Giustizia: la denuncia dei penalisti "pochi braccialetti elettronici, domiciliari negati" Adnkronos, 1 dicembre 2015 Promosse iniziative locali e una manifestazione nazionale a Firenze, la "Giornata dei Braccialetti". Mancano i braccialetti elettronici? Niente domiciliari. È la denuncia dell’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali Italiane che ha avviato, dalla fine del 2014, un’attività di monitoraggio, in tutti i Tribunali, sulle problematiche relative alla detenzione in Italia, in particolare sull’applicazione dei cosiddetti braccialetti elettronici. "Mancando il braccialetto il giudice fa rimanere la persona in carcere o rimanda i domiciliari al momento in cui sarà disponibile lo strumento", dice l’avvocato Riccardo Polidoro, responsabile dell’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali. Per denunciare la mancata o minima applicazione di questo provvedimento, nel primo giorno di astensione dalle udienze (lo sciopero è da oggi al 4 dicembre prossimo), l’Unione delle camere penali ha promosso iniziative locali e una manifestazione nazionale a Firenze, la "Giornata dei Braccialetti", con lo slogan "più braccialetti meno carcere". L’Osservatorio, dopo 8 mesi di monitoraggio sui braccialetti elettronici per il controllo a distanza dei detenuti agli arresti domiciliari rileva che ne sono a disposizione circa 2.000 e costano allo Stato 5.500 euro l’uno all’anno, ossia 11 milioni di euro complessivi. "Il braccialetto elettronico - continua l’avvocato Polidoro - è utilizzato in molti paesi d’Europa anche per le detenute madri e per i detenuti malati. In Italia da 15 anni c’è la legge che prevede questo strumento ma ancora non viene utilizzato a pieno regime. Come al solito ci sono le norme ma non vengono applicate. Stiamo buttando soldi per apparecchi insufficienti e già desueti - spiega Polidoro - gli attuali braccialetti, in realtà cavigliere, non funzionano con tecnologia Gps complicando così l’installazione e il loro utilizzo". Non solo. All’estero, i braccialetti, "costano molto meno, circa la metà che in Italia". Tra l’altro, "bisogna capire perché non viene fatta una gara d’appalto tra tutti i gestori telefonici preferendone invece solo uno - puntualizza l’avvocato - Ci vuole un cambio di cultura da parte dei magistrati sull’applicazione di questa norma", conclude. "Restare in carcere, pur potendo uscire, era ed è davvero inimmaginabile", ribadisce il responsabile dell’Osservatorio che invita le Camere Penali territoriali a continuare a vigilare sull’esito delle istanze depositate, riservandosi "azioni di protesta dove non venga aumentato il numero di braccialetti a disposizione dell’Autorità Giudiziaria, ponendo fine a quella che altro non è che un’ingiusta detenzione per coloro che potrebbero usufruire del dispositivo di controllo e, invece, restano reclusi". L’esiguo numero di apparecchi disponibili, prosegue l’Unione delle Camere Penali, rende "assai complicato per i magistrati poter sostituire alla misura cautelare o detentiva del carcere quella degli arresti o detenzione domiciliare con il braccialetto elettronico e ciò anche nei casi in cui ritenessero accoglibile la richiesta in merito del detenuto. Ne consegue l’illegale detenzione di colui che, pur avendo ottenuto gli arresti domiciliari con braccialetto elettronico, si trovi costretto a rimanere in cella per carenza del mezzo di controllo, tanto è vero che recentemente la Corte di Cassazione, in un simile caso, ha disposto la scarcerazione del detenuto". Giustizia: troppo pochi 2mila braccialetti elettronici in tutta Italia ilpiacenza.it, 1 dicembre 2015 La Camera Penale di Piacenza aderisce all’astensione dalle udienze penali fino al 4 dicembre per protestare nei confronti dell’utilizzo minimo del braccialetto elettronico per il controllo a distanza dei detenuti: sono solo 2mila gli apparecchi in Italia per un costi di fornitura di ben 11 milioni di euro. L’Unione delle Camere Penali Italiane, con il proprio Osservatorio Carcere, denuncia la parziale e minima applicazione del cosiddetto braccialetto elettronico per il controllo a distanza dei detenuti agli arresti domiciliari. Il 30 novembre 2015, nel primo giorno di Astensione dalle udienze, l’Unione ha promosso iniziative locali e una manifestazione nazionale a Firenze, la "Giornata dei Braccialetti" dal titolo "Diamo effettività agli art. 275 bis c.p.p. e 58 quinquies O.P." con lo slogan "più braccialetti meno carcere". "La parziale e minima applicazione dell’ art. 275 bis del codice di procedura penale - fa sapere l’Unione - e dell’art. 58 quinques Ordinamento Penitenziario, per quest’ultimo possiamo dire inesistente, è in palese violazione dei diritti dei detenuti e in contrasto con l’esigenza di superare e prevenire il sovraffollamento nelle carceri italiane. La Camera Penale di Piacenza, oltre ad aderire all’astensione dalle udienze penali dal 30 novembre al 4 dicembre, condividendo e facendo proprie le ragioni della protesta, ritiene opportuno rendere noto che gli apparecchi complessivi attualmente a disposizione sul territorio nazionale sono circa 2000 e costano allo Stato 5.500 euro l’uno all’anno (ossia 11 milioni di euro complessivi) versati a Telecom Italia in base a un contratto di fornitura che non prevede la possibilità di aumento del numero dei dispositivi. L’esiguo numero di apparecchi disponibili sta, di fatto, costituendo una tacita abrogazione delle due norme di legge sopracitate, rendendo assai complicato per i magistrati poter sostituire alla misura cautelare o detentiva del carcere quella degli arresti o detenzione domiciliare con il braccialetto elettronico e ciò anche nei casi in cui ritenessero accoglibile la richiesta in merito del detenuto. Ne consegue l’illegale detenzione di colui che, pur avendo ottenuto gli arresti domiciliari con "braccialetto elettronico", si trovi costretto a rimanere in cella per carenza del mezzo di controllo, tanto è vero che recentemente la Corte di Cassazione, in un simile caso, ha disposto la scarcerazione del detenuto. Considerando che il costo giornaliero di un detenuto, in base alla tabella sulle statistiche del Ministero di Giustizia del 10 ottobre 2013, era di 124,96 euro (quindi di 45.610,40 euro all’anno) e che il nostro Paese è sempre più spesso sanzionato in Europa per le condizioni delle proprie carceri, alle principali ragioni della manifestazione nazionale di Firenze si aggiungono anche motivazioni di oggettiva convenienza economica". Giustizia: braccialetti elettronici e Mafia Capitale, quei processi saltati nelle aule deserte di Flavio Haver Corriere della Sera, 1 dicembre 2015 La protesta di 5 giorni dell’Unione delle Camere penali italiane a Roma si è trasformata nella difesa del dispositivo elettronico per controllare i detenuti. E che non viene usato. No agli arresti domiciliari a tutti i costi. Ci sono strumenti alternativi capaci di garantire la stessa efficacia cautelare, seppure molto attenuata. I cinque giorni di astensione dalle udienze indetti dall’Unione delle Camere penali italiane ha avuto, nella Capitale, un tema dominante: l’adozione - più di quanto non avvenga attualmente - dei braccialetti elettronici adibiti al controllo dei soggetti per i quali non è necessaria la detenzione in un penitenziario o, appunto, quella alternativa e meno "invasiva" nelle loro abitazioni. Gli avvocati romani: "Carcere come extrema ratio". Carcere come "extrema ratio", dunque, chiedono gli avvocati romani, aderendo ad una proposta della Camera Penale di Firenze. Uno strumento, il braccialetto, poco utilizzato, sostengono i penalisti. Non solo per la scarsa disponibilità dei dispositivi - malgrado i 124 milioni di euro spesi nel 2000 - ma anche perché la linea prevalente dell’Ufficio dei giudici per le indagini preliminari "è quella di procedere alla concessione degli arresti domiciliari, indipendentemente dalla disponibilità dei cosiddetti braccialetti elettronici". E no alle tappe forzate per il processo a Mafia Capitale. Sullo sfondo della protesta che ieri mattina ha svuotato le aule del Palazzo di giustizia c’è anche lo scontro - accesissimo - sulle tappe forzate imposte al processo per Mafia Capitale. Un dibattimento cominciato tra mille tensioni e che, tra accusa e difesa, ha fatto registrare già più di un duro "faccia a faccia" e che ne preannuncia altri, forse ancora più infuocati. Giustizia: zero "braccialetti" alternativi al carcere per i detenuti barbaricini di Valeria Gianoglio La Nuova Sardegna, 1 dicembre 2015 La denuncia della Camera penale di Nuoro. Tra i motivi della protesta anche i tempi della prescrizione. I conti, almeno al Palazzo di giustizia di Nuoro, sono presto fatti: negli ultimi mesi, ovvero dall’estate a oggi, il tribunale di sorveglianza non ha registrato alcuna applicazione del cosiddetto "braccialetto elettronico". Niente di niente, zero assoluto. E, almeno stando a una prima ricognizione fatta dalla Camera penale nuorese, sembra che lo zero assoluto, quanto a numero di braccialetti elettronici disposti, riguardi anche le forze dell’ordine che li possono assegnare in modo diretto, sempre su disposizione di un magistrato. È il tracollo di una norma disposta dal nuovo ordinamento, quella che si registra nel mondo della giustizia nuorese. Una vera débâcle che gli avvocati della Camera penale denunciano ieri mattina, nel corso di un incontro convocato a Palazzo di giustizia, nel primo giorno di astensione dalle udienze convocata in tutta Italia dall’Unione nazionale delle Camere penali. "Oggi protestiamo anche per il mancato utilizzo dello strumento del braccialetto elettronico - spiega il presidente della Camera penale nuorese, Salvatore Murru - perché questo strumento, nato anche per evitare il sovraffollamento delle carceri, finora anche nel Nuorese non è stato sostanzialmente utilizzato". "Gli apparecchi complessivi a disposizione su tutto il territorio nazionale - spiega la referente dell’Osservatorio carcere della Camera penale, Giovanna Serra - sono duemila e costano allo Stato circa 11 milioni di euro all’anno, ovvero 5500 euro ognuno, versati a Telecom Italia, fornitore unico senza gara d’appalto, a cui vanno aggiunti gli 80 milioni di euro versati sempre a Telecom dal 2001 al 2011 per l’utilizzo, in via sperimentazione, dei primi 114 braccialetti. Ma in questo decennio sono stati pochissimi, quelli effettivamente utilizzati. L’attuale contratto di fornitura non prevede, peraltro, la possibilità dell’aumento del numero di dispositivi da parte di Telecom". Nell’incontro di lunedì, 30 novembre, sia il presidente della Camera penale nuorese, sia la referente per l’Osservatorio carcere, ricordano anche che "dall’estate a oggi il tribunale di sorveglianza di Sassari, dal quale dipende anche Nuoro, ha disposto i braccialetti elettronici con il contagocce". E a Nuoro non ne è stato disposto nemmeno uno. Ma tra i motivi che hanno portato anche i penalisti nuoresi a incrociare le braccia per tutta la settimana, c’è anche il tema della prescrizione dei reati. "L’opinione pubblica - spiega il presidente della Camera penale, Salvatore Murru - su questo tema in genere è forcaiola: approva l’allungamento dei tempi di prescrizione perché ritiene che sia una questione di giustizia. Ma in realtà noi diciamo che allungare a dismisura i tempi delle prescrizione non fa altro che intasare i tribunali. Senza dimenticare, non da ultimo, che una sentenza che arriva dopo venti anni dai fatti, non avrebbe più alcun senso, neanche in termini di efficacia. Oltre al fatto che sarebbe comunque anticostituzionale". Giustizia: braccialetti elettronici per i detenuti, a Modena se ne usano troppo pochi di Carlo Gregori Gazzetta di Modena, 1 dicembre 2015 La protesta degli avvocati penalisti al primo giorno di astensione dalle aule: "A Modena in funzione solo 30 sui 100 disponibili per i detenuti ai domiciliari". Modena ore 12: il Tribunale è pressoché deserto. Solo qualche avvocato civilista è impegnato in pratiche di cancelleria. Nessuna udienza. Ieri è stata la prima giornata di astensione degli avvocati penalisti modenesi in accordo con tutti i colleghi italiani nell’ambito di una protesta che durerà fino a venerdì prossimo compreso. Le ragioni della protesta, già spiegate al pubblico, riguardano l’indebolimento della capacità di difesa per le crescenti difficoltà di accesso alle informazioni necessarie a difendere i propri clienti e per una serie di atteggiamenti da parte della magistratura che i penalisti ritengono lesive non solo delle loro capacità di intervenire ma anche dei diritti dei loro assistiti. La prima giornata è stata tutta dedicata al braccialetti elettronici, uno strumento pressoché inutilizzato fino al 2013, benché lo Stato ne avesse fatto incetta già nel 2001 con un contratto a fornitura unica della Telecom. Sono rimasti nei cassetti del Ministero di Grazia e Giustizia fino quando l’ex ministro Annamaria Cancellieri ha deciso di utilizzarli per i domiciliari in alternativa la carcere (le nostre prigioni erano sovraffollate ed erano arrivate le sanzioni europee). Spiega l’avvocato Giampaolo Ronsisvalle: "La nostra protesta dei braccialetti vuole attirare l’attenzione sull’uso ancora troppo poco diffuso tra i magistrati di questo strumento di controllo per chi è agli arresti domiciliari o sconta una pena a casa. Si pensi che a Modena ce ne sono disponibili un centinaio e se ne usano solo trenta. E il magistrato li utilizza solo per le custodie cautelari agli arresti domiciliari. Per le pene esecutive no. Si sa di un caso in Italia". Il braccialetto, insomma, è uno strumento che può alleggerire il carcere ma i magistrati devono iniziare a utilizzarlo. Invece, secondo gli avvocati, ci sono ancora forti resistenze. L’assemblea degli avvocati aderenti alle Camere Penali di Modena "Perroux" è stata aperta dall’avvocato Vittorio Rossi ricordando l’uccisione del collega Zahir Elçi, ammazzato in strada da un sicario a Dayarbekir, in Turchia. Rossi ha ricordato che gli avvocati hanno il dovere di lottare per le libertà, non solo professionali ma anche dei loro assistiti. Un monito importante in questi giorni in cui si stanno decidendo misure restrittive contro il terrorismo. L’avvocato Enrico Fontana, presidente delle Camere Penali, ha ricordato poi che i criteri di efficienza e quantità invocati dal Ministero possono andare a discapito della qualità dei processi. A