi conto. L’atmosfera e l’entusiasmo sono quelli di una cena tra amici. Però l’evento è speciale: non solo perché in cucina, ad affiancare i ragazzi reclusi nel Maschio, c’è una chef stellata, Silvia Baracchi, anima culinaria del Relais & Chateaux Il Falconiere a Cortona. È anche la serata di inizio della nuova stagione delle Cene galeotte che l’anno prossimo, a marzo, festeggiano il decimo compleanno. Quasi 150 le persone che hanno deciso di condividere il progetto delle Cene galeotte, il cui ricavato è stato interamente devoluto all’Emporio della Solidarietà di Prato. Nel salone, allestito nella cappella dell’istituto, anche il sindaco, Marco Buselli, amministratori del Comune di Prato e della Caritas pratese (è intervenuto Marcello Turrini), oltre alla dottoressa Maria Grazia Giampiccolo, direttrice del carcere e anima di tante iniziative che hanno fatto della casa di reclusione un modello nel contesto nazionale, la comandante delle guardie penitenziarie Morgana Fantozzi, il questore di Pisa, Alberto Francini, e rappresentanti di polizia e carabinieri di Volterra. Sono numeri interessanti quelli dell’iniziativa, che è servita a portare nel carcere un corso dell’istituto professionale alberghiero, aperto al territorio e frequentato dai ragazzi di Volterra e dei centri vicini. Un esempio unico nel nostro Paese. E ha aiutato anche a dare lavoro nei ristoranti cittadini ad alcuni detenuti. La passata edizione è stata seguita da oltre 1.200 partecipanti e sono più di 13.000 i visitatori a far data dalla prima edizione nel 2005, sono stati raccolti oltre 100mila euro, come ha ricordato con orgoglio la dottoressa Giampiccolo. Il tutto con la supervisione artistica del giornalista enogastronomo Leonardo Romanelli, il quale ha il compito di contattare gli chef da coinvolgere nelle serate. L’incasso sostiene progetti umanitari della "Fondazione il Cuore si scioglie Onlus", secondo il modello di volontariato laico e cattolico che impegna dal 2000 Unicoop Firenze. Ha collaborato la Fisar-Delegazione storica di Volterra quale partner nel progetto. I detenuti che partecipano al progetto hanno una preparazione che li qualificherà come sommelier professionisti. "Dobbiamo premiare le buone pratiche senza stare sempre a guardare i numeri - ha detto il sindaco Buselli - e questa esperienza ha un valore che supera i confini del nostro territorio". Castelvetrano (Tp): detenuti a scuola di ceramica di Elio Indelicato Giornale di Sicilia, 21 dicembre 2015 La cerimonia degli auguri, la cresima di cinque detenuti, impartita dal Vescovo Mogavero dopo la celebrazione delle santa Messa, all’interno della Casa Circondariale di Castelvetrano, sono stati dei momenti particolarmente toccanti che hanno portato una speranza in più agli oltre sessanta ospiti della struttura carceraria. Intanto ventisei detenuti hanno portato a termine un corso di ceramica diretto dal ceramista saccense Liborio Palmeri e voluto dal Comandante del penitenziario Linda De Maio, dal direttore del carcere Rita Barbera e dagli educatori. "Il corso - precisa il maestro Liborio Palmeri, presente alla biennale di Venezia qualche anno fa è durato circa tre mesi e si è svolto all’interno della struttura del carcere. Consideriamo - ha aggiunto il docente- la ceramica e la manualità come medicina per l’anima". Il materiale è stato fornito dallo stesso docente, soprattutto l’argilla di Sciacca. I manufatti poi sono stati portati nella cittadina saccense per essere cotti negli speciali forni dei ceramisti e poi riportati ai detenuti che li hanno decorati e rifiniti. "Anche per noi docenti-conclude Liborio Palmeri il contatto con i detenuti è formativo e sicuramente una forma di accrescimento perché diventiamo partecipi delle loro storie e dei loro drammi". Reggio Calabria: svolto il convegno "Le ragioni della pena fra rieducazione e sicurezza" strill.it, 21 dicembre 2015 Si è tenuto nei giorni scorsi il convegno dal titolo "Le ragioni della pena fra rieducazione e sicurezza - Le proposte di modifica agli artt. 4 bis, 58 ter