L’amnistia del Papa, silenzio (non) strano di Claudio Cerasa Il Foglio, 17 dicembre 2015 Richiesta importante sulla giustizia, ma scomoda per i media faciloni. I grandi media, e non solo quelli italiani, ci hanno abituato a una costante esaltazione delle esortazioni di Papa Francesco, quando sono consone allo spirito umanitario e pacifista. Qualche volta, specialmente se l’esaltazione viene da tribune laiciste, questo suscita qualche interrogativo e dubbio sulla possibile strumentalizzazione politica di affermazioni che hanno, ovviamente, significato prima di tutto religioso. Appare quindi davvero singolare che l’appello del Pontefice in favore di un’amnistia, contenuto nel messaggio per la Giornata della pace, sia stato assai sottaciuto. Questa volta l’appello, che nasce dall’invito alla misericordia giubilare e dalla denuncia delle condizioni dei carcerati, ha un destinatario più esplicitamente politico, essendo rivolto ai governi di tutto il mondo. Però, siccome non è in sintonia con gli interessi elettorali, che badano agli umori della società più che ai princìpi del garantismo umanitario, è stato sostanzialmente occultato. Lo spirito pubblico non è facilmente incline al perdono e alla clemenza, prevale l’atteggiamento vendicativo che Manzoni aveva magistralmente condensato nella frase pronunciata durante i tumulti milanesi: "Impiccarli, impiccarli e salterà fuori pane da tutte le parti!". Proprio perché il clima è questo, è particolarmente lodevole l’iniziativa di Papa Francesco, e proprio per questo dovrebbe indurre a una riflessione e avviare un confronto pubblico. La condizione carceraria in Italia è particolarmente deplorevole, anche Sergio Mattarella ne ha indicato il carattere incompatibile con il livello civile di una democrazia matura. Un gesto di clemenza sarebbe utile e l’occasione del Giubileo propizia. Naturalmente esistono anche comprensibili obiezioni, che però dovrebbero essere discusse e superate. Invece è proprio un segno di ipocrisia insopportabile quello di censurare il Papa per non affrontare una questione reale, anche se complessa e impopolare. Ospedali e carceri: le "Porte degli ultimi" Avvenire, 17 dicembre 2015 L’apertura della Porta Santa nella Basilica di San Pietro ha dato il via al Giubileo straordinario della Misericordia che per volontà di Papa Francesco ha avuto e avrà in tutte le diocesi del mondo un proprio "epicentro". "Abbiamo aperto la Porta Santa, qui e in tutte le cattedrali del mondo. Anche questo semplice segno è un invito alla gioia. Inizia il tempo del grande perdono. È il Giubileo della Misericordia". Sono le parole che Papa Francesco ha utilizzato nell’omelia della Messa celebrata nella sua Cattedrale a Roma, in San Giovanni in Laterano. Il 18 dicembre Papa Francesco sarà all’Ostello "Don Luigi Di Liegro" , appena riaperto, alla Stazione Termini per l’apertura della Porta della Carità nella struttura di accoglienza della Caritas diocesana. Nella mappa di tutte le Porte Sante vanno inserite anche le Porte della Carità collocate nei luoghi di accoglienza e di sofferenza. Laddove la misericordia si sperimenta quotidianamente. Nel sito vaticano dell’Anno Santo c’è una mappa mondiale interattiva dove si provvede all’aggiornamento man mano che le diocesi ne comunicano l’ubicazione. Nella diocesi di Padova il 27 dicembre il vescovo Claudio Cipolla aprirà la Porta Santa nella Cappella della Casa di reclusione Due Palazzi: "Tra le chiese giubilari ci sarà anche quella del carcere - ha spiegato monsignor Cipolla - perché in carcere c’è il massimo della consapevolezza del proprio errore e lì Dio annuncia la sua misericordia e sarà molto importante che i carcerati, e chiunque vive nello spirito del vangelo, sappiano riconoscere questo gesto. Dio cerca proprio là dove, anche dal punto di vista giuridico è riconosciuto e condannato, giustamente, l’errore. Non si pone limite alla misericordia di Dio". Nella diocesi di Trento l’arcivescovo Luigi Bressan il 19 dicembre aprirà una delle Porta giubilari al centro di accoglienza notturno "Bonomelli", gestito dalla Caritas diocesana, assieme 60 ospiti e ai volontari. Nella diocesi di Rimini il vescovo Francesco Lambiasi ha elevato ben cinque luoghi al rango di santuari di carità: la mensa della Caritas diocesana, la mensa di Sant’Antonio gestita dai Padri Cappuccini di Santo Spirito, la Casa del Perdono e il Pronto soccorso sociale di Sant’Aquilina, entrambi facenti capo all’associazione Papa Giovanni XXIII, e la comunità di Montetauro che ospita disabili gravi. Nella diocesi di Rieti, il vescovo Domenico Pompili aprirà la Porta Santa nel carcere di Vazia, nel Comune di Rieti nel pomeriggio del 24 dicembre. In diocesi di Prato, il vescovo Franco Agostinelli ha previsto in una data ancora da definirsi, l’apertura della Porta Santa nel carcere della Dogaia. In Puglia, ad Andria, il vescovo Raffaele Calabro ha emesso un Decreto con cui stabilisce che "tutti coloro che, veramente pentiti e mossi da carità, attraverseranno la Porta della Casa di Accoglienza S. Maria Goretti" (gestito dall’ufficio Migrantes della Diocesi) potranno sperimentare la Misericordia di Dio. L’apertura avverrà il 19 dicembre. A Palermo si aprirà anche la "porta degli ultimi" situata nella Missione Speranza e Carità di Biagio Conte dove dal 1991 vengono accolti con amore vagabondi, giovani sbandati, alcolisti, ex detenuti, separati, prostitute, profughi e immigrati. Attualmente sotto i portici della Stazione Centrale di Palermo la missione assiste circa 800 persone in tre comunità: due destinate all’accoglienza di uomini e una per l’accoglienza di donne sole o mamme con bambini. A Torino, domenica 20 dicembre nella Chiesa della Piccola Casa della divina Provvidenza, meglio nota come il Cottolengo, dal nome del suo fondatore l’arcivescovo Cesare Nosiglia di Torino aprirà una Porta della misericordia: "Con questo segno vogliamo sottolineare che per un cristiano la vera porta d’accesso alla salvezza è quella dei poveri". Consulta, dopo trentadue scrutini eletti i tre nuovi giudici di Silvio Buzzanca La Repubblica, 17 dicembre 2015 Il Pd scarica Forza Italia, accordo con i grillini. Barbera, Modugno e Prosperetti, i nuovi giudici alla Corte Costituzionale. Il candidato dei dem è stato il meno votato. Finalmente senatori e deputati ce l’hanno fatta: sono riusciti ad eleggere i tre giudici della Corte costituzionale che mancavano da tempo. I nuovi membri della Consulta sono; Franco Modugno, indicato dai grillini ed eletto con 609 voti; Giulio Prosperetti, scelto dai centristi con 585 voti; Augusto Barbera, indicato dal Pd, nominato con 581 voti. Dieci in più del quorum richiesto di 571. La grande novità di questo giro di nomine è invece tutta politica: Matteo Renzi e il Pd, infatti, hanno tagliato fuori dalla decisione Forza Italia e Silvio Berlusconi e hanno stretto un accordo con il Movimento Cinque Stelle. Una scelta che sembra il colpo definitivo al Patto del Nazareno e a possibili convergenze fra democratici e forzisti. La novità che avrebbe convinto Renzi a rompere gli ormeggi e abbandonare Berlusconi al suo destino sarebbe stato il violento scontro sulle scelte di politica estera che si è verificato ieri mattina in aula con Renato Brunetta. Il capogruppo forzista, infatti, ha attaccato duramente nel suo intervento il premier, chiamandolo più di una volta in causa. Renzi non ha gradito e nella replica ha reagito duramente. Lo scenario si è ripetuto anche con i grillini. Ma dem e pentastellati stavano tessendo un accordo che aveva come base l’esclusione del candidato forzista Francesco Paolo Sisto, ritenuto troppo legato alla stagione delle legge ad personam berlusconiane. E quando l’area centrista, fino ad oggi divisa, ha raggiunto un accordo sul nome di Giulio Prosperetti, tutte le tessere sono andate al loro posto. Naturalmente l’esclusione di Forza Italia non ha reso felice Berlusconi. "Dico solo che è molto grave che la Consulta non abbia al suo interno nemmeno un giudice che sia del centrodestra, che oggi tra gli elettori è la componente più importante. È una cosa grave". Ma nella decisione di Renzi hanno pesato anche le divisioni interne a Forza Italia, incapace negli ultimi due anni di scegliere un candidato condiviso da tutto il gruppo. Un clima di scontro interno che ha bruciato un bel po’ di candidati alla sostituzione di Mazzella, l’ultimo giudice indicato da Forza Italia. Un risultato devastante per i forzisti che adesso mettono sotto accusa la conduzione del gruppo di Brunetta. Ci sono volute comunque 32 votazioni per un giudice, 10 per i secondo e 5 per il terzo. Un copione già visto in passato. Per esempio nel 2002, quando Marco Pannella condusse un lungo sciopero della sete per convincere il Parlamento a scegliere un membro della Consulta. E anche in questa occasione i radicali hanno accompagnato le faticose nomine con le loro proteste. Più complicato ottenere il risarcimento da eccessiva durata del processo di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 17 dicembre 2015 La legge Pinto diventa sempre più a ostacoli. Con un emendamento alla legge di stabilità si prevede infatti che il diritto al risarcimento per l’eccessiva durata del processo è condizionato alla presentazione, 6 mesi prima della scadenza del termine di ragionevole durata previsto per il grado processuale, di un’istanza di decisone con trattazione orale. Vincolo oggi già previsto per le controversie che si svolgono davanti al giudice unico, ma che per effetto dell’emendamento adesso assume una portata generale coinvolgendo anche le cause davanti al collegio. In particolare, per quanto riguarda i rimedi preventivi da utilizzare nell’ambito del processo civile, l’emendamento interviene sull’articolo 1-ter della legge Pinto per estendere le modalità semplificate di decisione previste dall’articolo 281-sexies del Codice di procedura civile, alle cause in cui il tribunale giudica in composizione collegiale. In questi casi il giudice istruttore, se ritiene che la causa possa essere decisa con trattazione orale, la rimette al collegio fissando l’udienza collegiale per la precisazione delle conclusioni e per la discussione orale. Novità che solleva immediatamente la protesta degli avvocati. Per Luigi Pansini, segretario di Anf, "Ogni anno in Italia vengono presentate circa 12mila istanze relative a cause definite con ritardi gravi, e di queste ben 2.400 vanno oltre 7 anni rispetto al termine di legge. Rendere, come si intenderebbe fare attraverso la Legge di Stabilità, più difficile l’accesso all’indennizzo per la palese difficoltà di rispettare i parametri relativi alla durata del processo, non farà altro che aggiungere altre condanne della Corte europea dei Diritti dell’Uomo