pagare le conseguenze sono anche gli imputati che non possono avere sufficienti spazi di difesa. Giustizia: muro contro muro per la Consulta di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 1 dicembre 2015 Il Pd si incaponisce su Barbera, che insieme a Sisto e Pitruzzella rischia un ennesimo flop. Oggi 28esimo tentativo, le camere non riescono a eleggere i giudici costituzionali che mancano da 17 mesi. Ce la farà Augusto Barbera a diventare il tredicesimo giudice costituzionale? È l’unico dubbio che oggi pomeriggio deve sciogliere il ventottesimo tentativo del parlamento di ristabilire il plenum della Consulta; tentativo che nel complesso fallirà perché è assai improbabile che risultino eletti tutti e tre i giudici mancanti. Barbera mercoledì scorso si è fermato 35 voti sotto il quorum minimo richiesto (571) ed è l’unico che ha qualche timida chance di successo. Se funzionasse l’operazione recupero che nelle ultime ore ha impegnato i dirigenti Pd, ai quali l’ultima volta sono sfuggiti oltre centocinquanta voti di deputati e senatori di maggioranza. Ma non ci sono segni di ravvedimento rispetto al muro contro muro che l’anno scorso è già costato l’umiliazione a Luciano Violante, condotto dal Pd al massacro di nove votazioni inutili. Renzi non ha utilizzato i sei giorni di riflessione concessi dai presidenti di senato e camera per mettere in dubbio la sua strategia, in base alla quale non si può concedere nulla agli avversari delle riforme del governo. Neanche un posto alla Corte costituzionale dove molto presto potrebbero arrivare i ricorsi contro l’Italicum - dei cittadini o degli stessi parlamentari - e prima o poi anche le richieste di referendum; in prospettiva anche la stessa legge di revisione costituzionale. Dunque no alla ripresa dei contatti con il Movimento 5 Stelle, a maggior ragione dopo la delusione di scoprire impallinato dall’assemblea grillina, senza neanche passare per il web, anche Barbera. E questo malgrado il candidato 5 stelle, il costituzionalista Franco Modugno, professore emerito a Roma, continui a non dispiacere per niente ai democratici. A Renzi basterebbe accogliere la richiesta grillina e scartare da Barbera (che è inciampato in un’inchiesta in maniera troppo lieve persino per i 5 stelle, ma ha un recente profilo più da avvocato delle riforme renziane che da accademico) per portare a casa con sicurezza due nuovi giudici non ostili, già oggi. Ma non lo farà perché vuole altro, vuole tenere legato all’accordo Berlusconi, che faticosamente ha unito Forza Italia sul nome di Francesco Paolo Sito. Almeno formalmente, visto che le bande dell’ex caserma del cavaliere si sono date battaglia nel segreto dell’urna, e a Sisto sono mancati 25 voti in più di quelli mancati a Barbera. L’avvocato penalista barese, esperto di sicurezza sul lavoro, ha lungamente parteggiato per la scissione di Raffaele Fitto, con il risultato di poter oggi contare su profonde inimicizie sia tra i berlusconiani ortodossi che tra i frondisti. Non manca nel traballante terzetto il candidato giudice costituzionale nei guai con la giustizia, è l’attuale presidente dell’Antitrust Giovanni Pitruzzella, indicato dai centristi, che ha scoperto solo una volta tornato alla ribalta dell’informazione di essere ancora indagato per una vecchia vicenda di corruzione a Catania, malgrado il pm abbia chiesto l’archiviazione. Oggi si prevede un’altra fumata nera. Com’è del resto è sempre accaduto, salvo quando il Pd ha trovato un’intesa con i 5 Stelle, oltre un anno fa. Mattarella minaccia un nuovo monito, Grasso gli scrutini a oltranza. Intanto la Corte sta lavorando con 12 giudici su 15 e un altro giudice eletto dal parlamento non può garantire il pieno servizio. Così l’organo costituzionale è sempre sulla soglia del minimo legale. Un giudice manca da oltre 17 mesi - si avvia a diventare un record - altri due da "soli" nove e tre mesi. Giustizia: elezioni Consulta, lo spettro del voto segreto nel Parlamento più anarchico di Marco Bresolin La Stampa, 1 dicembre 2015 Dal caso-Prodi all’Italicum, ora la Consulta: franchi tiratori sempre in agguato. Nell’aprile del 2013 la legislatura si è aperta con il clamoroso tradimento dei 101 parlamentari del Partito Democratico che, nel segreto dell’urna, non hanno rispettato le indicazioni del partito e non hanno votato Prodi per il Quirinale. Nome: Franco. Cognome: Tiratore. Professione: Parlamentare della diciassettesima legislatura. Attenzione, qui si parla di una figura che esiste sin dai primissimi anni dell’Italia repubblicana (era il 1948 quando Carlo Sforza fu impallinato dalla sinistra Dc nella sua corsa al Colle). Ma mai come negli anni più recenti ogni voto segreto è occasione per sgambetti e dispetti. Oggi il Parlamento si riunirà per eleggere tre giudici della Corte Costituzionale: è la ventinovesima votazione, perché deputati e senatori hanno deciso che non bisogna decidere. Mai successo che servisse un numero così alto di scrutini. Ma del resto il Parlamento più pazzo del mondo - quello che ha visto bocciare dalla Consulta la legge elettorale con cui è stato eletto - non è nuovo ai record: quello dei procedimenti disciplinari, oppure quello dei cambi gruppo (317 in poco più di due anni e mezzo, per un totale di 242 parlamentari coinvolti, uno su quattro). Una legislatura (la numero 17, notano i superstiziosi) che è nata sotto il segno della bocciatura di Prodi, con il tradimento dei 101 Pd. Da lì in poi, ogni volta che cala il segreto dell’urna, tutto è possibile. A destra, a sinistra, al centro: nessun partito è in grado di controllare il proprio gruppo. L’anarchia. Basti ricordare che Mattarella è stato votato da una quarantina di dissidenti di Forza Italia, che invece avrebbero dovuto lasciare scheda bianca. Non c’è provvedimento-chiave di questa legislatura che sia scampato ai colpi dei franchi tiratori, anche se poi tutte le leggi in questione sono arrivate all’approvazione. Perché non si è (quasi) mai trattato di disubbidienza nel merito, ma piuttosto di dispetti. Ma anche perché gli uomini che controllano il pallottoliere hanno sempre cercato di correre ai ripari, pescando di volta in volta il soccorso nella parte (sulla carta) avversa. Maggioranze variabili, alleanze contro natura, accordi sottobanco. Le contromosse di Palazzo Chigi non si sono fatte attendere. I franchi tiratori hanno puntato le loro armi sulla legge elettorale, per esempio sulle pregiudiziali di costituzionalità o sulle preferenze. Ma senza lasciare morti sul campo. Solo qualche ferita, come quel 142 che segna il punto più basso per la maggioranza al Senato, registrato durante una votazione a scrutinio segreto sulla riforma costituzionale. Colpita anche la responsabilità civile dei magistrati, con l’approvazione di un emendamento firmato Lega. Per non parlare dei voti sulle persone, quelli per cui è sempre previsto il voto segreto. O meglio: sarebbe sempre previsto, dato che il voto sulla decadenza di Berlusconi è avvenuto eccezionalmente a scrutinio palese. Altrimenti chissà come sarebbe finita. Magari come per il senatore di Ncd Antonio Azzollini: richiesta d’arresto respinta grazie anche a qualche "amico" del Pd, che ha così salvato l’alleanza con gli alfaniani. E il futuro della legislatura. "Queste cose succedono quando nei partiti c’è troppo autoritarismo", sottolinea Clemente Mastella, che ha vissuto diverse stagioni politiche attraversando schieramenti anche opposti. In Parlamento ne ha viste di tutti i colori, dato che già nella Prima Repubblica gli sgambetti erano dietro l’angolo. Un nome su tutti: Amintore Fanfani, che nel 1971 puntò al Colle, ma senza riuscirci. "Nano maledetto, non sarai mai eletto" scrisse un franco tiratore sulla scheda. Fanfani gettò la spugna alla sesta bocciatura. E il franco tiratore cantò vittoria sulla scheda: "Te l’avevo detto, nano maledetto, che non venivi eletto". Per Mastella "oggi il ricorso al voto segreto è molto meno frequente rispetto al passato (frutto anche delle modifiche ai regolamenti, ndr), per questo ogni occasione viene sfruttata al massimo". Oggi alle 13 i parlamentari si riuniranno in seduta comune a Montecitorio. Il rischio è di registrare la fumata nera numero 29. E magari di andare oltre. Sì, ma per quanto? "Se non si trova una soluzione - ha detto il presidente del Senato Piero Grasso - le votazioni proseguiranno anche a Natale". I bookmakers dicono che non sarà necessario. Perché anche i franchi tiratori vogliono mangiare il panettone. Giustizia: Sanità Penitenziaria, 167 milioni del fondo nazionale 2013 vanno alle Regioni di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 1 dicembre 2015 Operativa la ripartizione tra le Regioni e le Province autonome del fondo sanitario 2013 per le risorse destinate alla sanità penitenziaria: con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del 27 novembre 2015 n. 277 della delibera Cipe n. 84 del 6 agosto 2015. La dotazione è dell’importo di 167 milioni e 800mila euro - accantonato con la delibera Cipe n. 53/2014 per il finanziamento della medicina penitenziaria. Le risorse delle disponibilità del Fondo sanitario nazionale 2013 vengono ripartite tra le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano come riportato nella tabella allegata alla delibera n. 84/2015. L’assegnazione di risorse fa seguito al passaggio della medicina carceraria dalla direzione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria al servizio sanitario nazionale. Ripartizione tra Regioni ordinarie. Nell’ambito della ripartizione complessiva viene assegnata, a favore delle Regioni a statuto ordinario e della Regione Sardegna, l’importo di 146.566.760 euro secondo le quote indicate. Ripartizione tra Regioni a statuto speciale. Le quote relative alle Regioni a statuto speciale Friuli Venezia-Giulia, Sicilia e Valle d’Aosta restano accantonate per un importo complessivo pari a 21.233.240 euro. Le quote relative alle Province autonome di Trento e di Bolzano, pari a complessivi 1.035.515 euro, sono rese indisponibili ai sensi degli articoli 1, comma 3, del Dlgs 252/2010 e 2, comma 109, della legge 191/2009. Il trasferimento delle risorse a favore della Regione Siciliana per l’espletamento delle funzioni di sanità penitenziaria nell’ambito del Servizio sanitario nazionale avverrà solo dopo l’emanazione delle relative norme di attuazione secondo il proprio Statuto speciale. Per le Regioni Friuli Venezia-Giulia e Valle d’Aosta il trasferimento delle predette risorse è subordinato all’applicazione delle procedure previste dalle relative norme di attuazione, rispettivamente articolo 7 del Dlgs 274/2010 e articolo 5 del Dlgs 192/2010. Giustizia: il "libro sospeso" per i carcerati contro le limitazioni alla lettura di Caterina Guttadauro La Brasca blogsicilia.it, 1 dicembre 2015 Si può evadere da quatto mura con l’aiuto della lettura? Sì. L’idea è venuta a Michele Gentile, libraio di Polla (Salerno). Il caso fu sollevato da Marcello dell’Utri che si disse disposto a fare lo sciopero della fame contro il divieto di tenere più di due libri in cella. Questo episodio rimise in discussione il diritto dei detenuti alla lettura. La disponibilità dei libri è limitata e mancano soprattutto quelli più recenti. Un libraio di Roma, accortosi di questo, ha lanciato l’idea del "Libro sospeso" per i detenuti. Funziona come per il caffè a Napoli: si va al bar, si prende un caffè e se ne pagano due, di cui il secondo è destinato a un bisognoso. Così è partita una campagna il mese scorso, alla quale hanno aderito Rebibbia, tre penitenziari sardi, Sant’Angelo dei lombardi e il minorile di Nisida. Loro mandano l’elenco dei libri più richiesti, che di solito coincidono con quelli più venduti. I detenuti sono discreti lettori, dice Massimiliano Timpano, libraio alla Fanucci di Piazza Madama a Roma. È convinto che la lettura aiuti a crescere e migliorarsi. La campagna è iniziata con delle e-mail che ha inviato a librai, direttori di carceri ed editori. Hanno aderito: Adelphi, Bompiani, Laterza, Fazi ecc. L’iniziativa si chiude il 30 novembre/2015 ma è ripetibile come e quando si vuole. Una nota importante è l’esempio che ci viene dalle Marche dove il maggior numero dei detenuti è più straniero che italiano. Ha scritto ai vari Istituti di Cultura presenti a Roma e già la Romania, ad esempio, ha aderito. Questo è un punto a favore dell’iniziativa. Nei paesi esteri, addirittura, la lettura in carcere è premiata con sconti di pena perché favorisce, con l’accrescimento della cultura, il riscatto personale e sociale. Il discorso è ampio. Si dovrebbero creare delle biblioteche dove accudire i libri, consentire l’incontro dei detenuti che possono toccarli, sfogliarli, organizzare incontri con l’autore. A Padova, ad esempio è già così. C’è già un premio per i lettori delle Case Circondariali; quest’anno è alla sua quinta edizione. Si chiama "Premio Goliarda Sapienza, Racconti dal carcere" ed è voluto dalla Presidenza della Repubblica, dalla Rai e da convinti sponsor che credono nella bontà dell’iniziativa. Una Giuria, dopo aver valutato gli elaborati pervenuti dai detenuti, ne sceglie venti che vengono abbinati a scrittori professionisti per le correzioni e per una breve prefazione. Tra i Tutor: Dacia Maraini, Lidia Ravera, Erri de Luca, Carlo Verdone, Federico Moccia e tanti altri che assicurano di vivere, durante la cerimonia di premiazione, dei momenti emozionanti, come se fossero in corsa in prima persona per un Premio Strega. Non va trascurato l’aspetto umano, arricchente per le coscienze, un modo di rendersi utile per chi ha bisogno di calore e certezze. È un’interessante e utile iniziativa dove serve la collaborazione di tutti: librai, editori, cittadini e istituzioni. Questa modalità di introdurre la Cultura nelle carceri ha una grandissima valenza educativa e riabilitativa. Il tempo della pena non è più una condanna, perché dedicato alla lettura, alla riflessione, all’esame di sé stessi che, una volta scontata la pena, può essere fonte di un futuro migliore, senza ricadute e nuove condanne. Molti detenuti sono diventati, a loro volta, scrittori o hanno fatto dei mestieri la cui idea e maturazione è avvenuta durante il periodo della reclusione. Forse questa è l’opportunità per far riflettere "gli addetti ai lavori" e pensare diversamente da come si è fatto finora. Tenuità a maglie strette per gli omessi contributi