e 41 bis dell’ordinamento penitenziario", patrocinato dal Ministero della Giustizia e organizzato dal Garante dei diritti deidetenuti del Comune di Reggio Calabria, Avv. Agostino Siviglia. Il convegno ha avuto anche il patrocinio della Presidenza del Consiglio regionale della Calabria, della Provincia di Reggio Calabria e dell’Ordine degli Avvocati reggini, rientrando fra le iniziative organizzate in occasione del 67mo anniversario della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 10 dicembre 1948. Sono intervenuti per i saluti istituzionali il Presidente della Provincia Giuseppe Raffa, l’Assessore alla cultura e legalità della Provincia, Edoardo Lamberti Castronuovo, l’Assessore alle Politiche Sociali e Comunitarie del Comune di Reggio Calabria, Giuseppe Marino, che ha portato anche i saluti del Sindaco Giuseppe Falcomatà impegnato a Roma per motivi istituzionali, il Vice Prefetto di Reggio Calabria, Michela Fabio. Il Guardasigilli Andrea Orlando ha inviato un messaggio di saluto e di augurio di buon lavoro per l’iniziativa rientrante negli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, così come un messaggio scritto è stato inviato dal Presidente del Consiglio regionale della Calabria Nicola Irto. Il tema del convegno è stato illustrato ed approfondito dai componenti del tavolo ministeriale n. 16, delegato alla riforma agli ostacoli normativi alla individualizzazione del trattamento rieducativo, di cui ha fatto parte anche il Garante Siviglia, Roberto Piscitello, Dirigente Generale dell’Ufficio Detenuti e trattamento del Dap e Riccardo Polidoro dell’Osservatorio carcere dell’Unione delle Camere Penali Italiane. Un contributo esterno al tavolo ministeriale è stato portato nel corso del convegno dal Vicepresidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Reggio Calabria, Carlo Morace. L’aspetto saliente della proposta di riforma del tavolo 16 consiste nella sostanziale equiparazione delle condotte di "giustizia riparativa" a quelle dei collaboratori di giustizia, nell’ottica della cultura premiale di accesso ai benefici penitenziari, nel corso dell’esecuzione penale, volti a sostenere un graduale reinserimento sociale per chi ha delinquito. Presupposto imprescindibile diviene pertanto un’effettiva rivisitazione critica del proprio vissuto, concretamente esigita attraverso condotte riparative nei confronti delle vittime del reato, dei loro familiari o della società civile, generative di significativi cambiamenti di vita. In tal senso viene dunque rafforzata la funzione rieducativa della pena sancita all’art. 27 della Costituzione e si restituisce centralità alla funzione discrezionale della magistratura di sorveglianza, alla quale in via giurisdizionale spetta la decisione sulla concessione o meno dei benefici richiesti, a seguito della più conforme acquisizione documentale e sostanziale rispetto all’effettività del percorso rieducativo intrapreso dal detenuto ed all’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata. L’art. 41 bis, per scelta dello stesso tavolo ministeriale è rimasto escluso dalle proposte di riforma avanzate, seppur si è evidenziata la necessità di una più stringente giurisdizionalizzazione del procedimento applicativo e confermativo del regime del "carcere duro". Il Garante Siviglia si è detto estremamente soddisfatto per il rilievo nazionale che è stato conferito al Convegno per volontà del Ministro Orlando e per l’elevato contributo scientifico che è stato portato da tutti gli intervenuti auspicando, comunque, che dalle parole ora si passi ai fatti dando concreto seguito alle proposte avanzate. La legge delega sarà oggetto di discussione parlamentare nelle prossime settimane. Per quel che riguarda, invece, la nostra realtà territoriale il Garante reggino ha voluto sottolineare come ancora di più a queste latitudini il rilancio culturale, sociale ed economico si intersechi inevitabilmente con il rilancio di una nuova stagione dei diritti e dei doveri anche e non marginalmente per chi deve pagare il proprio debito