Aprire laiche vie di misericordia, anche in carcere di Andrea Orlando (Ministro della Giustizia) Avvenire, 18 dicembre 2015 Il Messaggio del Pontefice per la 49° Giornata Mondiale della Pace, reso noto subito dopo l’apertura del Giubileo della misericordia, contiene molteplici motivi di riflessione che mi auguro possano essere accolti e sviluppati anche nel dibattito pubblico del nostro Paese, da laici e cattolici insieme sulle tematiche dell’ambiente, dei diritti, della solidarietà, di una più ricca comprensione della persona umana. Qui provo a raccoglierne uno, in particolare, che mi sollecita nella mia responsabilità di ministro della Giustizia, nella quale sono entrato avendo specialmente a cuore la situazione carceraria. Considero infatti uno dei punti qualificanti dell’azione svolta in questi mesi la riduzione del degradante e intollerabile sovraffollamento delle carceri italiane, che ci aveva portato troppe volte, come Paese, davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Oggi la presenza dei detenuti negli istituti penitenziari è sostanzialmente in linea con la capienza: è un risultato importante, perché la disponibilità di spazi vivibili e decorosi è la prima condizione affinché si renda dignitosa la difficile condizione della detenzione. Sappiamo però che non basta. Sappiamo che la nostra Costituzione chiede che la pena non abbia natura semplicemente afflittiva, ma sia rivolta all’educazione del condannato. Per questo ho promosso gli "Stati generali dell’esecuzione penale" con lo scopo di avviare un ripensamento complessivo della detenzione e di superare l’impostazione carcero-centrica del nostro attuale sistema. Proviamo così a rimediare alla profonda ferita inferta al tessuto dei diritti del nostro ordinamento democratico, e al senso di umanità, da condizioni carcerarie lontane non solo dagli standard europei, come si è soliti dire, ma da quelli che noi stessi ci siamo dati con la Costituzione e, successivamente, con la riforma penitenziaria del 1975. Resta dunque molto ancora da fare sia per sviluppare pene alternative alla detenzione che per migliorare i meccanismi che regolano la vita negli istituti di pena, incrementando le attività trattamentali, favorendo il mantenimento delle relazioni familiari, agevolando il reinserimento sociale. Il punto decisivo consiste però nel fare in modo che la privazione della libertà non comporti una reclusione senza porte né finestre, priva cioè di aperture e di scambi con il mondo esterno. Questo infatti ci fa uomini: avere la possibilità di partecipare alla costruzione di un mondo pubblico comune o, come dice il Papa, alla famiglia umana. La condizione della detenzione limita necessariamente questa possibilità, ma non deve impedirla del tutto né deve instillare nel detenuto la convinzione che sia per sempre perduto quell’orizzonte più ampio di vita, a cui ciascun uomo ha diritto. Quando questo succede, non si esce mai veramente dal carcere e infine, da recidivi, si finisce col ritornarci. E finché il tasso di recidività rimarrà in Italia il più alto di Europa, non potremo certo andar fieri dello stato della detenzione nel nostro Paese. Caro direttore, quando penso alla condizione carceraria, mi ricordo di quel paradosso contenuto in una celebre affermazione, che fece molto discutere, di un grande teologo cattolico, Hans Urs von Balthasar, secondo la quale l’inferno esiste, ma potrebbe essere vuoto. La riporto male, e mi scuso se non entro, per mia incompetenza, in complesse questioni teologiche. Certo non intendo banalizzare un punto di dottrina fondamentale, al quale è peraltro legata tanta parte del senso umano della giustizia. Ma nell’anno del Giubileo della misericordia non posso non ricordare come le molte parole di speranza e di misericordia depositate nella nostra tradizione religiosa consentivano al teologo svizzero di formulare almeno la domanda, o forse la preghiera, che vi sia per tutti una possibilità. Ora, io penso allo stesso modo che, anche nelle cose umane non possa mai venir meno il momento del giudizio e della giusta pena, ma che esiste pure una forma laica di misericordia, che consiste nel riconoscere la dignità umana sempre, anche là dove essa sembra non esserci, o si nasconde. Se è così, allora le nostre carceri non si vuoteranno forse mai, ma per tutti rimarrà possibile guardare oltre i ristretti orizzonti del carcere, e sperare di lasciare un giorno, dietro di sé, un luogo vuoto. "Nessuno tocchi Caino" a congresso di Sergio D’Elia (Segretario di "Nessuno Tocchi Caino") L’Unità, 18 dicembre 2015 Si apre oggi nel carcere di Opera a Milano il VI Congresso dell’associazione Nessuno tocchi Caino all’insegna di "Spes contra spem", in riferimento al passaggio dell’Apostolo Paolo di Tarso sull’incrollabile fede di Abramo che "ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli". Per noi non è solo un titolo, è un progetto, è nello stesso tempo metodo e merito, forma e sostanza, mezzo e fine, obiettivo della nostra lotta politica. Poniamo al centro del dibattito congressuale le iniziative giurisdizionali, politiche e culturali, volte al superamento delle pene ultimative, senza speranza, come la pena di morte e l’ergastolo ostativo, oltre che dei trattamenti disumani e degradanti come l’isolamento nelle carceri di massima sicurezza. Il carcere di Opera è tra quelli con la più alta concentrazione di ergastolani i quali parteciperanno al Congresso con loro testimonianze. Saranno presenti e interverranno anche il Capo dell’Amministrazione penitenziaria Santi Consolo, il Presidente emerito della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick, Emma Bonino, Marco Pannella, Rita Bernardini, Benedetto Della Vedova, Elisabetta Zamparutti, oltre a giuristi, avvocati, parlamentari, giornalisti e operatori penitenziari. Quello del carcere può essere un luogo e un tempo in cui ci si può perdere per sempre, ma può essere anche il luogo e il tempo in cui è possibile ritrovarsi e salvarsi per sempre, rinascere a nuova vita. In questi giorni, in preparazione di questo Congresso, abbiamo incontrato e dialogato molto nel carcere di Opera con condannati all’ergastolo, uomini a cui, negata per legge la speranza con un "fine pena mai", hanno deciso di incarnarla, di essere fonte di un processo attivo di cambiamento. Nonostante l’evidenza del contesto interno in cui vivono e del contesto esterno apparentemente e, in certi casi, davvero ostile, dimostrano di aver capito il senso delle parole di Ghandi: "Siate voi stessi il cambiamento che volete vedere nel mondo", che occorre operare sempre prefigurando nell’oggi il domani che si vuole realizzare. A dispetto del "fine pena: mai" dell’ergastolo ostativo, un marchio indelebile che vuoi dire "tu non cambierai mai", a molti di loro invece è accaduto e accade di cambiare. Quando, nel 1993, abbiamo fondato la nostra associazione, ispirati dal passo della Genesi, abbiamo deciso di denominarla Nessuno Tocchi Caino, proprio per affermare il valore, non solo della vita, ma anche della dignità della persona nella sua integralità. Gli obiettivi del Congresso sono gli stessi di Papa Francesco, che ha definito l’ergastolo come "una pena di morte mascherata", che dovrebbe essere abolita insieme alla pena capitale e ha considerato l’isolamento nelle cosiddette "prigioni di massima sicurezza" come "una forma di tortura". Tali obiettivi sono stati ribaditi alcuni giorni fa da Papa Francesco nel suo messaggio per la quarantanovesima Giornata Mondiale della Pace - da noi accolto come un augurio di buon lavoro per il nostro Congresso, un messaggio non solo contro la pena di morte, non solo a favore di misure concrete per migliorare le condizioni di vita nelle carceri, ma anche per un’amnistia. Nessuno tocchi Caino riconosce e si riconosce nel valore prodigioso delle parole di Papa Francesco, essenziali e fonte di ispirazione per chi intende impegnarsi in iniziative concrete, sempre più necessarie e urgenti, per volgere al superamento definitivo di punizioni inumane e degradanti, di trattamenti crudeli e anacronistici. Certo, nei confronti di Caino che molti pensano se li sia meritati, ma che - a ben vedere - condannano uno Stato che li pratica a diventare esso stesso Caino. Il fantasma di Montesquieu, tra sentenze creative e crisi dello Stato di diritto di Francesco D’Agostino Avvenire, 18 dicembre 2015 Fino all’avvento della modernità la funzione giurisdizionale è sempre stata ritenuta intrinsecamente connessa all’esercizio del potere politico. Il buon sovrano era qualificato tale soprattutto quando veniva considerato un giusto giudice, come nei famosi esempi di Salomone o di Traiano (che, ci ricorda Dante, arrivò a rimandare la partenza per la guerra per rendere prima giustizia a una povera vedova). Poi, agli inizi dell’epoca moderna, matura e si impone, grazie all’opera di Montesquieu, la dottrina della separazione dei poteri: da allora ci siamo abituati a pensare che governanti e legislatori non possano fare i giudici e che i giudici non possano fare le leggi, ma solo applicarle, né emanare decreti politicamente vincolanti, sottraendone la potestà ai governanti. Le Costituzioni moderne hanno tutte recepito questa dottrina e tale ne è stato il successo che abbiamo lentamente perso la consapevolezza della sua fragilità e delle intrinseche - e a volte insuperabili - difficoltà che ad essa si riconnettono, tutte riconducibili al fatto che il potere, ogni potere, tende per sua natura a andare al di là dei suoi legittimi limiti. La teoria di Montesquieu, infatti, auspica, ma non garantisce l’effettività della divisione dei poteri: così come abbiamo numerosi esempi di prevaricazione del potere esecutivo nei confronti del potere legislativo e giudiziario, ben conosciamo ad esempio quanto spesso il potere legislativo intervenga (più o meno subdolamente) per istituire magistrature speciali. Né possiamo nasconderci le grandi responsabilità del potere giudiziario quando, facendo violenza ai criteri che regolano l’interpretazione delle leggi, opera di fatto o per svuotarle di senso, rendendole di fatto inapplicabili, o per potenziarne la valenza molto al di là dell’intenzione del legislatore che le ha emanate. Sono molti anni che in Italia non si assiste a una reale prevaricazione del potere legislativo e del potere esecutivo nei confronti del potere giudiziario: ci sono stati casi anche preoccupanti, che sono però rimasti marginali e sono stati facilmente riassorbiti. Si stanno invece moltiplicando, con notevole velocità, le prevaricazioni della magistratura nei confronti degli altri poteri e almeno su due piani diversi. Il primo è quello della delegittimazione morale che producono quegli interventi della magistratura (inquirente, ma anche giudicante), che in forza di una spesso precoce e totale mediatizzazione invece di garantire la presunzione di innocenza (dell’indagato, dell’imputato e perfino del condannato con sentenza ancora non definitiva) attivano nell’opinione pubblica plateali e ingiuste dinamiche di presunzione di colpevolezza, stroncando molto spesso l’immagine degli inquisiti (che sono il più delle volte, ma non esclusivamente, uomini politici, per il quali l’immagine è quanto di più prezioso possa esserci). Il secondo piano è ancora più grave: è quello dello stravolgimento a opera di magistrati di norme a forte rilevanza etica. Di questo stravolgimento si è resa diverse volte responsabile la stessa Corte Costituzionale, da ultimo amputando grossolanamente molti articoli della legge sulla procreazione medicalmente assistita e non rispettando, quindi, gli orientamenti bioetici emergenti da questa legge, orientamenti discutibili quanto si vuole, ma di esclusiva competenza parlamentare. Né si dimostra da meno la magistratura ordinaria, che sta di fatto riconoscendo effetti giuridici in Italia a pratiche di maternità surrogata realizzate in altri Paesi, ma proibite dalla nostra legge e ben lontane dal nostro senso comune, e sta moltiplicando sentenze che arbitrariamente alterano la categoria dell’adozione, dando così un indiretto, forte rilievo alla coniugalità omosessuale, che il nostro ordinamento non riconosce. In buona sostanza una parte molto attiva e determinata della magistratura pretende ormai di essere la vera rappresentante