a quelle 5.000 che l’Italia ha accumulato per violazione dell’articolo 6 in relazione alla durata dei procedimenti. Da quando è in vigore la Legge Pinto lo Stato italiano si è mostrato più preoccupato di legiferare per ostacolare i risarcimenti invece di rendere la giustizia adeguatamente rapida". Più gradite agli avvocati invece le misure in arrivo sul gratuito patrocinio, con la previsione oltre che della possibilità di compensazione tra debiti contributivi e impositivi e crediti da parcelle, anche di un percorso agevolato per la liquidazione dei compensi. Un altro emendamento approvato alla legge di stabilità rivede il Testo unico in materia di spese di giustizia, aggiungendo un comma all’articolo 83 con il quale si accelerano i tempi di emissione del decreto di pagamento dell’onorario e delle spese spettanti al difensore, all’ausiliario del magistrato e al consulente tecnico di parte: il decreto sarà emanato dal giudice contestualmente al provvedimento che chiude la fase cui si riferisce la richiesta. Per arrivare all’automazione dei delle attività amministrative per il pagamento delle spese di giustizia e dei crediti per violazione della ragionevole durata del processo i capi degli uffici giudiziari potranno poi stipulare convenzioni, di durata triennale, con i consigli dell’ordine forense, per la destinazione di personale dei consigli a supporto delle attività di cancelleria e segreteria. Per la durata della convenzione gli oneri retributivi e previdenziali sono a carico dei consigli dell’ordine, con esclusione di qualsiasi remunerazione da parte dell’amministrazione della giustizia, senza instaurazione con la stessa di alcun tipo di rapporto di lavoro. Sei anni di depistaggi, così volevano nascondere la verità su Cucchi di Guido Ruotolo La Stampa, 17 dicembre 2015 Il pm di Roma punta il dito sui Carabinieri e nomina un nuovo perito. Il 30 giugno scorso, il carabiniere Riccardo Casamassima detta a verbale: "Il maresciallo Mandolini (comandante della Stazione dei carabinieri Roma-Appia, ndr) mettendosi una mano sulla fronte mi disse: "è successo un casino, i ragazzi hanno massacrato di botte un arrestato". Mandolini si diresse verso l’ufficio del comandante di Torvergata e, in presenza della mia compagna, il carabiniere Rosati, aggiunse il nome dell’arrestato, Cucchi, e disse che stavano cercando di scaricare la responsabilità sugli agenti della Polizia Penitenziaria". La verità sulla morte di Stefano Cucchi sta emergendo in tutta la sua drammaticità. In cinquanta pagine il pm Giovanni Musarò ricostruisce sei anni di depistaggi, di silenzi omissivi, di complicità dentro un microcosmo dell’Arma dei carabinieri. Nuova inchiesta. La nuova inchiesta della procura di Giuseppe Pignatone nata un anno fa, dopo le deposizioni di due detenuti e due carabinieri, e grazie alle intercettazioni telefoniche e poi agli interrogatori di oltre quaranta testi, è arrivata al giro di boa. Adesso un nuovo perito dovrà decidere se riformulare la gravità delle lesioni subite dal povero ragazzo pestato da tre carabinieri (ad oggi sono state ritenute lesioni guaribili tra i 20 e 40 giorni). E se verrà accertato il nesso di casualità tra il pestaggio e la morte di Cucchi, ai carabinieri indagati sarà contestato il reato di omicidio preterintenzionale. Sei anni di depistaggi per nascondere una drammatica verità. Ne è convinto il pm Musarò che lo scrive nella richiesta di incidente probatorio: "Fu scientificamente orchestrata una strategia finalizzata ad ostacolare l’esatta ricostruzione dei fatti e l’identificazione dei responsabili, per allontanare i sospetti dai carabinieri appartenenti al Comando Stazione di Roma Appia". Furono i carabinieri che arrestarono e poi perquisirono Stefano Cucchi a massacrarlo di botte, a sottoporlo a quello che il pm Giovanni Musarò definisce "un violentissimo pestaggio". A leggere gli atti delle indagini vengono fuori le omissioni come, per esempio, l’assenza dei nominativi dei due carabinieri che arrestarono Stefano Cucchi, che lo pestarono di botte. È impressionante il dialogo intercettato tra uno dei carabinieri autori del pestaggio e la sua ex moglie. Alla donna lui aveva raccontato sei anni prima di aver partecipato al pestaggio di Cucchi. Quando il carabiniere viene interrogato nel luglio scorso, la donna gli invia un sms: "Non mi ha stupito leggere il tuo nome, prima o poi sarebbe successo. Ecco quali erano i problemi al lavoro". Brogliacci sbianchettati Preoccupato, il carabiniere chiama la donna: "Che cosa volevi dire? Prima fammi capì’ tu hai la palla di vetro? Io non ho fatto niente, perché dovevo aspettarmi una cosa del genere?". Lei: "Tu non hai fatto niente? È quello che raccontavi a me, a tua mamma, a tuo padre. Che te ne vantavi pure... che te davi le arie. Raffaè hai raccontato di quanto vi eravate divertiti a picchiare quel drogato di merda". Si capisce, leggendo le carte, che tra le stazioni dei carabinieri di Roma-Appia, Torvergata, Tor Sapienza, si è cercato di nascondere i fatti. Si è usato il "bianchetto" per cancellare il nominativo di Cucchi dal registro dei foto-segnalamenti. Cucchi, nella ricostruzione della Procura di Roma, si oppone al rilevamento delle impronte digitali, si dimena, gli parte uno schiaffo contro un carabiniere. E a quel punto il pestaggio scientifico di altri tre carabinieri. Sei anni di bugie Perché viene cancellato il suo nome da quel registro? Perché il maresciallo della stazione interrogato a processo dice che il foto-segnalamento non era obbligatorio? E perché i carabinieri che massacrano di botte Cucchi, ufficialmente non esistono e vengono protetti dalle stazioni dell’Arma? Sei anni dopo, la verità comincia ad affermarsi. Nel novembre dell’anno scorso la Corte d’assise d’Appello nell’assolvere anche i medici del Pertini mandarono gli atti alla Procura di Roma, ravvisando il comportamento omissivo di alcuni carabinieri. E la Cassazione l’altro giorno ha confermato che non sono stati gli agenti della penitenziaria a picchiare il ragazzo. Poi anche quel muro alzato da un "codice d’onore" rispettato da commilitoni, sottufficiali, familiari, si è sgretolato. È ora La famiglia di Stefano Cucchi potrà avere finalmente giustizia. Stalking anche se l’autore è paranoidee la vittima non ricorda l’ora e il luogo di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 17 dicembre 2015 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 16 dicembre 2015 n. 49613. La vittima di stalking non deve ricordare i comportamenti vessatori perpetrati nei suoi confronti nei minimi particolari. Non deve cioè fornire spiegazioni dettagliate sull’ora e il luogo in cui questi episodi si sono verificati. Ricorda la Cassazione - con la sentenza n. 49613/2015 - che avendo il reato natura abituale è sufficiente che gli atti persecutori abbiano avuto un effetto destabilizzante della serenità dell’equilibrio psico-fisico della vittima. La denuncia della vittima - Nel caso concreto i giudici di merito avevano ritenuto sufficiente la denuncia della vittima delle ripetute minacce e molestie subite in conseguenza delle quali era stata costretta a rivolgersi a uno psicologo e ad assumere psicofarmaci per contrastare lo stato di ansia e depressione che l’affliggeva. La difesa dello stalker, peraltro, aveva eccepito come il soggetto avesse dei disturbi della personalità che non erano stati correttamente valutati dai giudici. Sul punto la Cassazione ha precisato che l’imputato, in funzione anche, di una ctu espletata alcuni anni prima era affetto da un disturbo di personalità paranoidea e dal morbo di Crohn. I giudici di merito - nonostante la commissione tecnica di Padova avesse riconosciuto un’invalidità civile pari all’80% - non hanno ravvisato nell’imputato la mancanza della capacità di intendere e di volere. Ipotesi questa che si sarebbe verificata se la personalità dell’indagato fosse sfociata in un atteggiamento di tipo psicotico e solo in questo caso si sarebbe potuto mettere in discussione la capacità di intendere e volere dello stalker. La difesa dell’imputato - I noltre la difesa dell’imputato aveva respinto l’accusa sulla base che i danni subiti dalla vittima non avessero avuto un riscontro oggettivo e che provenissero solo su dichiarazione di parte. E anche su questo punto la vittima ha avuto ragione. Questo perché i sintomi dichiarati dalla donna erano stati accertati dal marito e dal medico curante che per l’appunto le aveva prescritto una serie di farmaci per contrastare la sindrome ansioso-depressiva da cui era affetta. In particolare il medico aveva denunciato un persistente stato di stress nella vittima, che le impediva addirittura di dormire e riposare. Legittima, quindi, la condanna a 1 anno di reclusione invece di 1 anno e 6 mesi in funzione della richiesta di rito abbreviato. Atti sessuali con una minorenne, no all’attenuante se è rimasta incinta di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 17 dicembre 2015 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 16 dicembre 2015 n. 49572. Se gli atti sessuali compiuti con una minore ne hanno determinato la gravidanza, allora non può essere riconosciuta l’attenuante della "minore gravità", prevista dall’articolo 609 quater, terzo comma, del codice penale, considerato "l’innegabile danno al normale sviluppo psico - fisico che ciò provoca alla vittima". Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza del 16 dicembre 2015 n. 49572 , enunciando un principio di diritto e ricordando che tra gli elementi (fissati dal primo comma dell’articolo 133 del codice penale) denotanti la "gravità del reato" di cui il giudice deve tener conto "v’è anzitutto la gravità del danno cagionato alla persona offesa". Al contrario, secondo il ricorrente, la condanna a 3 anni di reclusione sarebbe sproporzionata in quanto, per un verso, "non sufficientemente motivata", e, per l’altro, non terrebbe conto delle giurisprudenza di cassazione che non esclude l’attenuante per il semplice fatto che la vittima sia minorenne. Ed in effetti la Suprema corte ammette che per consolidata giurisprudenza "l’attenuante speciale non può essere esclusa sulla scorta della valutazione dei medesimi elementi costitutivi della fattispecie criminosa", vale a dire la minore età della vittima e l’aver compiuto un atto sessuale, essendo, invece, necessario considerare "tutte le caratteristiche oggettive e soggettive del fatto che possono incidere in termini di minore lesività". Procedendo in questa direzione, i giudici di Piazza Cavour osservano che l’elemento del consenso da parte di un minore di 12 anni "non può certamente essere valutata a favore del ricorrente". Infatti, "in tema di atti sessuali con soggetto infra-quattordicenne, il consenso del minore, sebbene in astratto non del tutto trascurabile ove congiunto alla obiettiva minima intrusività delle condotte poste in essere, assume una rilevanza assolutamente marginale ai fini della graduazione della intensità della lesione patita dalla vittima e dell’eventuale riconoscimento dell’attenuante, in quanto il vizio radicale che colpisce tale manifestazione di volontà ne comporta la sostanziale svalutazione in assenza di altri significativi fattori denotanti la modestia dell’episodio criminoso". Infatti, ciò che rileva è la necessità di valutare il fatto alla luce di tutte le componenti nonché degli elementi indicati dal codice penale. E fra di essi, come detto, vi è certamente la gravità del danno cagionato. Per cui, prosegue la sentenza, "non v’è dubbio che l’aver provocato lo stato di gravidanza di una minore non ancora dodicenne determina un danno oggettivo al normale sviluppo psicofisico". A ciò va aggiunto che l’ipotesi attenuta è stata esclusa (in linea con la prevalente giurisprudenza della III Sezione) anche "in considerazione della reiterazione dei rapporti sessuali". Infine, riguardo la misura della pena, la sentenza ricorda che la determinazione tra il minimo ed il massimo edittale rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito "ed è insindacabile nei casi in cui la pena sia applicata in misura media e, ancor più, se prossima al minimo, anche nel caso il cui il giudicante si sia limitato a richiamare criteri di adeguatezza, di equità e simili". Chiamalo scemo di Filippo Facci Libero, 17 dicembre 2015 Dovete fare una vera riforma della custodia cautelare: ma fatela, sul serio, basta buffonate, basta margini discrezionali entro i quali la magistratura possa fare sempre ciò che vuole, sempre, con qualsiasi legge. Serve un governo - quale non importa - che se ne strafotta di resistenze corporative e scioperi, della bava forcaiola, con annessi reggicoda mediatici, del sindacato, dell’associazione e dei soliti imbecilli urlacchianti. Ieri un cittadino come cento altri, Paolo Ligresti, è stato assolto "perché il fatto non sussiste" e questo peraltro su richiesta dell’accusa, ma prima si è fatto due anni da uccel di bosco in Svizzera - chiamalo scemo - e solo nel giugno scorso, dopo la concessione dei domiciliari, è rientrato in Italia per farsi altri sei mesi agli arresti, cioè fino alla sentenza di ieri. Paolo Ligresti aveva preso la cittadinanza svizzera poco prima della richiesta d’arresto - chiamalo scemo - e così per due anni non è stato arrestato né estradato dalle procure di Torino e di Milano: e con che coraggio noi, ora, cittadini legalisti, dovremmo biasimarlo per la sua decisione di non consegnarsi alle forche italiane? Ha scelto di non stare in galera per quei due anni e mezzo che lo separavano dall’assoluzione, ha disconosciuto le indagini preliminari all’italiana sino alla dirittura dell’unica cosa che conta: la sentenza. Chiamalo scemo. Chiamalo scemo ma coi soldi, perché solo chi ne possiede, in Italia, può sottrarsi a quella schifosa vergogna chiamata custodia cautelare. Lettera aperta di un ergastolano a Eugenio Scalfari di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 17 dicembre 2015 Dottor Scalfari, ho letto da qualche parte che ha contribuito a fondare il settimanale "L’Espresso" ed è fondatore del quotidiano "La Repubblica". Ho letto pure che alcuni suoi articoli hanno dato avvio a battaglie ideologiche-culturali, come quelle che hanno portato al referendum sul divorzio e sull’aborto. L’altra settimana, dalla mia cella, l’ho ascoltata alla televisione con interesse durante la trasmissione "Otto e mezzo" di Lilli Gruber. Le confido che sono rimasto molto colpito della sua commozione per la scomparsa del presidente del Partito Comunista Enrico Berlinguer e per il racconto dell’abbraccio con Pietro Ingrao. Questo sia perché con Pietro ho scambiato qualche lettera, sia perché fra gli uomini ombra (come si chiamano fra loro gli ergastolani) lui era molto famoso per avere dichiarato in una intervista "Io sono contro l’ergastolo prima di tutto perché non riesco ad immaginarlo". Credo che però, a questo punto, sia il caso di presentarmi: sono un condannato alla pena dell’ergastolo (o alla Pena di Morte Nascosta, come la chiama Papa Francesco), in carcere da ventiquattro anni (il mese scorso sono entrato nel venticinquesimo). Dalla mia cella, ormai da molti anni, sono un attivista della campagna "Mai Dire Mai" per l’abolizione della pena senza fine. Se vuole sapere qualcosa più di me può visitare il sito che porta il mio nome www.carmelomusumeci.com dove fra l’altro c’è una proposta di iniziativa popolare per l’abolizione della pena dell’ergastolo (fra i primi firmatari c’è la compianta Margherita Hack, Umberto Veronesi, Bianca Berlinguer, Maria Agnese Moro, Don Luigi Ciotti, Stefano Rodotà, Giuliano Amato, Massimo D’Alema, la famosa pianista Alessandra Celletti e tanti altri.). Caro Dottor Scalfari, dopo averla ascoltata alla televisione e avere letto che ha una laurea in giurisprudenza, mi è venuta voglia di scriverle per farle alcune domande. Non credo avrà voglia e tempo di rispondermi ma, alla fine, mi sono deciso lo stesso perché penso che a volte le domande siano interessanti quanto le risposte. Sarei curioso di chiederle cosa ne pensa della pena dell’ergastolo, soprattutto di quello ostativo, quello che se parli esci, se no stai dentro come nel Medioevo. Mi creda, alcuni rifiutano questa "via di fuga" soprattutto per proteggere i loro familiari. Dottor Scalfari, credo che la condanna a essere cattivi e colpevoli per sempre sia una pena insensata perché non c’è persona che rimanga la stessa nel tempo. Senza un fine pena certo, all’ergastolano rimane "solo" la vita; ma la vita senza futuro è meno di niente. Mi creda, con la pena dell’ergastolo addosso è come se la vita diventasse piatta perché non puoi più fare progetti per il giorno dopo né per quello successivo. Il tempo dell’ergastolano è come se fosse scandito da una clessidra: quando la sabbia è scesa, la clessidra viene rigirata…e questo si ripete incessantemente, fino alla fine dei suoi giorni. Imprigionare una persona per sempre è come toglierle tutto e non lasciarle niente. Neppure la sofferenza, la disperazione, il dolore perché, con questa condanna, non si fa più parte degli esseri umani. Purtroppo con l’ergastolo la vita diventa una malattia. Ma la cosa più terribile che è una pena che non ti uccide e, ciò che è peggio, sotto un certo punto di vista, ti fa vergognare di essere un uomo. Alla lunga, infatti, ti fa diventare solo un corpo parlante. La condanna all’ergastolo assomiglia a una morte bevuta a sorsi, nell’oscurità e nel silenzio. Dottor Scalfari, un compagno a cui mancano un paio di mesi al fine pena, l’altro giorno si è confidato con me e mi ha detto che i secondi gli stanno sembrando minuti, i minuti ore, le ore giorni ed i mesi anni. Gli ho risposto: "Per fortuna io ho l’ergastolo e non ho bisogno di contare né i giorni, né i mesi, né gli anni, conto solo i capelli bianchi che mi stanno venendo". Il mio compagno ha annuito. Poi ha amaramente sorriso. E alla fine abbiamo riso insieme, anche se non c’era nulla da ridere perché, con questa pena, la vita diventa peggiore della morte. Gli ergastolani più fortunati si creano ogni giorno un mondo interiore costruito sul sale di tutte le loro lacrime, perché spesso è meglio non avere speranza che nutrirne di false. Con la condanna all’ergastolo la vita non vale più nulla perché non ha più presente né futuro, ma solo il passato. È vero che ogni pena uccide almeno un po’, ma la pena dell’ergastolo uccide "di più" perché ammazza anche la speranza. Si potrebbe dire che l’ergastolano non vive, mantiene in vita solo il suo corpo. E ogni giorno in meno è sempre un giorno in più da scontare. Purtroppo, molti non sanno che la pena dell’ergastolo ci lascia la vita, ma ci divora la mente, il cuore e l’anima. La maggioranza delle persone è contraria alla pena di morte, ma con la pena capitale il colpevole soffre solo un attimo, con l’ergastolo invece il condannato soffre tutta la vita. Mi chiedo se, forse, questa forma di "vendetta" che nulla ha a che fare con la giustizia, possa soddisfare qualcuno, comprese le vittime dei reati che abbiamo commesso. A questo punto, caro Dottor Scalfari, chi è più criminale: chi uccide perché cresciuto in ambienti degradati, per potere, ignoranza, soldi, futili motivi, passioni morbose e malate, o chi lo fa in nome della giustizia o del popolo italiano, murando vive delle persone vive, senza neppure la compassione di ammazzarle? Se riterrà opportuno rispondermi, ne sarò felice e la ringrazio anticipatamente. Le auguro buona vita e con simpatia le invio un sorriso fra le sbarre. Veneto: due medici per stabilire se l’ex governatore Galan andrà in carcere di Carlo Bellotto Il Mattino di Padova, 17 dicembre 2015 Il tribunale di Sorveglianza ha affidato l’incarico a un cardiologo e un diabetologo per decidere se lo stato di salute del deputato di Fi è compatibile con la detenzione. Saranno due medici a stabilire il futuro di Giancarlo Galan, almeno quello legato al periodo che l’ex governatore deve scontare come detenzione prima di tornare un uomo libero. Nell’udienza di ieri al Tribunale di Sorveglianza a Padova è stato dato l’incarico ad un cardiologo e un diabetologo: il professor Francesco Maria Avato, medico legale all’Università di Ferrara e il professor Giovanni Zuliani, specialista in Scienza del Metabolismo, pure lui dell’Università Estense. Entro il 3 febbraio 2016 (data della prossima udienza) dovranno dire se le sue condizioni di salute sono compatibili con il carcere, con la detenzione domiciliare e con l’affidamento ai servizi sociali. L’udienza di ieri era presieduta dal giudice Giovanni Maria Pavarin affiancato dalla collega Silvia Franzoso, Paolo Luca il pubblico ministero. Galan sta scontando due anni e 10 mesi in totale, oltre al pagamento di una multa di 2,6 milioni di euro, patteggiati per corruzione nell’ambito dell’inchiesta-scandalo sul Mose. Era presente in aula solo il suo avvocato Antonio Franchini. Nel frattempo procede alla Camera l’iter che porterà alla decadenza di Galan da deputato. Il Comitato per le incompatibilità, le ineleggibilità e le decadenze di Montecitorio sta valutando la posizione del deputato forzista che dal 9 ottobre 2014 (dopo 78 giorni trascorsi nel carcere di Opera) si trova agli arresti domiciliari dove sta scontando la condanna. È in base alla legge Severino che il parlamentare padovano rischia la decadenza da parlamentare; si tratta della stessa procedura che il 27 novembre 2013 ha privato del seggio di senatore l’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. L’organismo