con la giustizia e vuole però riscattare positivamente il proprio vissuto con la prospettiva legale di un reinserimento nella società. La responsabilità di una simile civiltà giuridica è in capo alle istituzioni democratiche, a partire da quelle decentrate, ed è perciò in questa direzione che si innesta l’attività funzionale del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Reggio Calabria, con l’obiettivo primario di contribuire a realizzare, partendo dal livello territoriale, un sistema di governance della pena più giusto ed umano. Firenze: Oscar, Luna & C., amici a 4 zampe per far visita al papà in carcere di Laura Montanari La Repubblica, 21 dicembre 2015 Il progetto pilota sperimentato nelle carceri della Toscana per rendere meno traumatico l’incontro bambini-genitori reclusi. "Lo posso accarezzare?" chiede Sara, cinque anni e una giacca a vento rosa, appena al di là del cortile e delle sbarre di ferro colorate di azzurro del carcere di Sollicciano. Oscar, un terranova di 64 chili ha la sua stessa età, cinque anni, grandi occhi scuri e un’esplosione di pelo nero. Sara e Oscar si incontrano nel cortile asfaltato del più grande carcere della Toscana, fra una guardiola e la sala perquisizioni al primo piano. È giorno di colloqui speciali a Sollicciano. Con i bambini entrano tre cani e altrettanti volontari dell’associazione Sailor Dog di Milano. "È un lupo?" chiede incuriosita Isabel, 13 anni allungando la mano sul muso di Luna. "No è un cane", un alaska malamud, spiega Edoardo che lo tiene al guinzaglio. Il carcere è un luogo ostile visto con gli occhi dei figli che vanno a trovare i padri o le madri rinchiuse lì dentro. Il carcere è sottrazione per un bambino, sono i passi incerti lungo i corridoi, le attese noiose nelle stanze per il controllo pacchi, per la consegna documenti, per le perquisizioni prima di arrivare alla sala degli Incontri, alle vetrate e ai grandi alberi di cemento armato progettate dall’architetto Michelucci. Il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria sta sperimentando in Toscana un progetto pilota: far entrare in carcere, in occasione delle visite ai parenti, i cani assieme ai bambini. "Un modo per attutire l’impatto con il mondo della reclusione" spiega il provveditore Carmelo Cantone. Il progetto, coordinato da Monica Sarno, funzionario giuridico pedagogico del Provveditorato, si chiama "Vi presento Oscar" ed è stato provato nel carcere di Massa, di Massa Marittima, Arezzo, San Gimignano e verrà esteso ad altri istituti. "I cani sono ottimi mediatori, un cane non ti giudica - spiega Monica Sarno - e questo dentro la realtà del carcere è importante". Così ecco che in un sabato di dicembre Oscar il terranova, Luna, l’alaska malamut e Dug il golden retriver sbucano al guinzaglio con i loro padroni - tutti volontari - e passano all’interno del carcere. Obbedienti come soldatini, ma con un’aria festosa che a Sollicciano - come altrove fra le sbarre - manca. Attirano subito l’attenzione dei bambini, una decina quelli ammessi con mamme, nonne e parenti vari ai colloqui all’interno del carcere. "Sono cani addestrati, alcuni per il salvataggio delle persone in mare - racconta Cristina De Lillo, 43 anni, una delle volontarie che arriva da Torre d’Isola in provincia di Pavia. Lei e Oscar vivono insieme "me lo porto anche in ufficio". Lui è più grande di lei: "Bè se decidesse di trascinarmi non avrei scampo: pesa 64 chili, io dieci di meno". Ma Oscar è soltanto un cacciatore di coccole, come Dug e Luna. Quando per esempio Swai, tre anni, scende dal passeggino e lo abbraccia lui si lascia stringere, docile, la annusa, si struscia al suo viso. "Mettono allegria questi cani - racconta Mattia Verani, 28 anni, detenuto - è un bellissimo progetto. Io sono molto affezionato al mio Sparta, la mia mamma me lo porta in carcere il mercoledì mattina, alle 8. Sarebbe bello poter stare di più con i cani, ci aiutano ad uscire dalla solitudine". "Vi presento Oscar" abbatte i muri delle categorie che in carcere sono sempre molto presenti: