Il Papa chiede l’amnistia per i detenuti e mette in guardia sul carcere preventivo di Andrea Gualtieri La Repubblica, 16 dicembre 2015 Nel messaggio per la Giornata della Pace, Francesco si sofferma su carcerati e invoca "attenzione speciale a coloro che sono privati della libertà in attesa di giudizio". Appello contro la pena di morte. E agli Stati chiede di assicurare "lavoro, terra e tetto" per tutti. Cancellare la pena di morte, concedere un’amnistia, curare le condizioni di vita dei detenuti, con un’attenzione particolare a chi è ancora in attesa di giudizio. Nel messaggio per la Giornata mondiale sulla Pace (prevista il primo gennaio 2016), papa Francesco chiede gesti concreti agli Stati in occasione del Giubileo. E un capitolo del suo messaggio, reso noto oggi dalla Santa Sede, è dedicato alla situazione delle carceri. L’appello come Giovanni Paolo II. Bergoglio conferma in particolare la richiesta di amnistia che si leggeva in controluce nella lettera che concedeva l’indulgenza per l’Anno Santo, nella quale il pontefice aveva ricordato che "il Giubileo ha sempre costituito l’opportunità di una grande amnistia, destinata a coinvolgere tante persone che, pur meritevoli di pena, hanno tuttavia preso coscienza dell’ingiustizia compiuta e desiderano sinceramente inserirsi di nuovo nella società portando il loro contributo onesto". Un passaggio sul quale padre Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa vaticana, si era affrettato a precisare che non si trattava di "un appello di carattere giuridico" ma di una lettera indirizzata a monsignor Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio nuova evangelizzazione" e quindi rivolta "alla Chiesa, non alle autorità italiane". Adesso, però, il tema torna attuale ed è destinato a far discutere come già avvenne nel 2000, quando a rivolgere un appello, in occasione dell’Anno Santo, era stato Giovanni Paolo II, ma senza successo. I numeri delle carceri italiane. La richiesta da parte di Francesco di tornare a "considerare la possibilità" arriva in un momento in cui nelle carceri italiane, in particolare, sono detenute in tutto 52.647 persone. Secondo i dati del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, i carcerati che scontano una condanna definitiva sono 34.012. Gli altri sono in attesa di sentenza e 8.918 di loro non hanno subito nemmeno il primo giudizio. Proprio per questi ultimi, Bergoglio dedica un passaggio chiedendo di accordare "un’attenzione speciale a coloro che sono privati della libertà in attesa di giudizio". No alla pena di morte. Il Papa ricorda poi "la finalità rieducativa della sanzione penale" e chiede di valutare "la possibilità di inserire nelle legislazioni nazionali pene alternative alla detenzione carceraria". Più in generale, sottolinea che "in molti casi appare urgente adottare misure concrete per migliorare le condizioni di vita nelle carceri". E soprattutto, rinnova "l’appello alle autorità statali per l’abolizione della pena di morte, là dove essa è ancora in vigore". Lavoro, terra e tetto per tutti. Nel messaggio di Bergoglio, ci sono poi richieste di attenzione anche per altre categorie giudicate "fragili": i migranti, i disoccupati e i malati. "Desidero, in quest’Anno giubilare formulare un pressante appello ai responsabili degli Stati a compiere gesti concreti in favore dei nostri fratelli e sorelle", afferma il Papa, che chiede "che tutti abbiano un lavoro, una terra e un tetto sulla testa". Francesco aspira "alla creazione di posti di lavoro dignitosi per contrastare la piaga sociale della disoccupazione, che investe un gran numero di famiglie e di giovani e ha conseguenze gravissime sulla tenuta dell’intera società" perché "la mancanza di lavoro intacca pesantemente il senso di dignità e di speranza, e può essere compensata solo parzialmente dai sussidi, pur necessari, destinati ai disoccupati e alle loro famiglie". Anche in questo contesto, ci sono fasce giudicate più esposte e sono quella delle donne, "purtroppo ancora discriminate in campo lavorativo", e di "alcune categorie di lavoratori, le cui condizioni sono precarie o pericolose e le cui retribuzioni non sono adeguate all’importanza della loro missione sociale". Cancellare il debito dei Paesi poveri. Agli Stati il Papa rivolge poi un "triplice appello" chiedendo di "astenersi dal trascinare gli altri popoli in conflitti o guerre che ne distruggono non solo le ricchezze materiali, culturali e sociali, ma anche e per lungo tempo l’integrità morale e spirituale" e poi invitando "alla cancellazione o alla gestione sostenibile del debito internazionale degli Stati più poveri" e "all’adozione di politiche di cooperazione che, anziché piegarsi alla dittatura di alcune ideologie, siano rispettose dei valori delle popolazioni locali e che, in ogni caso, non siano lesive del diritto fondamentale ed inalienabile dei nascituri alla vita". Per quanto riguarda i migranti, poi, il pontefice invita "a ripensare le legislazioni sulle migrazioni, affinché siano animate dalla volontà di accoglienza, nel rispetto dei reciproci doveri e responsabilità", e possano facilitare "l’integrazione dei migranti" e le loro condizioni di soggiorno "ricordando che la clandestinità rischia di trascinarli verso la criminalità". La pace si ottiene vincendo l’indifferenza. Dietro alle parole di Francesco, c’è la considerazione che "occorre promuovere una cultura di solidarietà e misericordia per vincere l’indifferenza", perché quando raggiunge un "livello istituzionale" l’indifferenza nei confronti dell’altro, "della sua dignità, dei suoi diritti fondamentali e della sua libertà, unita a una cultura improntata al profitto e all’edonismo, favorisce e talvolta giustifica azioni e politiche che finiscono per costituire minacce alla pace". Amnistia, accoglienza, abolizione pena capitale: il 2016 di pace secondo Papa Bergoglio zenith.org, 16 dicembre 2015 Il Messaggio di Papa Francesco per la 49.ma Giornata Mondiale della Pace del prossimo 1° gennaio. "Dio non è indifferente! A Dio importa dell’umanità, Dio non l’abbandona!". Urla speranza da ogni paragrafo il Messaggio di Papa Francesco per la 49.ma Giornata Mondiale della Pace. Un proclama dell’amore di Dio quasi a voler controbilanciare quella indifferenza, individuale e globalizzata, che l’uomo moderno rivolge a Dio, agli uomini, al Creato. "Vinci l’indifferenza e conquista la pace" è infatti il tema della ricorrenza che si celebra il prossimo 1° gennaio 2016. Pace che, sottolinea il Pontefice, "è dono di Dio, ma affidato a tutti gli uomini e a tutte le donne, che sono chiamati a realizzarlo". Pace che si può conquistare ponendo fine ai drammi che hanno segnato - anzi ferito - il 2015 dall’inizio alla fine: guerre e azioni terroristiche, sequestri di persona, persecuzioni per motivi etnici o religiosi, prevaricazioni" e tutti quegli altri fenomeni che vanno "moltiplicandosi dolorosamente" in molte regioni del mondo, tanto da assumere le fattezze di una "terza guerra mondiale a pezzi", scrive il Pontefice. Uno scenario drammatico che, tuttavia, non deve far "perdere la speranza nella capacità dell’uomo" di "superare il male" e "di operare nella solidarietà, al di là degli interessi individualistici". Lo dimostrano gli sforzi fatti dalla Cop 21, dal Summit di Addis Abeba e dalle Nazioni Unite con l’adozione dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile. Anche per la Chiesa - rammenta il Santo Padre - "il 2015 è stato un anno speciale", soprattutto con l’apertura del Giubileo della Misericordia con il quale ogni cristiano è invitato ad "aprirsi a quanti vivono nelle più disparate periferie esistenziali", senza cadere "nell’indifferenza che umilia", "nell’abitudinarietà che anestetizza l’animo", "nel cinismo che distrugge". Tre forme, quest’ultime, di quella "globalizzazione dell’indifferenza" da sempre stigmatizzata da Bergoglio, la quale - ribadisce nel Messaggio - "costituisce una minaccia per la famiglia umana", avendo "superato decisamente l’ambito individuale" per assumere una dimensione globale. Tale indifferenza nella società umana è rivolta anzitutto a Dio - osserva il Pontefice richiamando una delle perle del magistero di Benedetto XVI - da cui scaturisce l’indifferenza verso il prossimo e il creato. Tale indifferenza ha diversi volti, prosegue il Papa. Il volto di "chi è ben informato, ascolta la radio, legge i giornali o assiste a programmi televisivi, ma lo fa in maniera tiepida, quasi in una condizione di assuefazione". Il volto di chi si compiace "incolpando i poveri e i paesi poveri dei propri mali, con indebite generalizzazioni, e pretendono di trovare la soluzione in una educazione che li tranquillizzi e li trasformi in esseri addomesticati e inoffensivi". Il volto di quelle persone che "preferiscono non cercare, non informarsi e vivono il loro benessere e la loro comodità sorde al grido di dolore dell’umanità sofferente". Quasi senza accorgercene, - annota il Pontefice - "siamo diventati incapaci di provare compassione per gli altri, per i loro drammi, non ci interessa curarci di loro, come se ciò che accade ad essi fosse una responsabilità estranea a noi, che non ci compete". E questo - aggiunge - è ancora più "irritante" se gli esclusi vedono crescere il "cancro sociale" che è la corruzione profondamente radicata in governi, imprenditoria e istituzioni di tanti paesi. Tutto ciò accade non solo con le persone, ma anche con il Creato. "L’inquinamento delle acque e dell’aria, lo sfruttamento indiscriminato delle foreste, la distruzione dell’ambiente, sono sovente frutto dell’indifferenza dell’uomo verso gli altri, perché tutto è in relazione", evidenzia il Papa. Come anche il comportamento dell’uomo con gli animali "influisce sulle sue relazioni con gli altri". Una indifferenza che viaggia quindi su un doppio binario, individuale e comunitario, e che assume l’aspetto della "inerzia" e del "disimpegno", i quali "alimentano il perdurare di situazioni di ingiustizia e grave squilibrio sociale" che, a loro volta, si