parlamentare dovrà esaminare la sentenza della Corte di Cassazione che ha confermato il patteggiamento e mandare un avviso a Galan che avrà la facoltà di presentare una memoria. Al dibattito assembleare dovrebbe partecipare lo stesso Galan, il quale però avrà la necessità di chiedere un permesso al Tribunale di Sorveglianza. Un iter complesso che dovrebbe concludersi entro fine gennaio. L’iter ha subito una accelerazione grazie a Fabiana Dadone, deputata cuneese del Movimento Cinque Stelle e membro della giunta per le Elezioni. Si è rivolta al tribunale di Venezia per ottenere la copia conforme della sentenza, "con il timbro dell’irrevocabilità", della sentenza di condanna di Galan che pareva destinata a restare dimenticata in qualche cassetto della settima sezione penale della Corte di Cassazione. Proprio questo documento è pervenuto il 19 novembre scorso alla presidente della Camera, Laura Boldrini, che l’ha tempestivamente girato al presidente della giunta delle Elezioni, il pentastellato Giuseppe D’Ambrosio, ha messo in moto l’iter che dovrebbe portare alla decadenza. Sicilia: assenteismo all’Ufficio del Garante per diritti dei detenuti, nove condannati di Riccardo Arena Giornale di Sicilia, 17 dicembre 2015 Oltre che infliggergli dieci mesi ciascuno, con la pena sospesa, il giudice ha condannato nove impiegati regionali, ritenuti assenteisti, anche alla confisca per equivalente del maltolto: il danno era però contenuto e dunque pagando fra 250 e 750 euro a testa gli imputati eviteranno che lo Stato si impadronisca delle loro televisioni o di qualche mobile antico. Ma la decisione del giudice monocratico della quinta sezione del tribunale di Palermo, Fabrizio Anfuso, ha una forte valenza simbolica, perché ad essere preso di mira, nel processo chiuso ieri con la sentenza, era stato un ufficio spesso al centro di polemiche, quello che si occupa dei diritti del detenuto e ha sede in via Magliocco. Anche dopo il blitz con cui la Guardia di Finanza aveva denunciato per truffa aggravata tutto l’ufficio (compreso il dirigente Lino Buscemi, la cui posizione era stata poi archiviata, per l’infondatezza della contestazione), c’erano state polemiche durissime tra l’allora garante, Salvo Fleres, autore di alcune segnalazioni contro i suoi impiegati, e lo stesso Buscemi, che rispondeva di concorso nella truffa e di omessa denuncia. Le condanne riguardano Giuseppe Anello, Aurelio Antonio Buscemi, Emanuele Cosenza, Lamberto Cosenza, Giuseppe Maria Di Leonardo, Vita Di Noto, Michelina La Cagnina, Maria Solaro e Massimo Vitale. Sono difesi dagli avvocati Mauro Torti, Fabrizio Biondo e Roberto Mangano, che hanno preannunciato l’appello. Padova: detenuto rumeno muore dopo 20 mesi dal pestaggio in carcere di Alice Ferretti Il Mattino di Padova, 17 dicembre 2015 Nicolau, 61 anni, è deceduto in ospedale dopo quasi due anni dal ricovero per un "trauma cranico facciale da percosse con emorragia cerebrale". È stato massacrato di botte in carcere e dopo quasi due anni di ricovero è morto in ospedale. Si profila un caso di omicidio sulla vicenda del detenuto rumeno Costantin Nicolau, 61 anni, picchiato con una inaudita violenza nell’aprile del 2014 all’interno del carcere Due Palazzi di Padova. Dopo un anno e otto mesi da quella domenica mattina in cui venne ricoverato d’urgenza per un "trauma cranico facciale da percosse con emorragia cerebrale" il detenuto è deceduto. E ora con tutta probabilità sulla vicenda verrà aperta un’inchiesta per omicidio. Un’inchiesta che scuoterà l’ambiente della casa di reclusione padovana e che comporterà nuove indagini sulle dinamiche interne alla struttura: rapporti tra detenuti e detenuti, ma anche rapporti tra agenti penitenziari e reclusi. Il caso di Costantin Nicolau non è stato chiaro fin da subito e forse non lo è neppure adesso. Il giorno in cui il sessantenne rumeno è stato ricoverato in fin di vita in terapia intensiva in un primo momento si parlava infatti di una violenta caduta a terra. Questa era stata la prima notizia data al personale del 118 che l’aveva soccorso nella sua stanza del terzo piano dell’istituto penitenziario. Ma è bastato poco ai sanitari per capire che il trauma riportato dal detenuto non era compatibile con quello di una caduta. Constantin Nicolau, volto distrutto ed estesa emorragia cerebrale, era stato picchiato. Da una o più persone. Ma si sa, il codice del carcere è un codice duro. Non si può fare la spia, non si può raccontare di essere stati picchiati da altri detenuti. Pena una permanenza infernale per tutto il periodo della reclusione. E così deve aver fatto anche Constantin Nicolau, che mai ha voluto ammettere le percosse ricevute. La paura di ritorsioni nell’ambiente carcerario è una realtà purtroppo molto presente. Ci sono delle regole non scritte tra detenuti che tutti rispettano. C’è chi comanda e chi è comandato e forse il rumeno in qualche modo era venuto meno alle regole imposte da qualche detenuto. Tutte ipotesi che da quasi due anni ormai sono al vaglio della polizia penitenziaria, e che ora più che mai a fronte di un ipotetico omicidio dovranno essere prese in considerazione. Dovranno essere eseguite ulteriori verifiche. Sia sul cadavere di Constantin Nicolau per avere ulteriore conferma che quei traumi così estesi erano il frutto di un pestaggio, sia sui sistemi di videosorveglianza del carcere e sugli agenti penitenziari in servizio quella domenica mattina. Dopo tante traversie al carcere Due Palazzi cala una nuova ombra. "Detenuto massacrato di botte in carcere", di Enrico Ferro (8 aprile 2014) Agli operatori dell’ambulanza ha riferito di essere rimasto vittima di una brutta caduta ma i medici del pronto soccorso si sono resi conto che le ferite erano compatibili con un violento pestaggio. Costantin Niculau, 60 anni, rumeno, detenuto al carcere Due Palazzi, è ora ricoverato in fin di vita in terapia intensiva. La diagnosi parla chiaro: "trauma cranico facciale da percosse con emorragia cerebrale". È successo domenica mattina, al terzo piano del penitenziario. Gli operatori della casa di reclusione hanno telefonato al 118 chiedendo l’intervento di un’ambulanza per un incidente successo ad un detenuto. In carcere, si sa, nessuno mai ammette di essere stato picchiato dagli altri detenuti: ne va della serena permanenza futura. E infatti, anche in questo caso, la prima notizia data al personale del Suem riguardava una violenta caduta a terra. Costantin Niculau è stato ricoverato in pronto soccorso ma è bastato poco a chi l’ha visitato per capire che quelle ferite non c’entravano proprio con il tipo di incidente descritto. È stata attivata quindi tutta la "macchina" delle verifiche. Spetterà alla polizia penitenziaria capire cosa è successo nei corridoi del carcere domenica mattina. Quel che è certo, è che il sessantenne rumeno è stato pestato da una o più persone. Ha il viso distrutto e le botte ricevute gli hanno provocato anche una emorragia cerebrale. Dentro le mura del Due Palazzi, come in ogni altro carcere, ci sono dinamiche ben precise di convivenza. Il sospetto è che Costantin Niculau sia venuto meno in qualche modo alle regole imposte dai detenuti più carismatici. Un comportamento che avrebbe scatenato la rabbia e successivamente la violenza. Ciò che è successo, comunque, è ancora tutto da ricostruire. Sicuramente saranno sentiti gli agenti in servizio domenica mattina. Non solo. Saranno sequestrate anche le immagini riprese dalle telecamere di sorveglianza. Ogni sezione della casa di reclusione è infatti vigilata dall’occhio elettronico: un modo per cercare di monitorare il comportamento degli 870 detenuti attualmente presenti al Due Palazzi. Le sequenze potrebbero aiutare gli uomini della polizia penitenziaria a individuare i responsabili del pestaggio. Difficile sarà invece riuscire a capire i motivi che hanno scatenato la violenza. Il rumeno potrebbe avere infranto una delle regole non scritte che scandiscono la vita tra le mura del penitenziario. Napoli: chiude l’Opg di Secondigliano, nel "Reparto verde" detenuti di media sicurezza Il Velino, 17 dicembre 2015 "Entro il 21 dicembre gli ultimi pazienti lasceranno l’Opg di Napoli Secondigliano, denominato "Reparto verde", e la struttura sarà riconvertita in reparto penitenziario destinato ad accogliere detenuti di media sicurezza". Così la nota dell’Ufficio Stampa e Relazioni Esterne del Ministero della Giustizia- Dipartimento amministrazione penitenziaria. I pazienti - è scritto nel testo - troveranno ospitalità nelle nuove Rems situate a San Nicola Baronia e Vairano Patenova che si aggiungono alla Rems di Mondragone e Rocca Romana. "Ciò è stato possibile - fanno sapere dal Ministero della Giustizia - grazie alle intese tra il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, curate dal competente ufficio delle misure di sicurezza della direzione generale dei detenuti e del trattamento, e la Regione Campania. Le interlocuzioni dirette tra il Capo dell’Amministrazione Penitenziaria e il referente della Regione Campania hanno definito gli ultimi adempimenti per il definitivo superamento dell’Opg di Napoli e per la presa in carico dei pazienti residenti in Regione. I non residenti sono stati già trasferiti a seguito delle intese raggiunte con le rispettive Regioni interessate. L’attivazione del nuovo reparto detentivo di Napoli Secondigliano, dotato di ampie aree verdi e di spazi per le attività comuni - conclude il testo - offrirà positivi riflessi per il miglioramento trattamentale nelle altre strutture penitenziarie della Campania e di Napoli in particolare". Altamura (Ba): "Welcome", un progetto di inclusione sociale per detenuti altamuralive.it, 17 dicembre 2015 Il sindaco di Altamura Giacinto Forte ha partecipato lo scorso martedì 16 dicembre presso la casa di reclusione di Altamura (sezione a custodia attenuata della Casa circondariale di Bari), alla presentazione di "Welcome", progetto sperimentale di inclusione sociale per persone in esecuzione di pena. Il progetto, realizzato dalla Società cooperativa Auxilium, ha avuto come scopo il coinvolgimento dei detenuti della casa di reclusione di Altamura in attività volte all’accrescimento dell’autostima, all’apprendimento delle competenze atte allo svolgimento della figura professionale dell’operatore per attività di pittura, stuccatura, rifinitura e decorazione edilizia, nonché promuovere la partecipazione lavorativa degli stessi. "Il progetto appena concluso - ha dichiarato il Sindaco di Altamura - ha dato la tangibile dimostrazione di come si possano coinvolgere attivamente i detenuti. Non si tratta solo di disegni e pitture, ma di vere e proprie opere d’arte. Un ringraziamento va alla direttrice della