a Oscar allunga una carezza la guardia penitenziaria che arriva con il furgone, Kim, 4 anni che va a trovare il suo babbo e una signora che va a trovare il figlio. Quando si richiudono le porte, si sente la voce di una bambina chiedere: "Quando ce li riportate?". Velletri (Rm): detenuto si autolesiona e poi prende a pugni l’ispettore del carcere ilcaffe.tv, 21 dicembre 2015 Nella tarda serata di ieri un detenuto italiano sofferente di attacchi epilettici si è autolesionato con una lametta da barba procurandosi dei tagli sulle braccia. Per questa patologia per cui soffre l’Amministrazione e il Servizio Sanitario del Carcere di Velletri gli ha assegnato come piantone un altro detenuto italiano, che a quanto pare anche lui non risulterebbe stabile psicologicamente, perché nelle precedenti carcerazioni ha sempre manifestato proteste e violenza contro gli altri. L’agente di sezione, accorgendosi del gesto autolesivo del detenuto sofferente di attacchi epilettici, ha attivato la procedura per la soluzione del caso, facendo scendere il detenuto autolesionato con il detenuto piantone in infermeria per le cure del caso. L’ispettore di sorveglianza, venendo a conoscenza di quanto stava accadendo, si è recato in infermeria per capire dal detenuto autolesionato il motivo che lo ha portato a fare tale gesto e nel momento in cui gli faceva delle domande, il detenuto piantone all’improvviso e senza nessun motivo, ha inveito ferocemente contro l’ispettore sferrandogli un pugno violento contro il viso tanto da richiedere il suo trasporto in Ambulanza presso l’ospedale di Velletri, dove è stato sottoposto alle cure e agli accertamenti del caso. A denunciare il caso è il Segretario Locale del SIPPE (Sindacato Polizia Penitenziaria) Ciro Borrelli che a nome del sindacato esprime massima solidarietà e pronta guarigione all’ Ispettore di sorveglianza, e si complimenta per la grande professionalità e straordinaria freddezza che ha dimostrato ad incassare il pugno senza minimamente reagire fisicamente nel confronti del detenuto aggressore. "Questi episodi - denuncia Borrelli - devono fare riflettere l’Amministrazione Penitenziaria, perché i detenuti con disturbi psichiatrici o che hanno manifestato atti di violenza nelle precedenti carcerazioni, devono essere gestisti diversamente rispetto alla presente gestione dei detenuti. Come sindacato - conclude il sindacalista - faremo sentire la nostra voce affinché tutta la classe politica e gli uffici competenti prendano provvedimenti concreti su cosa o su come si vuole lavorare nel penitenziari. La Polizia Penitenziaria non è a servizio privato, ma al Servizio del Paese". Trapani: Natale in carcere, proseguono le iniziative a favore dei detenuti trapanioggi.it, 21 dicembre 2015 Proseguono, alla Casa circondariale di Trapani, le iniziative natalizie a favore dei detenuti realizzate in collaborazione con associazioni ed enti del territorio. Tra queste la consegna - da parte delle volontarie del Telefono Azzurro e delle aderenti alla "Compagnia delle donne dei quattro Santi Coronati" del Ceto dei Muratori e Scalpellini di Trapani - di doni ai figlioletti dei detenuti nel corso dell’incontro nella sala teatro dove erano presenti anche due Babbo Natale del gruppo Frappè. La manifestazione era inserita nel progetto "Bambini in carcere". Erano presenti il capo console del Ceto "La Flagellazione" Giovanni D’Aleo e la presidente del Telefono Azzurro Maria Stella Tedesco. Lunedì 21 dicembre, nell’ambito del progetto di volontariato "La libertà è un libro", si svolgerà un altro degli incontri con i detenuti del laboratorio di lettura e scrittura creativa - tenuto dalla psicologa Fabrizia Sala e dalla giornalista Ornella Fulco - durante il quale saranno anche offerti panettoni e altri dolciumi ai partecipanti. Nei giorni scorsi i detenuti hanno potuto assistere anche all’esibizione del "Coro dei nonni" di Valderice. L’iniziativa, a cura dell’Assessorato alle politiche sociali del Comune di Valderice, in collaborazione con il Centro diurno anziani, è