trasformano in "conflitti" o comunque in un generale "clima di insoddisfazione" che "rischia di sfociare, presto o tardi, in violenze e insicurezza". Gravissimo, in tal senso, quando l’indifferenza "investe il livello istituzionale", andando a "giustificare alcune politiche economiche deplorevoli, foriere di ingiustizie, divisioni e violenze, in vista del conseguimento del proprio benessere o di quello della nazione". Così vengono calpestati i diritti e le esigenze fondamentali degli altri. E "quando le popolazioni vedono negati i propri diritti elementari, quali il cibo, l’acqua, l’assistenza sanitaria o il lavoro, esse sono tentate di procurarseli con la forza", ammonisce il Pontefice. Che, provocatoriamente, domanda: "Quante guerre sono state condotte e quante ancora saranno combattute a causa della mancanza di risorse o per rispondere all’insaziabile richiesta di risorse naturali?". Bisogna allora "fare dell’amore, della compassione, della misericordia e della solidarietà un vero programma di vita, uno stile di comportamento" e "adottare un impegno concreto per contribuire a migliorare la realtà in cui vive". Gli Stati in primis sono chiamati a compiere "atti di coraggio" nei confronti delle persone più fragili della società: prigionieri, migranti, disoccupati e malati. A proposito di detenuti, Francesco rileva l’urgenza di adottare misure concrete per migliorare le loro condizioni di vita nelle carceri e rinnova l’appello alle autorità statali per l’abolizione della pena di morte, là dove essa è ancora in vigore, e a considerare la possibilità di un’amnistia. In questa prospettiva, il Pontefice lancia pure "un triplice appello" ad "astenersi dal trascinare gli altri popoli in conflitti o guerre che ne distruggono non solo le ricchezze materiali, culturali e sociali, ma anche - e per lungo tempo - l’integrità morale e spirituale". Un sollecito anche "alla cancellazione o alla gestione sostenibile del debito internazionale degli Stati più poveri; all’adozione di politiche di cooperazione che, anziché piegarsi alla dittatura di alcune ideologie, siano rispettose dei valori delle popolazioni locali e che, in ogni caso, non siano lesive del diritto fondamentale ed inalienabile dei nascituri alla vita". Lodando invece le tante famiglie, che, in mezzo a difficoltà lavorative e sociali, "si impegnano concretamente per educare i loro figli controcorrente, a prezzo di tanti sacrifici, ai valori della solidarietà, della compassione e della fraternità", il Papa ringrazia tutti coloro che hanno risposto prontamente all’appello ad accogliere una famiglia di rifugiati. Proprio sulle migrazioni, Bergoglio esorta gli Stati a "ripensarne le legislazioni" affinché siano animate da volontà di accoglienza, rispetto dei reciproci doveri e responsabilità, per "facilitare l’integrazione dei migranti". Un’attenzione speciale "deve essere prestata alle condizioni di soggiorno dei migranti, ricordando che la clandestinità rischia di trascinarli verso la criminalità". Ancora più pressante è l’appello del Pontefice a compiere gesti concreti in favore di chi soffre per la mancanza di lavoro, terra e tetto "che investe un gran numero di famiglie e di giovani ed ha conseguenze gravissime sulla tenuta dell’intera società". Un pensiero anche alle donne "purtroppo ancora discriminate in campo lavorativo" e ai malati, per i quali bisogna garantire "l’accesso alle cure mediche e ai farmaci indispensabili per la vita", compresa la possibilità di cure domiciliari. Insomma, in questo 2016, bisogna impegnarsi a vincere l’indifferenza e promuovere i "valori della libertà, del rispetto reciproco e della solidarietà". Valori che, scrive il Papa, "possono essere trasmessi fin dalla più tenera età": dalla famiglia, innanzitutto, che ha "una missione educativa primaria ed imprescindibile", e poi da educatori e formatori nella scuola o nei diversi centri di aggregazione infantile e giovanile. In tal senso anche i mezzi di comunicazione sociale sono chiamati in causa. "È loro compito innanzitutto porsi al servizio della verità e non di interessi particolari", rimarca il Santo Padre, anche perché essi "non solo informano, ma anche formano lo spirito dei loro destinatari". Quindi i diversi operatori culturali e dei media "dovrebbero anche vigilare affinché il modo in cui si ottengono e si diffondono le informazioni sia sempre giuridicamente e moralmente lecito". Lodando poi l’impegno di tante ong e gruppi caritativi, dentro e fuori la Chiesa, in occasione di epidemie, calamità o conflitti, Papa Francesco rivolge un pensiero anche a giornalisti e fotografi che informano l’opinione pubblica e a coloro che si impegnano per la difesa dei diritti umani, in particolare di minoranze etniche e religiose, indigeni, donne e bambini. Tra questi anche tanti sacerdoti e missionari che, nonostante i pericoli e i disagi, stanno a fianco ai fedeli "come buoni pastori". Per eleggere i giudici della Consulta le ferie contano più della Costituzione di Davide Giacalone Libero, 16 dicembre 2015 Il voto a oltranza cerca di salvare la speranza. Il resto è perso, perché la protratta incapacità di eleggere tre giudici costituzionali non segna un problema di galateo parlamentare, né segnala una incapacità politica: scolpisce una mancanza istituzionale, frutto dell’assenza di una maggioranza capace di adempiere ai doveri costituzionali. In condizioni meno gravi il presidente della Repubblica di allora, Francesco Cossiga, comunicò che se non si fosse proceduto all’elezione sarebbe stato lui a convocare le elezioni, sciogliendo il Parlamento. Qui, invece, si consente di sperare che sia il Natale, o, per essere più precisi, le vacanze di fine anno, a rimediare. Davvero poco commendevole. La prima votazione risale al 12 giugno 2014. Destinata a eleggere due giudici costituzionali. Ora ne mancano tre. La non completezza del collegio, per un così lungo tempo, non può che riflettersi sulle decisioni della Corte, la cui maggioranza utile scende, salendo il rischio che manchi il numero legale. Ma la cosa è ancor più grave, se solo si pone mente a un fatto: la Corte è composta da 15 membri, nominati, per un terzo, dal Quirinale, eletti, per un terzo, dalle magistrature e, per il rimanente terzo, dal Parlamento. Questo significa che non mancano 3 giudici su 15, ma 3 sui 5 di nomina parlamentare. Ciò comporta che la Corte, da un anno e mezzo, decide monca della gran parte della sua componente più legata alla sovranità popolare. Ed è questo il punto. Questa la ragione per cui l’atteggiamento allora assunto da Cossiga non era affatto esagerato. Si può sperare che minacciando d’intaccare le loro vacanze i parlamentari si decidano a eleggere i giudici mancanti. Vedo che i presidenti delle Camere quasi se ne vantano: da ora in poi si procede senza sosta (si fa per dire: una volta al giorno). Ma questo non solo non cambia, ma aggrava la mancanza di una maggioranza costituzionale. Se ci riescono, prima delle vacanze, è segno che quelle contano più della Costituzione. A questo punto è quasi meglio falliscano ancora. Almeno fino alla Befana. Tale spettacolo, del resto, per lungo tempo denunciato dai soli radicali e tollerato da tutti gli altri, va in scena in un Parlamento la cui maggioranza politica, ovvero quella che regge il governo, è figlia del trasformismo, con eletti da una parte che si ritrovano da quell’altra. Non condivido il lamentio disinformato, sul fatto che il presidente del Consiglio non è mai stato eletto, per la semplice ragione che nessun inquilino di Palazzo Chigi è mai stato eletto. Ma una cosa è arrivarci da espressione di una maggioranza a sua volta votata, altra insediarsi in un contesto di totale e ripetuto disallineamento dal voto popolare. Se a questo si aggiunge l’assenza di una maggioranza capace di adempiere ai doveri istituzionali, a sua volta figlia del fatto che i due schieramenti (teoricamente) antagonisti sono divisi al loro interno (al punto da far fuori, entrambe, propri candidati), mentre il gruppo ortottero è confinato nella testimonianza e nel rifiuto della trattativa, ne deriva il blocco dell’attività parlamentare. Causa più che sufficiente per tornare davanti agli elettori e chiedere la loro opinione. Non si farà. Non conviene a nessuno. Ma faccio osservare un ultimo dettaglio: senza maggioranza costituzionale questo Parlamento sta cambiando la Costituzione, condendola con una legge elettorale destinata a irrigidire mortalmente la sola Camera sopravvivente. Forse la prudenza non consiste nel far finta di nulla e lasciare correre. Caso Cucchi, la Cassazione annulla l’assoluzione dei medici, nuovo appello di Giuseppe Scarpa La Repubblica, 16 dicembre 2015 In aula i familiari del giovane morto sei anni fa dopo l’arresto, la sorella: "Un nuovo inizio". Il pg Nello Rossi aveva chiesto un nuovo processo per i medici del Pertini: "Clamorosa sciatteria all’ospedale. Il pestaggio c’è stato, non mettere una pietra tombale sulla vicenda". Confermata assoluzione agenti. Per la morte di Stefano Cucchi, arrestato il 15 ottobre 2009 e deceduto dopo una settimana all’ospedale Pertini di Roma, la Cassazione ha annullato l’assoluzione di 5 medici, disponendo un appello-bis per omicidio colposo. Definitivamente assolti tre agenti di polizia penitenziaria, il medico che per primo visitò Cucchi e i tre infermieri finiti sotto procedimento. La sentenza dell’alta corte arriva mentre procede l’inchiesta bis della Procura di Roma che ha iscritto - a diverso titolo - cinque carabinieri nel registro degli indagati nel fascicolo aperto sulla morte del giovane geometra romano avvenuta sei anni fa. La sorella Ilaria: "Nuovo inizio". "I medici sono responsabili della morte di mio fratello, se lo avessero curato non ci sarebbe alcun motivo di parlare di lui e della sua vicenda", ha commentato Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, che definisce "un nuovo inizio" e quella di oggi "è una giornata importante". "Si respira un’aria completamente diversa rispetto a quando sei anni fa mi mandarono