di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 1 dicembre 2015 I precedenti tagliano l’evasore fuori dal beneficio per la particolare tenuità del fatto anche se la cifra evasa supera di poco i mille euro. La Corte di cassazione, con la sentenza 47256 depositata ieri, respinge il ricorso di un imprenditore, condannato per non aver pagato i contributi ai dipendenti, che chiedeva ai giudici di riconoscere l’inoffensività della condotta dal punto di vista penale o, in subordine, l’applicazione dell’articolo 131-bis (Dlgs 28/2015) che esclude la punibilità quando l’offesa non è rilevante. Richieste più che giustificate, ad avviso della difesa, in considerazione della cifra evasa decisamente contenuta: 1.100 euro. La Cassazione in prima battuta esclude l’inoffensività della condotta che, secondo il ricorrente, doveva derivare da una corretta lettura della sentenza della Corte costituzionale (139/2014) sulla scia della quale il giudice è tenuto a valutare l’offensività dell’azione misurandola sull’obiettivo delle norma incriminatrice. E dunque ad escludere l’offensività quando la lesione al bene tutelato sia effettivamente irrilevante o inesistente. Un criterio che, nel caso esaminato, non può trovare applicazione. I giudici pur ammettendo che la cifra dei contributi evasi è contenuta, affermano che la condotta è tale da arrecare un vulnus, si pure limitato, "alla gestione delle risorse finanziarie cui le contribuzioni omesse avrebbero dovuto accedere". Non va meglio con la particolare tenuità del fatto sia pure per ragioni diverse. Per l’applicazione del beneficio è necessario che il richiedente abbia le "carte in regola" su due fronti: l’offesa arrecata deve essere particolarmente "limitata" e il comportamento non abituale. Dei due requisiti, che devono essere congiunti e non alternativi, il secondo manca. La contestazione mossa al ricorrente si riferiva, infatti, a più condotte di omissione dei versamenti delle ritenute previdenziali e assistenziali. A carico dell’imputato c’era poi anche una condanna, passata in giudicato, per evasione fiscale. E non è stato di aiuto neppure l’intervenuto condono che, sottolinea la Suprema corte, è rilevante solo ai fini dell’estinzione della pena. Per la Cassazione si tratta di reati della stessa indole. Ad essere accomunati, precisano i giudici, non sono solo i reati "che violano una medesima disposizione di legge, ma anche quelli che, pur essendo previsti da testi normativi diversi, presentano nei casi concreti - per la natura dei fatti che li costituiscono o dei motivi che li hanno determinati - caratteri fondamentali comuni". Computabilità della custodia cautelare all’estero ai fini della decorrenza del termine Il Sole 24 Ore, 1 dicembre 2015 Mandato di arresto europeo - Consegna dall’estero - Differimento della consegna da parte dello Stato estero per altro titolo di detenzione - Computabilità del periodo di differimento ai fini della durata massima o di fase della custodia cautelare - Esclusione. In tema di mandato di arresto europeo, il periodo di tempo occorrente per l’effettiva consegna della persona richiesta dall’autorità giudiziaria italiana, quando la stessa sia stata sospesa o differita per fatti o determinazioni attribuibili allo Stato estero, non può essere computato ai fini della decorrenza del termine, massimo o di fase, della custodia cautelare in Italia, se la persona da consegnare sia rimasta in stato di custodia all’estero per effetto di altro e diverso titolo cautelare o detentivo ivi emesso. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 10 settembre 2015 n. 36677. Mandato di arresto europeo - Consegna dall’estero - Differimento della consegna da parte dello Stato estero - Computabilità ai fini della durata massima della custodia cautelare - Esclusione. In tema di mandato di arresto europeo, il periodo di tempo occorrente per la effettiva consegna della persona richiesta dall’autorità giudiziaria italiana, quando la stessa sia stata sospesa o differita per fatti o determinazioni attribuibili allo Stato estero, non può essere computato ai fini della decorrenza del termine - massimo o di fase - della custodia cautelare in Italia, se la persona da consegnare sia stata rimessa in libertà ed assoggettata a misure preventive che comportino l’obbligo di dimora o di presentazione alla polizia. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 26 febbraio 2013 n. 9203. Mandato d’arresto europeo - Termini di fase di custodia cautelare - Computabilità della custodia cautelare sofferta all’estero - Condizioni. Non deve tenersi conto, ai fini della determinazione dei termini di fase della custodia cautelare, del periodo di custodia cautelare sofferto all’estero per ragioni di giustizia interna, e non in esecuzione del mandato di arresto europeo. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 8 febbraio 2010 n. 4973. Mandato d’arresto europeo - Consegna dall’estero - Computabilità della custodia cautelare sofferta all’estero - Condizioni. In tema di mandato d’arresto europeo, ai fini della computabilità della custodia cautelare all’estero (articolo 33 L. n. 69 del 2005), è necessario da un lato che la persona richiesta dall’Italia sia sta posta a disposizione della giurisdizione italiana e dall’altro che la custodia cautelare sia stata sofferta in esecuzione del mandato d’arresto europeo. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 23 luglio 2008 n. 30894. Condanne a una vita peggiore di Paolo Boldrini Gazzetta di Mantova, 1 dicembre 2015 È arrivata in settimana la sentenza sul delitto di Magnacavallo. La giustizia è stata veloce: in meno di un anno il caso è stato chiuso. Condannati tre amici appena maggiorenni: due a 30 anni, mentre il nipote della vittima a 17 anni. La Gazzetta ha chiesto allo psicologo del carcere di Mantova, Massimo Iannucci, un commento per riflettere, insieme a voi, sul destino di questi ragazzi e delle loro famiglie. La sua analisi è lucida: il carcere con i suoi problemi di sovraffollamento, la carenza di risorse e di strutture, non risponde alla domanda di rieducazione. Lecito dunque nutrire dubbi: i tre amici, che hanno ucciso un uomo a colpi di mazza, usciranno migliori rispetto a quando sono entrati? Di certo saranno invecchiati, forse incattiviti per una vita buttata, la loro, dopo averne cancellata senza motivo un’altra: quella della vittima. La loro azione è stata orribile e imperdonabile, non merita compassione. Altrettanto lecito però, con un calcolo cinico, chiedersi cosa ci guadagna la repubblica italiana nel tenere rinchiusi a far nulla tre ragazzi che potrebbero essere impiegati altrove, in lavori socialmente utili. Pene alternative, che prevedono una restrizione della libertà, ma oltre le sbarre, con la possibilità di continuare gli studi e imparare una professione. Il problema non sarà in cima all’agenda del governo, ma provate a fare la somma di tutti i detenuti italiani: il totale è un esercito di reclusi senza volto e senza voce, la divisa è una tuta da ginnastica, il cielo a scacchi. Molti di loro sono pericolosi, altri no. Può capitare a un giornalista di entrare in carcere, senza manette ai polsi s’intende, magari per consegnare un premio letterario a un detenuto. Una mattinata interminabile, un senso di claustrofobia, un odore di caserma che riporta alla mente i tempi del servizio militare, dovuto all’alta concentrazione di essere umani. Si notava una grande soddisfazione negli occhi dei finalisti del concorso organizzato dalla San Vincenzo de Paoli (intitolato "Ce l’hai una famiglia?") che hanno avuto l’occasione di esprimere un pensiero, scrivere un romanzo o una poesia. Vinse il primo premio Gianluca Migliaccio, un giovane di Scampia, quartiere malfamato di Napoli per lo spaccio di droga e la camorra, rinchiuso ad Ascoli Piceno. Solo il fatto di uscire per raggiungere Mantova nel furgone della Polizia penitenziaria l’aveva riempito di gioia. Indossava un giubbino di jeans sdrucito, passato di moda, la pelle scura. Il racconto ruotava intorno alla sua figura di padre che ha perso il figlio di un anno per una malformazione cardiaca. "Ciro la notte, viene a trovarmi in sogno e mi racconta della sua fidanzatina e della scuola. Poi scompare. Ho fiducia in lui, non diventerà come me". Gianluca ha investito il suo tempo in carcere studiando Dante e Virgilio, grazie all’aiuto di un professore. L’attendeva qualche giorno dopo lo spettacolo in una libreria: un monologo sulla Metamorfosi di Kafka, solo sul palco. La sua esperienza, il premio letterario per carcerati, dovrebbero essere esportati. Per ridare una speranza a chi ha sbagliato e anche un ritorno allo stato che investe milioni di euro per mantenere un popolo di disperati a guardare il sole dalla finestra, attaccare poster di calciatori e attrici alle pareti, giocare a carte e guardare partite di calcio in televisione. C’è un altro tema, tutt’altro che secondario. Il rispetto per i parenti delle vittime che chiedono giustizia. In questi giorni, riflettendo sulla sentenza per il delitto di Magnacavallo, è uscito dagli archivi un precedente del 1994, nella stessa zona. Milena Negri, 22 anni, impiegata di Revere, uccisa in un ufficio a Poggio Rusco da un operaio di Ostiglia, Liborio Cammarata. Quando uscì dal carcere per buona condotta e beneficiando dell’indulto, dopo 16 anni, la Gazzetta intervistò i genitori della ragazza. Il loro dolore era lo stesso d’allora, per nulla mitigato dal tempo. Non l’hanno mai perdonato e nessuno può biasimarli. La tomba di Milena, nel frattempo, è diventata una sorta di santuario, meta di un continuo pellegrinaggio. A ricordarci che nulla potrà restituire un figlio strappato alla vita e ai suoi affetti. Ma anche che ogni uomo o donna resta tale dietro un portone di ferro che si chiude con un tonfo, dopo l’ora d’aria. Il tempo di un respiro. Lombardia: la Commissione Regionale Carceri a S. Vittore "più controlli su psichiatria" La Presse, 1 dicembre 2015 Verificare l’adeguatezza del servizio di neuropsichiatria attivo nel carcere di San Vittore a fronte delle nuove e aumentate richieste d’intervento per gli oltre 800 detenuti. Questo l’impegno preso oggi da Fabio Fanetti (Lista Maroni), presidente della commissione speciale Carceri, al termine della visita all’istituto milanese di piazza Filangeri. Al sopralluogo hanno partecipato, oltre al consigliere regionale Fabio Pizzul (Pd), la direttrice del carcere Gloria Manzelli, la vicedirettrice Teresa Mazzotta, il direttore sociale Asl Milano Rossana Giove, il coordinatore della sanità penitenziaria di Regione Lombardia, Angelo Cospito. "Innanzitutto - ha detto Fanetti - occorre ancora una volta esprimere un plauso alla direzione e agli agenti di polizia penitenziaria per il clima umano ottenuto grazie alla capacità delle persone che vi operano, oltre che per gli sforzi profusi per il miglioramento della struttura. Tuttavia, occorre rilevare - ha aggiunto - il profilarsi di una nuova emergenza tra i detenuti per quanto riguarda il trattamento di casi, sempre più numerosi, di disturbi psichiatrici. Occorre pertanto calibrare il servizio, già attivo all’interno del carcere, alle nuove esigenze per dare risposte adeguate". Oggi ci sono 817 detenuti maschi e una settantina di donne. Nell’ultimo anno, la permanenza media si è aggirata sui 100 giorni, con una media d’ingressi mensile di 360-380 detenuti per un totale di oltre 5mila persone in un anno. Sono 16 le celle per detenuti con comportamenti a rischio, per un totale di 25 persone controllate 24 ore al giorno. A gennaio, intanto, sarà avviato un progetto di pet therapy per i carcerati. Emilia R.: Regioni in ritardo su Rems, il giudice toglie le guardie all’Opg di Reggio Emilia di Mattia Caiulo Dire, 1 dicembre 2015 Il fatto che nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia restano ancora una ventina di internati con residenza fuori dall’Emilia-Romagna (perché nelle loro regioni non sono state allestite le Rems) non sarebbe legittimo. E questo potrebbe pregiudicare la presenza della Polizia penitenziaria nella struttura reggiana. È la nuova "tegola" segnalata dalla garante delle persone private della libertà personale dell’Emilia-Romagna, Desi Bruno, in visita giovedì scorso all’Opg. La vicenda nasce dalla decisione del magistrato di sorveglianza che, accogliendo i reclami presentati dagli internati a Reggio residenti in Veneto (una quindicina) ha stabilito che "l’attuale internamento sta avvenendo in violazione di legge, con un pregiudizio grave e attuale dei diritti degli internati che hanno il pieno diritto all’esecuzione delle misure di sicurezza operata esclusivamente mediante il ricovero nelle Rems". Ma nelle regioni da cui provengono, dove però non sono pronte. Tanto che il magistrato, ha ordinato al presidente della giunta regionale veneta di "porre rimedio al pregiudizio degli internati adottando i necessari provvedimenti nel termine di 15 giorni". Una situazione a cui la Regione Veneto non può far fronte perché, come ha fatto rilevare in udienza, è in fase di attuazione una Rems a Nogara che potrà ospitare 40 pazienti, pronta però non prima dell’ottobre 2016. In questo quadro il magistrato ha però ordinato all’amministrazione penitenziaria di esonerare il personale della Polizia penitenziaria dal servizio nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio, sempre nel termine di 15 giorni. E così, nell’attesa dell’attivazione della Rems veneta, questa disposizione, in particolare, "rischia di mettere a dura prova l’attuale organizzazione del lavoro negli spazi detentivi dell’ospedale psichiatrico giudiziario", spiega Desi Bruno, secondo cui "non è pensabile, infatti, che negli attuali spazi possa declinarsi una gestione esclusivamente sanitaria degli internati perché la struttura non è autonoma dal resto dell’istituto in cui l’amministrazione penitenziaria sovrintende a tutta una serie di attività, dai colloqui alla cucina, dal controllo esterno agli ingressi, che non possono essere svolte dal personale sanitario che, peraltro, è del tutto insufficiente in termini numerici". E il tutto mentre nella struttura risultano essere presenti anche 19 condannati con infermità psichica sopravvenuta durante l’esecuzione della pena e 27 minorati psichici. A bruciare di più è poi il fatto che la Regione Emilia-Romagna, sottolinea la garante, "ha ottemperato agli obblighi di