stata voluta dal sindaco Mino Spezia. Diretti da Elisabetta Auciello gli anziani hanno eseguito un repertorio di note canzoni del passato, da "O surdato nnammurato" a "Tu vò fa l’americano" a "Sicilia bedda" riscuotendo applausi a scena aperta dai detenuti presenti. Successo anche per la commedia dialettale "Quaterna Secca" proposta, per la regia di Salvatore Marcantonio, dal Cesvop e dai volontari del Gruppo volontariato Vincenziano. Napoli: pranzi e feste in chiese e carceri, 60 eventi targati Comunità di Sant’Egidio Adnkronos, 21 dicembre 2015 Tornano anche quest’anno a Napoli le iniziative organizzate dalla Comunità di Sant’Egidio in occasione delle feste di Natale. Iniziative che quest’anno assumono un valore particolare, alla luce del "clima di paura e di diffidenza" che "sembra dominare e rende tutti più spaventati e chiusi in se stessi", spiegano dalla Comunità. Sono previsti in città oltre 60 appuntamenti: pranzi, feste, momenti di incontro per la strada, negli istituti per anziani, nelle carceri, nei quartieri periferici, nei campi rom. Su tutte spiccano i pranzi per i poveri nel giorno di Natale: in oltre mille sono attesi a tavola in quattro chiese del centro storico di Napoli: Santi Severino e Sossio, dove sarà presente l’arcivescovo di Napoli cardinale Crescenzio Sepe, San Nicola al Nilo, San Giovanni Maggiore e San Paolo Maggiore. E ancora, nel quartiere Fuorigrotta nella chiesa di Sant’Antonio Ardia in via Diocleziano e nel quartiere San Giovanni a Teduccio. Nel Duomo di Aversa (Caserta) la vigilia di Natale sarà organizzato un pranzo con 200 poveri e con il vescovo Angelo Spinillo. I giorni seguenti il Natale vedranno feste e pranzi negli istituti per anziani, nelle Rsa del Frullone, con i rom a Ponticelli, con i bambini della scuola della pace (Sanità, Quartieri Spagnoli, San Giovanni a Teduccio, Ercolano, Scampia, Centro Storico, Ercolano). Altre iniziative si terranno a Salerno, Benevento e Grottaminarda (Avellino). Il 6 gennaio, inoltre, è prevista una cena al dormitorio pubblico di Napoli. Le sera della vigilia di Natale e dell’ultimo dell’anno le cene saranno itineranti, e raggiungeranno i senza dimora di Napoli a cui i volontari della Comunità di Sant’Egidio portano panini e pasti caldi durante tutto l’anno. Parteciperanno a queste iniziative senza dimora, immigrati di ogni nazionalità e confessione religiosa, rom tra cui tanti bambini, anziani, disabili, mendicanti, gente sola. Una sorta di "presepe moderno - spiegano dalla Comunità - dove si può scorgere il volto di Gesù nella debolezza e nella fragilità della vita dei poveri". Molte le iniziative nelle carceri: dopo i pranzi a Carinola e Ariano Irpino due pranzi con i detenuti del carcere di Poggioreale, il 19 e 22 dicembre, al Centro Clinico di Secondigliano, al carcere femminile di Pozzuoli e nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Il 30 dicembre si terrà un pranzo nel carcere di Secondigliano con il cardinale Crescenzio Sepe. Ai pranzi del 22 e 30 dicembre potrà accedere la stampa. Il primo gennaio si ripeterà la tradizionale marcia della pace che partirà alle 18 da piazza San Domenico Maggiore, dopo un momento musicale con i giovani e la partecipazione di Monica Sarnelli. Il corteo a cui si unirà il cardinale Crescenzio Sepe giungerà in Duomo dove alle 19 sarà celebrata la messa per la Giornata Mondiale per la pace. Nell’anno della misericordia proclamato da papa Francesco la Comunità di Sant’Egidio vuole "incontrare e fare incontrare gli uomini e le donne in una larga famiglia umana. È il sogno di rigenerare la società, comunicando amore, senso di responsabilità. Così si costruisce una rete di rapporti e incontri che protegge dall’isolamento, dall’anonimato, dalle contrapposizioni. I pranzi di Natale con i poveri vogliono ridare una misura umana alla nostra società, quella della misericordia". Porte chiuse agli immigrati, la solidarietà flop delle parrocchie di Jenner Meletti La Repubblica, 21 dicembre 2015 A tre mesi dall’appello di Papa Francesco solo poche