il certificato dell’autopsia di mio fratello: adesso vedo che la Procura ha voglia di fare chiarezza e mi sento finalmente in sintonia con i magistrati". Soddisfatto per la decisione dei giudici l’avvocato Fabio Anselmo, difensore dei familiari di Cucchi: "Se i medici avessero fatto anche solo una briciola del loro dovere, Stefano sarebbe vivo. Per una scelta di coscienza seppure con rammarico, abbiamo abbandonato il ricorso contro le assoluzioni dei tre agenti della polizia penitenziaria. Adesso però aspettiamo al processo i carabinieri che hanno compiuto il pestaggio di Stefano e per loro l’accusa sarà di omicidio e non di lesioni". Il pg: "Condannare i medici". Il pg della Cassazione Nello Rossi nella sua requisitoria aveva chiesto l’annullamento con rinvio dell’assoluzione e un nuovo processo per i cinque medici prosciolti in appello: Aldo Fierro, Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis e Silvia Di Carlo in accoglimento del ricorso del pg di Roma Mario Remus in relazione all’accusa di omicidio colposo. Confermata invece l’assoluzione della dottoressa Rosita Caponetti già prosciolta per falso ideologico. "Clamorosa sciatteria al Pertini". I referti dell’ingresso di Stefano Cucchi nella struttura protetta dell’ospedale romano ‘Pertinì "devono essere considerati come un capitolo clamoroso della sciatteria e trascuratezza della assistenza riservata a Cucchi al Pertini", ha precisato il pg. "A fronte della estrema e vistosa magrezza del Cucchi al suo arrivo al Pertini (tale da costringere a praticargli le iniezioni di antidolorifico sul deltoide e con aghi più piccoli del normale) e delle sue condizioni di paziente fratturato e cateterizzato, all’esame obiettivo eseguito, dalla dottoressa Caponnetti poi assolta anche dal reato di falso ideologico perché ritenuta solo superficiale - ha osservato Rossi. Cucchi risultava così descritto: condizioni generali buone, stato di nutrizione discreto, apparato muscolare tonico, apparato urogenitale con nulla da rilevare!". Rossi ha fatto presente che Cucchi pesava solo 34 chili. Il pg ha inoltre aggiunto che "dati come questi non possono semplicemente sparire o essere relegati in secondo piano nel ragionamento del giudice di appello che nella sua motivazione deve farsi carico, se vuole ribaltare le conclusioni dei giudice di primo grado, di spiegare come possa essere ritenuta adeguata ed attenta l’accoglienza al Pertini del paziente Cucchi che nonostante il suo stato complessivo e nonostante avesse il catetere inserito dal medico dell’ospedale Fatebenefratelli viene qualificato all’ingresso come un soggetto in buono stato sul quale non c’è nulla da rilevare neppure in ordine all’apparato urogenitale". Ad avviso del pg Rossi andava valutato "anche il comportamento tenuto dalla Caponnetti per valutare gli standard di assistenza forniti al Pertini". Ma per questa dottoressa Rossi non ha potuto chiedere un nuovo rinvio all’appello bis per mancanza sul punto di specificità del ricorso della Procura di Roma. Secondo Rossi dati di questo genere "non possono sparire quando si analizza la vicenda di un paziente morto dopo una settimana di ospedale". Il pg: "Confermare l’assoluzione dei tre agenti della penitenziaria". Accolta anche la richiesta di confermare l’assoluzione dei tre agenti di polizia penitenziaria processati nella vicenda. "La verità va ricercata altrove", ha detto Rossi. "Non c’è alcun dubbio di natura oggettiva che le violenze subite da Stefano Cucchi sono state poste in essere in un arco di tempo che va dalla perquisizione notturna a casa dei genitori di Cucchi (dove Stefano è arrivato ancora illeso) alla fine della sua permanenza a piazzale Clodio per la convalida del suo arresto", ha detto il pg Nello Rossi nella sua requisitoria in Cassazione. Il pg: "Non denunciò le violenze per coprire la droga". "Perché Stefano Cucchi, tutte le volte che si è trovato di fronte a persone in vario modo incarnanti lo Stato, siano essi gli agenti di polizia, i giudici o i medici, non ha mai detto di essere stato percosso e ha detto invece di essere caduto dalle scale o ha fornito versioni vaghe in proposito?". Il pg della Cassazione Nello Rossi nella sua requisitoria si è posto questo interrogativo definendolo "una domanda inquietante anche perché questo silenzio ha inciso molto sulle indagini, soprattutto su quelle iniziali". Ad avviso del pg "si può addurre, come fa la Corte d’Assise, il motivo del timore di subire nuove violenze". Ma Rossi rileva che oltre ad ipotizzare "la sfiducia ed il risentimento verso tutti coloro che in vario modo rappresentavano le istituzioni" c’é un "dato" che "merita una grande attenzione". Cucchi, secondo il pg, temeva che "denunciando le violenze subite, avrebbe attirato su di sé una attenzione ben maggiore di quella che gli era stata riservata dalle forze dell’ordine come modesto spacciatore, e ciò avrebbe potuto portare alla scoperta della sua riserva di stupefacente, nella sua abitazione a Morena, con conseguenze penalmente assai più rilevanti dal momento che in questa casa egli conservava un quantitativo di stupefacente maggiore a quello che gli era stato sequestrato al momento del suo arresto (hashish e cocaina)". Secondo il pg "questo è un timore che riguardava più direttamente agenti di polizia giudiziaria che non agenti della polizia penitenziaria". Il pg: "No a una pietra tombale sulla morte di Cucchi". La morte di Stefano Cucchi è stato "un fatto di eccezionale gravità" perché il giovane "è sempre, dico ‘semprè, stato nella custodia di uomini appartenenti a corpi dello Stato che legittimamente lo avevano arrestato e ne avevano limitato la libertà ma che proprio in ragione di questo potere avevano l’assoluto dovere di custodirne l’integrità fisica e di rispettarne la dignità", ha continuato il pg della Cassazione Nello Rossi. La "gravità" della vicenda di Stefano Cucchi "rende meritorio l’impegno dei suoi familiari e dei loro difensori nella loro ostinata ricerca della verità", ha sottolineato Nello Rossi. Che ha chiesto ai giudici della V sezione penale della Cassazione di non "mettere una sorta di pietra tombale sulle cause della morte di Cucchi perché si formerebbe una sorta di improprio giudicato sulla inconoscibilità del decesso" e questo peserebbe anche sulle altre inchieste in corso su questa vicenda. E ancora. "Dai membri di corpi di polizia e dai medici la collettività ha il diritto di esigere il massimo di correttezza, di rispetto umano, di osservanza delle leggi dello Stato di diritto se si vuole evitare che il potere dello Stato degradi ad arbitrio ed a mera violenza e sia irrimediabilmente delegittimato agli occhi dei cittadini - ha sottolineato il pg della Cassazione, Nello Rossi. Lo Stato senza diritto è una banda di briganti, come ha scritto Sant’Agostino e come ci ha ricordato un fine teologo come Benedetto XVI". Il pg: "Il pestaggio c’è stato". Di fronte ai nuovi "sviluppi investigativi" sulla vicenda, Rossi ha detto che "le violenze nei confronti di Stefano Cucchi indubitabilmente ci sono state per cui resta l’auspicio che i nuovi accertamenti facciano luce sulla parte ancora oscura e inesplicata di questa vicenda. Non si deve essere ciechi e sordi. Un caso umano e processuale già molto complicato, si innesta il fatto nuovo di un’indagine che riparte nei confronti di altri soggetti". Il riferimento è all’indagine bis della Procura di Roma che vede indagati cinque carabinieri, tre dei quali per lesioni aggravate e due per falsa testimonianza. Il pg Rossi, inoltre, ha detto di ritenere, così come già fatto dai giudici dell’appello, "plausibile una versione alternativa a quella del pestaggio ad opera degli agenti di polizia penitenziaria". Secondo il pg la sentenza d’appello ha in maniera "efficace" affermato "le ragioni militanti a favore di un’altra plausibile ipotesi, quella di violenze anteriori alla consegna del Cucchi agli agenti di piazzale Clodio", ipotesi che, secondo il pg Rossi, concorre "a radicare un dubbio assai più che ragionevole sulla colpevolezza" dei tre agenti di polizia penitenziaria già prosciolti in primo grado dall’accusa di aver picchiato pesantemente Stefano Cucchi. Il legale Cucchi: "Rinunciamo al ricorso in Cassazione". Prendendo la parola per l’arringa, al termine della requisitoria del sostituto pg Nello Rossi, l’avvocato Fabio Anselmo che rappresenta i famigliari di Stefano Cucchi aveva annunciato la rinuncia al ricorso presentato contro l’assoluzione in appello di tre agenti della polizia penitenziaria. "Registriamo le richieste del procuratore generale e prendiamo atto - ha spiegato il difensore dei Cucchi - dell’avvio di una nuova indagine della Procura di Roma finalizzata all’individuazione dei responsabili di quello che la stessa procura non esita a definire un violentissimo pestaggio". La famiglia Cucchi non aveva invece impugnato in Cassazione le assoluzioni dei medici dell’Ospedale Pertini: con essi, infatti, è già intercorsa una transazione. La famiglia di Stefano in aula. L’udienza si è svolta davanti alla quinta sezione penale della Cassazione, in cui i giudici della Suprema Corte erano chiamati a decidere se accogliere il ricorso della procura generale di Roma e dei familiari del geometra trentenne morto dopo l’arresto per droga avvenuto il 15 ottobre del 2009 contro l’assoluzione di tre agenti della polizia penitenziaria e di sei medici del reparto detenuti dell’ospedale Sandro Pertini in secondo grado. Nella piccola aula al quarto piano della Cassazione, oltre a molti giornalisti, avvocati delle parti civili costituite, c’erano anche i familiari di Stefano Cucchi, la sorella Ilaria e il padre Giovanni, seduti tra il pubblico. "Quello che spero è che adesso si faccia chiarezza sugli aspetti medico legali e su quanto consulenti della Procura e periti della Corte di allora abbiano segnato le sorti di sei anni di processo per la morte di mio fratello. Oggi sento per la prima volta parlare di "violentissimo pestaggio" e mi viene da chiedere cosa c’entra questo con la caduta nominata