legge, entro il 31 marzo 2015, istituendo due Rems, una a Casale di Mezzani, nel parmense, e l’altra a Bologna, in cui sono stati trasferiti tutti quegli internati residenti nel territorio emiliano-romagnolo, che non potevano essere dimessi". La situazione, infine potrebbe ancora peggiorare, perché nelle prossime settimane saranno decisi i reclami giurisdizionali presentati contro l’illegittimo internamento anche degli altri internati residenti in Regioni che non hanno ancora attuato le Rems. In particolare cioè cinque detenuti con residenza in Lombardia e uno in Toscana. Asti: pestaggi in carcere a due reclusi, lo Stato offre un risarcimento di 40mila € ciascuno di Massimo Coppero La Stampa, 1 dicembre 2015 Il ministero propone il risarcimento per evitare un ricorso alla Corte Europea dei diritti umani. Sono i giorni delle feste di Natale del 2004. Claudio Renne, oggi 41 anni, di Novara, e Andrea Cirino, ora 37, torinese, undici anni fa erano due detenuti del carcere di Quarto reclusi per scontare condanne per reati contro il patrimonio. Un pomeriggio, nella sezione detentiva nella quale vivono hanno un diverbio con un agente della polizia penitenziaria. Il poliziotto racconterà ai colleghi di essere stato aggredito e ferito dai due detenuti. Spedizione punitiva. La vendetta arriva nel giro di pochi minuti: Renne e Cirino, accerterà una sentenza del tribunale di Asti diventata definitiva in Cassazione, vengono trascinati via dalla sezione da un gruppetto di agenti penitenziari, portati nella sezione isolamento e torturati per giorni con pugni, calci, privazioni del sonno e del cibo. Il vocabolo "tortura" è stato esplicitamente usato nelle motivazioni della sentenza con la quale nel 2012 il giudice Riccardo Crucioli aveva prosciolto per prescrizione due agenti penitenziari dall’accusa di lesioni e abuso di autorità: i fatti erano veri, semplicemente il processo è durato troppo a lungo a causa dell’inerzia della procura e lo Stato non è riuscito a punire i colpevoli. Gli avvocati di Renne e Cirino, insieme all’associazione umanitaria Antigone avevano presentato un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Fino al 17 dicembre. Ora il ministero della Giustizia ha offerto ai due ex detenuti un risarcimento di circa 40 mila euro ciascuno per revocare la causa davanti alla Corte europea. Renne e Cirino hanno tempo fino al 17 dicembre per decidere se accettare l’indennizzo o rifiutare chiedendo alla magistratura europea di pronunciarsi con una sentenza. Nessun commento sulla "trattativa", al momento, da parte degli avvocati Mauro Caliendo e Angelo Ginesi, difensori dei due ex detenuti. Conferme invece giungono dall’associazione Antigone: "La decisione dello Stato italiano di proporre una transazione è un dato positivo - commenta l’avvocato Simona Filippi, del foro di Roma, legale di Antigone e parte civile al processo astigiano - Il Governo ha riconosciuto quanto indicato nella sentenza Crucioli e cioè che nel carcere di Quarto vennero perpetrati episodi di tortura e trattamenti inumani" Torino: "Marte cose buone da dentro", la vetrina con panettoni e abiti fatti dai detenuti torinotoday.it, 1 dicembre 2015 La vetrina in città servirà a "dare visibilità ai prodotti dell’economia carceraria". A inaugurare lo spaccio in via Milano anche il sindaco di Torino Piero Fassino. Dolci, panettoni, birre, vini e accessori di abbigliamento prodotti nelle carceri italiane e esposti da oggi in via Milano 2C, nel cuore di Torino, a pochi passi dal Comune. L’iniziativa è il frutto degli sforzi della Garante per le persone private della libertà personale del Comune di Torino, Monica Cristina Gallo, il cui ufficio ha operato con il sostegno della Compagnia di San Paolo e della direzione del carcere "Lorusso e Cotugno". La realizzazione di questo obbiettivo però è dovuta alla collaborazione di una pluralità di soggetti che lavorano per l’umanizzazione delle carceri, la riqualificazione della vita dei detenuti e il loro recupero sociale attraverso lo studio la formazione e il lavoro. Marte è il punto vendita dei prodotti, in via delle Orfane 24 D, Libera Mensa è la cooperativa che dall’interno del carcere forma cuochi, panettieri e pasticceri che offrono servizi di catering in città (suo è il rinfresco che ha accompagnato l’inaugurazione), e molte altre sono le sigle del volontariato che affiancano il lavoro delle istituzioni. A inaugurare lo spaccio in via Milano anche il sindaco di Torino Piero Fassino il quale ha ricordato come la Città e la sua Amministrazione vogliano sostenere fortemente e "ospitare nel proprio centro un luogo di riscatto per i detenuti, perché dare a queste persone un obiettivo professionale di vita significa motivarli alla legalità". "Si tratta - ha detto - di un’operazione che si colloca in una strategia d’azione per offrire sempre più occasioni di reinserimento". La Garante, Monica Cristina Gallo, ha spiegato che il suo impegno è nel segno di un avvicinamento del carcere alla città e che la vetrina in città servirà a "dare visibilità ai prodotti dell’economia carceraria". Vicenza: convegno per fare il punto su 5 anni di "Progetto Esodo" coordinato da Caritas vicenzapiu.com, 1 dicembre 2015 Per fare il punto sui primi cinque anni del Progetto Esodo, coordinato da Caritas Diocesana Veronese, Caritas Diocesana Vicentina e Caritas Diocesana Belluno, si svolgerà mercoledì 2 dicembre dalle h. 9.30 presso il Seminario Vescovile di Verona, il Convegno "Cinque anni di Progetto Esodo - Risultati e prospettive - Percorsi di inclusione socio-lavorativa per detenuti, ex detenuti e persone in esecuzione penale esterna". Esodo è un progetto nato dalla volontà di aggregare in un’azione programmata i diversi soggetti operanti nel circuito penitenziario e reso possibile dalla volontà del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, dal finanziamento di Cariverona e il coordinamento delle Caritas diocesane di Verona, Vicenza e Belluno, con un unico obiettivo: il reinserimento socio-lavorativo di detenuti, ex detenuti e persone in esecuzione penale esterna attraverso la formazione, l’inserimento lavorativo, l’accoglienza residenziale e il sostegno agli utenti. A 5 anni dal suo inizio, Esodo è diventato un progetto di sistema che ha raggiunto un livello di maturità tale da spingere i partner a condividerne i risultati e disegnarne i nuovi scenari per il prossimo futuro attraverso un convegno che vedrà protagonisti, oltre ai direttori delle Caritas Diocesane e i coordinatori, anche Enrico Sbriglia, Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per il Triveneto, Lorenza Omarchi, Magistrato di Sorveglianza di Verona e Giovanni Sala, Vice Presidente Vicario della Fondazione Cariverona. Lucca: Ass. "A buon diritto"; troppi trasferimenti, detenuto inizia lo sciopero della fame luccaindiretta.it, 1 dicembre 2015 Fa lo sciopero della fame contro i continui trasferimenti. Il detenuto adesso si trova nel carcere di Lucca e oggi 1 dicembre il suo caso sarà al centro di una conferenza stampa in programma alle 15 si in sala Caduti di Nassirya al Senato "per denunciare le preoccupanti condizioni di salute di Rachid Assarag, detenuto presso il carcere di Lucca, in sciopero della fame per protesta contro i continui trasferimenti e il trattamento cui è sottoposto", si legge in una nota. Alla conferenza partecipano il senatore Luigi Manconi, l’avvocato di Assarag Fabio Anselmo e Valentina Calderone, direttrice dell’associazione "A buon diritto". "Nel corso della conferenza verranno fatti ascoltare degli estratti inediti di alcune registrazioni effettuate dal signor Assarag all’interno del carcere di Prato", come si spiega in un comunicato. Campobasso: "Genitori in carcere", presentato il Protocollo d’intesa con la Regione di Stefania Potente primopianomolise.it, 1 dicembre 2015 La direttrice del carcere Rosa La Ginestra: "Quei bambini è come se fossero orfani". Ci sono bambini che hanno la possibilità di vedere il proprio padre solo tra le fredde mura di un carcere. Un incontro di pochi minuti, spesso l’unico in un mese. Poi le sbarre del carcere si chiudono. Loro, i figli dei detenuti, è come se fossero orfani. Nessuna foto con il padre, nemmeno quella classica davanti alla torta di compleanno. Punta "al recupero della genitorialità e alla cura delle relazioni in carcere", secondo la definizione del vertice della struttura penitenziaria di Campobasso Rosa La Ginestra, l’innovativo protocollo d’intesa "Genitori in carcere" firmato con la Regione Molise per offrire ai reclusi la possibilità di trascorrere più tempo con i propri figli. Ludoteche funzionali al gioco e allo stare insieme, sale più accoglienti per traumatizzare il meno possibile i bambini che accedono nella Casa circondariale. Sondrio: sport, palestra di vita anche in carcere di Alberto Gianoli La Provincia di Sondrio, 1 dicembre 2015 Alice Gaggi, Giorgio Dell’Agostino e Giorgio Rocca testimonial dell’evento organizzato giovedì sera "Lottare per un obiettivo è possibile per tutti". Il sindaco Molteni ha ringraziato la direttrice per le tante novità. Le mura esterne sono sempre le stesse, ma al suo interno il carcere è cambiato negli ultimi mesi. E ciò che dall’esterno della struttura non può essere notato, giovedì sera è stato messo in luce dal sindaco, Alcide Molteni, in occasione della serata benefica per l’inaugurazione della rinnovata palestra della Casa circondariale di via Caimi. Nuove opportunità. Il primo cittadino ha rimarcato anche l’impegno profuso dalla direttrice del carcere, Stefania Mussio, per portare nella struttura tante novità. "Nuove opportunità - ha affermato Molteni - che grazie alla comunità vengono messe in campo per essere offerte alle persone detenute". E così è stato anche in occasione dell’evento che ha visto come testimonial tre campioni sportivi valtellinesi, la runner Alice Gaggi, il canoista Giorgio Dell’Agostino e lo sciatore Giorgio Rocca. Nei corridoio della sezione detentiva hanno trovato spazio tavoli e sedie per accogliere i rappresentanti di Polisportiva Albosaggia, Sondrio Calcio, Sportiva Basket e Sondrio Rugby, ma anche alcuni alunni dell’indirizzo sportivo del liceo Pio XII - tra cui il karateka Andrea Rota - e tanti cittadini. La direttrice Mussio, aprendo la serata, ha ricordato l’impegno preso in occasione dell’evento simile che si era svolto a settembre. "Le offerte raccolte in quell’occasione sono servite per rifare la palestra - ha affermato. Abbiamo completato il progetto anche grazie alla Fondazione Gruppo Credito valtellinese, al contributo dell’amministrazione e all’impegno di due persone detenute e del volontario Guido Pozzoni, falegname che ha condotto i lavori". Quindi, la direttrice ha spiegato perché si è scelto di intervenire su un ambiente che a qualcuno che non conosce la realtà carceraria potrebbe sembrare un lusso. "La legislazione carceraria - ha aggiunto - afferma, invece, che lo sport è uno degli elementi fondamentali per lo sviluppo della persona". L’importanza dello sport e dei valori che questo porta con sé è poi stata rimarcata anche dai campione presenti. Gaggi ha voluto sottolineare come nella sua carriera agonistica le sia stato da stimolo il sostegno del padre, primo compagno di allenamenti, capace di essere accanto senza farle pressioni. "Nello sport - ha aggiunto Dell’Agostino - non si diventa subito dei campioni, si comincia per gioco. Così è stato anche per me, anche se poi lo sport è diventato un punto di riferimento e ora ho un obiettivo quotidiano per cui lottare. Significativa, soprattutto in relazione alla situazione dei detenuti che lo ascoltavano la testimonianza di Rocca, che ha sottolineato come nella sua carriera non ci siano state solo vittorie ma anche molte sconfitte. "E la vita - ha affermato - mi ha insegnato a non mollare mai. Con la costanza, la dedizione, la passione e il sorriso devi solo sapere qual è il tuo obiettivo per poterlo raggiungere". Così è stato per lui, anche dopo la caduta nello slalom speciale del Sestriere alle Olimpiadi del 2006. "Ho dovuto rialzarmi per tornare a vincere - ha aggiunto - e questo fa capire che lottare per un obiettivo è possibile per tutti". Il buffet. Dopo l’apertura della palestra, con il taglio del nastro affidato ai due detenuti che hanno lavorato nella posa del pavimento, è stato offerto ai presenti un buffet. A preparare pizze, pasta e torte gli stessi detenuti, impegnati anche nel servizio e in un’improvvisata visita guidata a due celle che alcuni dì loro hanno scelto di lasciare aperte perché potessero essere viste dai visitatori. II momento conviviale è stato allietato dalle note jazz di Alfredo Ferrario, Roberto Piccolo e Massimo Caracca. Quindi, si è concluso con una nuova raccolta di fondi che andranno a finanziare il completamento della sistemazione della biblioteca e la realizzazione dell’aula dell’affettività, dove i detenuti potranno incontrare i loro famigliari in visita. "Campioni in carcere, ma come testimonial", di Nello Colombo (La Gazzetta di Sondrio) Tre campioni sportivi valtellinesi come testimonial d’eccezione presso la Casa Circondariale di Sondrio per l’inaugurazione della nuova palestra. Alice Gaggi. "Da buona valtellinese corro su tra le mie montagne. Mi basta un paio di scarpe per sentirmi libera nel vento, per incanalare le mie emozioni, riflettere sulla vita e avere vicino un compagno di allenamento come papà Donato. Sono stata molto fortunata a non avere mai avuto pressioni che mi mettessero in ansia. Ho cominciato a 12 anni correndo le prime gare campestri delle Medie finché non mi sono piazzata al quarto posto dei campionati nazionali junior diventando poi riserva nel raduno della nazionale. Ho imparato che non sempre si può vincere competendo con le atlete più forti del mondo, ma è bello per me avere la sensazione di aver sempre dato tutto il possibile", è stata questa la testimonianza di Alice Gaggi, campionessa mondiale di corsa in montagna che si è raccontata dinanzi ad una vasta platea soprattutto di sportivi e studenti. ". Giorgio dell’Agostino. "Mi sono rispecchiato molto nelle parole di Alice perché anch’io ho cominciato quasi per gioco, ma poi ho capito l’importanza di tante discipline sportive che formano mente e carattere prima che il fisico. Essere qui stasera è motivo d’orgoglio per vivere un’esperienza nuova e gratificante", ha detto il ventenne Giorgio