dell’autentica coscienza etica del Paese e procede ormai per sentenze creative. Tra i risultati perversi di questa pretesa c’è una vera e propria intimidazione del Parlamento, che anziché varare, quando necessario, leggi a forte contenuto etico, chiedendosi come esse poi verranno interpretate (e quindi alterate) dalle sentenze dei giudici, prende tempo e ne rimanda l’approvazione. La sensazione di sconforto che emerge da questo stato di cose è altissima, soprattutto da parte di coloro - e noi tra questi - che credono ancora allo Stato di diritto e alla separazione dei poteri. Consulta, l’intesa scuote la base M5S di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 18 dicembre 2015 Malumori dopo l’elezione dei tre giudici con il Pd. Ma Di Battista sgombra il campo: restano il male. I tre giudici della Corte costituzionale mancanti, dopo 31 fumate nere, ora ci sono. Ma la nomina di Augusto Barbera di area Pd, di Franco Modugno voluto dal Movimento Cinque Stelle, e di Giulio Prosperetti vicino ai centristi, lascia strascichi politici non indifferenti. Con Forza Italia che - esclusa dall’accordo e orfana del suo candidato Francesco Paolo Sisto - grida "all’inaffidabilità" politica del presidente del Consiglio e la Lega che accusa Beppe Grillo di essere "la stampella di Renzi". Ma le prove tecniche di accordo tra il Pd e il M5S generano preoccupazioni anche sulla Rete. Grillo rivendica dal suo blog: "Due volte si è ricorso al metodo Cinque stelle e due volte si è raggiunto l’obiettivo. Mentre le altre 30 volte si sono buttati via i soldi dei cittadini". I militanti, però, si interrogano se il "patto" con i democratici non sia un vero e proprio inciucio. Mentre la sinistra del Pd sfida il Movimento ad andare oltre. E trovare convergenze anche su altro: a partire dalla legge sulle unioni civili. Alessandro Di Battista rasserena gli uni e gli altri: "Il Partito democratico per noi è ancora il male politico, la causa principale del disastro di questo Paese. Sull’elezione dei giudici siamo riusciti a portare sul nostro terreno anche il Pd. Volevano eleggere un indagato, l’avvocato di Silvio Berlusconi e Denis Verdini. Grazie a noi la Corte costituzionale ha tre giudici assolutamente degni". E ancora: "Abbiamo già votato il ddl Cirinnà sulle unioni civili in Commissione. Se vengono presentati provvedimenti validi, siamo sempre pronti a votarli. Ma qui ci fermiamo". D’altra parte, anche nel voto in Aula, sarebbe mancata una ventina di voti M5S perché alcuni senatori e deputati hanno ritenuto Barbera troppo legato al premier. Ma è soprattutto il metodo che non è piaciuto ad alcuni militanti. Come Salvatore Leonangeli, che scrive: "È grave e rattrista" il fatto che non ci sia stata una votazione online. "Tanti bla, bla, bla e poi accordi, inciuci e delle banche nessuno parla. Anzi il M5S tiene bocca cucita! Mai più voterò!", aggiunge Giorgio Da Ros. Posizioni estreme, ma la Lega, con Roberto Calderoli, soffia sul fuoco: "I grillini chiedono alla Rete anche per scegliere i piatti del menù e poi, quando c’è da fare una vera consultazione ecco che i cittadini non ci sono più". E rincara: "Con l’inciucio, il M5S si è portato a casa un giudice costituzionale ma, così facendo, ha salvato il governo Renzi e impedito al Paese di tornare al voto". A rintuzzare le accuse lo stesso premier, Matteo Renzi, al Tg5: "Bisogna capire se ci sono ancora i moderati nel centrodestra. Più che discutere dei posti, si mettano d’accordo: se non scelgono la linea demagogica ed estremista di urlare contro tutti, siamo sempre pronti ad avere un dialogo, restando in alternativa". I grillini non brindano a Barbera di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 18 dicembre 2015 Consulta. Imbarazzo tra i 5 Stelle per l’appoggio al giudice schierato con Renzi. Obiettivo Italicum: la Corte costituzionale è già cambiata in sei componenti su quindici rispetto a quella che stroncò il Porcellum. È stata giocata fino in fondo come una questione di potere, dunque alla fine chi ha vinto e chi ha perso nella partita dell’elezione dei giudici costituzionali? L’accordo tra Renzi e il Movimento 5 Stelle - che ha consentito mercoledì sera di eleggere i tre giudici della Corte che mancavano da diciotto, undici e cinque mesi - non è una novità assoluta né per quanto riguarda la Consulta (i grillini parteciparono un anno fa all’elezione della giudice Sciarra) né in generale se si pensa alla legge sugli eco-reati e al primo passaggio delle unioni civili. Ogni volta si parla di una possibile maggioranza alternativa, ogni volta per non più di 48 ore. Questa volta, però, per arrivare all’accordo che ha sbloccato la Consulta - che era ridotta a 12 giudici, praticamente alla soglia del minimo legale - i 5 Stelle hanno dovuto fare un clamoroso passo indietro. E votare per quell’Augusto Barbera che avevano pubblicamente bocciato, persino sul blog, tre settimane fa. Non tutti i deputati e senatori grillini l’hanno votato, e del resto nelle assemblee solo la metà dei parlamentari si era espressa in favore dell’accordo sponsorizzato da Casaleggio. Barbera è risultato alla fine il meno votato, ha superato il quorum di appena dieci voti e ne ha raccolti 28 in meno rispetto candidato grillino. Quel professor Franco Modugno sul quale il Pd aveva immediatamente espresso il suo gradimento. Il voto è segreto e si può solo immaginare una silenziosa sedizione grillina. Assai più probabile del mal di pancia della minoranza bersaniana nel Pd, che nelle prime votazioni aveva mosso assai più voti. E che in fondo in questo modo può festeggiare l’apertura del "canale" con i 5 Stelle, vecchia idea di Bersani, immaginando di riproporla nel passaggio finale della legge sulle unioni civili. Il giorno dopo, ieri, era evidente l’imbarazzo dei 5 Stelle. Sul blog erano spariti gli attacchi a Barbera, definito pochi giorni fa un "uomo di partito" chiaramente scelto per favorire "un accordo di spartizione con Forza Italia" (che invece è stata esclusa). Il costituzionalista bolognese non era nemmeno nominato, piuttosto sul sito di Grillo si esaltava il "metodo 5 stelle" che avrebbe consentito di mettere in sicurezza la Corte e interrompere lo spreco di risorse pubbliche dovuto al protrarsi delle votazioni. Ma se avessero votato Barbera dall’inizio, anche senza votare il forzista Sisto, due nuovi giudici costituzionali su tre sarebbero in servizio da ormai tre settimane. Anche l’argomento usato ieri dal vicepresidente della camera Di Maio per giustificare il mancato ricorso alla consultazione della rete sui giudici da votare - "non c’era tempo" - è poco convincente. Visto che i nomi di Barbera e Modugno sono in campo da tantissimo tempo e almeno su quelli si poteva ben consultare la "base", volendo. Le molte critiche pubblicate ieri sul blog di Grillo testimoniano che si è trattato di un passaggio discutibile, non certo di una chiara vittoria. Chi invece è convinto di aver vinto è il presidente del Consiglio. Che ha impegnato il parlamento in un braccio di ferro lunghissimo pur di evitare la nomina di giudici poco graditi. L’impasse si stava protraendo troppo a lungo, fino a che "Renzi fa eleggere i tre giudici" - come festeggiava ieri in apertura La Stampa. E chi sia stato a non farli eleggere per un anno e mezzo non si sa. Mentre il segretario dei radicali italiani Riccardo Magi fa notare la stranezza di aver eletto nella Corte costituzionale un giudice (d’appello) della corte del vaticano - il cattolico Prosperetti - la lettura dei fatti che ieri andavano proponendo i renziani aiuta a chiarire chi sia stato il vero vincitore. "Se Barbera non fosse passato neanche questa volta - spiegava una fonte vicina al premier - difficilmente avremmo potuto continuare a sostenerlo". I 5 Stelle hanno consentito l’elezione in extremis di un giudice apertamente schierato in favore delle riforme del governo. La legge elettorale è la prima che certamente andrà davanti alla Consulta - ce la porteranno i tribunali che da gennaio cominceranno a discutere i ricorsi, i parlamentari di minoranza dopo l’approvazione della riforma costituzionale, o i cittadini con il referendum. È vero che l’Italicum ricalca molti dei difetti per i quali era stato dichiarato incostituzionale il Porcellum, ma il collegio che lo giudicherà è già cambiato in sei giudici su quindici rispetto a quello che bocciò le liste bloccate e il super premio di maggioranza. E, anche grazie alle ultime nomine, Renzi può non essere pessimista. "Ti taglieremo la testa", minacce in arabo al ministro Orlando di Luigi Frasca Il Tempo, 18 dicembre 2015 "Entreremo a Roma e ti taglieremo la testa. Allah è grande" Firmato Isis. È questo il testo, scritto in un arabo approssimativo, di una lettera recapitata nelle scorse settimane al ministero della Giustizia di via Arenula e indirizzata al titolare del dicastero Andrea Orlando. Nel plico, anche due proiettili di un fucile mitragliatore AK47 "Kalashnikov". La Procura di Roma ha aperto un fascicolo sul caso anche se per il momento si resta abbastanza cauti sui possibili autori del gesto. Tanto le modalità che l’utilizzo errato della lingua araba fanno dubitare che dietro le minacce al Guardasigilli si celi realmente lo Stato Islamico, che per i suoi "avvisi" sceglie solitamente modalità mediaticamente più d’impatto. In ogni caso al ministro della Giustizia sono arrivati numerosi attestati di solidarietà bipartisan, a partire da quello della presidente della Camera Laura Boldrini: "Le minacce non fermeranno l’impegno di Orlando contro il terrorismo". Dal Partito Democratico hanno parlato i due vicesegretari Lorenzo Guerini e Deborah Serracchiani: "Esprimiamo a nome nostro e di tutto il Partito democratico la vicinanza e solidarietà ad Andrea Orlando per il grave e preoccupante atto intimidatorio di cui è stato fatto oggetto. Si tratta di un gesto inquietante e sul quale è necessario che venga fatta al più presto luce". Mentre dall’opposizione è giunta la voce del governatore ligure Giovanni Toti di Forza Italia: "Voglio esprimere la mia solidarietà ad Andrea Orlando per le vili minacce che ha ricevuto. Siamo certi che il suo lavoro non si fermerà di fronte a queste intimidazioni". In serata dalla propria pagina Facebook lo stesso ministro ha ringraziato tutti gli esponenti che gli avevano espresso vicinanza: "Grazie alle tante persone, ai colleghi, ai tanti parlamentari e amici, ai moltissimi cittadini che in queste ore mi hanno trasmesso la loro solidarietà - ha scritto Orlando - Fa davvero piacere sentire questo calore e affetto". "Un ringraziamento particolare - ha continuato il Guardasigilli - lo devo alle persone che ogni giorno si occupano della mia sicurezza con sacrificio e dedizione, gli agenti della polizia penitenziaria che mi stanno accanto quotidianamente. Il nostro dovere è battere il terrorismo, difendendo i principi di libertà e uguaglianza che sono alla base della nostra convivenza civile. Non saranno queste minacce a fermarci, chi vuole seminare paura non raggiungerà il suo scopo. Non reagiremo chiudendoci, ma continuando a dialogare e a confrontarci". Orlando: le minacce non ci fermeranno, batteremo il terrorismo (Askanews) "Non saranno queste minacce a fermarci, chi vuole seminare paura non raggiungerà il suo scopo. Non reagiremo chiudendoci, ma continuando a dialogare e a confrontarci". Lo scrive su Facebook il ministro della Giustizia Andrea Orlando, in merito alla busta a lui indirizzata contenente un messaggio con minacce di morte scritte in arabo e due proiettili di kalashnikov. "Grazie alle tante persone, ai colleghi, ai tanti parlamentari e amici, ai moltissimi cittadini che in queste ore mi hanno trasmesso la loro solidarietà. Fa davvero piacere sentire questo calore e affetto. Un ringraziamento particolare - prosegue Orlando - lo devo alle persone che ogni giorno si occupano della mia sicurezza con sacrificio e dedizione, gli agenti della polizia penitenziaria che mi stanno accanto quotidianamente. Il nostro dovere è battere il terrorismo, difendendo i principi di libertà e uguaglianza che sono alla base della nostra convivenza civile", conclude il Guardasigilli. Giusto processo per i minorenni, ecco le nuove regole dell’Europa di Barbara Carbone Il Messaggero, 18 dicembre 2015 Nuove regole a tutela