casa di reclusione di Altamura, dott.ssa Lidia De Leonardis, che sta elevando con sacrificio e determinazione il livello della struttura. Un grande apprezzamento va anche a tutti coloro che hanno organizzato e partecipato al progetto, rendendo la casa di reclusione altamurana molto più accogliente, non solo per coloro che vi sono ospitati, ma anche per le famiglie che fanno visita ai loro cari". Roma: agente della Polizia penitenziaria aggredito da due detenuti minorenni romatoday.it, 17 dicembre 2015 I fatti nel carcere minorile di via Virginia Agnelli a Casal del Marmo. La vittima medicata in ospedale con venti giorni di prognosi. Nuovo atto di violenza all’interno del carcere minorile (Centro di Prima Accoglienza) di via Virginia Agnelli a Casal del Marmo, dove nella giornata di ieri due detenuti minorenni hanno consumato l’ennesima aggressione in danno di un poliziotto in servizio. A darne notizia è il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "I due hanno aggredito l’Agente di Polizia Penitenziaria senza alcuna motivazione. L’agente - spiega il Segretario generale Sappe Donato Capece - ha riportato delle escoriazioni e gli sono stati refertati 20 giorni di prognosi". "Le carceri sono più sicure assumendo gli Agenti di Polizia Penitenziaria che mancano, finanziando gli interventi per far funzionare i sistemi anti-scavalcamento, potenziando i livelli di sicurezza delle carceri". "Altro che la vigilanza dinamica - prosegue ancora Capece - che vorrebbe meno ore i detenuti in cella senza però fare alcunché". In particolare la nota del Sappe punta il dito contro la gestione degli istituto penitenziari e la giustizia minorile: "Al superamento del concetto dello spazio di perimetrazione della cella e alla maggiore apertura per i detenuti deve associarsi la necessità che questi svolgano attività lavorativa e che il personale di Polizia Penitenziaria sia esentato da responsabilità derivanti da un servizio svolto in modo dinamico, che vuol dire porre in capo a un solo poliziotto quello che oggi fanno quattro o più agenti, a tutto discapito della sicurezza. Le idee e i progetti dell’Amministrazione Penitenziaria e della Giustizia Minorile - si legge ancora nella nota stampa del sindacato - in questa direzione, si confermano ogni giorno di più fallimentari e sbagliati così come ribadiamo che per il Sappe è impensabile far convivere negli stessi ambienti carcerari adulti di venticinque anni con ragazzini di quindici". Il Segretario generale del Sappe conclude sostenendo che "la Polizia Penitenziaria continua a ‘tenere bottà, nonostante le quotidiane aggressioni. Ma è sotto gli occhi di tutti che servono urgenti provvedimenti per frenare la spirale di violenza che ogni giorno coinvolge, loro malgrado, appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria nelle carceri italiane, per adulti e minori". Milano: trovato telefono cellulare in cella a San Vittore. Il Sappe "schermare le carceri" Agenparl, 17 dicembre 2015 "Il cellulare è stato trovato, nel pomeriggio, nella cella di due detenuti stranieri. Il tutto è stato ritirato e segnalato ai superiori uffici dipartimentali e regionali nonché all’Autorità Giudiziaria. Al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria chiediamo interventi concreti come, ad esempio, la dotazione ai Reparti di Polizia Penitenziaria di adeguata strumentazione tecnologica per contrastare l’indebito uso di telefoni cellulari o altra strumentazione elettronica da parte dei detenuti nei penitenziari italiani", aggiunge. "Il rinvenimento è avvenuto - spiega Capece - grazie all’attenzione, allo scrupolo ed alla professionalità di Personale di Polizia Penitenziaria in servizio". Il Sappe ricorda che "sulla questione relativa all’utilizzo abusivo di telefoni cellulari e di altra strumentazione tecnologica che può permettere comunicazioni non consentite è ormai indifferibile adottare tutti quegli interventi che mettano in grado la Polizia Penitenziaria di contrastare la rapida innovazione tecnologica e la continua miniaturizzazione degli apparecchi, che risultano sempre meno rilevabili con i normali strumenti di controllo". "A nostro avviso - conclude il leader dei Baschi Azzurri - appaiono pertanto indispensabili, nei penitenziari per adulti e per minori, interventi immediati compresa la possibilità di "schermare" gli istituti penitenziari al fine di neutralizzare la possibilità di utilizzo di qualsiasi mezzo di comunicazione non consentito e quella di dotare tutti i reparti di Polizia Penitenziaria di appositi rilevatori di telefoni cellulari per ristabilire serenità lavorativa ed efficienza istituzionale, anche attraverso adeguati ed urgenti stanziamenti finanziari". Avellino: detenuti di S. Angelo da Papa Francesco "nel carcere altirpino c’è inclusione" irpinianews.it, 17 dicembre 2015 "È una giornata meravigliosa che io detenuto mai mi sarei sognato di vivere un giorno". È tale l’emozione del momento che Giovanni, uno dei reclusi nella Casa di Reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi, non riesce ad aggiungere altro quando si è trovato di fronte Papa Francesco. Null’altro, tant’è che pure quando il Pontefice gli ha chiesto della sua reclusione ha continuato a ripetere come una filastrocca che quella di lunedì 14 dicembre 2015 è stata una "giornata meravigliosa" che mai riuscirà a dimenticare, campasse cent’anni. L’incontro del Santo Padre con i detenuti del carcere altirpino è avvenuto in occasione della ricorrenza del ventennale del Progetto Policoro, il progetto della Cei nato con lo scopo di aiutare i giovani disoccupati o sottoccupati del Sud Italia. Gesto concreto in Campania di questo progetto è la Cooperativa sociale il Germoglio di Sant’Angelo dei Lombardi, che nel tenimento agricolo del carcere altirpino produce i vini tipici del territorio, dando lavoro ad una decina di reclusi. L’evidente emozione dei detenuti ha fatto sorridere il Papa, il quale ha poi voluto sapere da tutti loro del lavoro in carcere e dei propositi per quando usciranno. Il Pontefice, dopo aver ricordato che potranno lucrare l’indulgenza concessa ai peccatori per l’anno giubilare ogni volta che varcheranno la porta della loro cella facendosi il segno di croce, ha detto ai detenuti: "Mi raccomando, pregate anche per me!". "Non ne siamo degni", ha aggiunto uno di loro, meritandosi lo sguardo di incoraggiamento di Bergoglio, che ai reclusi nelle carceri ha pensato anche nella bolla di indizione del Giubileo della Misericordia. L’iniziativa di arrivare a Roma assieme ai detenuti è stata fortemente voluta da Fiorenzo Vespasiano e don Rino Morra, referenti regionali del Progetto Policoro, i quali hanno consegnato al Pontefice, assieme al vino "Galeotto" prodotto nel carcere di Sant’Angelo, alcune lettere dei reclusi che lo ringraziano per quanto sta facendo per il pianeta carcere e gli chiedono di andare in visita al loro carcere, "una struttura dove la reclusione non è sinonimo di esclusione, bensì si coniuga con lo sforzo dell’inclusione umana, sociale e lavorativa". E non erano meno emozionati gli altri detenuti, Giosefatto, Giuseppe, Raffaele e Costantino. Quest’ultimo, ventotto anni di cui dieci trascorsi in carcere, si è sentito addirittura "un miracolato" poiché, poco prima di salire sul pullman che lo avrebbe portato in Vaticano, gli è stato notificato il provvedimento inaspettato che lo rimetteva anticipatamente in libertà per fine pena. Della mission della Cooperativa il Germoglio ha parlato dal palco dell’Aula "Paolo VI" in Vaticano il presidente Marco Luongo, il quale ha spiegato le ragioni che hanno spinto un gruppo di giovani a restare in Irpinia quando tutti gli altri loro coetanei andavano via e ha detto della voglia di affiancare le loro speranze a quelle di tanti soggetti svantaggiati, come i detenuti a cui intendono offrire un’opportunità di riscatto dagli errori commessi. Del resto è proprio questa la finalità del Progetto Policoro, che dimostra come anche per i giovani "non raccomandati" sia possibile un lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale. Un progetto di vita in perfetta sintonia con le parole di Papa Francesco, che nel suo discorso tutto incentrato sulla dignità del lavoro, specie per i giovani, li ha incoraggiati a non rassegnarsi dinanzi alle difficoltà del momento, ammonendo che il lavoro non deve essere un dono concesso solo ai raccomandati e ai corrotti ma è un diritto per tutti e li ha sollecitati a non perdere di vista l’urgenza di riaffermare questa dignità. "Il mio invito - ha proseguito Bergoglio - è quello di continuare a promuovere iniziative di coinvolgimento giovanile in forma comunitaria e partecipata, poiché spesso dietro a un progetto di lavoro c’è tanta solitudine. A volte i nostri giovani si trovano a dover affrontare mille difficoltà, senza alcun aiuto e le stesse famiglie, che pure li sostengono, non possono fare tanto, cosicché molti, scoraggiati, sono costretti a rinunciare". Reggio Emilia: in Municipio la presentazione del libro del detenuto serbo Milan Mazi modena2000.it, 17 dicembre 2015 Ieri mattina, nella sala Rossa del Municipio di Reggio Emilia, si è svolta la presentazione del libro di racconti "Anche questo è un uomo. Dialoghi e racconti dal carcere a microfoni spenti" di Milan Mazic, detenuto nel carcere di Reggio Emilia. Nato a Zemun (Serbia) il 20 settembre 1953, e attualmente detenuto nel carcere di Reggio Emilia, Milan Mazic racconta come nella casa circondariale si sia trasformato da esempio negativo a modello positivo. I racconti di Milan Mazic parlano della vita del carcere e di come i carcerati vedono la vita esterna attraverso le sbarre, carica di nostalgia, rimpianti, difficoltà nei rapporti interpersonali. Ironia, saggezza pratica e relazioni umane sono gli ingredienti delle storie raccontate, che mostrano le anime del carcere. Mazic definisce i suoi scritti "dialoghi e racconti a microfoni spenti", proprio per accentuare la difficoltà di comunicazione dovuta sì all’isolamento ma anche ai pregiudizi che portano a tenere lontano chi è recluso, anche se ha pagato il suo debito. Alla presentazione hanno partecipato, oltre all’autore Milan Mazic, il vicesindaco del Comune di Reggio Emilia Matteo Sassi; Paolo Madonna, direttore degli Istituti penali di Reggio Emilia, e Marco Ruini, responsabile di Libera Università Neuroscienze Anemos, che ha curato la pubblicazione dell’opera. "Nello scrivere questo libro - ha detto Mazic - mi sono chiesto: Se prima di finire in carcere, del meglio della vita ho preso solo il peggio, perché ora dal peggio non trarre il meglio? Spesso i detenuti vengono dipinti come persone ignoranti o poco intelligenti, ma non è così: con questo libro ho cercato di dare voce