centinaia di letti per i profughi. Viene subito in mente - sarà colpa delle luminarie - la poesia di Guido Gozzano. "La neve. Ecco una stalla. Un po’ ci scalderanno quell’asino e quel bue". Difficile, per Giuseppe e Maria, trovare un rifugio per la nascita di Gesù. Difficile - anche in questi giorni di nenie e presepi - per le famiglie di migranti trovare quell’ospitalità chiesta con forza - più di cento giorni fa, il 6 settembre - da Papa Francesco. "Ogni parrocchia - disse il pontefice all’Angelus - accolga una famiglia". Non esiste un censimento ufficiale ma bastano pochi numeri per raccontare come sia stato e sia difficile, nelle 25.000 parrocchie italiane, rispondere all’appello. A Roma città (334 parrocchie) entro la fine di gennaio saranno accolti 170 migranti. A Milano (1.000 parrocchie perché la diocesi comprende anche Brianza, Lecco e Varese) sono a disposizione - o lo saranno presto - 400 posti letto. A Bologna su 416 parrocchie soltanto quattro hanno dichiarato la loro disponibilità. Assieme a cinque privati, due comunità religiose e due altri enti, nell’arcidiocesi bolognese sono offerti in tutto 30 posti letto. E nella quasi totalità dei casi l’accoglienza viene finanziata con i contributi delle prefetture. Maria Cecilia Scaffardi, direttrice della Caritas di Parma, ammette le difficoltà ma ringrazia comunque il Papa. "Francesco ci ha obbligati a riflettere e ha messo in moto un grande processo di apertura. Anche noi ci siamo impegnati: una decina di parrocchie su 350 (che sono state accorpate in 56 "nuove parrocchie") ci hanno detto che possono ospitare una famiglia di immigrati. Due di queste parrocchie comunque hanno deciso di accogliere famiglie italiane che erano state sfrattate. Per accogliere bene - questo il motivo del ritardo - non basta il buon cuore: serve professionalità. Non si tratta solo di trovare un appartamento o una canonica. Servono persone capaci di guardare negli occhi le altre persone. Se pensi solo a un tetto e a un letto, rischi di trasformare l’accoglienza in un concentrato di esclusione". Difficile accusare la diocesi di scarsa sensibilità. Già dal 2011 in un’intera ala del seminario, in piazza Duomo, vivono circa 40 migranti arrivati soprattutto dal Pakistan, con contributi pubblici di Mare Nostrum e Sprar. Nell’atrio, i ritratti di Papa Francesco, del vescovo Enrico Solmi e una statua della Madonna. Nel corridoio, un albero di Natale ed un presepe. La scuola è in una ex cappella. Il 95% degli ospiti è musulmano. "Per le prime nozioni di italiano c’è una religiosa, suor Valeria". Il primo no agli immigrati in canonica arrivò tre giorni prima dell’appello del Papa a Valle di Castelgomberto, sulle colline vicentine. Un intero paese, in chiesa, urlò contro il parroco don Lucio Mozzo. "I nostri nonni non hanno costruito questa canonica per i musulmani". "E anche l’appello del Papa - dice oggi il parroco - non li ha convinti. Il consiglio pastorale ha deciso di non arrivare al muro contro muro: gli immigrati non saranno ospitati in quella canonica. Ci andrà una famiglia vicentina, che fa parte dell’associazione Giovanni XXIII e ospita giovani handicappati ed ex tossicomani. Per noi preti quella vicenda è stata una prova difficile. Abbiamo capito che a Valle erano pronte le pietre - la canonica era perfetta - ma non le anime. Speriamo che quella famiglia, con il suo esempio d’amore, apra i cuori". Nel vicentino - 350 parrocchie - sono stati trovati 7 appartamenti ma si lavora per aprire una struttura in ognuno dei 21 vicariati. È la Caritas nazionale a gestire l’accoglienza invocata dal Papa, secondo il Vademecum approvato il 13 ottobre dalla Conferenza episcopale italiana. "Circa 80 parrocchie - racconta Alberto Colaiacomo della Caritas romana - si sono dette pronte a ospitare, ma per ottenere i contributi statali ci sono regole precise. Otto metri quadri a posto letto, un bagno ogni quattro persone... Per questo ci sono i ritardi. Avremo 110 posti in prima accoglienza solo a fine gennaio. Ma stiamo sistemando altre 60 persone