dell’Agostino campione assoluto di canoa che si allena con grande spirito di sacrificio alternando corsa, nuoto, palestra prima di andare in canoa, senza tralasciare il lavoro di praticantato in uno studio di progettazione di impianti elettrici. Un vero esempio per tanti giovani. "Lo sport unisce e ti dà obiettivi da raggiungere da non perdere mai di vista. Andrea Rota. Lo sport ha formato il carattere e il mio pensiero", ha aggiunto Andrea Rota nazionale karateka di rango. Giorgio Rocca. Ingresso trionfale infine per Giorgio Rocca, mito dello sci italiano. "La vita mi ha insegnato a non mollare mai, a non accettare mai di essere secondo e a dedicarsi allo sport con costanza, dedizione, passione e sorriso che ti aiutano ad ottenere il tuo obiettivo. Io ce l’ho fatta anche se le sconfitte sono state più delle vittorie, ma ho sempre saputo rialzarmi, anche quando, sotto pressione, c’è stata la rovinosa caduta olimpica. Poi c’è stato il momento in cui ho dovuto scegliere dopo 11 vittorie e tante gare in Coppa del Mondo. Dovevo scegliere, ho sempre lottato per un obiettivo e sono fiero di tutto quello che ho fatto", ha detto l’intrepido campione dello slalom italiano. Firenze: "Sport in libertà", sfida di calcio tra detenuti e avvocati, vince il fair play stamptoscana.it, 1 dicembre 2015 Sabato si è svolta la partita detenuti-avvocati nel carcere di Sollicciano, nell’ambito del progetto Uisp "Sport in libertà". Il gran freddo non ha smorzato l’entusiasmo dei giocatori. Alla fine sono stati proprio gli ospiti, i penalisti, a vincere con il risultato finale di 5-4 un match all’insegna del gioco e del fair play e con tanto di terzo tempo a cui erano stati chiamati a partecipare i parenti dei detenuti. "Un sabato mattina all’insegna dello sport e della normalità, la partita ha regalato grandi emozioni". Così Uisp Comitato di Firenze commenta l’iniziativa di sabato scorso che rientra tra le attività del progetto che l’associazione sportiva Uisp porta avanti all’interno del carcere di Sollicciano. "Per il team di Sollicciano che da un anno si ritrova tutti i sabato mattina per allernarsi e divertirsi intorno al pallone, insieme agli operatori tecnici della Uisp, si trattava di un bel test - sottolinea Uisp -. Una prova passata a pieni voti tanto che già è annunciato, dopo l’incontro con l’ordine degli avvocati, un match con la squadra della giunta comunale e del Vieusseux". "Il corso della Uisp a Sollicciano si tiene in accordo con la direzione educativa dell’istituto ed è propedeutico all’attività di calcio a 11 - spiega la nota Uisp -. Prevede un appuntamento settimanale (il sabato mattina) tenuto da operatori UISP esperti della disciplina allenatori UEFA B. Il corso si basa su: l’insegnamento delle basi e delle specifiche regole del tradizionale gioco del calcio a 11; l’apprendimento di schemi e tattiche di gioco, l’interazione con i compagni di squadra, il riconoscimento di ruoli e lo sviluppo del "gruppo", il miglioramento delle capacità fisiche e il rispetto dell’ avversario e delle altre culture. L’attività coinvolge 30 detenuti di varie nazionalità, 1 allenatore e 3 volontari". Libro: "Il Cortile dietro le Sbarre: il mio Oratorio", di don Domenico Ricca recensione di Gaetano Farina linkiesta.it, 1 dicembre 2015 Ne ha viste e sentite tante don Domenico Ricca; nel suo caso si può proprio dire così. Sì, perché lui è da 35 anni il cappellano del Ferrante Aporti, il carcere minorile di Torino, passato alla ribalta delle cronache nazionali per aver "ospitato" alcuni protagonisti dei crimini più efferati degli ultimi vent’anni della storia nera d’Italia. Era quasi doveroso, quindi, nei confronti della comunità raccontare e diffondere la ricchissima testimonianza di don Ricca come ha provato a fare la casa editrice torinese Elledici - che si ispira agli insegnamenti di San Giovanni Bosco - con un ampio libro-intervista intitolato "Il Cortile dietro le Sbarre: il mio Oratorio", uscito nelle librerie da qualche settimana. Un libro che, in qualche modo, rende omaggio a san Giovanni Bosco, fondatore del movimento salesiano, nella celebrazione dell’anno bicentenario della sua nascita (chi racconta è anch’egli un salesiano). Per don Bosco, infatti, le visite alle carceri di Torino furono cruciali nella scelta di privilegiare in ogni modo i poveri, rifiutando altre offerte di ministero economicamente più garantite. Una scelta quanto mai attuale che rafforza l’intuizione del suo sistema fondato sui tre pilastri della ragione, religione e amorevolezza. L’incontro con i ragazzi detenuti prima alle Carceri Senatorie di Torino nel 1841, poi alla Generala nel 1855, fu la scintilla che spinse don Bosco ad escogitare soluzioni "preventive" allo sbando in cui versavano migliaia di adolescenti delle periferie torinesi. Ed effettivamente, nel dialogo proposto da Marina Lomunno, l’autrice del libro - brillante redattore de La Voce del Popolo -, emergono in ogni capitolo numerosi riferimenti alla pedagogia del Santo. Lo stesso don Domenico, conosciuto dalla gente come don Meco, si definisce "un prete non bigotto, non devozionista, che ha cercato di basare la sua missione specialmente sulla parola di Dio e poi, da salesiano, stando il più possibile in mezzo alla gente". Don Meco racconta che, prima del suo arrivo (nel 1979), al Ferrante Aporti c’era pochissimo: "abbiamo costruito pezzo per pezzo. Io mi sono occupato in particolare della parte sportiva e della scuola, data la mia esperienza di insegnante". Sino ad arrivare alla miriade di laboratori e attività che si possono frequentare oggi dentro al carcere. Molto interessante è l’analisi, di valore sociologico, della popolazione che ha abitato il Ferrante Aporti negli ultimi 35 anni che don Meco è in grado di offrire grazie alla sua lunga e ricca esperienza; innanzitutto è la convinzione che ogni ragazzo (detenuto) rispecchi il proprio tempo: "Quelli degli anni ‘80 erano ragazzi forse più duri, più coriacei, direi con una spina dorsale, nel bene e nel male, molto più dritta ma anche capaci di tenere in piedi progettualità di ampio respiro. Poi arrivò la grande crisi negli anni 90 con l’arrivo della droga, dell’uso massiccio del fumo e quant’altro. Quelli degli anni 80 erano di un’altra pasta, come si dice...". Pur non volendo indossare i panni del sociologo, Don Meco, giunge anche a sostenere che "la grande città produce più delinquenza comune, reati legati al patrimonio, micro-delinquenza insomma. Mentre dalla provincia arrivavano già in quegli anni - ndr anni 80-90 -, e poi inseguito ancor di più, ragazzi con alle spalle fenomeni di delinquenza gravi, con fatti e reati di sangue eclatanti, storie pesanti. I paesi producono tensioni, conflittualità nei rapporti tra le persone molto più devastanti rispetto alla città e che troppe volte sfociano in reati gravi, in fatti di sangue". Per don Meco è stato naturale seguire lo stile educativo dei salesiani e cioè "assumere nella mia relazione con i ragazzi un tratto di affabilità, di amorevolezza, come la chiamava don Bosco" evitando qualsiasi pregiudizio legato alla colpa giudiziaria e mettendo al centro il valore educativo dello sport. Per don Domenico, tuttavia, la chiave di svolta nella relazione con i ragazzi detenuti non sono le parole, le "prediche", le argomentazioni, bensì interventi strutturali in qualche modo "rivoluzionari" che spezzino la routine, mandino in crisi le abitudini, in cui siano protagoniste anche le risorse che si trovano al di fuori del carcere. Non a caso, colui che offre la sua testimonianza in queste preziose pagine è riconosciuto come una grande costruttore di reti oltrepassanti le mura del carcere: è stato il duro e lungo lavoro di don Meco, ad esempio, a costruire finalmente un ponte fra personale educativo e polizia penitenziaria, due realtà che hanno sempre faticato a dialogare. Le memorie personali del cappellano raccolte in queste pagine sono inserite nella vasta storia dell’istituzione carceraria minorile. Anche perché l’autrice aggiunge quelle degli ex direttori e degli operatori del Ferrante Aporti. Ne emerge un quadro vivo, toccante pur nella più totale discrezione dovuta, perché sono storie di ragazzi e di adolescenti che hanno bisogno di crescere senza esposizioni mediatiche inutili e dannose. Ciò che lega storie, ricordi, testimonianze, vicende, emozioni è l’esperienza di don Meco; dura e faticosa, spesso segnata dalla solitudine, come lui stesso ammette, per la difficoltà a comunicare, a farsi comprendere non solo dai detenuti e dagli operatori del carcere, ma dalle stesse istituzioni, comprese quelle religiose. Don Meco è uno che parla diretto, non conosce mezze misure e si rivela molto severo anche nei confronti di alcuni immobilismi, delle inadeguatezze, degli improduttivi buonismi, del caritatismo peloso della chiesa, delle parrocchie, dei propri confratelli: "Per me è così. Non si può sempre accontentare tutti. E bisogna anche educare i nostri uditori, in primis i superiori, i confratelli, i membri della grande famiglia salesiana, e poi i politici". Storie a lieto fine, ma anche drammatici fallimenti e cocenti delusioni; scarse gratificazioni, dato che quasi sempre i ragazzi sono rassegnati ad un’esistenza che sentono ormai compressa e non riescono a valorizzare gli sforzi che gli altri fanno per loro. Una battaglia quotidiana quella di don Meco fra violenza, bullismi e "mafioserie" (come le definisce lui stesso) non solo della popolazione detenuta, nella difficoltà a comprendere mondi e culture differenti (quella dei nomadi e delle numerose etnie straniere) e a integrare maschi e femmine (che non ci sono più al Ferrante Aporti), a denunciare, in qualche caso, anche i soprusi compiuti da chi dovrebbe garantire, invece, il rispetto dei diritti, a sopportare le pressioni mediatiche, anche le più feroci, come quando si trattò di giustificare la vicinanza a Erika, la baby carnefice di Novi Ligure (un caso, un’esperienza segnante per don Ricca su cui ci si sofferma anche nel libro). Eppure, don Meco ce l’ha sempre fatta, non si è dato mai per vinto, rispecchiando in tutto e per tutto il carisma e l’ottimismo del fondatore dell’attività salesiana: "In occasione del Bicentenario della nascita di don Bosco vorrei provare con il personale e i ragazzi che passano al Ferrante Aporti a fare emergere le sue intuizioni educative che sono sempre attuali: l’accoglienza, il "vi voglio tutti amici", "io per voi darei tutto", "anche nel giovane più discolo avvi un punto su cui fare leva". Ecco, in fondo noi qui in carcere non facciamo che attualizzare il sistema preventivo di don Bosco anche per coloro che hanno già perso alcuni spazi di vita, hanno bruciato alcune opportunità, perché sono convinto che a tutti rimane sempre ancora una carta da giocare, quella che don Bosco vedeva in ogni ragazzo". Insomma un libro imperdibile, almeno per coloro che operano nel sociale, specialmente nel disagio giovanile. Televisione: "Orange Is The New Black", la serie contro i pregiudizi sulle donne di Gennaro Marco Duello fanpage.it, 1 dicembre 2015 Una lezione contro il razzismo, l’omofobia, la violenza e ogni altro pregiudizio sul mondo femminile ci arriva direttamente dalle detenute del penitenziario di Litchfield. Ecco perché, aspettando la quarta stagione prevista per la prossima estate, "Orange Is The New Black" è una serie tv da non perdere. Piper Kerman ha trascorso 13 mesi in una prigione federale, in regime di minima sicurezza, e lo ha fatto soltanto per amore. Quello che ha provato nei confronti di Nora, che è davvero una ragazza bellissima che però fa un lavoro pericoloso. Nora traffica eroina per conto di un potente boss africano. Tra viaggi intercontinentali e romantici paesaggi, Piper si lascia travolgere e coinvolgere. È una fase, lei ha solo 23 anni quando porta a termine un singolo viaggio con più di 10mila dollari di eroina in un doppio fondo della valigia. Dicevamo, è una fase. Piper lascia Nora ed inizia una nuova vita con Larry Smith, uno scrittore di successo. Nel 2004, di punto in bianco (in realtà c’è stata un’indagine partita nel 1998) i federali si presentano alla porta di Piper per arrestarla: le accuse sono riciclaggio di denaro e traffico di droga e Larry non sapeva nulla della vita precedente di Piper. Quel singolo viaggio fatto per conto di quel signore della droga le è costato, dieci anni più tardi, una condanna. Ed una vita completamente stravolta. Comincia qui "Orange Is The New Black", serie tv di successo prodotta da Netflix e ispirata alle memorie di Piper Kerman, che è anche alla supervisione del progetto scritto e diretto da Jenji Leslie Kohan. Protagonista è Piper Chapman (nella finzione il cognome cambia) personaggio interpretato da Taylor Schilling, in un racconto toccante che conduce, ora con sensualità ed ironia ora con toccante malinconia, nel mondo delle carcerate del penitenziario di Litchfield. Dove guardare "Orange Is The New Black". La serie è stata rinnovata per una quarta stagione che sarà disponibile a partire dalla prossima estate e in Italia possiamo apprezzarla in programmazione su Mediaset Premium e on-demand proprio su Netflix. Per adesso è il fiore all’occhiello del neo-arrivato servizio di streaming on-demand, tra le serie più richieste e viste da chi ha attivato il servizio. In questo momento, non è ancora chiaro se la quarta stagione sarà trasmessa in esclusiva su Mediaset Premium, che ha acquistato i diritti di esclusiva proprio da Netflix prima che questa sbarcasse in Italia. In caso contrario, sarebbe proprio quest’ultima a rendere disponibile in esclusiva l’intera serie sul proprio catalogo. Le differenze tra la Piper della serie e la Piper reale. La Piper della serie presenta numerose differenze con quella della realtà. Tanto per cominciare, prima di entrare in prigione Piper Kerman non progettava di vendere profumi ed essenze con la sua migliore amica, ma lavorava come direttrice creativa e responsabile di progetti indirizzati alle aziende che volevano rafforzare la propria presenza sul web e sui social media. Una differenza molto importante è nei rapporti con la sua ex, che nella serie si chiama Alex e non Nora, e con Larry, il fidanzato. Nel caso di Alex/Nora, il rapporto non era così complice e stretto come vediamo nella serie e le due hanno condiviso solamente cinque settimane sui tredici mesi che Piper ha dovuto scontare. Per quanto