nella perizia. Oggi qualcuno ci dovrebbe delle scuse", ha detto Ilaria Cucchi a margine dell’udienza davanti alla V sezione penale della Cassazione. Ieri, intervenuta a Radio Cusano Campus, sulle ultime novità emerse sulla morte di Stefano aveva detto: "Mio fratello è stato torturato. Introdurre in Italia una legge contro la tortura e chiamarla legge Cucchi sarebbe un sogno. Il significato che forse, alla fine, tutto ha avuto senso". Nel frattempo anche il Comune di Roma, parte civile nel processo, si è allineato alle richieste del pg Nello Rossi. In totale, sono 12 gli imputati. Si tratta di sei medici, tre infermieri e tre agenti della Penitenziaria. In primo grado solo sei medici furono condannati per l’omicidio colposo di Cucchi. In secondo grado, il 31 ottobre del 2014, la Corte d’appello mandò assolti anche i medici. Contro il proscioglimento del personale sanitario e dei tre agenti della penitenziaria, ha fatto ricorso in Cassazione il sostituto procuratore Mario Remus. Come parti civili hanno fatto ricorso anche i familiari di Stefano Cucchi, il padre, la madre e la sorella Ilaria. La famiglia Cucchi ha fatto ricorso solo contro le assoluzioni dei tre agenti dopo aver ritirato la costituzione di parte civile nei confronti del personale sanitario in seguito ad un risarcimento avuto dall’ospedale Pertini. Caso Cucchi, il pestaggio della verità di Luigi Manconi Il Manifesto, 16 dicembre 2015 Il rito giudiziario - come quello degli alti magistrati, icasticamente ritratti su queste colonne quarantatré anni fa da Luigi Pintor - vive sempre di una sua fredda astrazione, proiettato in una sorta di etereo iperuranio. Così, in queste ore, la Corte di Cassazione è chiamata a celebrare il terzo grado del processo per la morte di Stefano Cucchi. Solo che quel processo, rivelatosi del tutto falsato a causa di indagini condotte in maniera a dir poco insipiente, risulta ora completamente svuotato dai risultati già acquisiti dalla seconda inchiesta, promossa dal nuovo procuratore Capo Giuseppe Pignatone (al quale tutti dobbiamo essere grati). E, tuttavia, la sentenza della Cassazione non potrà non tener conto delle novità intervenute. Il che spiega perché il Procuratore generale Nello Rossi abbia chiesto l’annullamento con rinvio dell’assoluzione di cinque medici prosciolti in appello. E lo stesso procuratore generale ha aggiunto che i referti medici su Stefano Cucchi all’atto dell’ingresso nell’ospedale Pertini "devono essere considerati come un capitolo clamoroso della sciatteria e trascuratezza della assistenza riservata al paziente". Si apre, così, un nuovo capitolo, che finalmente porrebbe in una luce diversa la decisiva questione del nesso di causalità fra violenze inflitte e successivo decesso. Tanto dolore, tante falsità. Al momento in cui scrivo, non si conosce ancora la sentenza della Cassazione, ma il cuore dell’intera vicenda - "la passione e la morte" di un giovane uomo attraverso dodici luoghi e apparati e istituzioni dello Stato - sembra incontrare ora la sua verità essenziale. E pure resta un gusto amaro in bocca. Venerdì scorso mentre parlavo con Ilaria, Giovanni e Rita Cucchi delle sconvolgenti notizie relative alla morte di Stefano, non avvertivo in ciò che dicevamo alcun senso di sollievo. E non solo perché sullo sfondo resta sempre, incancellabile, quel corpo tumefatto e sfigurato sul tavolo di un obitorio. Ma anche perché le modalità di quelle rivelazioni e il loro contenuto rendono ancora più atroci i contorni di questa storia atroce. Intanto, l’umiliante sofferenza patita da Cucchi, emerge in forma ancora più netta, così come la sua condizione di solitudine e di abbandono. E poi, nei suoi torturatori, quelle manifestazioni così minacciose di senso di impunità e di volontà di mortificazione della vittima, che sembrano esprimere una sorta di "stile d’azione" - brutale e professionale allo stesso tempo - confermato mille volte e in mille circostanze. E, infine, il nostro scoramento - se posso permettermi di interpretare anche il sentimento della famiglia Cucchi - nasce da questa agra soddisfazione e da questa malinconica consapevolezza: sì, adesso sappiamo come sono andate davvero le cose in quella maledetta notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009. Ma perché c’è voluto tanto per accertare la verità? Tanto dolore e tanta fatica? Tanto scialo di sofferenza e tanto tempo dilapidato a causa di menzogne e depistaggi, diffamazione istituzionale e odio politico? Tanto Carlo Giovanardi ( Cucchi? "anoressico tossicodipendente epilettico larva zombie") e tanto Pubblico ministero Francesca Loy (Cucchi? "tossicodipendente da circa venti anni"). A tre giorni dalla morte di Stefano, la sorella Ilaria e noi con lei, indicavamo nella caserma Appia e in quelle prime ore della notte, il luogo e il momento di ciò che il Procuratore Pignatone avrebbe definito, anni dopo, "un violentissimo pestaggio". La sudditanza verso l’Arma. Esattamente da quelle ore e per mesi fu messa in atto una insidiosa e pesante operazione di manipolazione nei confronti dei familiari, del loro legale Fabio Anselmo e di chi scrive, al fine di dirottare l’attenzione da quella caserma e da quelle prime ore della via Crucis di Stefano Cucchi, e per indirizzarla verso la Polizia penitenziaria. Per ben sei anni, quella operazione ha retto, grazie - evidentemente - a una rete di complicità sottili e assai robuste, a silenzi tenaci e a una omertà corporativa tra i carabinieri. E grazie a qualcosa di assai simile a una forma di sudditanza psicologica nei confronti dell’Arma, così frequente in alcuni settori della Magistratura. Se ora tutto sembra cambiare, si deve alle nuove indagini della procura di Roma e - soprattutto - alla determinazione, instancabile e intelligente, dei familiari della vittima. Caso Cucchi, quel verbale ignorato 6 anni fa dava la pista ai Carabinieri di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 16 dicembre 2015 Un appuntato raccontò di "ematomi evidenti" subito dopo i fatti, quando invece la Procura prese la strada delle percosse degli agenti penitenziari, poi assolti due volte. Agli atti della nuova indagine su Stefano Cucchi ci sono tracce da cui s’intuisce che la pista del "violentissimo pestaggio" da parte di alcuni carabinieri che avevano partecipato all’arresto poteva essere imboccata molto prima. Subito dopo i fatti, quando invece la Procura prese la strada delle percosse a opera degli agenti penitenziari, poi assolti due volte con il sigillo arrivato ieri sera in Cassazione. Dove il procuratore generale Nello Rossi, chiedendo la loro definitiva uscita di scena, ha ribadito: "La ricerca delle responsabilità, che non si è fermata, va indirizzata altrove". Come nasceva l’ipotesi. Un altrove indicato, seppure come ipotesi, dalle stesse sentenze che hanno scagionato le guardie carcerarie. "È legittimo il dubbio che Cucchi fosse stato già malmenato dai carabinieri", scrissero i giudici di primo grado; e quelli d’appello riaffermarono che l’eventuale responsabilità dei "carabinieri che lo hanno avuto in custodia dopo la perquisizione domiciliare non può essere definita una "astratta congettura"" . Né gli uni né gli altri, però, si preoccuparono di trasmettere il fascicolo ai pubblici ministeri perché tornassero a indagare in quella direzione; inspiegabilmente, poiché avrebbero dovuto farlo, ha insistito ieri il pg Rossi. Quella carta trascurata. Ma ancora prima, sei anni fa, tra le carte accumulate dagli inquirenti ce n’era una che avrebbe potuto accendere un faro sui militari che hanno tenuto in custodia Cucchi la prima notte, prima che venisse portato in tribunale per il processo per direttissima. È il verbale di sommarie informazioni reso proprio da un carabiniere, l’appuntato Pietro Schirone, che la mattina successiva all’arresto andò a prendere Stefano alla stazione dell’Arma del quartiere Tor Sapienza per portarlo al palazzo di giustizia. Fu ascoltato dal pm titolare della prima inchiesta, il 30 ottobre 2009, una settimana dopo la morte di Cucchi. Raccontò che quando lo vide capì subito che stava male, aveva "due ematomi che gli circondavano gli occhi" e lamentava dolori da non riuscire a camminare. Gli chiese se volesse andare in ospedale, ma lui rispose di no. "Ma vi siete resi conto?". Dopo averlo affidato ai nuovi custodi, Schirone incontrò il carabiniere Francesco Tedesco (uno dei neo-indagati per le lesioni, ndr), che aveva preso parte all’arresto; i due si conoscevano da tempo. Gli chiese se si erano resi conto delle condizioni fisiche dell’arrestato, e "Tedesco mi rispose che non era stato affatto collaborativo tanto che aveva rifiutato il foto-segnalamento". Un’indicazione - "non collaborativo" - che può significare tutto e niente, ma che nessuno ritenne di approfondire in maniera adeguata; né durante l’indagine né al processo, dove l’appuntato ha ripetuto le stesse cose. Riconvocato il 23 ottobre scorso dal pm Giovanni Musarò, nell’inchiesta-bis, Schirone ha aggiunto ulteriori particolari: "Chiesi al Tedesco delle condizioni dell’arrestato riferendomi in modo palese al fatto che era fin troppo evidente che fosse stato pestato". Tedesco gli rispose "senza mostrare alcuno stupore per le condizioni del Cucchi", e dalla risposta Schirone capì "che Cucchi aveva fatto in qualche modo resistenza". Anche perché, aggiunge il testimone, la frase sulla mancata collaborazione "per quanto velata, risultava chiara: le percosse che il Cucchi aveva subito erano in qualche modo connesse al fatto che non era stato collaborativo al momento del foto-segnalamento". "Un soggetto sincero e anche coraggioso". Per il pm l’appuntato Schirone è un "soggetto sincero e anche coraggioso", e le sue dichiarazioni sono riscontrate da altri elementi e testimoni. Tra questi il carabiniere Stefano Mollica, che pure accompagnò Cucchi in tribunale, il quale ha riferito al pm: "Al ritorno da piazzale Clodio eravamo in macchina solo io e Schirone e in tale occasione eravamo entrambi molto perplessi per quello che avevamo visto: era evidente che Cucchi era stato pestato prima che lo prendessimo in consegna noi e, per quanto mi riguarda, ho pensato che i responsabili dovevano essere cercati fra i colleghi intervenuti prima di noi, anche se non ero e non sono in grado di accusare nessuno in particolare". Ora l’ha fatto la Procura, anche sulla base di questa dichiarazione Giudici, no al "filtro" solo per il futuro di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 16 dicembre 2015 La nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati non è retroattiva. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza della Terza sezione civile n. 25216 depositata ieri. La Corte ha così ritenuto che la soppressione del filtro di ammissibilità, tra i punti cardine della riforma, non può essere applicata a una richiesta di risarcimento danni presentata prima dell’entrata in vigore della legge n. 18 del 2015. Conclusione che vale anche se la disposizione ha natura processuale e non sostanziale. La pronuncia ricorda inizialmente come la Corte costituzionale ha sottolineato (sentenza n. 18 del 1989) che la previsione del giudizio di ammissibilità della domanda garantisce il magistrato dalla proposizione di azioni manifestamente infondate, in grado però di turbare la serenità dello stesso, e, nello stesso tempo, impedisce di creare maliziosamente i presupposti per l’astensione e la ricusazione. Tuttavia, osserva la Cassazione, la circostanza che il filtro di ammissibilità garantisce i valori di indipendenza e autonomia della funzione giurisdizionale non è sufficiente a fare ritenere che la norma che lo prevedeva abbia natura sostanziale. Quella funzione viene piuttosto assicurata attraverso un meccanismo che opera sul piano processuale. Infatti, quanto alle norme sulla competenza e sui termini e sull’ammissibilità della domanda, si tratta di disposizioni indirizzate a definire i requisiti necessari e inderogabili per la presentazione in giudizio della domanda di responsabilità e non invece per la sua definizione nel merito. In ogni caso, però, il carattere processuale della misura abrogata e di quella sopravvenuta non ha come effetto l’applicazione retroattiva della cancellazione del filtro. Su questo passaggio la sentenza ribadisce due principi cardine: a) applicazione immediata della nuova regola ai processi pendenti con riferimento a tutti gli atti ancora da compiere; b) conservazione della validità e dell’efficacia degli atti compiuti quando era in vigore la vecchia disciplina poi abrogata. L’effetto da evitare è quello per cui un atto di parte del processo, come la domanda introduttiva della lite, pur essendo stato compiuto quando era in vigore una determinata disciplina, non sarebbe più da questa regolato quanto agli effetti successivi. In assenza di una disposizione specifica che si preoccupi della fase transitoria, la legge, anche quella processuale, non dispone che per il futuro senza alcun effetto retroattivo. La specificità della questione è però data dal fatto che la norma abrogata detta la disciplina di un atto di parte sottoponendolo a un giudizio. "Tuttavia - puntualizza la Cassazione - proprio perché si tratta di un giudizio di ammissibilità in corso alla data di entrata in vigore della nuova norma, ma riferito ad un atto processuale posto in essere nel vigore della vecchia, esso non potrebbe interrompersi o perdere efficacia o, comunque, "venire meno", se non facendo "venire meno" gli effetti ricollegati all’atto di parte (domanda giudiziale) dalla legge vigente nel momento in cui l’atto è compiuto". Neppure l’articolo 1 della legge 18/15 può essere interpretato nel senso di attribuire un’efficacia retroattiva alla soppressione del filtro. L’articolo 1, invece, ricorda lo scopo della riforma della legge sulla responsabilità civile dei magistrati che è agganciata alla domanda di risarcimento che può essere azionata nei confronti dello Stato. Un’enunciazione che però non può che essere rivolta al futuro. Come pure, la sentenza nega che l’applicazione della riforma per il passato possa essere imposta per la prevalenza del diritto comunitario. Quest’ultimo, infatti, nella lettura fornita dalla Corte di giustizia Ue non ha mai contestato il giudizio di ammissibilità. Ecco perché io, parroco in un carcere, non credo all’amnistia di Marco Pozza (Cappellano della Casa di Reclusione di Padova) ilsussidiario.net, 16 dicembre 2015 È il grido feriale di chi sta asserragliato dietro le sbarre delle patrie galere: "Amnistia, amnistia!" Un grido, una richiesta d’attenzione, una litania imbevuta di angustia. Un’invocazione che, puntuale, ritorna in occasione di ogni giubileo che la Chiesa indice. È la sfida che rilancia Francesco, un Papa che come nessun altro sta prestando la voce a chi, mancando della libertà fisica, scopre d’essere privato pure della libertà di parola, d’espressione: "Desidero rinnovare l’appello alle autorità (…) a considerare la possibilità di un’amnistia". Il Papa, ogni Papa, conosce l’arte dell’arciere: nel tiro con l’arco, la freccia va lanciata alta perché arrivi il più lontano possibile; se la si punta verso terra, la freccia fa poca strada. Per questo, forse, scocca alta la freccia, Francesco, pur sapendo la quasi impossibilità della sua richiesta. Rimane doveroso il suo puntare alto, così come è doveroso chiedersi se sia davvero educativa un’amnistia. Per le celle del carcere, si corre sovente un rischio: quello di dire "da oggi mettiamo una pietra sul passato, siamo uomini diversi". È una tentazione accovacciata nei pensieri dei detenuti, dei volontari, degli educatori. Di chi, prossimo alla carne-sofferente, scopre l’illogicità e l’illegalità di certe pene. C’è del diabolico, però, imboscato in quest’affermazione: noi siamo anche il nostro passato. Siamo così impastati di passato che il futuro, organizzato nel tempo presente della detenzione, sarà tanto più credibile quanto più affonderà le sue radici nella terra del passato, non nella cancellazione di esso. Concedere un’amnistia è cancellare con un colpo di spugna un pezzo di responsabilità. È, forse, anche porgere un sospetto d’offesa a chi non può invocare una forma parallela di amnistia che cancelli la sofferenza patita, fosse anche del più piccolo dei gesti. L’amnistia che chiede Francesco è una possibilità da valutare, non un credito da vantare: pure lui, uomo di odori e di pecore, sa che la misericordia cristiana non cancella la giustizia, ma rimane un’urgente esigenza di prendere in mano la propria vita e rimettere mano a quella strada, con Dio. Dissentire sul valore educativo dell’amnistia è, dunque, stare dalla parte della tortura? Assolutamente no: chi firma queste righe è parroco di una pesante patria galera del Nord-Est d’Italia. Che, proprio perché sporcato di queste storie fangose e graziose, ha fatto i conti con una sfumatura indelebile: un conto è vivere la pena, tutt’altra cosa è subire la pena. Non è per il fatto di aver scontato dieci anni di galera che un uomo possa dire d’aver espiato la pena: può anche averli vissuti passivamente, senza il minimo ravvedimento. Per la giustizia dei tribunali ha pagato il conto, è a posto, può tornare in libertà: ma ha veramente risarcito e riscattato, a se stesso prima di altri, il suo passato? Una pena è stata scontata quando, scontandola, l’uomo ha compreso la gravitas del gesto compiuto, del male arrecato. In quest’ottica, profumano di cielo le prime parole di Francesco: "Valutare la possibilità di inserire nelle legislazioni nazionali pene alternative alla detenzione carceraria". Eccolo il vero segreto per il quale metterci la faccia, il cuore: far sposare la giustizia con la misericordia. Fare di tutto perché, mentre sconta la sua pena, il detenuto possa rimanere dentro la società che ha tradito. Isolarlo, sovente, è assai comodo: ci si vergogna così tanto di se stessi che starsene protetti dietro le sbarre diventa conveniente. La vera fatica è scontare la pena dentro la mischia, faccia a faccia, uomini con gli uomini. Solo così il detenuto può guardare in faccia la vera realtà; solo così la società ha l’occasione di cedere che quel bandito sta diventando diverso. Non ho mai creduto al motto che "vince chi fugge", perciò non credo all’amnistia. Credo nella rieducazione: quella che, senza sottrarre la responsabilità, insegna a scrutare il riscatto dentro la grana della prigionia. Tutelando vittime e carnefici. Lazio: protocollo Dgm-Regione su centro giustizia riparativa e mediazione penale giustizia.it, 16 dicembre 2015 Dare centralità alla vittima di reato, soprattutto se minorenne, rafforzando i suoi diritti e tutelandola e, al tempo stesso, favorire l’assunzione di responsabilità da parte del minorenne o giovane adulto autore di reato, attraverso la riparazione delle conseguenze del reato e, se possibile, la riconciliazione con la vittima. È quanto prevede il protocollo d’intesa per il centro di giustizia riparativa e di mediazione penale siglato oggi nella sede del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità dal capo dipartimento Francesco Cascini, il direttore delle politiche sociali autonomie sicurezza e sport della Regione Lazio Nereo Zamaro, il presidente del Tribunale per i Minorenni di Roma Melita Cavallo e il procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni di Roma Claudio De Angelis. L’attività di mediazione, nel contesto del procedimento penale minorile, costituisce un importante strumento che favorisce e agevola meccanismi volti a ristabilire la sicurezza e il legame sociale, riducendo il livello di conflittualità e violenza presenti nei contesti locali. Il protocollo per il centro di giustizia riparativa e di mediazione penale rappresenta inoltre un importante momento di collaborazione tra Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità e Regione Lazio e riflette l’approccio del Dipartimento al tema del recupero e del reinserimento sociale del reo attraverso la realizzazione dei percorsi di reinserimento sociale che siano individualizzati, che coinvolgano la vittima