in seconda accoglienza: immigrati che hanno bisogno di una mano per integrarsi davvero e restare nel nostro Paese. E questi sono a carico dei volontari Caritas". "Le proteste ci sono - spiega Francesco Chiavarmi della Caritas Ambrosiana - se si concentrano troppi immigrati e se la comunità parrocchiale non viene coinvolta. Noi lavoriamo così: la parrocchia mette a disposizione un immobile poi una coop partecipa al bando della prefettura. Ma sono importanti anche i volontari che affiancano gli operatori professionali. Un pacco di pannolini, una lezione di italiano, una domanda per mandare il bimbo all’asilo... Così il migrante si sente accolto, non solo assistito". "Per dire sì a Papa Francesco - dice Oliviero Forti, responsabile immigrazione per la Caritas nazionale - noi abbiamo lanciato anche un nostro appello: "Un rifugiato a casa mia". La risposta sembra buona, con un migliaio di persone disposte ad aprire le loro case". Anche don Giuseppe Miola, parroco di San Bonifacio, su "La voce dei Berici" ricorda la notte del Natale. "Se Maria e Giuseppe fossero passati di qui, un posto lo avrebbero trovato". Nel suo vicariato è stato preparato un alloggio. Ma per migliaia di altri migranti ci sono solo luminarie. E porte ancora chiuse. Giappone: pena di morte; per la prima volta una giuria popolare a deciderla di Mario Lucio Genghini blogosfere.it, 21 dicembre 2015 In Giappone, questa settimana, una giuria popolare ha scelto di applicare la condanna capitale. Venerdì 18, Sumitoshi Tsuda (63 anni), insieme a Kazuyuki Wakabayashi (39 anni), è stato impiccato. Sono le prime due sentenze a propendere per la massima pena dell’ordinamento nipponico dal mese di ottobre, quando si è insediato il nuovo ministro della Giustizia, Mitsuhide Iwaki. Wakabayashi è stato indicato come colpevole dell’assassinio di una donna e di sua figlia nel 2006. Le due vittime sono state freddate nel corso di una rapina in casa. Il bottino è stato di poche centinaia di euro. Tsuda è stato anche lui per anni nel braccio della morte. Nel 2009, fu accusato dell’omicidio di tre persone e, quattro anni fa, la giuria rigettò le tesi della difesa, che avallavano la non premeditazione del delitto. L’imputato ha chiesto perdono ai parenti delle vittime. In quell’occasione, puntualizzò che era pronto a morire, e per questa ragione aveva revocato la domanda di revisione della condanna inoltrata dai suoi avvocati all’Alta corte di Tokyo. Evidenziamo che Tsuda è stato condannato a morte da una giuria popolare. Nel paese del Sol Levante, infatti, dal 2009, il sistema dei giurati è stato affiancato a quello dei giudici. Come riporta il Guardian, dopo le esecuzioni, è arrivata prontamente la reazione della direttrice per le ricerche sull’ Asia orientale di Amnesty International, Roseann Rife. Quest’ultima ha chiesto immediatamente una moratoria al governo nipponico: "È agghiacciante e si deve porre un freno (alla pena di morte) ora, prima che altre vite si perdano. La pena di morte non è giustizia e non è una risposta alla lotta contro la criminalità, è una forma crudele di punizione che viola i diritti umani. Il Giappone dovrebbe introdurre immediatamente una moratoria ufficiale sulle esecuzioni come primo passo verso l’abolizione della pena di morte" Amnesty condanna anche le modalità con cui le sentenze vengono rese effettive. La Ong che difende i diritti umani rimarca che ai detenuti è dato un preavviso di poche ore, mentre la loro morte è comunicata ai familiari ad esecuzione avvenuta. Inoltre, tra i 128 prigionieri nel braccio della morte non mancherebbero condannati con problemi psichici. Dal 2012, da quando è primo ministro il nazionalista Shinzo Abe, leader partito Liberal Democratico, le condanne a morte sono state 14 in totale. Il governo continua a ripetere che i sondaggi di opinione sono favorevoli alla pena capitale, ma non è dello stesso avviso la Federazione degli avvocati. L’organizzazione ha recentemente chiesto al ministero della Giustizia l’istituzione di un comitato per affrontare il tema.