riguarda Larry, oggi Piper è sposata con lui e quello che nella serie tv viene presentato come un elemento che distrugge il loro rapporto, nella realtà lo ha cementato. Parliamo di un articolo di giornale che Larry ha pubblicato sul New York Times nel Natale che la vera Piper ha passato in carcere: "Non avrei saputo immaginare regalo di Natale più grande". Il legame con Red, che nella vita reale si chiama Pop, c’è ed è ancora forte e non c’è mai stato un contrasto aspro come quello visto in apertura di serie, e anche il rapporto con le altre detenute non è mai stato così conflittuale come viene mostrato nel corso delle tre stagioni. L’arancione contro la Violenza sulle donne. Il successo di Orange Is The New Black è tale che anche l’Onu ha deciso di scegliere il colore arancione (quello delle tute delle detenute del penitenziario) come simbolo per la lotta alla violenza nella Giornata Internazionale contro la Violenza dello scorso 25 Novembre. L’universo femminile delle detenute e le minacce da combattere, dalla discriminazione per la loro condizione, il problema del razzismo e dell’omofobia. "Orange Is The New Black" è una finestra aperta su tutto il mondo femminile, dove le donne sono rappresentate per quelle che sono, lontano dai classici stereotipi della donna americana. È una serie che è aderisce senza storture alla realtà dei fatti, ecco perché è una serie adatta sia ad un pubblico maturo maschile, che femminile. Assolutamente imperdibile. Il nemico (e noi) di Alberto Leiss Il Manifesto, 1 dicembre 2015 Davvero vinceranno loro? I nostri nemici ? Coloro che hanno dichiarato guerra al "nostro modo di vivere"? Vinceranno, come da più parti è stato detto dopo Parigi, se anche noi ci sentiremo in "guerra", coltivando odio, vendetta, desiderio di violenza. È un esito possibile. Si legge che in Francia il nazionalismo un po’ razzista della Le Pen vola nei sondaggi al 40%. E si vede come questo alimenti gli atteggiamenti bellicisti di Hollande, al canto della Marsigliese. Ma è abbastanza impressionante leggere in qualche articolo sull’incontro avuto da Renzi col presidente francese che però non sarebbe in alcun modo chiara la strategia che Hollande chiede di condividere agli alleati europei, a Putin, a Obama, per battere davvero il mostruoso Daesh e costruire la pace in Medioriente, in Africa e nel mondo. La prima battaglia credo vada combattuta dentro i nostri cervelli e i nostri cuori. Per capire al meglio chi è il nemico, e chi siamo noi, che cosa pensiamo e che cosa proviamo. Domenica sui giornali c’erano interventi interessanti. Parole e pensieri che inducono qualche speranza sulle capacità occidentali di non lasciarsi travolgere dalle aggressioni del terrorismo. Mi riferisco in particolare all’editoriale di Paolo Mieli sul Corriere della sera, allo scritto di Edgar Morin su Repubblica, alla analisi di Olivier Roy sull’ Internazionale. Parto da quest’ultima: i giovani (francesi e belgi) che hanno scatenato il terrore e la morte a Parigi hanno in realtà poco a che vedere con le mire geopolitiche del "Califfato". Sono il frutto di una rivolta generazionale che rinnega prima di tutto i propri padri immigrati e - più o meno - integrati in Francia. Giovani che invece non riescono a integrarsi nel "nostro modo di vivere" - che li respinge e li esclude - e che trovano nella violenza predicata dagli estremismi islamici la leva per votarsi a un nichilismo da "perdenti radicali", più simili a Breivik e a chi stermina studenti nelle scuole Usa che ai teologi della violenta rinascita islamica. Per affrontare questo tipo di nemici, forse più che bombardare Raqqa bisognerebbe ascoltare i discorsi di un Renzo Piano sull’emergenza di colmare i "deserti affettivi" delle banlieue (come nelle nostre periferie urbane). Ma non bisogna poi trascurare - ci invita Morin - le ragioni storiche di lunga durata che spiegano il relativo successo del "Califfo" nell’area terremotata dell’universo arabo. Non basta qui riconoscere le colpe e gli errori dell’Occidente lungo qualche secolo, ma si tratta capovolgere lo sguardo con cui si interviene in quella vasta area. Magari ripensando al sogno di un occidentale, Lawrence d’Arabia, al miraggio di una grande rinascita del mondo arabo, nella valorizzazione delle sue molte differenze. Qualcosa insomma di completamente opposto all’idea di allearsi con gli Assad e gli Al Sisi, ai tiranni vecchi e nuovi che sono tra le cause maggiori della radicalizzazione islamica, alimentata dalle persecuzioni politiche e dall’oppressione sociale. Infine, ma forse è il primo gesto necessario, va ascoltato l’Islam che si dissocia, che manifesta - per poche che siano le presenze in piazza - alzando i cartelli "Not in my name". Credo - con Mieli - che sia essenziale rispondere, interloquire, riconoscere. E del suo articolo mi ha colpito la notazione sul fatto che nelle recenti manifestazioni a Roma e a Milano (ho ascoltato su Radio Radicale quella di Roma) hanno parlato solo maschi. Questo è certamente un limite significativo. Che nell’origine profonda della parola guerra riguarda anche noi e non solo il nostro nemico. Migranti e geopolitica, i due patti non detti di Franco Venturini Corriere della Sera, 1 dicembre 2015 Si direbbe che gli europei, investiti dal flusso incessante dei migranti e colpiti dalla furia stragista dell’Isis, siano pronti a tutto pur di coprirsi le spalle. Come interpretare diversamente l’intesa per il contenimento dei rifugiati conclusa domenica con una Turchia dove non pochi valori fondamentali della Ue vengono sistematicamente offesi dall’autoritarismo democratico di Recep Tayyp Erdogan? E come giudicare altrimenti il patto col diavolo suggerito dal ministro degli Esteri francese Laurent Fabius, e in forma diversa dalla collega della difesa tedesca Ursula von der Leyen, che propongono di utilizzare contro il Califfato anche le truppe dell’esercito siriano fino a ieri descritte come una banda di massacratori? Esistono, in entrambi i casi, forti giustificazioni e ancor più forti frustrazioni all’origine dei comportamenti europei. Dei 900.000 migranti che sono entrati quest’anno nella Ue, 600.000 lo hanno fatto attraverso la cosiddetta "rotta dei Balcani" che comincia in Grecia. E il rubinetto di questa rotta lo controllano i turchi, che ospitano già più di due milioni di migranti in massima parte rifugiati siriani e afghani. Ankara può trattenerli, abbandonarli al tentativo di attraversare l’Egeo, spingerli a farlo, trattarli bene o male. Si capisce perché l’Europa si è sentita una mano turca sul collo. Si capisce che gli europei siano pronti a concedere molto (tre miliardi di euro, abolizione dei visti tra un anno, accelerazione del negoziato di adesione) pur di scongiurare, nel 2017, una Francia guidata da Marine e Marion Le Pen, una Angela Merkel seriamente indebolita, un referendum britannico vinto dagli antieuropei. Per la Ue sarebbe l’inizio della fine. E dopotutto la Turchia non è un Paese alleato, un essenziale membro della Nato? Tutto vero, ma l’Europa si vuole comunità di valori, non soltanto di interessi. E allora è davvero lecito, in cambio di generiche promesse, infilare sotto il tappeto violazioni clamorose della libertà di stampa e morti misteriose di oppositori dediti alla difesa dei diritti umani? Può lavare tutto, la recente vittoria elettorale di Erdogan? E poi, come non ricordare la battuta che spopolava a Bruxelles quando il negoziato di adesione pareva congelato: se un elefante sale su una barca già in precario equilibrio può darsi che la stabilizzi, ma è più probabile che la barca affondi? Vedremo. Vedremo se come avviene di solito i migranti troveranno altre rotte, se quella via libica che molto ci tocca tornerà alla ribalta dopo esserne in parte uscita, insomma vedremo se lo scambio imposto dalle circostanze funzionerà. Per ora restano dubbi e cattiva coscienza. Una certa dose di disperazione è presente anche all’origine della sorprendente proposta del ministro Fabius. La maratona diplomatica compiuta da François Hollande, dietro le grandi e sincere manifestazioni di solidarietà, ha avuto risultati concreti molto limitati. Obama ha appena ritoccato la sua linea ben nota. L’apporto militare tedesco è stato "modesto", secondo Le Monde. A Mosca è andato tutto meglio, ma Putin, che aveva appena perso il suo aereo abbattuto dai turchi, ne ha approfittato per chiarire che non pensa più a fondere la sua offensiva aerea in Siria con quella della coalizione guidata dagli Usa. Si può sperare che l’incontro di ieri tra Putin e Obama ai margini del Cop21 produca qualcosa di nuovo, ma nel frattempo la stessa Francia non parla più di "grande coalizione" bensì soltanto di "coordinamento" nella lotta all’Isis, e i negoziati di Vienna sembrano appesi a un filo sottile. Non basta. Visto che tutti concordano sul fatto che le offensive aeree non riusciranno a sloggiare l’Isis dai territori e dalle città conquistate (oltretutto gli uomini del Califfato sono maestri nel nascondersi nei centri densamente abitati), e visto che a parere di tutti servono truppe di terra per raggiungere l’obbiettivo, quali sono le forze disponibili? I curdi, da soli o alleati ad arabi sunniti secondo una formula americana che trova non poche difficoltà, e le piccole formazioni di ribelli più o meno moderati. Non bastano. Per pensare ai turchi bisognerebbe imbarcarsi in una nuova serie di concessioni ad Ankara di cui farebbero le spese proprio i curdi. Dall’America sono ipotizzabili soltanto piccoli gruppi di incursori. Chi altro c’è su piazza? L’esercito regolare siriano, dice Fabius. Con Assad al comando? Soltanto se ci sarà un governo di transizione, rilancia la tedesca von der Leyen. E Fabius allora corregge: se ci sarà transizione, assicura, non comanderà più Assad. Forse. Ma il rifiuto sdegnato degli altri, che ne facciamo? E, soprattutto, le truppe si batterebbero per conto dei sunniti o degli sciiti oggi al potere a Damasco? Da Bruxelles e da Parigi vengono due forti segnali di impotenza e di confusione strategica. L’Isis ha di che esultare. E l’Italia ha di che sperare che sbaglino, i servizi americani, quando prevedono un parziale trasloco in Libia degli uomini del Califfato. Le donne musulmane in lotta per la libertà "oppresse dagli uomini, non dal Corano" di Goffredo Buccini e Alessandra Coppola Corriere della Sera, 1 dicembre 2015 Secondo un rapporto dell’antiterrorismo in Europa "sono il 10% dei foreign fighters". Ma da noi sono sempre più inserite nella società. Katkhouda: "Una delle mie figlie si è appena laureata al Politecnico, ingegnere. Si continua a parlare di queste ragazze per come si vestono, e non per come si comportano da cittadine italiane". Ma me la danno la lavatrice, da voi, in Siria? E me lo posso portare, laggiù, Adriano il gatto? Il lessico familiare, via Skype, di mamma Assunta con la sua balenga figliola Maria Giulia, divenuta Sorella Fatima nel Califfato, racconta molto della gran confusione mentale che ha indotto e induce una pattuglia di donne europee e, ormai, più d’una italiana, a ingrossare le file dell’Isis. Frustrazione e spaesamento, ingenuità ed esaltazione, talvolta soltanto desiderio di raggiungere qualcuno che si ama ed è già lì, a metà tra palingenesi globale e piccolo riscatto quotidiano. Un picco vistoso. Secondo un rapporto riservato dell’antiterrorismo sui foreign fighters e la loro area di reclutamento, "le donne sono circa il dieci per cento di chi ha lasciato l’Occidente: età tra i 16 e i 24 anni, molte laureate". E tuttavia la "Sorellanza" è assai poco rappresentativa di 644 mila musulmane d’Italia, soprattutto albanesi e maghrebine, in stragrande maggioranza inserite nella nostra società. Lo spazio vuoto. "Se sei interessata a una cintura esplosiva più che a un abito bianco o alle fantasie delle principesse di Disney, vieni da noi", promettono i propagandisti di al-Zawra, la scuola jihadista che da Raqqa offre corsi di cucina e legge islamica, di economia domestica, armi e social media a centinaia di giovanissime come Merieme Rehally, Sorella Rim nel mondo Twitter, la studentessa che a luglio ha lasciato Padova per arruolarsi nella logistica sotto le nere bandiere di Al Baghdadi. Nello spazio vuoto del relativismo, al tempo stesso frutto maturo e tallone d’Achille dell’Occidente, un messaggio che pretende di dividere il bene e il male con la spada può penetrare a fondo. L’antidoto, forse, è riempire quello spazio vuoto con la razionalità. Cercando di ascoltarle, le voci delle migliaia di musulmane attorno a noi. Al di là del velo, anche. "Qualcuno provi a mettersi un fazzoletto in testa e a cercare lavoro", scriveva provocatoriamente l’italo-giordana-palestinese Sumaya Abdel Qader: "Beh, le probabilità di riuscirci tendono allo zero!". Era il 2008 e, pioniera tra le seconde generazioni, Sumaya aveva creato il personaggio ironico di Sulinda, 30 anni. E nel romanzo autobiografico "Porto il velo, adoro i Queen" (Sonzogno) scherzava sull’hijab, che incornicia il viso, rivendicando la libertà di indossarlo: "Non ne possiamo proprio più del pregiudizio che le velate siano delle sfigate nascoste sotto una tenda. È vero, ci sono Paesi dove il velo è obbligatorio e le donne non se la passano certo bene, ma la colpa non è della religione, bensì del delirio di onnipotenza di certi uomini che, soffrendo di misoginia, si sfogano prendendosela con l’altra metà del cielo e inventandosi mille giustificazioni". Il velo e l’identità. Dunque il velo non è un simbolo di oppressione? "In Italia, come nel resto d’Europa e in generale nel mondo musulmano, è tornato al centro della sfera pubblica, frutto di una libera scelta", risponde Renata Pepicelli, docente alla Luiss e curatrice con Ivana Acocella di un recente volume del Mulino sulle giovani musulmane: "Soprattutto, sempre più donne di seconda generazione scelgono di indossarlo", spiega. "Dagli anni Novanta in poi si è assistito nel mondo a un revival religioso (non solo musulmano) in cui i simboli acquistano forza. E il velo è un simbolo per antonomasia". Diventa poi anche "bandiera per una comunità che si è sentita in blocco sotto attacco dopo l’11 settembre 2001", con una motivazione identitaria. Infine, si trasforma in vessillo politico, "in opposizione ai regimi del mondo islamico ritenuti illegittimi e dittatoriali, ma anche contro le spinte assimilazioniste in Europa", per esempio contro