dei minori in caso di processo. Le ha approvate il Parlamento Europeo, d’intesa con il Consiglio e la Commissione Europea, dando il via libera al testo della Direttiva sul giusto processo minorile. Si tratta di una sorta di catalogo delle garanzie procedurali minime e indispensabili quando ad essere imputato o indagato è un minore. Soddisfatta la relatrice del progetto di legge e primo negoziatore per conto della Commissione Europarlamentare Libe (Giustizia), l’onorevole Caterina Chinnici (S&D) che parla di "una svolta sul piano del diritto e dei diritti, un atto di enorme maturità". Il provvedimento interessa, secondo le stime rese note dal Parlamento Europeo, circa un milione di minori che, ogni anno, entra in contatto con le forze di polizia o con gli organi giurisdizionali. Parliamo del 12% dell’intera popolazione dell’Unione europea che si imbatte nella giustizia penale. Tra i punti principali del testo molte garanzie già recepite dal sistema italiano: l’obbligo di assistenza legale al minore in tutte le fasi del procedimento, una valutazione individuale dello stesso che tenga conto del suo vissuto e della sua personalità, la detenzione separata tra minorenni e adulti, l’assistenza medica e la formazione specialistica dei magistrati che operano nel settore della giustizia minorile. Un approccio, culturale e giuridico, decisamente nuovi per molti Paesi Europei. Secondo la relatrice Chinnici, la novità più importante di questo provvedimento "riguarda il principio dell’assistenza legale obbligatoria ai minori penalmente imputati o indagati. In alcuni Stati membri - spiega - l’intervento del difensore non era previsto in tutte le fasi del procedimento. Il testo attua il principio secondo cui l’interesse del minore deve sempre essere al centro del sistema di giustizia minorile". Nel testo si affronta anche la parte delle misure cautelari e la riabilitazione, perché "il procedimento penale minorile - dice ancora Chinnici - non può prescindere da un attento esame della personalità del minore, dalla sua condizione familiare, sociale ed economica. Servono una serie di elementi utili - aggiunge - per capire, ad esempio, quale grado di consapevolezza del reato il minore abbia avuto, quale misura cautelare sia più opportuna e quali siano le prospettive di rieducazione". Tutti aspetti che garantiscono un giusto processo, che, secondo la relatrice del provvedimento, si realizza "quando si raggiunge l’equilibrio tra la necessità di accertare i fatti di reato e le relative responsabilità con quella di tenere nella dovuta considerazione le vulnerabilità e gli specifici bisogni dei minori". Caso Cucchi, la svolta nelle parole dei Carabinieri di Roberto Saviano L’Espresso, 18 dicembre 2015 Il comunicato del Comandante dell’Arma è uno spartiacque. E dà la certezza che i responsabili di reati, anche se in divisa, non saranno più protetti. Caso Cucchi. Caso aperto. Di nuovo. Grazie alle persone coinvolte, alla loro tenacia e al loro senso della giustizia. Ilaria Cucchi e Fabio Anselmo, rispettivamente sorella di Stefano e avvocato della famiglia Cucchi. Da quando Stefano è stato arrestato per detenzione e spaccio di stupefacenti, da quando Stefano è morto, non hanno mai smesso di avere fiducia nella possibilità di trovare un percorso di verità. Non hanno mai smesso di dialogare con le istituzioni. Non hanno smesso di spiegare le loro ragioni. Non hanno mai smesso di coinvolgere l’opinione pubblica perché prendesse coscienza che non si può morire quando ci si trova in custodia dello Stato. Il Procuratore della Repubblica di Roma Giuseppe Pignatone, uomo di Stato, che ha saputo ascoltare e tradurre in azioni le promesse fatte, avviando un’inchiesta bis per appurare cosa sia accaduto a Stefano Cucchi dopo l’arresto nella stazione Appia dei Carabinieri di Roma. E poi l’Arma dei Carabinieri che ha diffuso un comunicato stampa che è un documento rivoluzionario. Notizia epocale percepita troppo in superficie sino ad oggi come la volontà di difendersi in extremis da una valanga indiscriminata di accuse. Non credo sia cosi, io ci leggo altro. "È una vicenda estremamente grave. Grave il fatto che alcuni Carabinieri abbiano potuto perdere il controllo e picchiare una persona arrestata secondo legge per aver commesso un reato, che non l’abbiano poi riferito, che altri abbiano saputo e non abbiano sentito il dovere di segnalarlo subito, che questo non sia stato appurato da chi ha fatto a suo tempo le dovute verifiche, se tutto questo sarà accertato. Grave il fatto che queste cose possano emergere soltanto a partire da oltre sei anni dopo, nonostante un processo penale celebrato in tutti i suoi gradi". Con queste parole, il Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri Tullio De Sette, non esprime un pensiero alieno agli appartenenti all’Arma - io vivo sotto scorta dei carabinieri da quasi dieci anni e so cosa provano quando atti di violenza commessi da loro colleghi gettano discredito sul loro intero lavoro - ma mette tutto per iscritto, fornendo un nuovo statuto che funge da spartiacque dentro la lunga e complessa storia dell’Arma. Non potrà più esistere sindacato o associazione che difenda chi ha sbagliato, perché l’Arma lo isolerà. Questo documento non prova a nascondere le responsabilità dietro i soliti argomenti, ossia le condizioni difficili in cui operano le forze dell’ordine, i pochi soldi, le pressioni, il contesto. Argomentazioni spese spesso per cercare una sorta di comprensione verso gesti criminali che, benché vietati e sanzionati, poi in fondo sono giustificati dalla situazione particolare del singolo uomo in divisa. In questo documento invece non si cerca né di giustificare né di difendere comportamenti sbagliati. Ecco le parole esatte dei Carabinieri: "Siamo rattristati e commossi dalla triste vicenda umana di Stefano Cucchi, prima e dopo quel 15 ottobre 2009, addolorati delle sue sofferenze, della sua morte, quali che siano le cause che abbiano concorso a determinarla, vicini ai suoi familiari". Perché Stefano Cucchi da soggetto penalmente perseguibile è diventato vittima, e su questo non può esserci alcun dubbio. Che nessuno si azzardi più a chiamarlo tossico, drogato, spacciatore. Che nessuno metta più in relazione la sua morte ai motivi dell’arresto. Tra l’arresto e la morte non doveva esserci alcuna relazione, alcun rapporto di causa ed effetto. Nel nostro Paese non vige la pena di morte. E ancora: "Rispetto, perciò, per tutto questo e determinazione nel ricercare la verità, nel perseguire quelli che potranno risultare responsabili di reati, di condotte censurabili sotto ogni profilo". Rispetto, determinazione nel cercare la verità e nel perseguire chi avrà commesso reati: parole importanti che marcano una direzione che non è nuova in passato anche si è agito così in situazioni simili, ma che ora non può essere più equivocata o elusa. Ma che con la vicenda Cucchi è importante ribadire. Se la nuova perizia medico-legale chiesta dalla Procura di Roma dovesse accertare che Cucchi nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009 ha subito violenza, le parole del Comandante Del Sette e questo documento ci danno sin da ora la certezza che le mele marce saranno allontanate senza tentativi di protezione, rompendo l’istinto corporativo. A tutela della dignità di un Corpo che è spesso unico Stato dove lo Stato non c’è. Un "libro sospeso" per i detenuti di Cinzia Arena Avvenire, 18 dicembre 2015 Un "libro sospeso" destinato a chi non può entrare in una libreria e sceglierlo perché sta scontando una pena detentiva. Un piccolo gesto di solidarietà che in questo periodo di feste diventa ancora più importante. Donare qualche ora di evasione, di speranza, di conoscenza ad una persona sconosciuta. L’idea è venuta ad alcuni librai di Roma e Milano che si sono ispirati all’abitudine napoletana del caffè sospeso, vale a dire quella di lasciare un caffè pagato al prossimo cliente di un bar. Da ottobre quando è partito, questo originale progetto ne ha fatta di strada. Riuscendo a coinvolgere anche numerose case editrici. L’obiettivo è quello di arricchire le biblioteche delle carceri, spesso assai povere e con titoli datati, con testi scelti direttamente dai lettori e dagli stessi detenuti. In base alle loro segnalazioni infatti, è stata compilata una lista che i librai hanno a disposizione e dalla quale i donatori possono scegliere nel caso non avessero preferenze personali. "La lettura può svolgere un ruolo importante per chi deve vivere rinchiuso per anni" spiega Massimiliano Timpano, della libreria Fanucci di Piazza Madama a Roma. L’iniziativa sta avendo un discreto successo e le richieste di adesioni, da Nord a Sud si moltiplicano. In una settimana la libreria di piazza Madama ha già riempito quattro scatoloni di volumi di ogni genere. E tutto lascia immaginare che il numero di donazioni aumenterà nei prossimi giorni. Imputato al riesame solo su richiesta di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 18 dicembre 2015 Corte di cassazione - Sentenza 49882 del 17 dicembre 2015. La partecipazione dell’imputato all’udienza sul riesame della misura cautelare è condizionata alla presentazione di una richiesta specifica. La Cassazione con la prima pronuncia sul punto chiarisce una delle novità della riforma della carcerazione preventiva in vigore dallo scorso 8 maggio. La sentenza, la n. 49882 della Prima sezione, depositata ha così respinto il ricorso di un imputato, sottoposto a custodia cautelare per il reato di detenzione illegale di armi. Il tribunale del riesame di Brescia nel confermare la misura presa dal Gip di Bergamo aveva sottolineato come la riforma da una parte ha riconosciuto la un diritto di partecipazione identico per ogni indagato, senza differenze determinate dal luogo della detenzione come invece avveniva in precedenza, ma, dall’altra, ha risolto ogni incertezza sulla tempestività della richiesta attraverso la previsione che la domanda stessa deve passare attraverso l’istanza di riesame del provvedimento cautelare. Un lettura adesso avallata dalla Cassazione che puntualizza che la legge n. 47 del 2015 ha così voluto ancorare il diritto dell’indagato detenuto a comparire all’udienza a un dato oggettivo certo e non discutibile (che non presta tra l’altro il fianco a possibili tattiche dilatorie) come l’inserimento della richiesta di partecipazione nell’istanza di revisione della misura cautelare sottoscritta o dal diretto interessato oppure dal suo difensore. Si tratta di una scelta che, nella lettura della Cassazione, non comprime i diritti della difesa: non si può dimenticare infatti, ricorda la sentenza, che l’indagato solo pochi giorni prima dell’udienza di riesame ha già avuto modo di esporre compiutamente le sue ragioni in sede di interrogatorio di garanzia, "atto quest’ultimo dalla natura eminentemente difensiva, in quanto volto a consentire all’indiziato di fare presenti le circostanze adducibili a suo favore (sotto il profilo indiziario e cautelare), così da obbligare il giudice ad un controllo successivo della tenuta delle valutazioni operate ex ante, a fronte degli argomenti emersi in quella sede". Allora, visto l’esiguo scarto di tempo tra interrogatorio e udienza di riesame, la presenza dell’indagato assume una "minore pregnanza" in chiave difensiva, sia perché è affidata alla sua volontà, sia perché sempre alla sua volontà è lasciata la facoltà di rendere dichiarazioni spontanee in udienza, sia perché queste ultime non possono verosimilmente che ricalcare quelle rese in sede di interrogatorio. Del resto, la richiesta dell’indagato è necessaria anche per il rinvio della data di svolgimento dell’udienza stessa. Respinta dalla Cassazione poi anche la tesi difensiva per la quale l’imputato che non ha presentato domanda deve comunque essere ascoltato dal magistrato di sorveglianza nel caso sia detenuto in un circondario esterno a quello del tribunale competente. Dopo la riforma, ammettere una possibilità di questo genere assumerebbe i connotati di una rimessione in termini a favore dell’indagato detenuto fuori circondario. Inammissibilità della condanna dell’Ufficio del Pm alle spese di giudizio Il Sole 24 Ore, 18 dicembre 2015 Spese giudiziali civili - Pubblico ministero - Condanna alle spese - Inammissibilità. L’ufficio del P.M. non può essere condannato al pagamento delle spese del giudizio nell’ipotesi di soccombenza, trattandosi di organo propulsore dell’attività giurisdizionale cui sono attribuiti poteri, diversi da quelli svolti dalle parti, meramente processuali ed esercitati per dovere d’ufficio e nell’interesse pubblico. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 2 ottobre 2015 n. 19711. Spese giudiziali civili - Pubblico ministero - Condanna alle spese - Inammissibilità. L’ufficio del P.M. non può essere destinatario di condanna alle spese del giudizio in caso di soccombenza. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 7 ottobre 2011 n. 20652. Spese giudiziali civili - Pubblico ministero - Condanna alle spese - Inammissibilità - Fondamento. Con riguardo ai procedimenti in cui è parte, l’ufficio del P.M. non può essere condannato al pagamento delle spese del giudizio nell’ipotesi di soccombenza, trattandosi di un organo propulsore dell’attività giurisdizionale, che ha la funzione di garantire la corretta applicazione della legge, con poteri meramente processuali, diversi da quelli svolti dalle parti, esercitati per dovere di ufficio e nell’interesse pubblico. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 17 febbraio 2010 n. 3824. Pubblico ministero in materia civile - Vittoria nelle spese - Inammissibilità. L’ufficio del pubblico ministero così come non può sostenere l’onere delle spese del giudizio nell’ipotesi di soccombenza non può neppure essere destinatario di una pronuncia attributiva della rifusione delle spese quando risulti soccombente uno dei suoi contraddittori. • Corte cassazione, sezioni Unite, sentenza 12 marzo 2004 n. 5165. Pubblico ministero in materia civile - Condanna nelle spese - Inammissibilità. L’ufficio del pubblico ministero non può sostenere l’onere delle spese del giudizio nell’ipotesi di soccombenza. • Corte cassazione, sezioni Unite, sentenza 17 luglio 2003 n. 11191. Roma: "Progetto diritti in carcere" dell’Università Roma Tre cinquew.it, 18 dicembre 2015 Gli studenti dell’Università degli Studi Roma Tre al lavoro a tutto campo per i detenuti di Roma grazie al "Progetto diritti in carcere", progetto all’avanguardia promosso dal professor Marco Ruotolo e realizzato dal Dipartimento di Giurisprudenza. "Le azioni che Roma Tre realizza nelle carceri romane sono diverse e articolate", spiega il rettore Mario Panizza. "Ad oggi i detenuti iscritti ai corsi di laurea sono 28. Lo studio e la conoscenza sono fattori fondamentali nel percorso di riabilitazione del detenuto". "Il nostro ateneo ha siglato una convenzione con il Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria del Lazio e con il Garante regionale dei diritti dei detenuti per favorire lo studio universitario dei detenuti stessi", aggiunge il professor Marco Ruotolo, membro del Comitato di esperti degli "Stati generali sull’esecuzione penale". "Al contempo, i nostri studenti sono i protagonisti di una speciale collaborazione con i loro colleghi in carcere". Ecco per punti come si sta realizzando il "Progetto diritti in carcere" di Roma Tre a Regina Coeli e a Rebibbia. L’ateneo tiene conto della particolare posizione dello studente detenuto agevolando l’accesso agli studi universitari con esonero dal pagamento dei relativi contributi. È in fase di realizzazione un progetto che consentirà l’uso di Skype per lo svolgimento di attività di assistenza agli studenti detenuti nel percorso di preparazione del singolo esame e che, in particolari circostanze, potrebbe essere utilizzato per le prove di profitto. Il Dipartimento di Giurisprudenza ha già sperimentato un’originale formula di tutoraggio da parte di propri studenti "senior" svolta a favore degli studenti detenuti. In base a specifica convenzione con l’Istituto di Rebibbia Nuovo Complesso, gli studenti "senior" si recano in carcere per offrire il proprio aiuto ai detenuti iscritti ai corsi di laurea in Giurisprudenza e per questa attività possono chiedere il riconoscimento di crediti formativi soprannumerari, che non concorrono cioè al computo dei crediti necessari per il conseguimento del titolo, ma che vengono regolarmente certificati ed entrano quindi nel curriculum dello studente e futuro laureato. La risposta degli studenti è molto positiva e si intende sperimentare l’ampliamento dell’iniziativa ad altri corsi di laurea dell’ateneo. Dall’anno accademico 2012/2013 è attivo nel Dipartimento di Giurisprudenza l’insegnamento "Diritti dei detenuti e Costituzione" (docente Marco Ruotolo), che ha visto l’iscrizione, in un triennio, di circa 500 studenti, i quali hanno tra l’altro partecipato alle visite negli istituti penitenziari di Rebibbia Nuovo Complesso e di Regina Coeli. Dall’anno accademico 2014/2015 è stato attivato uno sportello legale ("Clinica legale") nel carcere di Regina Coeli. Ventisei studenti, selezionati tra i circa cento partecipanti alla terza edizione dell’attività formativa di cui sopra, hanno potuto partecipare a questa iniziativa, affidata a Marco Ruotolo e Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone, con il compito di affiancare i tutor (neo-laureati, dottorandi, dottori di ricerca, esperti) in quest’attività di consulenza per i detenuti. Lo sportello di "legal aid" è stato realizzato in base ad accordo tra il Dipartimento di Giurisprudenza, l’Associazione Antigone e la Direzione del carcere romano di Regina Coeli. Lo sportello ha iniziato a operare il 18 febbraio 2015 e fino al maggio dello stesso anno sono stati ascoltati circa 150 detenuti. (Il sito della Clinica legale è http://www.dirittiincarcere.it). Dall’anno accademico 2015/2016 le due attività ("Diritti dei detenuti e Costituzione" e "Sportello legale di Regina Coeli") sono confluite in un unico insegnamento da 7 crediti, denominato "Diritti dei detenuti e Costituzione - Sportello legale nelle carceri". A una parte teorica si affianca pertanto un’attività pratica, nello spirito dell’"imparare facendo".L’attività di sportello legale sarà estesa nel prossimo futuro anche ad altri Istituti di Roma e del Lazio. Il crescente interesse verso il tema dei diritti dei detenuti ha concorso alla decisione di istituire nel 2013 un Master di II livello in "Diritto penitenziario e Costituzione", diretto dal prof. Marco Ruotolo, che in un biennio ha avuto ben 160 iscritti. I corsisti provengono da tutta Italia e oltre la metà degli stessi appartiene ai diversi ruoli dell’Amministrazione penitenziaria. Il Master si svolge in collaborazione con il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e in particolare con l’Istituto superiore di studi penitenziari. Il corso propone un approccio multidisciplinare rispetto al tema dell’esecuzione della pena attraverso il coinvolgimento di docenti di diversa provenienza (professori universitari, dirigenti e operatori penitenziari, magistrati, esponenti di culture straniere, ecc.), al fine di permettere l’acquisizione delle varie conoscenze connesse alle professionalità penitenziarie. Sono ben 70 i docenti che partecipano al Master, tra i quali i Professori Gustavo Zagrebelsky, Giovanni Maria Flick, Guido Neppi Modona, Valerio Onida, Gaetano Silvestri, Luigi Ferrajoli, Franco Modugno, Glauco Giostra, Mauro Palma, Paolo Benvenuti. (Per le iniziative promosse dal Master e l’articolazione del corso www.dirittopenitenziarioecostituzione.it). Infine, con il patrocinio dell’ateneo Roma Tre, le Associazioni "Antigone" e "Progetto Diritti" hanno costituito la polisportiva Atletico Diritti, creando una squadra di calcio, composta da studenti universitari, da immigrati e da detenuti (qui il servizio della trasmissione Dribbling di Rai 2 sulla squadra), che, dalla stagione 2014-2015, è iscritta al campionato di terza categoria. All’esperienza di Atletico Diritti è stato dedicato il film documentario "Frammenti di libertà" del regista Alessandro Marinelli che sarà presentato il 21 dicembre nell’Aula Magna del Rettorato con Demetrio Albertini (ex calciatore) e Nicolò Zanon (giudice costituzionale). Firenze: nel carcere di Sollicciano il corso di "scrittura d’evasione" gonews.it, 18 dicembre 2015 Al via il prossimo 26 gennaio 2016, nella sezione maschile del carcere di Sollicciano, il laboratorio di scrittura creativa "Scrittura d’evasione", promosso e organizzato da Arci Firenze e coordinato dalla scrittrice fiorentina Monica Sarsini. I corsi si svolgeranno nella scuola della sezione maschile della casa circondariale di Sollicciano, ogni martedì a partire dal 26 gennaio, dalle 16 alle 18, per un totale di 20 incontri e sarà possibile partecipare a tutto il corso oppure solo ad alcuni incontri, in base alla disponibilità e agli interessi. Il numero massimo di partecipanti è di 15 detenuti e 15 esterni. Dopo diverse edizioni realizzate nella sezione femminile del penitenziario fiorentino, che hanno portato alla pubblicazione di due volumi di racconti, il laboratorio si apre anche alla sezione maschile con una novità. "Non sarà rivolto solo ai detenuti ma accoglierà anche iscritti dall’esterno, diventando così, oltre ad un’occasione di formazione, anche un’opportunità straordinaria per entrare in relazione con il mondo esterno in maniera positiva e propositiva", ha sottolineato Monica Sarsini, animatrice del laboratorio che sarà da lei condotto insieme a scrittori, giornalisti e docenti universitari. "Il progetto - ha spiegato Valentina Giovannetti, responsabile di Arci Firenze per le politiche sociali - è costituito da cinque moduli inter-dipendenti: dopo il corso di scrittura creativa, i detenuti parteciperanno con le loro opere a un concorso letterario dedicato, cui farà seguito la pubblicazione di un volume e letture pubbliche, oltre a una serie di trasmissioni radiofoniche realizzate in collaborazione con Novaradio", emittente di Arci Firenze. "Quest’iniziativa si pone perfettamente in linea con l’obiettivo di aprire il carcere alla città e di trasformare l’istituto in un luogo ove si possano realizzare progetti ed eventi proiettati anche all’esterno", ha evidenziato la direttrice del carcere, Mariagrazia Giampiccolo. Il laboratorio, presentato oggi al Comitato di Firenze di Arci, ha già circa quindici detenuti iscritti e fino al 31 dicembre sono aperte le iscrizioni per gli aspiranti scrittori esterni alla struttura. Monza: messa in prova degli imputati, ma nessuno li vuole di Stefania Totaro Il Giorno, 18 dicembre 2015 I Comuni non aprono alla messa in prova degli imputati. A un anno e mezzo dall’entrata in vigore della riforma penale della messa in prova, il Tribunale di Monza cerca ancora Enti che si offrano per firmare una convenzione per accogliere le persone che decidono di fornire il loro lavoro gratuito per evitare la condanna penale. La riforma, diventata operativa nell’estate del 2014, prevede che, per i reati punibili con una pena fino a 4 anni di reclusione (come ad esempio i reati minori di droga, i reati contro il patrimonio), che rappresentano circa il 40% del totale dei fascicoli penali, l’imputato possa chiedere la messa in prova come quella già presente per i minori stabilendo un programma di interventi da seguire. Il giudice, se ritiene il programma fattibile, deve quindi sospendere il processo e se la messa in prova funziona, cancella il processo ed estingue il reato commesso dall’imputato. Un sistema, ideato per svuotare le carceri sempre affollate (un centinaio le messe in prova partite al Tribunale di Monza su 785 fino al 31 agosto scorso nell’intero distretto della Corte di Appello di Milano) che stenta a decollare proprio perché non esistono convenzioni e strutture a cui destinare gli interessati. I Comuni e gli altri Enti brianzoli, che dopo qualche perplessità hanno ceduto ai lavori socialmente utili per gli imputati di reati di guida senza patente o sotto l’effetto di sostanze alcoliche, sarebbero bloccati dall’idea di avere a che fare con imputati di reati più socialmente rilevanti. Invece le richieste continuano ad aumentare (nell’intero distretto in cui rientra il Tribunale di Monza sono state circa 4.500), tanto che il Tribunale di Monza ha deciso di stilare un vademecum sulla messa in prova insieme agli avvocati dell’Ordine di Monza, della Camera penale di Monza e dell’Ufficio esecuzioni penali di Milano e Lodi (che in soli 40 addetti devono fare fronte alla mole di lavoro), che è stato presentato nel convegno tenutosi il 12 novembre scorso al Teatro Binario 7 di Monza proprio nel tentativo di sponsorizzare la firma di convenzioni da parte degli Enti pubblici del territorio. Il gruppo di lavoro ha deciso di anticipare la fase della richiesta della messa in prova, che verrà presentata al giudice invece del programma già predisposto come si faceva inizialmente, in modo da accelerare i tempi della sospensione del procedimento penale per gli imputati interessati. Il vademecum prevede inoltre una classifica di fasce di durata della messa in prova sulla base dei reati commessi: si parte da 15 giorni a 1 mese per le contravvenzioni punite con la sola ammenda a un massimo di 18 mesi per i reati più gravi. Reggio Emilia: dietro le sbarre diventa bibliotecario e scrittore di Roberto Fontanili Gazzetta di Reggio, 18 dicembre 2015 Presentato il libro di Milan Mazic, in carcere alla Pulce dal 2008: "Scrivendo faccio i conti con me". Se le parole non sono pietre sufficienti per abbattere i muri, possono però esserlo per rompere tabù, pregiudizi e i luoghi comuni di chi vive fuori. Fuori dalla gabbia. Ed è quello che ha provato a fare Milan Mazic, detenuto dal 2008 a Reggio, con i suoi racconti nati all’interno della sua cella alla Pulce e raccolti nel libro "Anche questo è un uomo. Dialoghi e racconti dal carcere a microfoni spenti". Mazic, nato in Serbia nel 1953, in un carcere italiano è già tornato una seconda volta e da quando è a Reggio ha avuto modo di intraprendere una sua personale strada di riflessione su quanto abbia fatto della sua vita che l’ha portato a capire, come scrive nel libro, "che dal meglio della vita ha tratto il peggio e oggi da quel peggio deve trarre il meglio". Nel frattempo Mazic è diventato bibliotecario del carcere e animatore del gruppo teatrale e del gruppo di detenuti che hanno partecipato al corso di lettura che si è tenuto nei mesi scorsi alla Pulce ed ha compiuto un lungo percorso sfociato nel libro che mette in discussione convinzioni radicate, pregiudizi, luoghi comuni in chi il carcere lo vive dall’esterno e che è stato presentato ieri in Comune. Una serie di racconti che parlano anche con ironia della vita del carcere e di come i reclusi vedano la vita all’esterno attraverso le sbarre e racconta dei loro rimpianti, della loro nostalgia, della difficoltà di rapporti interpersonali tra chi è costretto a convivere in pochi metri quadrati e la loro presentazione è stata l’occasione per un dialogo a più voci a cui hanno partecipato assieme all’autore il vice sindaco Matteo Sassi, il direttore degli istituti di pena di Reggio Paolo Madonna e Marco Ruini di Anemos. Il presidente dell’ associazione culturale che ha interamente finanziato il progetto e che spera con il ricavato dalla vendita del libro di poter sostenere nuove iniziative sociali e culturali da svolgere alla Pulce. "Occorre guardare oltre questa singola esperienza - ha affermato il direttore degli istituti di pena reggiani Paolo Madonna - perché il carcere è una questione che riguarda tutti noi. Un luogo in cui in tutti i detenuti vivono momenti di dolore, rabbia e a tratti di disperazione, ma sullo sfondo c’è sempre la speranza. Così come per avere un carcere migliore è indispensabile la collaborazione con il territorio e la società". Un concetto che lo stesso Marco Ruini di Anemos ha ampliato, sottolineando che "se nel frattempo i manicomi si sono cambiati, altrettanto non si può dire per il carcere. Dove chi vi è rinchiuso dopo un mese si sente una vittima, anche se ha commesso delitti efferati". Una conferma di quanto lo stesso Mazic scrive nel libro: "È molto raro imbattersi in un recluso con sensi di colpa a causa del reato compiuto. Perlomeno io non l’ho incontrato". Mazic non assolve e non fa sconti né a chi è dentro né a chi è fuori e non parla di colpa e di espiazione. Di se stesso dice solamente "che lo scrivere è stata la conclusione del mio percorso". Pescara: diventa un docufilm il progetto che coinvolge bambini e detenuti di Daniela Palmierion cityrumors.it, 18 dicembre 2015 È diventato un docufilm il lavoro progettuale "La città in coro", che ha previsto una serie di concerti con i bambini delle scuole elementari socialmente a rischio, i detenuti della Casa circondariale di San Donato e l’associazione Scuolacantora del maestro Andrea Zappone, promotrice del progetto. I concerti, andati in scena da maggio 2014 a maggio 2015, con un lavoro di montaggio delle riprese eseguito da Peter Ranalli, operatore cinematografico, è diventato "Un ponte di note", film documentario che attraverso le immagini dell’impegno profuso da bambini, detenuti e componenti della Scuolacantora racconta il back stage dello scorso concerto di Natale, organizzato all’Autitorium Flaiano e contemporaneamente scava nella vita dei ragazzi della Casa circondariale, raccontandone la quotidianità. Sarà proiettato sabato 19 Dicembre alle ore 11:00 nella sala multimediale della Europe Direct dell’Aurum il docufilm presentato in conferenza stampa dal sindaco, Marco Alessandrini; dall’assessore regionale al Sociale, Marinella Sclocco; dall’assessore alle Politiche comunitarie, Laura Di Pietro; dall’assessore alle Politiche sociali, Giuliano Diodati; dal coordinatore del progetto, Andrea Zappone; dal direttore della Casa circondariale, Franco Pettinelli; dalle preside del Comprensivo Pescara I, Marialuisa Sasso; dal regista del corto, Peter Ranalli; dalla direttrice della Europe Direct, Paola Fiorini. Il progetto "La Città in coro" nasce dalla collaborazione tra Comune e associazione Scuolacantora ed è stato finanziato con i fondi regionali Fas 2007/2013, per una spesa progettuale complessiva di 60 mila euro. Chieti: è già Natale nel carcere di Madonna del Freddo di Francesco Rapino cityrumors.it, 18 dicembre 2015 Sono iniziati il 14 dicembre 2015 gli eventi natalizi della Casa Circondariale di Chieti dove, come tutti gli anni, il Direttore dott.ssa Giuseppina Ruggero, come sempre coadiuvato dal Comandante della Polizia Penitenziaria dott.ssa Alessandra Costantini e, per l’Area Educativa, dalla dott.ssa Annamaria Raciti, ha voluto offrire ai detenuti ed al personale un ampio ventaglio di iniziative solidali e distensive. Il 14 dicembre 2015 le associazioni culturali Sacro e Profano e Capolinea 2 hanno portato in scena, nella sala teatro dell’Istituto, la Commedia "La case de repose (o è nu manecomie?)", scritta da Franco Mammarella (anche regista), che ha donato un gradito momento ricreativo a tutti gli ospiti dell’Istituto. Il 17 dicembre 2015 la tradizionale Festa del Personale che consente di ospitare i bambini delle Comunità "Vita e Sorriso" ed "Arcobaleno", gestite dalle Suore Vincenziane, Figlie della Carità, i quali - in una festa tutta dedicata alla solidarietà - ricevono regali da un Babbo Natale "speciale" e particolarmente appassionato alla giustizia, perché "Poliziotto". Questo momento di accoglienza coinvolge sia il personale, in primis gli organizzatori operativi Ruggero D’Intino e Roberto Di Renzo, sia le detenute e i detenuti, che hanno preparato addobbi, doni, pensieri per i bambini. Il 21 dicembre 2015, alle ore 20:00, la cena di Natale per tutte le detenute e i detenuti, con la partecipazione delle Autorità e dei volontari penitenziari che hanno concretamente cooperato alla sua realizzazione, prestando le proprie risorse ed il proprio tempo libero. La serata sarà allietata dal noto complesso musicale La Bruja (Peppe Millanta, Marco Vignali, Fausto Della Torre), che per il secondo anno consecutivo offre ai nostri ospiti la propria disponibilità a titolo gratuito. Ugualmente generoso il ristoratore Luciano Basilicata che, insieme alla ditta Euro Ponteggi di Francavilla Al Mare, collabora alla preparazione della cena. Una spettacolare torta è offerta dal Soroptimist International Club di Chieti con cui sono in corso più ampie intese e che sarà anche presente con una folta rappresentanza di ospiti, così come l’Ass.ne Voci Di Dentro Onlus, sempre vicina alla nostra utenza. Trattasi dunque di un momento solidale corale, in cui gli utenti di questa Casa Circondariale possono sperimentare la vicinanza della società esterna e superare quel pericoloso atteggiamento di "auto esclusione" tante volte dovuto al timore d’essere rifiutati o comunque etichettati. Il 25 dicembre 2015, alle ore 9:00, l’Arcivescovo Monsignor Bruno Forte, particolarmente prossimo a coloro che soffrono nella situazione penitenziaria, celebra nel carcere la SS. Messa per il personale e per i detenuti anche alla presenza del Sindaco, Avv. Umberto Di Primio, del Magistrato di Sorveglianza dott.ssa Maria Rosaria Parruti, delle Autorità che vorranno intervenire e di una folta rappresentanza della Caritas Diocesana e della Comunità Papa Giovanni XXIII. Pesaro: successo per la rassegna nazionale di "Destini Incrociati" II edizione viverepesaro.it, 18 dicembre 2015 Successo per la II edizione di Destini Incrociati, Rassegna che si è svolta a Pesaro dall’11 al 13 dicembre, con il sostegno del Ministero per i Beni e Attività Culturali e Turismo, con la partecipazione del Ministero della Giustizia e il patrocinio di: Regione Toscana, Regione Marche, Comune di Pesaro, Università degli Studi di Urbino "Carlo Bo", Iti International Theatre Institute, Iuta International University Theatre Association, Anct Associazione Nazionale Critici di Teatro e Amat Associazione Marchigiana Attività Teatrali. Una tre giorni molto intensa il cui resoconto sarà al centro di un seminario di formazione programmato lunedì 21 dicembre all’Istituto Superiore di Studi Penitenziari di Roma, tra i principali promotori dell’evento di Pesaro. Alla Rassegna hanno partecipato operatori da tutta Italia e Istituti Penitenziari provenienti da 14 diverse Regioni, da Nord a Sud, Isole comprese. Pesaro è stata la prima tappa di un progetto triennale, curato dal Teatro Aenigma e dal Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, che vedrà le prossime edizioni svolgersi a Genova e Roma, rispettivamente nel 2016 e 2017. Il Teatro in carcere è da tempo un’esperienza diffusa in tutto il territorio nazionale: a Pesaro hanno partecipato alcune importanti realtà operanti negli istituti penitenziari di Napoli Poggioreale (TeatrInGestAzione), Pistoia (Teatro popolare d’arte), Firenze (Massimo Altomare), Pesaro (Teatro Aenigma), Livorno (Arci Solidarietà), Napoli Secondigliano (Maniphesta Teatro), Venezia (Balamòs Teatro) con spettacoli di grande spessore culturale sia all’interno della Casa Circondariale di Villa Fastiggi, sia in due suggestivi spazi scenici cittadini, la Chiesa della Maddalena e la Chiesa dell’Annunziata. In un percorso di crescita comune, interagendo con la realtà sociale, sono state in questo modo auspicate prospettive positive e propositive. Particolarmente toccante lo spettacolo del regista greco Michalis Traitsis (Balamòs Teatro) dal titolo Cantica delle donne - istantanee per una storia quasi universale, realizzato nella Casa di Reclusione femminile di Venezia Giudecca: storie di donne che valorizzano la ricchezza e la complessità della figura femminile attraverso testi, immagini, musiche, canzoni e danze, per ritrovare un senso nella propria vita, dentro o fuori le nostre prigioni, sia quelle reali che quelle create dal pregiudizio. In scena a Pesaro, anche uno studio proposto dal regista Francesco Gigliotti, che - con la Compagnia penitenziaria Lo Spacco e il Teatro Universitario Aenigma - ha coinvolto cittadini, studenti e detenuti in un progetto di teatro di comunità, dal testo America, di Franz Kafka. Ma questa edizione ha fornito un ampio spaccato del lavoro che si svolge in diversi Istituti penitenziari italiani con alcuni rappresentanti chiamati a descrivere i progetti: sono state visionate 17 produzioni video e una sezione composta da 9 corti. Tra gli altri, di rilievo la presenza di Michelina Capato Sartore (Cooperativa Estia da Milano Bollate), Sandro Baldacci (Teatro Necessario da Genova Marassi), Grazia Oggero (Voci Erranti da Saluzzo), Flavia Bussolotto (Tam Teatromusica da Padova), Sabina Spazzoli (da Forlì per il Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna), Livia Gionfrida (Teatro Metropopolare da