del reato, che si svolgano nel contesto sociale e territoriale di appartenenza e vedano il coinvolgimento degli enti di programmazione delle politiche e dei servizi sociali del territorio, del privato sociale e di tutte le agenzie educative presenti sul territorio. Biella: ora il carcere può assumere un agronomo e sette detenuti La Stampa, 16 dicembre 2015 Il carcere di Biella in questi giorni ha ottenuto il riconoscimento di "Tenimento agricolo" dall’amministrazione penitenziaria. "È un risultato che oltre ad inorgoglirci per il lavoro svolto negli anni consentirà l’assunzione di sette detenuti e di un agronomo per condurre quella che diventerà un’azienda agricola a tutti gli effetti", racconta la direttrice della casa circondariale Antonella Giordano. Da sempre impegnata nella ricerca di bandi e contributi per dare attuazione al dettato costituzionale sullo scopo rieducativo della pena, la direttrice Giordano, in questi giorni ha avuto la notizia dell’accoglimento da parte della Cassa Ammende, l’istituito che finanzia progetti per il reinserimento dei detenuti, di un contributo per l’organizzazione di alcuni corsi professionali. "In particolare formeremo 15 detenuti come decoratori ed operai edili, assunti lavoreranno nella ristrutturazione di alcune aree comuni e reparti del carcere, altri verranno invece formati come addetti alla manutenzione di aree verdi, ed altri ancora come operatori di pulizia". Il carcere si apre poi al territorio grazie alle convenzioni firmate con la Provincia, un detenuto svolgerà lavori edili negli istituti scolastici dell’ente, e con la Lilt che ha richiesto manodopera per curare le aree verdi della nuova sede. Avellino: il Vescovo Francesco Marino "spesso dietro le sbarre condizioni non umane" irpiniafocus.it, 16 dicembre 2015 Il Vescovo di Avellino alla presentazione del periodico voluto dalla "Fondazione Antonietta Cirino Onlus - Progetto Parkinson Avellino", di cui è presidente onorario, e stampato dai detenuti della Casa di Reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi grazie al sostegno del direttore della casa circondariale Massimiliano Forgione. "Non si è mai soli davanti al mistero e alla sofferenza, si è col Cristo che dà senso a tutta la vita. Con lui tutto ha avuto senso, compresi il dolore e la morte". A parlare è Sua Eccellenza Francesco Marino, Vescovo della Diocesi di Avellino, intervenuto ieri sera alla presentazione del numero zero del periodico "maiFermi", voluto dalla "Fondazione Antonietta Cirino Onlus - Progetto Parkinson Avellino", di cui è presidente onorario e stampato dai detenuti della Casa di Reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi, grazie al sostegno del direttore Massimiliano Forgione, che ha messo a disposizione la tipografia del carcere. Un giornalino, la cui direzione è affidata al giornalista Lello Venezia, che punta a dar voce ai malati parkinsoniani attraverso il Giornaleterapia. "All’inizio avevo sottovalutato l’importanza di un giornale in questa associazione - prosegue il vescovo Marino - ma ora mi sono stati aperti dei begli orizzonti con la comunicazione anche con il mondo del carcere. I detenuti vivono dietro le sbarre in condizioni spesso non umane. C’è la necessità per chi abbia commesso dei reati a riscattarsi attraverso la pena, ma non in queste forme. Il mondo delle carceri non è un mondo alieno, ma c’è bisogno dell’inclusione della comunità carceraria nella società. Una inclusione sociale di senso di comunità che è grande non solo perché è Natale". L’incontro svoltosi presso la sala Ripa del Carcere Borbonico (assente per sopravvenuti impegni istituzionali a Napoli il Presidente del Consiglio Regionale della Campania Rosetta D’Amelio e il Prefetto di Avellino che ha inviato un telegramma di saluto) ha visto tra i relatori il professore Samuele Ciambriello, presidente dell’associazione "La Mansarda", che ha evidenziato come il sociale venga troppe volte bistrattato: "La parola comunicazione significa mettere in comune. Per cui la radice di comunicazione è comunità. Ma se leggo giornali e tv si sente ben altro. Comunicare per il sociale, per condividere. Inoltre seminare per meglio prevenire. Se insistiamo nella prevenzione risparmiamo anche economicamente nel futuro. Un tema sociale, come il Parkinson, non deve interessare solo chi ha qualche familiare colpito. L’informazione fa fare un passo in avanti. E perciò che dobbiamo fare rete ripartendo dagli ultimi. Via all’ora un’informazione coraggiosa fatta su questi tempi per ripartire dagli ultimi guardando anche con occhi nuovi un’esperienza di dolore". La dottoressa Gabriella Pugliese, coordinatrice della sanità penitenziaria per l’Asl di Avellino, ha posto l’accento sull’esperienza vissuta nelle carceri: "dove i detenuti partecipano a tutte le attività, anche a quella della tipografia per stampare questo giornalino. Il detenuto è parte della società e bisogna avere grande considerazione della dignità dell’uomo, dandoci una mano. Questo darci una mano è il principio più importante che ci impegna ad andare avanti". La dottoressa Rosmaria Iannaccone, presidente della "Fondazione Antonietta Cirino - Onlus", ha sottolineato l’impegno dell’associazione: "Siamo qui per compiere un passo in più perché crediamo che con il nostro impegno possiamo essere una presenza costante sul territorio ed un beneficio ad una fetta della nostra comunità che ne può beneficiare". Nelle parole del direttore responsabile del periodico Lello Venezia le ragioni della nuova sfida lanciata dall’associazione con il numero zero: "Chiamare questo giornale "maiFermi" ci vuole coraggio ma dimostra la voglia di lottare e andare avanti insieme. Nasce, nell’interesse dei malati e delle loro famiglie, troppo spesso lasciate sole a sopportare carichi sempre più pesanti dovuti ai tagli nella sanità ma anche all’assenza di iniziative pubbliche. Il giornale nasce con uno scopo ben preciso: dare voce alle esigenze dei malati di Parkinson. Ma a denunciare le mancanze, ad evidenziare anche le eccellenze, a rendere note le problematiche legate alla malattia, a rivendicare spazi, servizi e sostegno, sono direttamente i pazienti e gli operatori, senza alcuna mediazione. Sono loro gli "inviati speciali" che scrivono gli articoli, che decidono, nelle riunioni di redazione, cosa pubblicare e quale tema affrontare, quale intervento ospitare. Un Giornale-terapia: scrivere delle proprie esperienze, rendere pubbliche le proprie difficoltà, impegnarsi nella creazione di testi e di disegni significa rimettersi in gioco, relazionarsi, vivere attivamente, lottare contro la malattia". Nei saluti iniziali il presidente dell’Ordine dei Medici di Avellino, dottor Antonio D’Avanzo ha elogiato le attività dell’associazione: "Da parte dell’Ordine c’è l’ammirazione per quello che fa questa fondazione e Rosmaria. So l’impegno, la tenacia e la forza che ci ha messo per creare una struttura che potesse dare sollievo ai pazienti. Abbiamo bisogno dell’assistenza ai nostri malati in un momento in cui attraversiamo un momento difficile nella sanità pubblica. Associazioni come queste hanno un grandissimo merito". Napoli: Tocco e D’Amelio "istituzioni impegnate per il reinserimento dei detenuti" Agenparl, 16 dicembre 2015 Il Coro Giovanile del Teatro di San Carlo diretto dal Maestro Carlo Morelli, si è esibito al Consiglio Regionale della Campania. Dieci brani (Ain’ no mountain, Mamma mia, Seasons of love/ disco inferno, White Christmas, I 100 Passi, Silent night, Somebody to love, ‘O sole mio, Mai in the mirror, ‘O surdato nnammurato) che cantati in modo strepitoso, hanno fatto vibrare l’Aula e emozionato i presenti. Un evento che ha trasformato il parlamentino campano, sede delle Istituzioni e della politica, in luogo di arte, cultura e musica. L’iniziativa voluta fortemente dalla Garante dei detenuti della Regione Campania, Adriana Tocco e dalla presidente del Consiglio regionale della Campania, Rosetta D’Amelio, è stata l’occasione per promuovere la Giornata della Legalità della Pena, già celebrata con diverse modalità negli anni scorsi, e ha visto presenti le Istituzioni penitenziarie (Direttori degli istituti di pena, Comandanti della Polizia Penitenziaria, Magistrati), l’assessore regionale alle Politiche Sociali Lucia Fortini e numerosi consiglieri regionali (Flora Beneduce, Lello Topo, Alfonso Piscitelli, Luciano Passariello, Maria Grazia Di Scala, Carmine Mocerino, Loredana Raia, Antonella Ciaramella, Francesco Emilio Borrelli, Erasmo Mortaruolo, Carlo Iannace, Pasquale Sommese), che hanno testimoniato ancora una volta l’ottimo lavoro profuso dalla Garante, per assicurare una sempre maggiore dignità della pena all’interno degli istituti penitenziari della Campania. Il Coro giovanile del Teatro San Carlo di Napoli, come ha spiegato il Maestro Carlo Morelli, è nato tre anni fa "per portare sollievo, attraverso la musica, nelle sacche di sofferenza della società e, in particolare, si è esibito nelle carceri e a Nisida con un progetto sostenuto dalla Garante dei detenuti della Regione. Il Coro - ha continuato Morelli - ha sede nell’ex stabilimento della Cirio di San Giovanni, in un’area della città dove la deindustralizzazione genera desolazione, con una mission precisa: la "militarizzazione" musicale della città". Proprio in occasione di questa giornata la Presidente D’Amelio ha annunciato, al termine dell’esibizione, che "l’Aula del Consiglio regionale, a breve, sarà intitolata a Giancarlo Siani, nel trentennale della sua morte". Ed ha sottolineato l’importanza dell’iniziativa: "Voglio ringraziare i giovani del coro e il maestro per il lavoro prezioso che svolgono nei luoghi di pena e sono certa che troveremo il modo per continuare a lavorare insieme. Abbiamo il dovere di impegnarci perché i soggetti più deboli siano al centro dell’attenzione delle istituzioni e della politica - ha affermato la Presidente del Consiglio - e per mettere in campo progetti di recupero a favore delle persone disagiate e di coloro che, pagato il proprio