le regole francesi che l’hanno vietato a scuola. Questione d’orgoglio, allora. "Non direi però che si tratta di un ritorno", puntualizza Souheir Katkhouda, presidente dell’Associazione donne musulmane d’Italia: "Il velo è la continuazione della buona educazione proposta dalla famiglia, così come succede nelle famiglie cristiane. E sarebbe ora di andare oltre". Siriana di origine, 55 anni (gli ultimi quaranta dei quali a Milano), sette figli di cui 4 femmine, Katkhouda ha esperienza anche di seconde generazioni: "Una delle mie figlie si è appena laureata al Politecnico, ingegnere. Si continua a parlare di queste ragazze per come si vestono, e non per come si comportano da cittadine italiane di fede musulmana". Se nelle scuole e nelle università questa "stranezza" le sembra ormai superata ("per i loro compagni non c’è differenza") di nuovo "qualche problema resta nel cercare lavoro, perché la gente non è ancora abituata". Molte musulmane di seconda generazione sostengono che proprio il rifiuto dal lavoro, con conseguente impossibilità di indipendenza economica, le spinga di nuovo sotto padri, mariti, fratelli. Ma spesso la faccenda è più complessa. Se l’unica finestra è una tv. "Gli uomini sono preposti alle donne, a causa della preferenza che Allah concede agli uni rispetto alle altre", recita il Corano alla Sura IV ( An-Nisà, Le Donne), versetto 34. Naturalmente il cuore del problema starebbe nella sua contestualizzazione storica. Per i fondamentalisti il testo sacro è per definizione infallibile e metastorico. A "ricordarlo" alle ragazze occidentali dentro la "Sorellanza nel Califfato" ci sono due brigate, a Raqqa in Siria e ad al-Anbar in Iraq: la Umm al-Rayan e la al Khansa, che vigilano sulla "pubblica moralità". Da noi l’uso che i maschi fanno di questo concetto è talvolta criminale. L’omicidio della pakistana Hiina Salem, massacrata e sepolta nel 2006 dal padre con l’aiuto di alcuni parenti maschi, e quello della marocchina Saana Dafani, accoltellata dal padre nel 2009, hanno acceso un faro sulla condizione di giovani donne accusate dalle famiglie di avere comportamenti e frequentazioni troppo occidentali. Ma c’è chi sostiene sia ingiusto tirare in ballo l’Islam e più corretto prendersela con una cultura arcaica, con codici di comportamento derivati da remoti villaggi del Punjab o del Medio Atlante. Le caratteristiche della migrazione pachistana e bangladese in Italia, del resto, costringono spesso la donna a ruoli defilati, in alcuni casi ai limiti della segregazione. La prima generazione è guidata da uomini soli che partono per lo più da condizioni disagiate. Le mogli arrivano coi ricongiungimenti e di frequente restano in casa: non escono a lavorare, non imparano l’italiano, la loro unica finestra è la tv satellitare che trasmette in urdu o in bengalese. Tutt’altra storia con i figli che vanno a scuola e si "italianizzano", senza perdere però il retaggio familiare. Un peso soprattutto per le femmine, dall’adolescenza in poi: l’imposizione di abiti consoni, il matrimonio combinato con ragazzi dei villaggi d’origine, maggiori limitazioni rispetto alle coetanee. Uomini che odiano le donne. Le infibulazioni, non prescritte dalla religione islamica, sono state in Italia almeno 14 mila in dieci anni, fino alla legge che, nel 2006, le vietò. I non infrequenti casi di poligamia (prevista invece dal Corano alla Sura IV versetto 3) sono altra benzina sul fuoco. Luisa, vittima per 7 anni di suo marito Issam, sposato con un’altra donna in Egitto, ne descrive il cambiamento nei gesti e nelle parole, la progressiva "radicalizzazione a causa di frequentazioni sbagliate": "Mi diceva: se ci nasce una femmina e si veste come voi italiani, giuro che vi ammazzo tutte e due". "Noi" e "loro". Radici ed eredità. Fardelli che trascineremo per anni, logorandoci. Appare arduo attribuire a un testo, quale che sia, le colpe di chi probabilmente non ne ha mai letto alcuno e agisce per brutale incultura, per riflesso atavico, per mera ripetizione di modelli assimilati. E del resto solo chi soffre d’amnesia può azzardare rampogne. Fino a trentaquattro anni fa, il delitto d’onore consentiva a un marito italiano tradito di accoppare la moglie cavandosela con blande conseguenze. Fino a trecento anni fa, applicavamo alle streghe il Malleus Maleficarum, un "codice" di procedura penale vergato da due domenicani a fine Quattrocento. Quando questi nostri giorni di piombo saranno passati, non sarà male rammentarlo; ricordando a noi stessi che la storia ha per ciascuno un proprio passo. E riscoprendo, magari, la pietà dimenticata nel negare funerali cattolici in morte di mamma Assunta che, più della lavatrice o della guerra santa, sognava di poter vivere ancora un po’ accanto a sua figlia: si chiamasse Maria Giulia o Fatima. I musulmani di seconda generazione, tra identità e fascino dell’estremismo di Alessandra Coppola Corriere della Sera, 1 dicembre 2015 La tentazione che viene dall’integralismo. Ritratto di adolescenti che non simpatizzano con l’Isis ma che percepiscono il fascino perverso di quel mondo estremo. Un minuto di silenzio per le vittime di Parigi, lunedì 16 novembre, nelle scuole francesi, in molte classi d’Europa, e pure all’Istituto tecnico Daverio di Varese. Ma al momento in cui s’è deciso di stare zitti, alle 11 in punto, la discussione in una delle prime è appena cominciata, e gli studenti vorrebbero altre spiegazioni: "Perché fermarsi per la strage del 13 e non per tutte quelle precedenti?". Scocca l’ora, non c’è tempo per il dibattito, sette ragazzi su 27 allora escono dall’aula e celebrano una cerimonia appartata "per tutte le vittime del terrorismo", dal Bataclan all’aereo russo fino al centro commerciale alla periferia di Beirut, senza dimenticare le centinaia di migliaia di morti in quattro anni di guerra in Siria. Del gruppetto fa parte anche una ragazzina italiana, che si è unita alle compagne alla guida della protesta, adolescenti musulmane. L’età della rivolta. Per i meccanismi dell’informazione, spesso casuali, la notizia è arrivata da questa cittadella lombarda di 1.300 studenti e una lunga storia di progetti di integrazione, scambi internazionali, cineforum, teatro, decine di provenienze diverse e bene amalgamate. "Mai un episodio di discriminazione o di disagio", rivendica la preside, Nicoletta Pizzato. Ma non ci sarebbe da stupirsi se fosse accaduto anche altrove in Italia. Così come in Francia ci sono stati studenti che non hanno voluto cantare la marsigliese o ragazzi di banlieue che già dopo l’attentato di gennaio hanno ostentato: "Io non sono Charlie Hebdo". Pericolosi terroristi? No, adolescenti. Indisponenti, immaturi, arrabbiati, alle volte incoscienti, spesso innocui. Non simpatizzano con l’Isis, ma percepiscono la vertigine, il fascino perverso che arriva da quel mondo estremo. Poi qualcuno, ogni tanto, nella trappola del Califfato cade. Inviata nella scuola superiore londinese dalla quale son fuggite tre sedicenni per unirsi allo Stato Islamico, la giornalista del New York Times, Katrin Bennhold, scopre che queste studentesse "erano intelligenti, popolari, provenienti da un mondo in cui la ribellione adolescenziale si esprime attraverso una religiosità radicale che mette in questione tutto quello che le circonda. In questo mondo, la controcultura è conservatrice. Il velo è liberatorio. Le barbe sono sexy". "Erano le ragazze che vorresti essere", le dice una studentessa 14enne. E a chiedere alle coetanee musulmane chi sono i maschi più cool del circondario la risposta è: "I fratelli che pregano". Moda e rivolta. Su questo aspetto ha insistito anche il noto orientalista francese Olivier Roy: "I giovani non si ribellano contro la società a causa dell’Isis - ha spiegato al Corriere -. Si rivolgono all’Isis perché è l’unica causa radicale sul mercato". Il desiderio di sfasciare prevale nettamente sulla spinta religiosa. E a cercare chi ha armi, potere distruttivo e capacità d’azione si finisce da Al Baghdadi. Negli anni Settanta i foreign fighters sarebbero forse entrati nelle Brigate Rosse o nella banda Baader-Meinhof. L’offerta radicale. C’è un rischio di semplificazione, certo. Ma anche il celebre sociologo italiano Marzio Barbagli riconosce che "è importante l’offerta". E dunque "esiste un’ipotesi che persone male adattate si attacchino alla religione come elemento identitario", fino al radicalismo. Tra il piccolo rigurgito anti-sistema dei ragazzini e l’adesione al Califfato dei combattenti, naturalmente, il cammino è lungo. E all’estremo si contano solo pochi marginali casi. Gli studi di sociologia ormai negli ultimi trent’anni hanno documentato anche in Italia "un fondamentale processo di assimilazione", sottolinea Barbagli. Che vale, ovviamente, pure per i musulmani. Col passare dei decenni, la società si uniforma, e il Paese di arrivo "vince". Si pensi al tasso di fertilità: le prime immigrate partorivano più bambini della media, poi anche questo dato s’è adeguato ai numeri bassi dell’Europa. Per le seconde generazioni, però, riconosce Barbagli, si apre una questione specifica, che riguarda la loro condizione a metà tra il mondo dei genitori e quello del Paese in cui sono nati (o arrivati da piccoli). Che siano islamici o meno, la questione della ricerca dell’identità è più sentita rispetto ai padri. Perché la prima generazione deve affrontare problemi pratici e urgenti di sopravvivenza, lavorare, farsi accettare, non creare attriti. Ma anche perché per i genitori "il gruppo di riferimento è quello del Paese d’origine, ci si confronta nei successi coi propri pari, rimasti in patria; e rispetto a loro in genere si è soddisfatti", spiega il sociologo. La seconda generazione si cimenta invece coi coetanei dei Paesi d’arrivo, "e il livello di aspettative cresce". Assieme al rischio di frustrazione. La ricerca dell’identità. È una preoccupazione anche per i Giovani musulmani d’Italia che dalla loro fondazione, il 23 settembre 2001, neanche due settimane dopo le Torri Gemelle, si son dovuti confrontare con le derive estremiste (e il montare dei pregiudizi). Osama al Saghir, 32 anni, cresciuto a Roma oggi deputato a Tunisi, ha fatto parte del gruppo dei pionieri. "C’erano fino ad allora associazioni giovanili, ma mancava un progetto unitario. Il nostro intento era mettere assieme le forze e aiutare i coetanei a risolvere il problema identitario nel contesto in cui siamo cresciuti". Un Islam "equilibrato e integrato" è possibile, e in 15 anni ha dato risultati, sostiene: "Ragazzi salvati dalla microcriminalità, dalla droga e anche dal radicalismo". Nonostante gli ostacoli, "all’interno della comunità islamica, ma anche da parte dello Stato". Il ritardo nella riforma della legge di cittadinanza (ora passata alla Camera) ha complicato il lavoro di "recupero", sottolinea, alimentando il senso di estraneità e di diffidenza. Più attenzione alle frange marginali, propone, dove attingono i terroristi per la bassa manovalanza, e anche interventi di psicologi specializzati: "Perché il più delle volte si tratta di persone fragili, vulnerabili". Che con l’Islam c’entrano poco. Meno pregiudizi e generalizzazioni, aggiunge Imane Barmaki, milanese, che nella stessa stagione del 2001 partecipava alla creazione del supplemento della rivista Vita, oggi blog, Yalla Italia: "Dopo l’11 settembre l’immagine dei musulmani nei media era di uomini barbuti e donne velate. Noi vogliamo andare contro quello stereotipo. Siamo i vicini di casa, i compagni di scuola, i colleghi di ufficio". Poco appariscenti, a volte poco praticanti. "Quelli che non fanno notizia, perché siamo la normalità". E la netta maggioranza. Jihad, la guerra santa tra i diversi Islam di Maurizio Molinari La Stampa, 1 dicembre 2015 Dal nuovo libro di Maurizio Molinari: l’offensiva è in primo luogo un conflitto interno del mondo musulmano tra sunniti e sciiti e tra le opposte anime sunnite. Il testo che qui anticipiamo è tratto dall’introduzione a "Jihad. Guerra all’Occidente", il nuovo libro di Maurizio Molinari, in uscita venerdì da Rizzoli (pp. 252, € 18), aggiornato agli ultimi tragici attentati di Parigi. Grande esperto di questioni mediorientali, già autore, sempre per Rizzoli, di Il Califfato del terrore, Molinari è corrispondente da Gerusalemme per La Stampa (di cui assumerà la direzione dall’inizio del 2016). In questo libro disegna per la prima volta una mappa dettagliata del fenomeno jihadista, raccontando la galassia di gruppi, cellule e tribù rivali tra loro, ma accomunate dal disegno della guerra santa, che sono dislocate nei novemila chilometri tra Tangeri e Peshawar. Il volume sarà presentato domani a Roma, alle 18,30, presso la Residenza di Ripetta. Con l’autore, parteciperanno Lucia Annunziata e il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, moderatore Eric Jozsef C’è un legame diretto fra quanto sta avvenendo sul lato Sud del Mediterraneo e i pericoli per la nostra sicurezza collettiva. Il detonatore è il disegno apocalittico di Abu Bakr al-Baghdadi, attorno al quale ruotano le sfide fra due rivoluzioni islamiche, cinque potenze regionali di Medio Oriente e Nord Africa, dozzine di grandi clan tribali e una miriade di gruppi armati e sigle terroristiche in gara fra loro per ottenere il controllo di spazi strategici, risorse energetiche, vie di comunicazione, luoghi di culto e grandi città lungo un fronte di combattimento disseminato di micro-conflitti che si snoda senza interruzione dalle montagne dell’Afghanistan alle coste del Marocco, passando attraverso lo Stretto di Hormuz, il Corno d’Africa e il Sahel. È una guerra che divora gli Stati post-coloniali del Novecento: Siria, Iraq, Libia e Yemen hanno cessato di esistere perché non hanno più governi, parlamenti, amministrazioni pubbliche e confini condivisi; Libano, Giordania, Tunisia e Bahrein temono di subire la stessa sorte; i giganti regionali Turchia, Arabia Saudita, Egitto e Iran hanno l’incubo di frammentazioni mortali. Il conflitto fra sunniti e sciiti, incentrato sui territori appartenuti a Siria e Iraq, è l’asse portante di questa guerra, la proclamazione del Califfato ne è stata la miccia e il brutale terrorismo che ha generato attraversa il Mediterraneo, creando una situazione di instabilità endemica che spinge le potenze regionali rivali di Arabia Saudita, Iran, Turchia, Egitto, Emirati Arabi Uniti a voler imporre i propri interessi con ogni