Prato), Frate Stefano Luca (autore di significative esperienze nelle prigioni del Camerun). Per accompagnare il pubblico sia esterno che interno al carcere, Agita (associazione nazionale per la promozione del teatro nella scuola e nel sociale) ha seguito la rassegna con un laboratorio di educazione alla visione, dal titolo Sguardi e Visioni. Tra gli enti promotori e con una rappresentanza di operatori presenti a Pesaro anche l’A.N.C.T., Associazione Nazionale dei Critici di Teatro e l’Università Roma Tre. Non è mancato un lavoro di formazione per gli stessi operatori teatrali dal titolo I Linguaggi del Teatro in Carcere a cura di Gianfranco Pedullà, storico del teatro e regista, attivo da oltre 25 anni negli istituti penitenziari della Toscana, il quale ha saputo coinvolgere in un rapporto dialogico i vari registi esperti presenti. Dal punto di vista editoriale tre gli appuntamenti di spicco con la presentazione di altrettanti volumi. La presentazione del libro Destini Incrociati: l’esperimento di Firenze 2012 (ne ha parlato il curatore Vito Minoia), con foto di Alessandro Botticelli e Matteo Bertelli, documentando il primo evento realizzato in Toscana tre anni fa, ha inaugurato la Collana Destini incrociati per le Edizioni Nuove Catarsi di Urbino. Al sociologo Peter Kammerer è stata affidata, invece, la presentazione degli altri due volumi. Il primo, Dalla Città Dolente, Colpa, Pena Liberazione attraverso le visioni dell’Inferno di Dante, di Fabio Cavalli, si inserisce nella cornice di un nuovo progetto editoriale che si propone di lasciare una traccia non soltanto immateriale (tale è la rappresentazione teatrale) del lavoro artistico della Compagnia La Ribalta - Centro Studi Enrico Maria Salerno operante a Rebibbia Nuovo Complesso. Nel secondo, Gli occhi di Eleonora, romanzo/opera prima di Vincenzo Lerario (uno dei protagonisti dell’esperienza della Compagnia Lo Spacco a Pesaro) viene alla luce una storia d’amore semplice e impossibile, raccontata da un io narrante che vive una perenne battaglia interiore, in bilico tra un passato duro da superare e un difficile presente: un mosaico in cui, a tratti, rivediamo il nostro stesso volto. Infine, la mostra Prigionie (in)visibili - il teatro di Samuel Beckett e il mondo contemporaneo curata dall’artista giapponese Yosuke Taki, ha permesso di entrare profondamente nel rapporto tra il teatro e il carcere, mettendo in rilievo i cambiamenti e gli elementi costanti nell’approccio alle opere di Beckett, così "vicine" alle reali prigionie ma anche a quelle, invisibili, che ognuno di noi vive nel proprio quotidiano. L’esposizione, che è stata gentilmente concessa dal Dipartimento Cultura di Roma Capitale, Servizio Spazi Culturali, è stata ospitata nell’affascinante scenario dello Scalone Vanvitelliano e ha visto la partecipazione di Macula centro internazionale di cultura fotografica, WePesaro Cultura, Pesaro Musei, SPAC Sistema Provinciale Arte Contemporanea e Sistema Museo. Un evento conclusivo fuori programma ha coinvolto gli allievi dell’Istituto Comprensivo Statale Galilei di Pesaro che lunedì 14 dicembre, all’interno della Casa Circondariale di Villa Fastiggi, hanno presentato lo spettacolo Conoscendo Kafka, frutto di un lavoro di intreccio creativo con le detenute e i detenuti della Compagnia Lo Spacco. Il programma è stato curato dalla direzione artistica dell’evento, affidata a Ivana Conte, Vito Minoia, Valeria Ottolenghi, Gianfranco Pedullà, per il Teatro Aenigma (organismo operante all’Università di Urbino) e il Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, in collaborazione con l’Istituto Superiore di Studi Penitenziari/Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. L’immagine della Rassegna è uno scatto di documentazione dello spettacolo "Tutto quello che rimane" di Tam Teatromusica di Padova, ideazione e regia di Michele Sambin. Il lavoro era stato prodotto e presentato per la Prima edizione della Rassegna "Destini Incrociati" (Teatro delle Arti, Lastra a Signa, 23 giugno 2012). Sondrio: lunedì 21 dicembre il vescovo Diego Coletti visita le carceri vaol.it, 18 dicembre 2015 Lunedì 21 dicembre, in occasione del Santo Natale e nell’Anno del Giubileo Straordinario della Misericordia, il Vescovo monsignor Diego Coletti sarà presso la Casa Circondariale di Sondrio. Ad accoglierlo, alle ore 15.30, la direttrice d.ssa Stefania Mussio, il personale di polizia penitenziaria, il cappellano don Ferruccio Citterio, i detenuti, e una trentina di persone fra volontari impegnati nelle attività educative e di animazione della realtà carceraria, i referenti della "Bottega della Solidarietà" di Sondrio e alcuni "esterni" invitati per questo particolare pomeriggio. Sarà presente anche il direttore della Caritas diocesana Roberto Bernasconi. "Sarà un incontro semplice ma significativo - spiega la direttrice -. Il programma prevede un momento di preghiera condiviso con i detenuti, poi una visita alla Sezione e il taglio del panettone". Grazie alla sensibilità e alla mobilitazione dei volontari si concretizzerà anche un gesto importante per i detenuti. "A chi ha figli minori - spiega sempre la direttrice - sarà consegnato un dono, così da farlo avere a casa come regalo del papà per il Natale". "Sono lieto di fare visita al carcere di Sondrio - riflette il Vescovo Diego: in questo anno siamo invitati a sperimentare la Misericordia che sempre riceviamo dal Padre e quella che siamo chiamati a scambiarci vicendevolmente". Ricordiamo che una delle tre "iniziative di carità" proposte dalla Diocesi per il Giubileo riguarda proprio la realtà carceraria, con la possibilità di raccogliere prodotti per l’igiene personale, francobolli, carta da lettere. Inoltre domenica 13 dicembre, in occasione dell’apertura della Porta Santa della Cattedrale di Como, al rito ha preso parte anche un gruppetto di tre detenuti di Sondrio, i quali, durante il solenne pontificale, hanno partecipato alla processione offertoriale. "È stata un’esperienza che non dimenticheremo mai - hanno confidato i tre uomini. Aver avuto questa possibilità ci sarà di conforto per il domani, per dare una svolta alla nostra vita, dopo aver capito gli errori fatti". Arezzo: "Prison Blues Concert", gli Osaka Flu suonano per i detenuti arezzonotizie.it, 18 dicembre 2015 Per un pomeriggio non si sono sentiti i detenuti di un carcere ma normali ragazzi ad un concerto. È all’indomani dell’uscita del loro primo disco "Look Out Kid" (Soffici Dischi) e della realizzazione del video clip "Sixteen Tons" che gli Osaka Flu tornano con una data live. Questa volta però lo fanno in un contesto del tutto particolare: all’interno del carcere di Arezzo. Il concerto si inserisce nel percorso socio-musicale che gli Osaka Flu, formati da Michele Casini, Daniele Peruzzi e Francesco Peruzzi, hanno iniziato la scorsa estate scegliendo la casa circondariale della propria città come location per la realizzazione del video del loro secondo singolo. Grazie alla collaborazione del direttore Paolo Basco, degli agenti e del personale penitenziario e con la partecipazione straordinaria di Giorgio Canali, i musicisti aretini hanno potuto dare il via ad un percorso particolarmente intenso che li ha portati fino al concerto di questo pomeriggio. "Abbiamo fortemente voluto questo live - spiegano gli Osaka Flu - dopo la realizzazione del video, girato da Gianni Ciccatello con l’aiuto di Antonio Cittadini, abbiamo ritenuto necessario esibirci all’interno della casa circondariale in modo da offrire un pomeriggio differente a tutti i detenuti". E così, ecco che una delle sale del carcere si è trasformata in platea per l’occasione. La scaletta scelta ha visto in tutto l’esecuzione di undici brandi tra cui "Mental Sucide" terzo singolo estratto da "Look Out Kid". Il resto del repertorio è stato un omaggio ai grandi interpreti del blues e della musica internazionale come Fabrizio De Andrè, Jhonny Cash, Bob Dylan, The Clash e Elvis Presley. Alla giornata hanno assistito, oltre ai detenuti, il direttore Paolo Basco, il prefetto di Arezzo Alessandra Guidi, il vice sindaco Gianfrancesco Gamurrini e gli studenti dell’Università di Siena Campus Pionta insieme ai propri docenti. Per l’occasione, insieme agli Osaka Flu sul palco del carcere di Arezzo anche Franco Pratesi al violino e Moreno Raspanti all’armonica e fisarmonica. "Recluse", le donne detenute si raccontano in un libro di Elena Caminati corrierepadano.it, 18 dicembre 2015 Recluse non solo perché sono dietro le sbarre, ma anche perché costrette a vivere nell’invisibilità. La popolazione carceraria femminile è solo il 4 per cento del totale, per lo più formata da uomini. Un universo spesso in ombra anche per la politica che dovrebbe amministrarlo. Recluse è una narrazione di storie di detenute che le autrici, Grazia Zuffa e Susanna Ronconi, hanno raccolto nei carceri di Sollicciano, Empoli e Pisa. "Abbiamo descritto non delle donne vittime della detenzione ma forti che hanno consapevolezza e strategia di tenuta - racconta Susanna Ronconi - un ritratto di un gruppo invisibile ma dall’altro lato emergono donne forti e consapevoli". Una presentazione che l’associazione Verso Itaca onlus ha voluto fare proprio nella giornata internazionale dedicata ai diritti umani; un libro sul carcere femminile che esce dopo anni dall’ultimo testo indagine su questo argomento datato 1992. Un racconto, in forma narrativa lasciato alla donne stesse che hanno consegnato pezzi di storie a Susanna Ronconi, detenuta lei stessa negli anni 80. Il bisogno più forte che emerge dai racconti, per altro spesso dolorosi ma dignitosi, è una ricerca del rispetto. "Il rispetto di sé, delle altre detenute e delle istituzioni - conferma Ronconi - il rispetto è un diritto su cui si fondano tutti gli altri. E che sia uscita questa domanda significa che c’è ancora molto da fare. In secondo luogo è emersa forte l’esigenza di un riconoscimento del proprio universo emotivo relazionale, sia come madri, moglie e figlie. La detenzione dovrebbe privare della libertà non degli affetti". Nei racconti di ogni donna, al di là della storia personale e del perché si trova in carcere, ciò che inveve viene lamentato è l’eccesso della pena, da qui il tema della sofferenza non necessaria. "C’è una sofferenza non necessaria inflitta dall’istituzione, se i diritti umani fossero davvero tali, sarebbe possibile attenuare questa sofferenza. Un altro bisogno molto forte è riuscire ad utilizzare il tempo del carcere che il più delle volte rimane tempo morto. Sarebbe necessario invece prepararsi al dopo - spiega Ronconi - la vita non va programmata quando si varca il portone, perché potrebbe essere tardi". Gestione degli affetti, formazione all’interno del carcere per prepararsi al dopo pena, una migliore applicazione delle pene alternative che formalmente esistono ma che concretamente sono sottoutilizzate, conseguenza che l’autrice attribuisce al clima sociale. "Ci troviamo in un clima sociale che porta una domanda di punizione molto elevata e questo ha valanza su chi amministra il carcere. Partendo dalla soggettività delle donne detenute sono loro la prima forza da mettere in moto rispetto al cambiamento". Quando il dono diventò la base dell’economia di Marino Niola La Repubblica, 18 dicembre 2015 Cent’anni fa l’antropologo Malinowski scoprì una società aborigena fondata sulla generosità. Chi fa regali alla fine ci guadagna sempre. E non solo in gratitudine. Perché il dono è un investimento sul futuro. Un contratto a lungo termine. E a insegnarcelo non è stato nessun guru dell’economia ma gli aborigeni delle isole Trobriand, che del dare a piene mani hanno fatto un’arte della convivenza, nonché la base della loro dottrina politica. Anticipando, e di fatto ispirando, le teorie contemporanee del convivialismo e dell’antiutilitarismo. A scoprire i segreti di questa economia della generosità è stato, giusto un secolo fa, Bronislaw Malinowski, il celebre antropologo polacco, professore alla London School of Economics. Che, per uno scherzo del destino, si trovava in Australia per studiare gli aborigeni, quando scoppiò la prima guerra mondiale. Come suddito dell’impero austroungarico, e quindi cittadino di un paese nemico, gli sarebbe toccato l’internamento in un campo. Ma il giovane Bronislaw