debito con la giustizia, hanno diritto a trovare le migliori condizioni per ritornare nella società". Dunque reinserimento sociale, tema toccato varie occasioni dalla Garante dei detenuti, Adriana Tocco, che a margine del concerto dei sancarlini, ha tenuto a ricordare come "Le Istituzioni e la società tutta devono impegnarsi con sensibilità sociale per garantire lo scopo rieducativo della pena. L’importanza di un’iniziativa che è tesa a tenere alto il livello di attenzione sulle fasce deboli della popolazioni, tra cui i detenuti, e a favorire occasioni di socialità e di serenità. Quest’anno abbiamo affidato al coro giovanile del San Carlo l’esibizione per la giornata della legalità della pena, che ha avuto negli anni modalità diverse. Il coro si è esibito in molti istituti penitenziari della Campania, portando, oltre a una grande professionalità, gioia allegria il fascino della giovinezza. Il maestro, instancabile animatore, ha coinvolto gli spettatori che hanno cantato si sono esibiti alcuni con bravura. Con questa e altre iniziative - ha proseguito la Garante dei detenuti - abbiamo voluto dimostrare che il carcere non può essere una zona di extraterritorialità giuridica sociale e addirittura umana. È invece un luogo in cui non può mai venire meno il rispetto della dignità umana, in cui va praticata fino in fondo la Costituzione. Iniziative che nascono non da buonismo ma dalla tenace fiducia nella possibilità di cambiamento e di crescita di ogni essere umano, non sarebbero state possibili senza la collaborazione dell’Amministrazione Penitenziaria. C’è stato, infatti, un unanime sentire con il provveditorati, i direttori, gli educatori, la polizia penitenziaria e sento il dovere di ringraziarli tutti in egual modo". Bolzano: il Natale dentro il carcere, tra sorprese e malinconia di Alan Conti Alto Adige, 16 dicembre 2015 Dal pranzo speciale alla lontananza della famiglia. Ieri la messa con il vescovo . "Cosa vuoi, qui dentro i giorni scorrono tutti uguali. Tu mi chiedi del Natale e io ti rispondo che il Natale fa più male perché se qualsiasi altra giornata può essere ridimensionata, ecco, il 25 dicembre è inevitabile sentire la distanza". Dentro il carcere di via Dante a Bolzano è un detenuto a raccontare al vescovo Muser (ieri in visita per celebrare la messa di Natale) queste giornate senza famiglia, senza albero a casa, senza giri per i negozi dove scovare regali da dedicare a chi si vuole bene. Non senza affetto, ma di sicuro con gli affetti lontani. "Il 25 dicembre - prosegue il detenuto - non è un giorno di visita, quindi lo trascorreremo tra di noi. Oltre tutto qui dentro per molti non si tratta di una festività da celebrare: non si avverte in modo particolare. È un peccato". A casa ha tre figli e una moglie. "Oltre alla loro mancanza la cosa che più mi pesa è sapere che tu mancherai a loro". Un altro detenuto conferma. "Non ti abitui a quella sensazione, mai. Men che meno il giorno di Natale. Spesso ci chiedono se siamo pentiti per quello che abbiamo fatto. È una domanda che ha mille risposte scontate e altrettante più profonde. Il giorno di Natale, forse, è quello dove più si stringe qualcosa dentro". Il suo è un reato di quelli che lo costringeranno, probabilmente, a stare lontano da casa molto tempo. Nell’ombra di malinconia che passa nel suo sguardo capita di chiedersi come mai sia finito qua dentro, perché sia diventato un "criminale". In questo luogo c’è un’umanità che cerca il riscatto dopo aver sbagliato: di fatto, in alcune celle, c’è una piccola parabola natalizia che cerca compimento. Senza falsa retorica né la certezza del lieto fine. Il pranzo speciale. In effetti nella casa circondariale il 25 dicembre sarà un venerdì come tanti altri, anche se qualche piccolo gesto verrà fatto. "Lo spaccio - racconta Bruno Bertoldi, più di 45 anni di volontariato in via Dante e un’istituzione dentro il carcere - preparerà un pranzo speciale. Di solito si tratta di lasagne o la pasta al forno. Non so dirle, però, cosa sarà quest’anno perché si tratta di una sorpresa". In realtà prima e dopo Natale ci pensa proprio Bertoldi a regalare qualche sorriso dietro le sbarre. Non lo dice per eleganza, ma grazie al suo lavoro i detenuti possono comprare dei giocattoli per i figli all’esterno e poi consegnarli di persona durante i colloqui. Sembra un piccolo gesto, ma provate a immaginarvi di acquistare un dono e non poterlo consegnare personalmente nelle mani di chi si ama. Vigilia con il panettone. Per la sera del 24, invece, Bertoldi recapiterà a tutti mezzo panettone per festeggiare insieme. E poi ancora un pacco di caffè e la cioccolata. "Il caffè lo regalo perché so che possono farselo anche in cella con la moka. In qualche modo è una piccola libertà che possono prendersi in autonomia perché, ovviamente, qui dentro anche i pranzi e le cene sono dettati da tempi che non dipendono da loro". Chi non festeggia. Le occasioni per varcare i cancelli del carcere del capoluogo non sono tante. La messa natalizia che il vescovo Ivo Muser tiene con i detenuti è una di quelle. Un momento di contatto tra i detenuti e lo scampolo di società civile che può entrare. La struttura è vecchia, i dettagli non si possono descrivere, ma basta guardarlo da fuori per capire che non si tratta di un edificio particolarmente confortevole. Gli spazi sono quelli che sono e il Natale, all’interno, non ha lasciato nessun segno. Non ci sono addobbi né particolari simboli ad eccezione della cappella che ospita un bell’albero e il presepe. "Guardi, il rapporto con il Natale in carcere è molo cambiato rispetto a dieci o venti anni fa - continua Bertoldi - perché è scesa drasticamente la percentuale di cattolici. Se allora ne contavamo 95% e la sofferenza era globale, oggi siamo tra il 20 e il 30%. Per molti dei detenuti il 25 dicembre non è una festività particolarmente sentita, quindi cambia anche la percezione generale della giornata". Sant’Angelo Lombardi (Av): detenuto incontra Papa Francesco "emozione indescrivibile" avellinotoday.it, 16 dicembre 2015 L’incontro del Santo Padre con i detenuti del carcere altirpino è avvenuto in occasione della ricorrenza del ventennale del Progetto Policoro, il progetto della Cei nato con lo scopo di aiutare i giovani disoccupati o sottoccupati del Sud Italia. "È una giornata meravigliosa che io detenuto mai mi sarei sognato di vivere un giorno". È tale l’emozione del momento che Giovanni, uno dei reclusi nella Casa di Reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi, non riesce ad aggiungere altro quando si è trovato di fronte Papa Francesco. Null’altro, tant’è che pure quando il Pontefice gli ha chiesto della sua reclusione ha continuato a ripetere come una filastrocca che quella di lunedì 14 dicembre 2015 è stata una "giornata meravigliosa" che mai riuscirà a dimenticare, campasse cent’anni. L’incontro del Santo Padre con i detenuti del carcere altirpino è avvenuto in occasione della ricorrenza del ventennale del Progetto Policoro, il progetto della Cei nato con lo scopo di aiutare i giovani disoccupati o sottoccupati del Sud Italia. Gesto concreto in Campania di questo progetto è la Cooperativa sociale il Germoglio di Sant’Angelo dei Lombardi, che nel tenimento agricolo del carcere altirpino produce i vini tipici del territorio, dando lavoro ad una decina di reclusi. L’evidente emozione dei detenuti ha fatto sorridere il Papa, il quale ha poi voluto sapere da tutti loro del lavoro in carcere e dei propositi per quando usciranno. Il Pontefice, dopo aver ricordato che potranno lucrare l’indulgenza concessa ai peccatori per l’anno giubilare ogni volta che varcheranno la porta della loro cella facendosi il segno di croce, ha detto ai detenuti: "Mi raccomando, pregate anche per me!". "Non ne siamo degni", ha aggiunto uno di loro, meritandosi lo sguardo di incoraggiamento di Bergoglio, che ai reclusi nelle carceri ha pensato anche nella bolla di indizione del Giubileo della Misericordia. L’iniziativa di arrivare a Roma assieme ai detenuti è stata fortemente voluta da Fiorenzo Vespasiano e don Rino Morra, referenti regionali del Progetto Policoro, i quali hanno consegnato al Pontefice, assieme al vino "Galeotto" prodotto nel carcere di Sant’Angelo, alcune lettere dei reclusi che lo ringraziano per quanto sta facendo per il pianeta carcere e gli chiedono di andare in visita al loro carcere, "una struttura dove la reclusione non è sinonimo di esclusione, bensì si coniuga con lo sforzo dell’inclusione umana, sociale e lavorativa". E non erano meno emozionati gli altri detenuti, Giosefatto, Giuseppe, Raffaele e Costantino. Quest’ultimo, ventotto anni di cui dieci trascorsi in carcere, si è sentito addirittura "un miracolato" poiché, poco prima di salire sul pullman che lo avrebbe portato in Vaticano, gli è stato notificato il provvedimento inaspettato che lo rimetteva anticipatamente in libertà per fine pena. Della mission della Cooperativa il Germoglio ha parlato dal palco dell’Aula "Paolo VI" in Vaticano il presidente Marco Luongo, il quale ha spiegato le ragioni che hanno spinto un gruppo di giovani a restare in Irpinia quando tutti gli altri loro coetanei andavano via e ha detto della voglia di affiancare le loro speranze a quelle di tanti soggetti svantaggiati, come i detenuti a cui intendono offrire un’opportunità di riscatto dagli errori commessi. Del resto è proprio questa la finalità del Progetto Policoro, che dimostra come anche per i giovani "non raccomandati" sia possibile un lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale. Un progetto di vita in perfetta sintonia con le parole di Papa Francesco, che nel suo discorso tutto incentrato sulla dignità del lavoro, specie per i giovani, li ha incoraggiati a non rassegnarsi dinanzi alle difficoltà del momento, ammonendo che il lavoro non deve essere un dono concesso solo ai raccomandati e ai corrotti ma è un diritto per tutti e li ha sollecitati a non perdere di vista l’urgenza di riaffermare questa dignità. "Il mio invito - ha proseguito Bergoglio - è