possibile mezzo, forza militare inclusa. I contendenti sono monarchi, sceicchi, generali, capi tribù, leader religiosi e spietati terroristi: nessuno di loro possiede una inequivocabile definizione di vittoria né appare al momento in grado di imporsi sugli altri. E nessuno di loro può sentirsi del tutto al sicuro. Il domino della frammentazione etnico-tribale è in fase di accelerazione, l’era della jihad si impone sulle macerie del nazionalismo arabo protagonista del secolo scorso fino al punto di minacciare l’unità di un Paese come la Turchia, pilastro dell’Alleanza atlantica. È uno scenario di precarietà tale da spingere tutti i leader, che guidino Stati o villaggi, a inseguire obiettivi tattici di breve termine, al fine di rafforzarsi a scapito di qualcun altro, nell’immediato e su terreni di scontro delimitati. È un modo di combattere che ripropone le faide tribali del deserto: scontri interminabili, alternati a tregue temporanee, con il tempo scandito da vendette e saccheggi al fine di sottomettere il nemico più vicino, alleandosi magari con i suoi avversari in una continua ridefinizione degli equilibri di forza a scapito delle popolazioni civili, vittime di violenze e povertà, obbligate a migrazioni massicce e disperate. È una stagione dell’anarchia segnata dall’impossibilità di un singolo contendente - o di una coalizione di forze - di prevalere in maniera decisiva sui rivali. A evidenziarlo sono le caratteristiche militari del conflitto: si combatte su più campi di battaglia, con patti che vengono siglati e violati nello spazio di un mattino, condottieri che si alternano, nemici che si trasformano in alleati e viceversa, il tutto sullo sfondo di odi atavici che si rinnovano. L’unico elemento comune è il richiamo alla jihad, la "guerra santa" dell’Islam come fonte di legittimazione di forze contrapposte, in lotta fra loro. A riemergere è l’identità tribale di una regione dove le potenze coloniali europee, dopo la Prima guerra mondiale, imposero la nascita di Stati arabi con confini artificiali che, un secolo dopo, appaiono fragili come un castello di carte. Nell’area fra Aleppo, Damasco, Hama e Homs, dove fino al 2011 si trovava il cuore della Repubblica di Siria, il conflitto è più aspro perché la posta in palio è strategica. L’Iran di Ali Khamenei, guida suprema della Repubblica Islamica, vuole mantenere in sella il regime alleato di Bashar Assad per consolidare il controllo di uno spazio geografico ininterrotto, da Baghdad a Beirut, che vede al governo leader alleati o assoggettati, e permette a Teheran di guidare una "mezzaluna sciita" di territori che dal Mare Arabico raggiunge il Mediterraneo mettendo una seria ipoteca sull’egemonia regionale. Tanto più che è l’unica nazione musulmana dell’area a poter vantare un programma nucleare legittimato dalla comunità internazionale. Proprio per questo il fronte sunnita è accomunato dalla volontà di abbattere Assad: vuole infrangere il progetto di Teheran, creare un cuneo fra la Mesopotamia e la costa libanese, e procedere all’eliminazione degli alleati dell’Iran. In attesa dell’esito della battaglia di Damasco, eserciti, milizie e tribù combattono su ogni fronte: dall’Iraq allo Yemen, dal Sinai alla Tunisia, dallo Stretto di Hormuz a Suez, dal Sahara alle spiagge del Mediterraneo. Non sempre si tratta di sunniti contro sciiti, perché c’è anche un conflitto interno fra sunniti: con gruppi rivoluzionari, soprattutto di matrice islamica, che vogliono abbattere i governi esistenti o impossessarsi di territori da dove esercitare nuove forme di potere e gestire traffici illeciti. Nato come scontro terrestre, questo conflitto multiforme si sta estendendo sul mare perché soldati e terroristi vedono nelle rotte sottocosta, in Libia come nel Sinai, nel Golfo come nel Mar Rosso, uno spazio di operazioni utile a moltiplicare azioni e profitti. Ponendo una minaccia diretta all’intera regione del Mar Mediterraneo. Ovvero anche alle coste dell’Italia. Origini, campi di battaglia, comandanti militari e leader rivali di questo conflitto ripropongono una riedizione contemporanea della contesa fra sciiti e sunniti per la guida dell’Islam che inizia all’indomani della scomparsa di Maometto nell’anno 632 e si sviluppa oggi in uno scontro fra opposti modelli di islamizzazione. È un conflitto di civiltà che si consuma all’interno del mondo musulmano e vede i maggiori contendenti puntare a unificare l’Islam sotto la propria egemonia, adoperando nei confronti del proprio nemico il termine takfiri - apostata - al fine di privarlo di legittimità, emarginarlo, sconfiggerlo e in ultima analisi eliminarlo. Avere tale grande guerra sull’uscio di casa significa per l’Europa doverla affrontare, perché il massacro di Parigi dimostra che può essere invasa e diventare il teatro di combattimento. Parigi, la guerriglia che non c’era di Marco Bascetta Il Manifesto, 1 dicembre 2015 Quella normalità della vita quotidiana da sacrificare per alimentare il bacino di "martiri" di Daesh. Il 29 novembre a Parigi non vi è stata alcuna "guerriglia urbana", ma uno scontro di assai modeste proporzioni tra un folto schieramento di polizia e un limitato numero di manifestanti. Trecento fermati, nessun ferito rendono alquanto evidente la natura e l’effettiva entità degli eventi. Il divieto di manifestare, contenuto nello stato di emergenza decretato dal presidente Hollande, è un invito irresistibile ad essere trasgredito. Per via pacifica, e comunque illegale, o scontrandosi con le forze di polizia. Entrambe le cose sono puntualmente accadute. C’è il precedente di Ankara, è vero, ma gli uomini dell’Is hanno dimostrato di poter scegliere tra innumerevoli concentrazioni di persone (mercati, chiese, locali pubblici, aerei, metropolitane, stadi) tra le quali seminare morte. Luoghi di quella normale vita quotidiana alla quale, tutti lo giurano, nessuno potrà costringerci a rinunciare. Ne consegue che la protesta di piazza contro le politiche nazionali o "globali" che siano, contrariamente allo shopping e alla frequentazione dei bistrot, non è considerata appartenere alla normalità della vita democratica, allo stile di vita squisitamente occidentale. Non è dunque una questione di sicurezza. O almeno non lo è in prima istanza. Si tratta piuttosto di quella pretesa di obbedienza e disciplina nazionale, di fiducia incondizionata nelle scelte di chi comanda che i governanti pretendono in caso di guerra o di altre emergenze imparentate più o meno legittimamente con questa parola. E non è questa l’ultima ragione per la quale si sono combattute e si combattono le guerre. Magari quando la popolarità di un presidente vacilla pericolosamente sul fronte politico interno. Come nel caso del pallido Hollande, ma anche di Angela Merkel che, incalzata da destra e da componenti del suo stesso partito per la politica sull’immigrazione cui ha ultimamente legato la sua immagine, si aggrega infine all’impresa siriana. L’obiettivo non rinviabile di distruggere Daesh è dunque inquinato e indebolito da un fitto intrico di interessi ed egoismi nazionali, tanto in patria quanto in Medio oriente. Quanto alla normalità della vita metropolitana in Occidente, anche su questo fronte non sembrano esserci solide garanzie. Bruxelles viene trasformata per diversi giorni in una città fantasma per fermare 21 persone, 19 delle quali saranno immediatamente rilasciate. Non si scoprono arsenali, né terroristi pronti a colpire, ma l’immagine della capitale d’Europa ridotta a spettrale teatro di guerra resterà a lungo nella memoria. Nessuno sarà chiamato a rendere conto di questa sproporzionata messa in scena o del buco nell’acqua. Ad Hannover, in Germania, viene evacuato uno stadio, messa in stato di assedio una stazione, la popolazione invitata a chiudersi in casa, ma non v’è traccia dell’ambulanza imbottita di tritolo di cui si era andato favoleggiando. Il governatore del Land assicura che non c’è alcun pericolo. Il ministro dell’interno mette in guardia da "altri attentati". Altri? Se non è il trionfo dell’Is è certamente quello della stupidità o, peggio, l’esordio di un nuovo stile di governo emergenziale. Per salvare la Libertà, ripetono innumerevoli commentatori, bisognerà pur rinunciare a qualche libertà, prima tra tutte quella di contestare il governo che ci protegge, che ci imbriglia "per il nostro bene". E, per meglio farlo, come è il caso di quello francese, mette anche mano alla Costituzione, introducendovi strumenti di sospensione dei diritti democratici, che potrebbero presto finire in mani assai poco delicate quali quelle del Front National. Confidiamo nell’impegno preso dal governo italiano di non seguire questa strada. Se per qualche banale incidente, magari lo zelo repubblicano di un flic, dovesse riesplodere la rivolta nelle banlieus, potremmo tornare ad assistere alle orribili scene dell’ottobre 1961 quando decine e decine di algerini (forse addirittura 300) furono assassinati e gettati nella Senna. Anche allora c’era una guerra. E attentati contro le forze di polizia. E stato di emergenza. Ma Daesh non si interessa alle rivolte metropolitane. È nel bacino della frustrazione e dell’impotenza che recluta i suoi "martiri". Nel bacino delle manifestazioni proibite e delle cospirazioni silenziose. La Ue cede a Erdogan di Leo Lancari Il Manifesto, 1 dicembre 2015 I profughi spaventano Bruxelles più di Daesh. Ad Ankara tre miliardi di euro, liberalizzazione dei visti e ripresa del processo di adesione per non farli partire. "L’accordo non ci farà dimenticare le divergenze sui diritti umani e la libertà di stampa. Ci torneremo in futuro" spiega il presidente della commissione europea Jean Claude Juncker, rimandando così a un domani indefinito quello che l’Unione europea non è sta capace di fare ieri. Passano gli anni ma l’atteggiamento europeo nei confronti dei migranti è sempre lo stesso: pagare i regimi di turno perché se li tengano impedendogli di arrivare fino a noi. L’Italia lo fece nel 2008 con la Libia di Gheddafi, Bruxelles si ripete oggi con la Turchia di Rayyip Erdogan. L’accordo siglato domenica scorsa a altro non è infatti che questo: il cedimento senza condizioni alle richieste di Ankara, mascherato a parole soltanto da qualche dichiarazione in cui si promettono controlli sul rispetto dei diritti umani da parte del sultano. Eppure alla vigilia del vertic di domenica sulla crisi dei migranti, all’Unione era arrivata la lettera aperta inviata dal carcere da Can Dundar e Erdem Gul, direttore e caporedattore del giornale di opposizione Cumhuriyet arrestati per aver documentato i traffici di armi della Turchia con l’Isis. Lettera in cui i due giornalisti chiedevano a Bruxelles di non dare credito a Erdogan e soprattutto di non girare la testa di fronte alla continua violazione dei diritti umani e della libertà di stampa nel paese. Come non detto, anzi come non ricevuto. L’ipocrisia e la realpolitik hanno avuto la meglio sui quei diritti sui quali l’Ue pure dice di essere fondata e per i quali mette sotto esame i paesi che chiedono di entrare a farne parte. Come, per l’appunto, la Turchia. Invece così non è stato, a ulteriore dimostrazione di come chi fugge dalla guerre e dalle violenze, ma anche dalla miseria, spaventa più dei tagliagole di Daesh. Pur di mettere fine agli arrivi dei profughi Bruxelles promette di pagare 3 miliardi di euro ad Ankara per la gestione dei campi profughi. Doveva essere una cifra definitiva ma il premier turco Davutoglu, a Bruxelles al posto di Erdogan, ha strappato invece l’impegno a trasformarla in una somma "iniziale", lasciando presumere altri stanziamenti. Ma Ankara ha strappato un impegno anche per quanto riguarda la liberalizzazione dei visti entro ottobre 2016 e per una ripresa del processo di adesione all’Unione europea con l’apertura, entro il 14 dicembre, del capitolo 17 relativo alle questioni economiche e monetarie. In cambio la Turchia, oltre a impedire ai 2 milioni e mezzo di profughi siriani già presenti all’interno dei suoi confini di partire alla volta dell’Europa, faciliterà i rimpatri dei migranti economici passati attraverso il suo confine. Se Bruxelles non ha fatto altre concessioni ad Erdogan si deve probabilmente solo all’opposizione di Cipro. È stato deciso che il 15 dicembre la Commissione Ue presenterà un primo rapporto sul mantenimento degli impegni assunti e sulla gestione delle frontiere. Va detto che se Ankara non è affidabile, anche l’Unione europea fa la sua parte. Specie per quanto riguarda i soldi. Dei 3 miliardi promessi ad Ankara, infatti, solo 500 milioni arriveranno dal budget 2016-2017 della Commissione, tutti gli altri saranno a carico dei paesi membri, Molti dei quali a pagare non ci pensano neppure. Cipro, Grecia, Croazia e Ungheria hanno già detto che non tireranno fuori un euro e anche altre capitali storcono la bocca al solo sentir pronunciare il verbo "pagare". Italia compresa che, stando alla tabelle preparate dalla Commissione dovrà versare 281 milioni di euro. Gli altri contributi, calcolati sulla base del reddito nazionale lordo, sono: 534 milioni dalla Germania, 409,5 dalla Gran Bretagna, 386,5 dalla Francia, 191 dalla Spagna e 117,3 dall’Olanda. Sulla carta i pagamenti dovranno essere effettuati il prossimo 21 dicembre, contestualmente alla presentazione da parte degli Stati dei piani con le eventuali rateizzazioni. Per oggi infine è previsto da parte della commissione Libertà civili il voto su due proposte di legge riguardanti l’immigrazione: una su un meccanismo permanente e vincolante di ripartizione delle quote dei rifugiati e richiedenti asilo e una per la redazione di una lista di paesi sicuri per il rimpatrio dei migranti che non hanno diritto alla protezione internazionale. Svizzera: doveva essere espulso, detenuto marocchino si suicida in cella tio.ch, 1 dicembre 2015 L’uomo, un 42enne di nazionalità marocchina, si trovava nella prigione dell’aeroporto di Zurigo in attesa di essere estradato. Un detenuto 42enne è stato trovato morto stamani nella sua cella all’aeroporto di Zurigo. Tutti gli elementi del caso fanno pensare a un suicidio, ha indicato il dipartimento di giustizia. L’uomo, di nazionalità marocchina, si trovava in prigione in attesa di espulsione. Stando a una portavoce in precedenza non aveva mostrato segnali che facessero pensare che avrebbe potuto togliersi la vita. L’uomo era ospitato in una cella singola.