riuscì a convincere le autorità australiane a confinarlo nell’arcipelago delle Trobriand, oggi isole Kiriwina, dal quale non c’era pericolo che fuggisse. Ma in compenso avrebbe potuto continuare le sue ricerche sugli usi e costumi delle tribù di questi atolli corallini che si trovano nel Pacifico occidentale, tra la Nuova Guinea e le isole Salomone. Il 1915 fu un annus horribilis per l’Europa, ma per l’antropologia fu un anno fortunato. Perché appena mise piede su quelle spiagge, dove il vento mormora tra le palme, Malinowski fu subito colpito da un’usanza che ai suoi occhi di occidentale nutrito di economia politica, sembrava priva di qualsiasi logica. Gli indigeni affrontavano traversate oceaniche lunghissime e piene di pericoli a bordo delle loro piroghe per portare doni agli abitanti di isole lontane. Una generosità incomprensibile e un coraggio ai limiti dell’incoscienza, visto che a viaggiare su quelle acque tempestose e infestate di squali era una bigiotteria senza valore. Collane e braccialetti di conchiglia. Cose futili e non beni necessari. E, come se non bastasse, questi monili da poveri venivano regolarmente rigirati da coloro che li avevano ricevuti agli abitanti dell’isola più vicina. Che a loro volta li indossavano un po’ di tempo per farsi belli e poi prendevano il mare per andare a farne omaggio agli abitanti di altre terre. Creando così un circuito di scambi che chiamavano kula. Apparentemente un circolo vizioso per cui il cadeau, prima o poi, finiva per tornare nelle mani del primo proprietario. Un po’ come certi regali, riciclati di Natale in Natale, che alla fine tornano al mittente come un boomerang. Ma per i Trobriandesi questa sorta di sbolognamento sistematico era un valore aggiunto. Perché ogni passaggio di mano in mano caricava il dono di prestigio. Per dirla con parole nostre, ne impreziosiva il pedigree. Che stava in buona parte in un plusvalore relazionale. Come certi diamanti leggendari di cui si sciorina sistematicamente la cronologia di coloro che li hanno posseduti. Il caso trobriandese, raccontato da Malinowski nel suo capolavoro "Gli argonauti del Pacifico occidentale", divenne subito un rompicapo per gli economisti che non riuscivano a trovare senso in un comportamento tanto irrazionale. Così alla fine molti esponenti di questa scienza che noi moderni ci ostiniamo a ritenere esatta - e che i Greci, con maggior prudenza, definivano semplicemente "governo della casa" (da oikosabitazione e nomia regola) - conclusero che si trattava di un’assurdità. Un comportamento da tribù primitiva, economicamente immatura che, incapace di calcolare costi e benefici, sprecava il tempo a fare regali, per di più senza guadagnarci nulla. Ma l’imperturbabile polacco non fece una piega e restituì colpo su colpo, sbattendo in faccia agli scettici la soluzione del rebus, l’algoritmo segreto che governava quella strana giostra di regali e regalini. In realtà la ragione di quella fatica, apparentemente inutile, non stava nel valore d’uso degli oggetti, bensì nel loro valore di scambio. Che si fondava soprattutto sulle alleanze e partnership prodotte da quel circuito di reciprocità. Il dono insomma funzionava come un contratto sociale, facendo di tante popolazioni straniere, lontane e potenzialmente nemiche, un vero e proprio sistema. Ordinato e coordinato. Una federazione che metteva in moto una rete di relazioni sovralocale. Dalla quale non si usciva mai. Infatti i Trobriandesi dicevano con orgoglio che "l’appartenenza al kula è per sempre". Questa sorta di mercato globale primitivo era insomma capace di connettere genti e paesi separati da migliaia chilometri di mare, a dispetto dei loro fragili mezzi. Basti pensare che nelle capanne dei cacciatori di teste della Nuova Guinea indonesiana e delle isole Molucche sono state trovate preziose porcellane cinesi d’epoca Ming. Insomma lo scambio di doni era una pensata geniale per fare uscire quelle isole dal loro isolamento e farne un solo grande arcipelago. Il che in fondo vale anche per noi, utilitaristi disincantati, quelli che "nessuno ti regala niente per niente". E si vede chiaramente in momenti come il Natale. Con la sua girandola di doni e controdoni, che non a caso gli americani chiamano big swap, il grande scambio. Un circuito cerimoniale che tiene in equilibrio reciprocità e gratuità, generosità e socialità, obbligo e piacere. Col risultato di riaffermare il principio dell’utile, ma proiettandolo su un piano più generale, e soprattutto meno egocentrico. Perché quel che regaliamo oggi ci verrà restituito in qualche modo con gli interessi. E non necessariamente da chi ha ricevuto. Come dire che il dono è la forma più sottilmente disinteressata del profitto, perché è l’origine stessa del legame sociale, il gesto primario, incondizionato e gratuito che fa uscire l’individuo da se stesso e lo lega agli altri in una rete che assicura scambio protezione, solidarietà. E di conseguenza anche guadagno. Non è un caso che le religioni nascano tutte da un dono fatto al dio. E che il dio ricambia. Ecco perché, perfino il nostro Natale consumistico, continua ad essere animato da quell’energia collettiva messa in moto dallo spirito del dono. Che anche se per pochi giorni all’anno, fa di quelle isole che noi siamo un solo arcipelago. Armi all’Is, Strasburgo vuole vederci chiaro di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 18 dicembre 2015 Il Parlamento europeo approva risoluzione sulla trasparenza nell’export bellico. Due rapporti recenti, di Amnesty e dello Stockholm Institute of Peace Research, mettono sotto la lente i commerci delle corporation armiere e ricostruiscono la storia delle forniture militari del Califfato. Con un avvertimento: Daesh si sta attrezzando a produrre negli ex impianti di Saddam. Opaco, maneggevole, smontabile come nei film di spie hollywoodiani, il fucile di precisione BushmasterX152S, è pubblicizzato in America, dov’è prodotto, come "l’arma perfetta per un killer". Nei video di propaganda più recenti è esibito anche dai guerrieri del Califfato come un gioiello crudele o il regalo di un Babbo Natale nero. Molte altre armi nuove, luccicanti, non vecchi ferri in dotazione all’esercito iracheno, arrivano all’Isis da paesi impegnati a combatterne l’avanzata, almeno ufficialmente: missili anticarro Milan prodotti in Belgio o in Francia, mortai turchi, fucili tedeschi, batterie anti-aeree statunitensi, tank russi, pick-up d’assalto coreani. È ciò che documenta il rapporto pubblicato tre giorni fa da uno dei più importanti centri di ricerca internazionali sui traffici di armi e munizioni: "Taking stock, the arming of Is", prodotto dall’Armament Research Services con Amnesty international, che cerca di ricostruire gli approvvigionamenti di armamenti, leggeri e pesanti, in dotazione ai tagliagole del Califfato. E girano per l’Europa denunce specifiche contro governi, come quello inglese, accusati di aver autorizzato la vendita di sofisticati fucili da cecchino, con binocolo ottico all’avanguardia, all’Arabia Saudita che - è dimostrato - sono stati usati per reprimere nel sangue manifestazioni civili durante le primavere arabe in Yemen. Sfavillanti fucili sniper sono serviti allo stesso brutale scopo, nel Bahrein, ed erano di fabbricazione italiana, modello Beretta, anche se prodotti dalla consorziata finlandese Sako. E dopo la denuncia di Amnesty sono stati interdetti dal governo della Finlandia. Le ong indipendenti, insomma, stanno dando battaglia sulla tradizionale oscurità che ammanta i traffici delle industrie armiere, tanto che la questione è approdata a Strasburgo, dove ieri in seduta plenaria il Parlamento europeo ha approvato un codice di regolamentazione in otto punti per migliorare la trasparenza e i controlli sull’export di armamenti convenzionali e tecnologia militare dall’Ue verso paesi terzi. Stante il pilastro che la gestione di questo tipo di commercio è - e resta, come da trattati - appannaggio degli stati nazionali, gli eurodeputati hanno convenuto che in una mutata situazione geopolitica, sempre meno stabile, soprattutto per quanto concerne i paesi confinanti e vicini, specialmente mediorientali, l’export incontrollato di armamenti potrebbe mettere a rischio la sicurezza dei cittadini europei, oltre a non corrispondere al rispetto dei diritti umani. Pertanto la risoluzione - approvata con 249 sì, 164 no e 128 astenuti - pur non essendo vincolante e non prevedendo sanzioni per chi non vi ottempera, invita caldamente gli stati membri a rendere maggiormente trasparenti le licenze alla vendita di armi, ribadisce gli standard minimi di limitazione approvati in sede Onu, e arriva ad ipotizzare una autorità garante o quanto meno una relazione annuale sulle esportazioni di armi da parte delle autorità dell’Unione, che - piccolo particolare - si conferma il primo esportatore al mondo di prodotti per la guerra, dagli elmetti con visore termico agli stabilizzatori di mira e quant’altro. Armi, mercato in continua espansione, in particolare con Obama di Marina Catucci Il Manifesto, 18 dicembre 2015 Dagli Stati Uniti 25 miliardi dollari di armi vendute nel solo Medio Oriente. Parlare di armi e di commercio di armi negli Stati uniti è affrontare un soggetto per definizione complesso. Dati del 2014 dimostrano che negli ultimi dieci anni gli Stati uniti hanno inviato armi in Medio oriente per una somma pari a quasi 25 miliardi di dollari, aggiudicandosi così il titolo di maggiore esportatore di armamenti verso quell’area. Per fare un paragone la Russia si ferma a 5,5 miliardi di dollari. Nuovi dati mostrano che sotto la presidenza Obama c’è stato un importante incremento delle vendite di armi all’estero. Dal giorno del suo insediamento la maggior parte delle esportazioni sono andate, ancora una volta, verso il Medio Oriente ed il Golfo Persico. L’Arabia Saudita è in cima alla lista delle esportazioni con cifre da capogiro, si parla di nuovi accordi per circa 46 miliardi di dollari. Di questo parla William Hartung, direttore del Arms and Security Project, presso il "Center for International Policy" ed autore di "Profeti di guerra: Lockheed Martin e il making of del complesso militare-industriale". Ciò che Hartung ha recentemente spiegato ai microfoni di Democracy Now, è che anche dopo l’adeguamento per l’inflazione, "il volume di accordi importanti conclusi dall’amministrazione Obama nei suoi primi cinque anni, ha superato l’importo approvato dall’amministrazione Bush nei suoi ben otto anni in carica, di quasi 30 miliardi di euro. Ciò significa anche che l’amministrazione Obama ha approvato la vendita di armi in un numero maggiore rispetto a qualsiasi amministrazione degli Stati uniti dalla seconda guerra mondiale". Ma anche il mercato interno fa registrare numeri considerevoli. Secondo gli analisti di IBIS world (uno dei principali editori mondiali nel campo della business intelligence, specializzata nella ricerca industriale e nella ricerca sugli appalti) l’industria delle armi e delle munizioni continua a prosperare negli Usa, dando vita ad un giro di affari che quest’anno dovrebbe toccare i 993 milioni di dollari di profitti. Le imprese che operano sul mercato interno hanno sfornato quasi sei milioni di armi da fuoco lnel 2014, il doppio rispetto a dieci anni fa. Anche in questo caso l’amministrazione Obama ha giocato un ruolo chiave anche se indiretto, in quanto la sua elezione ha fatto registrare un incremento di vendite, quindi di produzione di armi, tanto che gli analisti hanno definito Obama "la cosa migliore che sia mai successa all’industria delle armi da fuoco". Durante i primi tre anni e mezzo della sua amministrazione, l’Fbi ha condotto quasi 50 milioni di controlli in background su acquisti riguardanti pistole, equivalenti a quasi il doppio della quantità registrata durante il primo mandato di George W. Bush. Ma non sono solo i privati cittadini a far fiorire questa industria. Alla fine degli anni ‘90 il mercato interno delle armi in America era abbastanza in declino, complice una buona situazione per l’economia ed una conseguenziale minore paura riguardo il crimine urbano. Dopo l’11 settembre, grazie alle nuove misure antiterrorismo, le forze dell’ordine e l’esercito hanno iniziato a comprare armi ad un ritmo più veloce, rilanciando