ai carcerati, ai reclusi, a chi paga i propri errori con la perdita della libertà". "Questo libro - ha detto il vicesindaco Sassi - parla di detenzione e pena, temi delicati che spesso vengono trattati sottobanco o in maniera retorica. Quando si affrontano questi argomenti, invece, bisogna sforzarsi di abbandonare toni retorici, richiamando il valore e l’importanza dei singoli contributi di ciascuno nella quotidianità, nell’aiutare gli altri. Questo impegno è il valore aggiunto di una città che lavora giorno dopo giorno con un senso dell’etica, intelligenza e passione, veri elementi che fanno la differenza, senza effetti speciali". "Con questo libro - ha detto il direttore Madonna - Mazic trasmette un mondo di emozioni e sensazioni che non ci si aspetterebbe di trovare all’interno del carcere, un posto che normalmente immaginiamo solo come un luogo popolato da persone molto lontane e diverse da noi. Le storie di Mazic, invece, ci riguardano da vicino e hanno sullo sfondo la speranza del cambiamento". Ruini ha infine ricordato il lavoro dei volontari dentro al carcere e ha ribadito come "i racconti di Milan Mazic ci obblighino a metterci in ascolto, offrendo il punto di vista di chi sta scontando la pena e diversi spunti per aprire una riflessione sul carcere e sul suo ruolo di reinserimento di chi ha sbagliato". Il ricavato della vendita del libro, la cui realizzazione è stata finanziata dall’associazione culturale Anemos, sarà devoluto a favore di iniziative sociali e culturali in carcere. Volterra (Pi): "Cene Galeotte", dieci anni all’insegna della solidarietà ilviaggiatore.it, 17 dicembre 2015 Spegne le sue prime dieci candeline una delle iniziative benefiche più conosciute ed attese a livello nazionale, un appuntamento unico che vede detenuti e chef professionisti lavorare fianco a fianco per regalare al pubblico un ciclo di serate dalla fortissima valenza sociale. Sono le Cene Galeotte (cenegaleotte.it), che vedranno quest’anno realizzate sei imperdibili cene in programma dal 18 dicembre 2015 al 12 agosto 2016 presso la Casa di Reclusione di Volterra (Pi). Un successo crescente dimostrato dai numeri, con oltre 1.200 partecipanti la scorsa edizione e più di 13.000 visitatori che dalla "prima" del 2005 hanno varcato le porte del carcere, vivendo in prima persona un progetto-modello votato al recupero sociale dei detenuti coinvolti. Un evento dall’anima anche benefica, con il ricavato (35 euro a persona) come sempre devoluto ai progetti umanitari sostenuti dalla Fondazione Il Cuore si Scioglie Onlus (cambiala.it/fondazione), che dal 2000 vede impegnata Unicoop Firenze assieme al mondo del volontariato laico e cattolico. Si rinnova dunque la possibilità di un’esperienza irripetibile per i visitatori, ma anche un momento vissuto con grandissimo coinvolgimento da parte dei detenuti, che grazie al percorso formativo in sala e cucina vanno acquisendo un bagaglio professionale che in ben sedici casi si è tradotto in vero impiego presso ristoranti locali, secondo l’art. 21 che regolamenta il lavoro al di fuori del carcere. Nuovi chef coinvolti nel progetto, nuove emozionanti serate, ma formula vincente che resta invariata. La Fortezza Medicea che ospita la Casa di Reclusione aprirà alle ore 19.30 le porte per l’aperitivo, servito nel cortile interno sotto le antiche mura: a seguire la cena (ore 20.30), nella vecchia cappella dell’Istituto trasformata per l’occasione in sala ristorante con tanto di candele, camerieri/sommelier in divisa e, nel piatto, i menu preparati dai carcerati con l’aiuto - a titolo assolutamente gratuito - di chef professionisti. Il tutto accompagnato dai vini offerti da grandi aziende italiane. Le Cene Galeotte sono possibili grazie all’intervento di Unicoop Firenze, che oltre a fornire le materie prime necessarie alla realizzazione dei piatti assume i detenuti retribuendoli regolarmente. Il progetto è realizzato con la collaborazione del Ministero della Giustizia, la direzione della Casa di Reclusione di Volterra, la supervisione artistica del giornalista e critico enogastronomico Leonardo Romanelli, che provvede ad individuare gli chef coinvolti nell’evento, e il supporto comunicativo di Studio Umami. Un ruolo fondamentale è inoltre ricoperto dalla Fisar-Delegazione Storica di Volterra (fisarvolterra.it), partner storico del progetto. Per informazioni: cenegaleotte.it Per prenotazioni: Agenzie Toscana Turismo, Argonauta Viaggi (gruppo Robintur), Tel. 055.2345040 Alessandria: il Natale speciale in carcere, che festa quando entrano i bambini alessandrianews.it, 17 dicembre 2015 Concerto in carcere per i detenuti di San Michele, grazie agli artisti del conservatorio Vivaldi di Alessandria, ma l’emozione più grande è stata l’esibizione dei bambini di una classe 5 dell’istituto comprensivo Galilei. "Iniziative come queste creano ponti fondamentali con l’esterno. La musica è libertà". Mercoledì 16 dicembre è stata però una giornata speciale per i detenuti della Casa di Reclusione di San Michele, abituati alla routine rigida imposta dalla detenzione: raccolti nel teatro interno alla struttura hanno potuto assistere al concerto di Natale, organizzato da Piero Sacchi e dai volontari che operano all’interno della struttura, insieme al personale del carcere e agli educatori. Ad entrare per una mattina fra le mura del carcere sono stati alcuni artisti del Conservatorio Vivaldi di Alessandria (Alessandria Soro - voce, Brian Be Ioni - chitarra, Marcello Turcato - sax, Marcello Testa - contrabbasso, Luigi Scuri - batteria), che hanno offerto ai detenuti un concerto con un repertorio costruito su più generi, fra Jazz, Soul, Samba e Funk. Tanti gli applausi ricevuti, ma le ovazioni più grandi sono andate ai bambini della classe quinta dell’Istituto Comprensivo Galilei, che hanno recitato alcuni racconti e intonato alcune melodie di Natale. "È stato il regalo più grande - hanno commentato dalla Casa di Reclusione - perché in questo periodo di Festa la presenza dei bambini emoziona particolarmente i detenuti, che spesso hanno figli di pari età che possono vedere molto raramente. Portare la gioia del Natale, e un legame così forte con l’esterno, è importantissimo per tutti noi". Durante la mattina di festa, coronata con un buffet realizzato dal team di cuochi nato all’interno alla Casa di Reclusione, è stato presentato un primo bilancio, molto positivo, dell’esperienza legata al laboratorio di incisione e stampa organizzato in carcere, grazie all’impegno di Piero Sacchi e Valentina Biletta e ai fondi messi a disposizione dalla Fondazione Social. Cerchiamo di fermare la patologia del rispetto di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 17 dicembre 2015 Iniziano a comparire, in fondo alle mail dagli Stati Uniti, frasi di auguri. Pochi "Merry Christmas", molti "Happy Holiday Season". Il motivo? Il Natale è una festa religiosa, e spesso il mittente non conosce la mia religione. La "stagione delle vacanze" riguarda tutti: meglio non correre rischi. Una prova di delicatezza? No: un esempio di ignavia. Perché dovrei offendermi, se mi augurano "Buon Natale!" e non sono cristiano? Natale non è solo una festa religiosa, ma un’occasione di pausa, di riflessione, di ritrovo. Non lo dico io: lo dicono duemila anni di storia occidentale. Chi rifiuta, schifiltoso, il "Buon Natale" dovrebbe rinunciare anche alle relative giornate di vacanza. Chissà perché, non lo fa nessuno. L’idea che una religione possa essere offensiva non è solo sbagliata: è pericolosa. Come tanti, sono entrato in moschee e sinagoghe, con rispetto. Ho partecipato alle feste di amici di altre religioni, grato d’essere stato coinvolto. Alla fine di una lettera a "Italians", Marco Chaim Pace saluta in questo modo: "Buon Natale a voi cristiani che lo festeggiate e un caro saluto". Così si fa. Allo stesso modo, possiamo augurare "Felice Hannukah" a un conoscente ebreo e "Buon Eid Al-fitr" (la festa di fine Ramadan) a una collega islamica. Dove sta il problema? Il problema sta qui. Il rispetto sta degenerando in qualcos’altro: un ansioso (e noioso) comune denominatore. In America già accade; sta arrivando da noi. Non c’è solo la religione. Nelle università americane molti studenti non vogliono essere turbati. A Yale, inveiscono contro le autorità accademiche che rifiutano di vietare i costumi di Halloween. Altrove hanno ottenuto che i testi letterari portino un avvertimento (trigger warning). "Il Grande Gatsby" di Francis Scott Fitzgerald? "Attenzione: abusi domestici, violenza esplicita". "Mrs Dalloway" di Virginia Woolf? "Cautela: tendenze suicide". Jeannie Suk, docente della Harvard Law School, racconta che una studentessa/uno studente ha chiesto di "non usare il verbo "violare" in espressioni come "violare la legge" perché potrebbe traumatizzare chi fosse stato oggetto di una violenza sessuale". Qui conduce la patologia del rispetto. Fermiamoci, siamo in tempo. Renzi all’Ue: "identificazione facciale dei migranti" di Carlo Lania Il Manifesto, 17 dicembre 2015 La proposta di Renzi al consiglio Ue di oggi. "Strabiliante la procedura di infrazione". Dire che è irritato forse è poco. Le accuse che Bruxelles ha rivolto all’Italia sulle gestione dei migranti, e soprattutto l’annuncio dell’apertura di una procedura di infrazione per la mancata identificazione delle decine di miglia di profughi sbarcati sulle nostre coste bruciano come un ferro rovente a Matteo Renzi che considera ingiusti e ingiustificati i rimproveri dell’Unione europea. "È strabiliante che qualcuno in Europa abbia pensato di aprire una procedura di infrazione perché non tutti quelli che abbiamo salvato sono stati identificati con le impronte", spiega in mattinata Renzi intervenendo alla camera. Concetto che ripeterà anche nell’intervento che terrà al Consiglio Ue in programma oggi e domani a Bruxelles, e che ieri ha concordato direttamente con il presidente della repubblica Sergio Mattarella in un pranzo al Quirinale al quale ha partecipato anche il ministro delle riforme Maria Elena Boschi. Intervento che oltre a difendere l’operato italiano, insisterà molto anche sulle responsabilità altrui, dell’Europa in generale per la lentezza con cui procedono i ricollocamenti e i rimpatri, e della Germania, che Renzi torna ad attaccare per la seconda volta in pochi giorni: "Non tutte le persone arrivate in Germania ad agosto sono state identificate e allora Merkel disse: viene prima la solidarietà e poi la burocrazia - ha spiegato ancora il premier alla Camera -. Ma quello che vale per la Germania non vale per l’Italia. Noi non replichiamo ma chiediamo: cara Europa qual è il tuo ruolo, affermare linee di indirizzo burocratiche o risolvere i problemi?". Da agosto, però, molte cose sono