questa industria. Oggi, le agenzie governative costituiscono ben il 40% dei ricavi del settore. Un’altra voce riguarda le munizioni, parte enorme delle entrate di questa industria. Per dirla con le parole di un lobbista: "Nel tempo che ci si mette per vendere 80 armi del costo all’incirca di 300 dollari, queste avranno sparato per almeno 10.000 dollari di munizioni". Nel solo 2012 i ricavati delle munizioni ‘e stato quasi pari a quello della vendita delle armi leggere utilizzate per spararle. Siria: quei morti in carcere e il dilemma sul patto anti-Is con il regime di Assad di Lucio Caracciolo La Repubblica, 18 dicembre 2015 Su "Le Monde" il rapporto di Human Rights Watch sulle torture nelle prigioni governative tra 2011 e 2013. Intanto a New York si apre il vertice sulla Siria E anche Parigi fa aperture a Damasco. I morti parlano. Almeno certi morti, quelli che accedono ai media. Mercoledì il quotidiano francese Le Monde ha pubblicato con grande evidenza l’immagine atroce dei cadaveri scarniti di alcune vittime del regime siriano, uccise nelle carceri di Bashar al-Asad. Quello stesso regime su cui, dopo aver cercato di abbatterlo, europei e persino americani fanno ormai conto come cobelligerante di fatto contro lo Stato Islamico. Questa fotografia ha una lunga storia. Lo scatto è infatti tratto da un archivio di oltre 50mila immagini scattate fra il maggio 2011 e l’agosto 2013 da un locale fotografo forense, poi fuggito in Occidente. Quest’uomo, protetto dallo pseudonimo "César", ha messo il suo catalogo dell’orrore - testimonianza delle torture somministrate nelle galere del regime di Damasco - a disposizione del Movimento siriano di opposizione, che nel marzo 2015 le ha trasferite a Human Rights Watch, reputata organizzazione internazionale per la difesa dei diritti umani. Dal 13 al 16 luglio, il Parlamento europeo ha ospitato 35 fotografie dell’archivio César. Il 15 settembre il tribunale di Parigi ha avviato sulla base dei documenti in questione un’indagine preliminare per "crimini contro l’umanità". Il 7 ottobre è uscito in Francia un libro- racconto fotografico della giornalista Garance Le Caisne con l’anonimo transfuga di Damasco (" Opération César, au coeur de la machine de la mort syrienne",edizioni Stock). Infine, il 16 dicembre, Human Rights Watch ha prodotto un rapporto molto dettagliato al riguardo, avendo investigato in profondità su 27 vittime di cui sarebbe riuscito a ricostruire l’identità. La foto riprodotta da Le Monde è raccapricciante ed evocativa. I cadaveri sparsi di una dozzina di poveri Cristi testimoniano la perversa violenza del regime degli al-Assad, che nella sua lunga storia ha dimostrato di non conoscere limiti nella repressione delle rivolte e nella soppressione dei nemici veri o presunti. È importante che questi documenti non vengano nascosti al pubblico. È altrettanto necessario contestualizzarne la diffusione e valutarne le eventuali intenzioni e conseguenze strategiche. Il quotidiano parigino nota come il rapporto di Human Rights Watch esca alla vigilia dell’ennesimo vertice internazionale sulla Siria, a New York, che potrebbe innescare un processo negoziale fra governo di Damasco e opposizioni di vario colore sotto la tutela della maggiori potenze. La strategia di comunicazione di questa e altre organizzazioni umanitarie punta infatti a cogliere l’onda di attenzione mediatica, assai fluttuante, per moltiplicare l’effetto di annuncio di denunce che altrimenti troverebbero scarsa eco. Lo stesso Human Rights Watch avverte: "Coloro che spingono per la pace in Siria devono assicurarsi che i crimini cessino". Soprattutto, i responsabili politici dei massacri "devono renderne conto". La scelta di anticipare il rapporto a Le Monde s’inscrive nella medesima logica: la Francia è stata in prima linea nel sostenere chiunque - jihadisti inclusi - puntasse a rovesciare il regime di Damasco. E se dopo la strage di Parigi Hollande ha virato verso l’inevitabilità di servirsi di chiunque si batta contro lo Stato Islamico - Bashar al-Assad compreso - questo non significa il venir meno dell’ostilità di fondo nei confronti del presidente siriano e del suo clan. Questa vicenda ricorda infine che nella mischia siro-irachena è arduo scernere "buoni" e "cattivi". Vi troviamo semmai diverse gradazioni dell’orrore. Più rare persone di buona volontà, che però contano poco, almeno fintanto che la guerra non cesserà. In chiaro: se mai sconfiggeremo lo Stato Islamico, al suo posto incroceremo - di sicuro per una prima fase, ma forse molto a lungo - strutture e regimi non troppo dissimili. Non vale solo per Damasco. Basterebbe ad esempio comparare l’amministrazione della giustizia sotto il "Califfo" con quella gestita dal sovrano saudita, massimo alleato dell’Occidente nella regione, per scoprire che si svolge secondo regole e abitudini analoghe. Decapitazioni pubbliche comprese. Ma in questo caso i morti non parlano. E i nostri media, in genere, tacciono. O guardano altrove. L’accordo che ridà un futuro alla Libia di Maurizio Caprara Corriere della Sera, 18 dicembre 2015 Londra pronta a inviare mille militari per una missione a guida italiana. Le fazioni libiche preferirebbero l’invio di istruttori per addestrare forze locali. Senza clamore, la diplomazia e la Difesa italiane domandano da mesi a partner europei, alleati e Stati arabi con quali contributi aiuterebbero a ricostruire la sicurezza della Libia, mai tornata del tutto dopo che nel 2011 la fine del regime di Muammar Gheddafi tolse i freni a scontri tra fazioni. La ricognizione serve per quando sarà l’ora di sorreggere un governo libico di unità nazionale o con basi ampie. Da giovedì il momento potrebbe essere meno lontano, benché sul percorso per raggiungerlo restino tanti gli ostacoli e le incognite. Lunghi negoziati sollecitati dall’Onu che hanno ricevuto una spinta domenica scorsa dalla conferenza internazionale sulla Libia riunita a Roma hanno prodotto il potenziale embrione di un governo libico: un consiglio presidenziale guidato da un uomo d’affari tripolino con trascorsi negli Stati Uniti e residente al Cairo, Faiz al Siraj, e tre vicepresidenti (uno per la Cirenaica, uno per la Tripolitania e uno per il Fezzan). Firmata a Skhirat, Marocco, tra abbracci fra alcuni nemici e canti, l’intesa sottoscritta da parlamentari, capi di fazioni, tribù e municipalità ha raccolto apprezzamenti dal Dipartimento di Stato americano, dall’alto rappresentante per la politica estera e la sicurezza europea Federica Mogherini. In Italia, dai presidenti della Repubblica Sergio Mattarella, della Camera Laura Boldrini e del Consiglio Matteo Renzi, ma il primo ha constatato che si tratta di una "tappa", la seconda di un "passo", il terzo di "inizio". Se da una parte l’accordo avrebbe ottenuto i "sì" di oltre 90 membri del Parlamento di Tripoli (quello appoggiato da Turchia e Qatar) e dal rivale Parlamento di Tobruk (sostenuto da Egitto ed Emirati) il consenso di 27 componenti presenti a Skhirat più 42 firme su un documento, i presidenti delle due assemblee non lo hanno accettato. Affinché la riconciliazione proceda, oltre alla formazione completa del nuovo governo che non è prevista prima di un mese occorre altro. Mentre militari britannici, francesi e non solo sarebbero già in Libia verso i confini meridionali, l’arrivo di forze internazionali per mantenere una futura pace comporta l’avallo dell’Onu. Una bozza di risoluzione potrebbe essere portata in Consiglio di sicurezza lunedì, dare consacrazione alla gestazione di un governo libico delineata il 17 dicembre in Marocco e negare riconoscimenti ad altre autorità in Libia. A una seconda risoluzione, in seguito e su richiesta libica, si affiderebbe la cornice nella quale agirebbero militari stranieri. Dai contatti avuti finora con l’Italia, risulta che le fazioni libiche non vogliono dall’estero truppe in forze sul proprio suolo. Preferirebbero istruttori per addestrare forze armate e polizia, armi ed eventualmente personale per vigilare su aeroporti o obiettivi stranieri. Le armi, legalmente, sono adesso la richiesta meno facile da soddisfare. Il Times ha riferito che Londra manderebbe in Libia fino a mille militari per una missione a guida italiana. Il nostro Paese giovedì aveva a Skhirat oltre all’inviato del ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, Giorgio Starace, il ministro in persona. Partito poi per New York, sede dell’Onu. E l’Onu non si occupa solo di Siria. Arabia Saudita: la moglie di Raif Badawi riceve premio Sakharov "punito per idee libere" Aki, 18 dicembre 2015 Ensaf Haidar, la moglie del blogger e attivista saudita Raif Badawi, ha ricevuto a Strasburgo il Premio Sakharov del Parlamento europeo, assegnato per la libertà di pensiero. "Raif Badawi è stato abbastanza coraggioso da alzare la voce e dire no alle loro barbarie. È per questo che lo hanno frustato", ha detto Haidar intervenendo al Parlamento europeo. La donna, cha ha ricevuto lo status di rifugiato politico in Canada, dove vive con i tre figli della coppia, ha quindi affermato che "Badawi non è un criminale. È uno scrittore e un libero pensatore. Il suo reato è quello di essere una voce libera in un Paese che accetta un solo pensiero". Haidar ha quindi sostenuto che "le idee libere e illuminate vengono considerate blasfeme nell’ideologia adottata dalle società arabe, dove ogni pensiero libero è considerato una devianza". Il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz ha invece definito Badawi come "un simbolo e una fonte di ispirazione per tutti coloro che combattono per i diritti fondamentali nella regione e ovunque". "Nonostante un grande rischio, come blogger ha coraggiosamente cercato di favorire il libero pensiero ed esercitato il suo diritto alla libertà d’espressione per riempire un vuoto lasciato dalla mancanza di libertà di stampa nel suo paese", ha proseguito Schulz, invitando il re Salman dell’Arabia Saudita a perdonare immediatamente il blogger e a liberarlo senza condizioni. Il presidente del Parlamento europeo ha quindi esortato le autorità saudite "a mettere fine alla repressione sistematica di chi si esprime in modo pacifico". Il riferimento è a personalità come Waleed al-Khair Abu, Abdulkarim Al-Khodr, Ashraf Fayadh e Ali Mohammed al-Nimr. Quest’ultimo, 21enne, è stato arrestato durante una manifestazione antigovernativa a Qatif, nell’est del Paese, quand’era ancora minorenne e condannato a morte per decapitazione e successiva crocifissione del corpo fino alla sua putrefazione. Chi è Badawi, attivista saudita che ha ricevuto Premio Sakharov L’attivista saudita Riaf Badawi, 31 anni, è dietro le sbarre dal 2012 e il 5 novembre dell’anno scorso è stato condannato dal tribunale penale di Gedda a 10 anni di carcere e a mille frustate. È stato infatti riconosciuto colpevole di apostasia, di aver insultato l’Islam e di crimini informatici attraverso il suo sito Saudi Arabian Liberals. Il 9 gennaio il blogger saudita aveva ricevuto in pubblico a Gedda la prima serie di 50 frustate, subito dopo la preghiera del venerdì davanti alla moschea al-Jafali. Nelle settimane successive l’applicazione della pena era poi sempre stata rinviata, anche a seguito della pressione esercitata dalla comunità internazionale nei confronti di Riad. Il 6 giugno la Corte Suprema di Riad ha confermato la condanna nei suoi confronti. Secondo Amnesty International, Badawi è un detenuto di coscienza, "arrestato solo per aver esercitato in modo pacifico il suo diritto alla libertà di espressione". La moglie Ensaf Haidar vive dal 2013 insieme ai tre figli della coppia a Quebec, in Canada, dove ha ottenuto asilo politico. Badawi non è l’unico attivista nel mirino del regno saudita. La comunità internazionale sta seguendo da vicino anche il caso del 21enne Ali Mohammed al-Nimr, arrestato quando aveva 17 anni per aver partecipato a una protesta contro le autorità di Riad nella provincia di Qatif. Accusato di terrorismo, è stato condannato a morte per decapitazione e successiva crocifissione fino alla decomposizione del corpo. Secondo attivisti locali e internazionali, l’attivista sciita avrebbe confessato sotto tortura. È nipote di Shaykh Nimr Baqr al-Nimr, noto imam sciita e oppositore della casa reale sunnita wahhabita anch’egli condannato a morte.