cambiate a partire dagli attentati di Parigi che hanno portato l’Ue a decidere di identificare anche i propri cittadini in entrata e uscita dai propri confini e a spingere su Italia e Grecia perché accelerino l’apertura degli hotspot. Altro punto su cui Renzi insisterà oggi a Bruxelles, Renzi sente di aver fatto i compiti assegnati: "L’Italia ha aperto il primo hot spot, domani (oggi, ndr) sarà aperto il secondo a Trapani, poi a Pozzallo. Siamo pronti a intervenire tenendo fede ai nostri impegni, chiederemo agli europei se sono in grado di tener di tener fede ai loro impegni", ha ricordato Renzi. Il consiglio Ue di oggi dovrebbe dare il via libera all’istituzione di una guardia costiera e di frontiera europea, autorizzata a intervenire in caso di emergenza ai confini anche senza che ne sia stata fatta richiesta dal paese interessato. Particolare che ha suscitato non poche resistenze in alcuni paesi membri, che rivendicano la gestione della sicurezza dei propri confini. Anche su questo punto Renzi avrebbe in mente di portare una proposta nuova che garantisca il mantenimento di Schengen, oggi messo pericolosamente in forse. Ai capi di stato e di governo europei annuncerà però anche che, in più rispetto ad altri paesi, insieme al rilevamento delle impronte digitali, l’Italia procederà anche all’identificazione facciale dei migranti. Il vertice di oggi sarà preceduto da un incontro ristretto tra i paesi più coinvolti dalla crisi migranti (ma senza la partecipazione dell’Italia, che non è stata invitata), nel corso del quale i discuterà anche di come - dopo l’accordo siglato con Ankara, si possa cooperare con la Turchia per fermare l’arrivo dei migranti. Turchia dove ieri si verificata l’ennesima strage di bambini: i corpi di sei piccoli profughi, con un’età compresa tra i 2 e i 6 anni sono stati ritrovati nelle acque dell’Egeo al largo di Bodrum e nei pressi di Cesme. Aperto il primo corridoio umanitario di Sara Manisera Il Manifesto, 17 dicembre 2015 Firmato il protocollo per garantire mille visti a migranti e richiedenti asilo in condizioni considerate vulnerabili. Per la prima volta in Europa saranno aperti dei corridoi umanitari per salvare le vite dei migranti in fuga. Mentre i governi europei costruiscono muri, ripristinano i controlli alle frontiere e attuano politiche repressive contro i migranti, un’ambiziosa iniziativa dimostra che esiste una soluzione alternativa al traffico di esseri umani e ai morti in mare. La Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (Fcei) e la Comunità di Sant’Egidio annunciano l’apertura di corridoi umanitari verso l’Italia, dal Libano, dal Marocco e dall’Etiopia. Il protocollo firmato ieri, 15 dicembre, da Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di Sant’Egidio, da Luca Maria Negro, presidente della Fcei, dal Viminale e dalla Farnesina, prevede il rilascio di circa mille visti umanitari, a migranti e richiedenti asilo in condizioni vulnerabili, ai quali se ne potrebbero aggiungere altri mille. Grazie al rilascio dei visti umanitari da parte delle autorità consolari italiane, i profughi di diversa nazionalità e religione potranno raggiungere l’Italia in modo sicuro e legale, evitando di rischiare la loro vita nei viaggi verso l’Europa. "Non vogliamo assistere impotenti a questo spettacolo di morte che avviene sulle nostre coste", afferma Cesare Zucconi, segretario generale della Sant’Egidio. "Vogliamo trovare soluzioni alternative che risparmino questi viaggi disumani a persone che comunque verrebbero in Europa e ne hanno pieno diritto. Il canale umanitario è uno strumento che può sottrarre a scafisti e a trafficanti la possibilità di arricchirsi e proseguire questi traffici illeciti". L’iniziativa sponsorizzata dalla Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e dalla Comunità Sant’Egidio è un progetto pilota molto innovativo, attuato per la prima volta in Europa, che "potrebbe divenire un modello replicabile da altri attori della società civile", afferma Nando Sigona, vicedirettore dell’Institute for Research into Superdiversity dell’Università di Birmingham, intervistato da il manifesto. "Nonostante [le associazioni] abbiano risorse politiche, economiche e supporto logistico per ospitare i migranti, questa iniziativa è di notevole importanza perché, per la prima volta, la società civile negozia con un governo il rilascio di mille visti umanitari. Inoltre, se si pensa che il governo inglese ha promesso il reinsediamento di duemila persone nel 2015, ci rendiamo conto della portata dell’iniziativa", chiarisce il professore italiano. Il canale umanitario non ha nessun costo per il governo italiano, essendo interamente finanziato dalle due organizzazioni attraverso l’otto per mille. La comunità di Sant’Egidio insieme alla Federazione delle Chiese Evangeliche, si farà carico del viaggio, dell’accoglienza e delle attività d’integrazione dei profughi una volta giunti in Italia. Nonostante le tariffe cambino a seconda della rotta, delle condizioni locali e delle modalità di trasporto, i costi del viaggio e dell’accoglienza sono significativamente inferiori rispetto a quanto pagherebbe un migrante per poter raggiungere l’Europa. "Noi spendiamo 300/400 euro per persona, il prezzo di un normale biglietto aereo", chiarisce Cesare Zucconi. "Inoltre il canale umanitario è uno strumento più sicuro e meno rischioso sia per i migranti, sia per i paesi ospitanti, poiché l’identificazione dei rifugiati avviene prima della partenza". La selezione e l’identificazione dei beneficiari saranno condotte dalle associazioni partner presenti nei paesi di origine, secondo i requisiti concordati con il governo italiano, senza alcuna discriminazione religiosa e/o nazionale. In Libano sarà la Comunità Papa Giovanni con Operazione Colomba, corpo civile di pace presente da due anni nel campo di Tel Abbas, situato a nord di Tripoli, a selezionare le famiglie siriane mentre in Marocco sarà la Sant’Egidio. "Il corridoio umanitario è uno strumento sicuro perché le persone sono identificate prima ancora di partire, quindi c’è una garanzia su chi giunge in Italia e c’è anche chiarezza sui tempi e sulle modalità di accoglienza ed integrazione", ribadisce il segretario generale di quest’ultima organizzazione. L’iniziativa dimostra l’esistenza di un’alternativa alla tratta di esseri umani e ai viaggi della disperazione intrapresi dalle persone in fuga dai loro paesi d’origine. Secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, nel 2015, quasi 870,000 persone hanno attraversato il Mediterraneo per entrare in Europa mentre nel 2014 il numero degli arrivi ha raggiunto quota 219,000. Il maggior numero di migranti è stato registrato in Grecia (721,217) e in Italia (143,114), seguite da Spagna (3,845) e Malta (106). Persone vulnerabili che non hanno altra scelta se non quella di pagare trafficanti e organizzazioni criminali, mettendo a rischio la propria vita per raggiungere un paese europeo. Francois Crépeau, relatore speciale delle Nazioni Unite per i diritti dei migranti e professore di diritto presso l’Università McGil in Canada, descrive il fenomeno dello smuggling come un servizio: "Le persone vogliono spostarsi e i trafficanti offrono servizi di mobilità. Se tali servizi fossero offerti dagli stati, i trafficanti sarebbero fuori dal mercato. Negli anni cinquanta e sessanta, milioni di persone sono emigrate in Europa. Nessuno è morto, non esisteva la tratta e tutti avevano il diritto di poter entrare in Europa. Ottenevano il visto nelle ambasciate e acquistavano normali biglietti aerei. Se si consentisse la libera circolazione, i trafficanti non esisterebbero perché le persone sceglierebbero il modo più economico e sicuro per spostarsi, invece che pagare diecimila euro e mettere a rischio la vita dei propri figli", spiega il professore canadese. La migrazione, in definitiva, ha sempre fatto parte della storia dei popoli e continuerà ad esistere. Niente ha impedito il flusso di migranti, né le barriere fisiche tra i paesi, né la militarizzazione dell’Unione Europea. Gli stati membri dovrebbero rivedere le politiche migratorie smettendo di vivere l’emigrazione come un’emergenza ed elaborando politiche di medio e lungo termine che incoraggino i flussi tramite rotte legali e sicure. Questo consentirebbe ai governi di rompere il sistema perverso dello smuggling ma soprattutto permetterebbe di affrontare la migrazione con un approccio più umano. Mosul: tra mine, kamikaze e mortai; prova a rischio per i militari italiani di Guido Olimpio Corriere della Sera, 17 dicembre 2015 Il presidente del Consiglio ha annunciato martedì sera l’invio di 450 soldati per proteggere la diga di Mosul, che sarà ricostruita da una ditta italiana. Ma il rischio di attacchi da parte dell’Isis è altissimo. I 450 soldati italiani che dovranno proteggere la "diga più pericolosa del mondo" a nord di Mosul troveranno una situazione piuttosto instabile, come confermano gli ultimi sviluppi. Nella giornata di mercoledì lo Stato Islamico ha attaccato Baashiqa, la base dove un contingente turco addestra milizie locali e agisce in coordinamento con i peshmerga. L’Isis sostiene di aver usato dozzine di razzi Grad. Gli scontri segnalano il tipo di minaccia per i nostri militari. Lo Stato Islamico dispone nel suo arsenale di armi per poter colpire da lontano, dunque mortai, pezzi d’artiglieria e razzi d’ogni tipo. Si tratta di materiale strappato in gran parte agli iracheni. Sarà necessario un lavoro di ricognizione, affidato ai Tornado e ai droni, per prevenire sorprese. Toccherà ancora all’aviazione rispondere per neutralizzare eventuali postazioni di tiro. Una missione che, a meno di cambiamenti, sarà svolta dagli alleati. I nostri velivoli, come è noto, non conducono raid armati. Non è noto se del contingente faranno parte degli elicotteri d’attacco Mangusta, ideali per l’appoggio alla fanteria e come scudo avanzato per una base. La difesa contro i "mostri" blindati. In Iraq come in Siria l’Isis impiega in modo massiccio veicoli bomba spesso lanciati in missioni suicide. Solo mercoledì, a nord di Mosul, ne sono stati usati nove. Si tratta di "mostri" blindati utilizzati per distruggere le postazioni: reparti ben addestrati e con equipaggiamento adeguato possono fermarli. Così come sono importanti fossati, trincee e "muri" che creino uno spazio tra il sito difeso e l’area circostante. I mezzi kamikaze rappresentano comunque un pericolo. I genieri dello Stato Islamico li preparano caricandoli con decine di tonnellate d’esplosivo e l’onda d’urto è devastante, non pochi avamposti sono state conquistati in questo modo. Di solito l’avanzata verso il target è protetta dal fuoco dei mortai, delle mitragliatrici pesanti a bordo di camioncini e dei cecchini. Le trappole sulle strade. Infine c’è sempre il rischio di ordigni piazzati lungo le vie di comunicazione. I jihadisti sono maestri nel ricorso a bombe attivate da radiocomando, piastre a pressione, telefonini. Alcune sono prede belliche, come le mine, altre sono messe a punto dagli artificieri islamisti. Contenitori in ferro, bidoni, cilindri di ogni dimensione riempiti d’esplosivo di tipo militare o di fertilizzante. Sono trappole temute e dispiegate in gran numero dall’Isis che le impiega per difendere le sue linee - come a Mosul - ma anche per colpire il nemico. La caratteristica dell’apparato bellico del Califfo è la flessibilità. Dunque conduce azioni di guerriglia insieme a quelle tipiche di un esercito, alterna incursioni a bordo di pick up a manovre più complesse, sfrutta - ovviamente - a suo vantaggio la staticità di chi deve proteggere un’installazione. Per il contingente italiano, che comunque ha alle spalle anni di impiego in teatri complessi, sarà una prova ad alto rischio. Obama fa guerra all’Isis (ma fino a un certo punto) di Vittorio Emanuele Parsi Il Sole 24 Ore, 17 dicembre 2015 La rivendicazione dell’efficacia dei bombardamenti, un riconoscimento agli alleati occidentali per gli sforzi che stanno compiendo contro l’Isis (Italia compresa), lo sprone a quelli mediorientali affinché facciano di più e l’invio del segretario alla Difesa, Ashton Carter a Mosca. Sono i punti salienti della strategia ribadita da Barack Obama in un discorso diffuso dalla sala stampa del Pentagono. Passaggi chiave, secondo il presidente, che dovrebbero tutti insieme consentirgli di escludere "boots on the ground" americani nel Levante e, per logica estensione, in Yemen o Libia. Obama si mostra così innanzitutto coerente rispetto a se stesso, ovvero deciso a non inviare in Siria al termine del suo secondo mandato quelle truppe di terra che aveva ritirato dall’Iraq all’inizio del primo. Per farlo è disposto a riconoscere il ruolo decisivo svolto dalla Russia nella lotta contro al-Baghdadi - è questo è il senso del viaggio di Carter a Mosca - nella consapevolezza che questo implicherà anche concessioni politiche nei confronti di Putin: la prima delle quali riguarderà, probabilmente, il futuro assetto della Siria e le sorti del regime di Asad (con o senza Bashar). Qui, Obama si dimostra invece tutt’altro che coerente come le sue origini (c’è ancora qualcuno che ricorda il discorso rivolto agli studenti universitari del Cairo dal neo premio Nobel per la pace?), ma il prezzo di questa incoerenza rischiano di pagarlo ancora una volta i siriani, in particolare gli oppositori non islamisti, come tante altre volte è accaduto nel corso della Guerra Fredda per gli errori della superpotenza americana in Medio ed Estremo Oriente. La sensazione è che il discorso di Obama sia servito ancora una volta per mascherare la sua debolezza se non vera e propria confusione strategica, che un’opinione pubblica scioccata dopo i fatti di San Bernardino è sempre meno disposta ad accettare. Conta la lunga campagna per le presidenziali americane, che aggiunge vincoli e condizionamenti all’incerta azione del presidente. Nella testa di Obama, dovrebbero essere gli Stati arabi e sunniti della regione a dar forma a una coalizione regionale in grado di dar vita anche a un contingente terrestre, senza il quale ben difficilmente al-Baghdadi verrà sloggiato da Raqqa e dintorni. Questo avrebbe anche lo scopo di relativizzare il ruolo dell’Iran e della sua proxi libanese di Hezbollah, che i soldati sul terreno li hanno già messi e in numeri importanti, tanto in Iraq quanto in Siria. Ma tale unità d’intenti è piuttosto difficile da immaginare, nonostante l’annuncio saudita delle scorse ore, viste le rivalità che contrappongono proprio i Sauditi e gli Emirati da un alto e il Qatar (spalleggiato dai turchi) dall’altro. La sfida è particolarmente aspra ed evidente in Libia, che vede anche l’Egitto schierato con gli Emirati, dove le due coalizioni sostengono i "governi" contrapposti di Tripoli e Tobruk. Qui, evidentemente, la cosa interessa particolarmente l’Italia che, nella conferenza di Roma del 13 dicembre, ha ribadito la sua aspirazione a svolgere un ruolo chiave nello sforzo internazionale per combattere l’Isis e ricostruire la Libia. Come tutto ciò verrà concretamente realizzato non è al momento ancora dato sapere. Ovviamente la conferenza ha rappresentato un primo necessario passo, ma siamo ancora ben lontani dal raggiungimento di un accordo effettivo tra tutti gli attori coinvolti (e da coinvolgere) nell’operazione "Libia 2" e anche dal capire come si sostanzierà, in che cosa e con che forme, la "leadership italiana". Quello che deve essere chiaro a tutti è che, per avere qualche chance di successo, l’intervento internazionale in Libia si dovrà prefigurare come prolungato, costoso e massiccio. Anche dal punto di vista militare, considerando che tutti quelli che sono ostili alla pacificazione della Libia o che saranno o si riterranno esclusi o sottorappresentati dalle ipotesi di soluzione non se ne staranno certo con le mani in mano (e non pensiamo solo agli uomini dell’Isis). Per lo sforzo di state-building necessario, il modello, sarà molto più simile a quanto si è cercato di realizzare in Bosnia che non a quello dell’intervento in Levante: ma in condizioni estremamente meno favorevoli. È appena il caso di aggiungere che, se vogliamo ottenere la leadership in una simile operazione, non potremo certo pretendere che la componente "cinetica" la forniscano solo gli altri. Tutto questo è ciò che deve essere messo in conto fin da subito, se vogliamo evitare sanguinosi fallimenti. Pena di morte, negli Usa esecuzioni e condanne a picco Ansa, 17 dicembre 2015 Nel 2015 i livelli di applicazione della pena capitale sono scesi a livelli che non si registravano negli ultimi quarant’anni. Negli Usa la pena di morte continua a morire di morte lenta: nel 2015 i livelli di applicazione della pena capitale sono scesi a livelli che non si registravano negli ultimi quarant’anni. L’agonia della macchina della morte di Stato è stata fotografata nell’ultimo rapporto del Death Penalty Information Center: in declino sia le esecuzioni che le condanne, a riprova che l’entusiasmo degli americani per la forca è sceso a livelli che non si vedevano da quando, a metà anni Settanta, la Corte Suprema ha ridato il via libera alla pena capitale. Quest’anno 14 Stati e il governo federale hanno pronunciato 49 condanne a morte: erano state 315 nel 1996, all’apice del panico creato da tassi di omicidio record nelle maggiori città e l’epidemia del crack. Dati i tempi lunghi del sistema dei ricorsi, alcuni di questi condannati sono arrivati solo adesso a un passo dall’esecuzione, ma anche su questo fronte il calo è stato impressionante: 28 iniezioni letali soltanto nel 2015 sono lontane decine di lunghezze dalle 98 del 1999 e limitate a un numero ristretto di Stati. Il Texas, con 13 iniezioni letali, resta in testa, seguito da Missouri (sei) e Georgia (cinque). Ma anche in Texas il clima è mutato: quanto a condanne a morte dal record di 48 nel 1999 si è scesi a tre quest’anno. Un declino ancor più significativo, se si considera la Harris County, che include l’area della città di Houston: in tempi moderni è stata l’epicentro del partito della forca con 294 condanne capitali, scese a zero nel 2015. Un trend che riflette l’opinione pubblica: a Houston un recente sondaggio della Rice University ha scoperto che solo il 28 per cento dei residenti preferisce le esecuzioni al carcere a vita senza possibilità di sconti di pena. Sono tanti i fattori che hanno portato al declino anche in Stati tradizionalmente repubblicani come il Nebraska, il cui parlamento quest’anno ha fermato la mano del boia: si va dai costi della pena di morte (tre milioni di dollari per singolo caso da arresto a esecuzione) a recenti flop dei farmaci, ormai praticamente introvabili, usati nell’iniezione letale. Studi che hanno confermato discriminazioni nell’applicazione della pena di morte, lo stigma internazionale che continua a mettere gli Stati Uniti alla stregua di Stati dalle dubbie credenziali in fatti di diritti umani come Iran o Arabia saudita, hanno contribuito all’erosione. Un altro fattore chiave è legato a recenti scarcerazioni di condannati a morte dichiarati innocenti, insinuando il rischio che esseri umani vengano messi (o siano stati messi) a morte senza aver commesso il fatto. Quest’anno sei detenuti delle death row di Alabama, Arizona, Florida, Georgia, Mississippi e Texas sono tornati in libertà, portando a 156 il numero di innocenti scagionati dal 1973. Siria: Human Rights Watch "ecco le prove delle torture nelle carceri di Assad" di giordano stabile La Stampa, 17 dicembre 2015 Nove mesi di analisti sul dossier di foto fornito dal dissidente "Caesar": "Immagini autentiche, il regime ha commesso crimini contro l’umanità". Un lavoro meticoloso durato nove mesi. T rentacinquemila fotografie analizzate una per una, confrontate, mostrate ai parenti dei desaparecidos siriani. E alla fine un verdetto durissimo per il presidente siriano Bashar al Assad. Il dossier di un ex fotografo del governo di Damasco, poi pentito e divenuto un dissidente conosciuto con il nome Caesar, è autentico. Le immagini sono quelli di migliaia di persone detenute, torturare e uccise nelle carceri siriane. È quello che sostiene il rapporto della Ong internazionale Human Rights Watch (Hrw), uscito oggi. Le fotografie sono "la prova schiacciante" dei crimini contro l’umanità "commessi dal regime di Damasco". I volti e i corpi presentano segni di denutrizione, maltrattamenti e torture. Le vittime sarebbero decedute nelle carceri e negli ospedali militari. "Abbiamo meticolosamente verificato decine di storia e siamo certi che le foto di Caesar sono autentiche e sono la prova di crimini contro l’umanità in Siria", ha dichiarato Nadim Houry, vice-direttore dell’area mediorientale di Hrw. La ong è riuscita anche a far riconoscere alcune delle vittime dai familiari che le stavano cercando da mesi, a volte da anni. Una di loro era Ahmad al-Musalmani, 14 anni, morto in un centro di detenzione dopo l’arresto per aver scaricato una canzone anti-regime sul cellulare, nel 2012, agli albori della guerra civile. Lo zio del ragazzo, Dahi al-Musalmani, ha tentato per anni di rintracciarlo, persino sborsando una tangente di 14 mila euro per ottenerne la liberazione. Alla fine Ahmad è stato riconosciuto in una delle foto di Caesar. "È stato uno shock", ha raccontato. "Lo avevo cercato per 950 giorni e l’ho trovato qui. Avevo promesso alla madre, in punto di morte, che me ne sarei occupato. Che protezione gli ho dato?".