quello di continuare a promuovere iniziative di coinvolgimento giovanile in forma comunitaria e partecipata, poiché spesso dietro a un progetto di lavoro c’è tanta solitudine. A volte i nostri giovani si trovano a dover affrontare mille difficoltà, senza alcun aiuto e le stesse famiglie, che pure li sostengono, non possono fare tanto, cosicché molti, scoraggiati, sono costretti a rinunciare". Parma: il boss Toto Riina ricoverato in ospedale in gravi condizioni di franco giubilei Il Secolo XIX, 16 dicembre 2015 Totò Riina è stato ricoverato all’Ospedale maggiore di Parma e le sue condizioni sarebbero gravi. Il boss siciliano, che sta scontando una serie di ergastoli nel carcere della città emiliana in regime di 41bis, non potrà deporre all’udienza del processo Borsellino Quater in programma il 17 dicembre, come ha fatto sapere il suo legale, Luca Cianferoni, nella nota fatta pervenire alla corte d’assise di Caltanissetta, dove si sta svolgendo il processo per la strage di via D’Amelio. Per l’85enne Riina, che è recluso nell’istituto penitenziario parmigiano dall’aprile del 2013, il ricovero in ospedale si era reso necessario già lo scorso febbraio. Da tempo i suoi avvocati hanno fatto presente all’autorità giudiziaria le difficili condizioni di salute del loro assistito, chiedendo a più riprese al tribunale di sorveglianza che vengano individuate misure detentive alternative al carcere duro. Prima di essere trasferito a Parma, il capo mafioso era stato detenuto in altre strutture carcerarie - dall’Asinara ad Ascoli - da dove aveva rivolto minacce a magistrati e al presidente di Libera don Luigi Ciotti. Milano: detenuto evade dal carcere di Bollate. La polizia "dobbiamo catturarlo" Il Giorno, 16 dicembre 2015 La denuncia del sindacato Sappe: "Le carceri sono più sicure assumendo gli agenti che mancano, finanziando gli interventi per far funzionare i sistemi anti-scavalcamento e potenziando i livelli di sicurezza". Evaso dal carcere di Bollate (Milano). Si tratta di un detenuto straniero che era ristretto nel VII Reparto detentivo. A darne notizia è il sindacato autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "L’episodio è accaduto verso le 13.15 di lunedì - spiega il segretario generale del Sappe -. Sono ancora da chiarire le modalità di fuga, ma sono immediatamente iniziate le ricerche di Polizia Penitenziaria ed altre Forze di Polizia per catturare l’uomo, un serbo di 52 anni, ristretto per i reati di spaccio di droga con un fine pena agosto 2018. Era giunto a Bollate dal carcere di Vigevano lo scorso settembre e ora l’interesse di tutti è catturarlo ed assicurarlo alla giustizia". "Le carceri sono più sicure assumendo gli Agenti di Polizia Penitenziaria che mancano, finanziando gli interventi per far funzionare i sistemi antiscavalcamento, potenziando i livelli di sicurezza delle carceri", conclude Capece. "Altro che la vigilanza dinamica, in atto a Bollate da anni, che vorrebbe meno ore i detenuti in cella senza però fare alcunché. Al superamento del concetto dello spazio di perimetrazione della cella e alla maggiore apertura per i detenuti deve associarsi la necessità che questi svolgano attività lavorativa e che il personale di Polizia Penitenziaria sia esentato da responsabilità derivanti da un servizio svolto in modo dinamico, che vuol dire porre in capo a un solo poliziotto quello che oggi fanno quattro o più agenti, a tutto discapito della sicurezza. Le idee e i progetti dell’Amministrazione Penitenziaria, in questa direzione, si confermano ogni giorno di più fallimentari e sbagliati". Castelvetrano (Tp): detenuto getta la spazzatura e scappa dal carcere, ricercato di Elio Indelicato castelvetranonews.it, 16 dicembre 2015 È ricercato per il reato di evasione il 34enne Giovanni Parrinello di Marsala, che intorno alle 18,30 era andato a conferire la spazzatura all’esterno della struttura carceraria di Castelvetrano, regolarmente autorizzato e che a Natale, tra l’altro, avrebbe beneficiato di dieci giorni di libertà. Dopo cinque minuti di attesa gli agenti si sono messi sulla sue tracce,ma l’uomo non è stato trovato. Si è pensato anche ad un malore dell’uomo ma il detenuto sembra essersi volatizzato. Immediatamente sono partite le ricerche da parte delle Forzer dell’Ordine. Roma: Papa Francesco ringrazia i detenuti di Padova per il concerto in carcere La Stampa, 16 dicembre 2015 Ieri dopo l’Angelus il Papa ha omaggiato l’esibizione dei Polli(ci)ni del Conservatorio. Pubblichiamo la lettera di un detenuto rivolta in diretta a Bergoglio. "In tutte le cattedrali del mondo, vengono aperte le Porte Sante, perché il Giubileo della Misericordia possa essere vissuto pienamente nelle Chiese particolari. Auspico che questo momento forte stimoli tanti a farsi strumento della tenerezza di Dio. Come espressione delle opere di misericordia, vengono aperte anche le "Porte della Misericordia" nei luoghi di disagio e di emarginazione. A questo proposito, saluto i detenuti delle carceri di tutto il mondo, specialmente quelli del carcere di Padova, che oggi sono uniti a noi spiritualmente in questo momento per pregare, e li ringrazio per il dono del concerto". È papa Francesco a parlare, all’Angelus di domenica 13 dicembre, mentre all’applauso fragoroso di piazza san Pietro ne risponde uno non meno commosso in diretta dalla casa di reclusione Due Palazzi di Padova. Qui oltre 150 detenuti, operatori e volontari della casa di reclusione stanno seguendo la Preghiera del papa. Il laboratorio che normalmente accoglie il magazzino di biciclette è diventato una sala da concerto, ma anche uno studio televisivo, perché Tv2000 sta riprendendo l’evento in diretta. C’è anche la Rai - per la precisione Rainews24, Rai3 e Rai5 Cultura - con la giornalista Caterina Doglio che, da giorni presente nella casa di reclusione, sta girando lo speciale "Giubileo, l’altro sguardo" che andrà in onda il 3 gennaio. Tanti operatori e tanti cameraman per un evento senza precedenti: un concerto di un’orchestra di ragazzi, i Polli(ci)ni del Conservatorio Cesare Pollini di Padova, all’interno di un carcere. "Un concerto per ringraziare papa Francesco", spiega Nicola Boscoletto, presidente di Officina Giotto, che con la parrocchia del carcere ha organizzato l’evento, "di aver scelto di diventare la voce degli ultimi, quelli di cui non parla nessuno. Qui tra queste mura può capitare di vedere il più bello spettacolo a cui si possa assistere: gli occhi di persone cambiate. E ancora più belle sono le lacrime dei genitori per i figli che erano su una brutta strada e poi hanno cambiato vita". Dopo l’Angelus, introdotto dalla solenne Pomp and circumstance di Elgar, scorrono i brani di Bach, Massenet, Grieg, Morricone, Anderson e Warren, intervallati da brevi messaggi dei protagonisti. Dei detenuti, in primo luogo. "Diventando cristiano", è il racconto di Gaetano, "una frase mi colpiva durante il cammino di preparazione: "Laddove abbonda il peccato, la grazia di Dio sovrabbonda". È la storia di Paolo, è la storia di tanti di noi. Grazie, papa Francesco: che ti ricordi di noi, che ci ricordi che Dio ci sta aspettando. Grazie anche che ci chiedi di convertire le nostre storie: la misericordia di Dio è una faccenda seria, non una favola". "Siamo dei privilegiati", fa eco il cappellano del carcere don Marco Pozza, "a poter contemplare storie di "perduti" che, con la grazia di Dio e l’amore degli uomini, stanno rimettendosi in piedi. I vivi possono risorgere, non solo i morti". Nelle prime file ci sono i rappresentanti delle istituzioni e del mondo penitenziario. "I giorni in carcere possono essere giorni di dolore, di speranza, oppure di indifferenza. La peggiore tra queste è certamente l’indifferenza", dice il provveditore alle carceri del Triveneto Enrico Sbriglia, "oggi, grazie al concorso di tante persone è un giorno di speranza, un giorno che potremo ricordare a lungo". La conduttrice Eugenia Scotti chiama a intervenire anche i ragazzini dell’orchestra, soprattutto Alessandro, violinista che strappa il sorriso a tutta la platea per la freschezza delle sue risposte. Ad Alessandra e Giulio, i due piccoli dell’orchestra, due detenuti, Michele e Giuseppe, fanno il dono simbolico del panettone, che poi verrà regalato a tutti i ragazzi, ai docenti e ai genitori intervenuti. C’è anche tempo di darsi il prossimo appuntamento: domenica 27 dicembre il nuovo vescovo di Padova don Claudio Cipolla inaugurerà la "porta della misericordia" nella cappella del carcere di Padova. Un portale che assomiglia poco a quello di un santuario, ma la porta di sicurezza rossa di pesante metallo per l’occasione verrà ingentilita e rivestita con una riproduzione della Porta giubilare della basilica di San Pietro. È il momento dei saluti finali. "Caro Papa Francesco, la tua vicinanza è per noi motivo di speranza, la tua attenzione ci fa sentire più vivi che mai", dice Guido, detenuto che lavora al call center della casa di reclusione, "ringraziamo Dio per il dono che sei per tutti noi carcerati e per tutte le persone del mondo. Grazie papa Francesco. Un forte abbraccio. E ricordati che preghiamo per te". Lo stesso messaggio viene echeggiato in otto lingue diverse: anzitutto in spagnolo, la lingua del Papa, poi in albanese, arabo, kossovaro, cinese, portoghese. Da ultimo Roberto, detenuto svizzero di lingua tedesca, lo ripropone con una significativa aggiunta dedicata al papa emerito Benedetto XVI. L’ultimo brano, un frizzante Chattanooga choo choo, viene accompagnato a ritmo dai battimani dei detenuti, che poi invocano a gran voce il bis. È Fiddle Faddle di Leroy Anderson, brano swingante che dà modo ai giovani percussionisti dell’orchestra di mettere in mostra tutta la strumentazione. Applausi scroscianti, ragazzini che escono applauditi tra due ali di folla. Ed è già ora di tornare: qualcuno a casa, qualcuno in cella. Varcando quelle porte che, proprio grazie all’iniziativa di papa Francesco, possono diventare altrettante porte della misericordia. Ecco qui il pensiero di un detenuto, a nome di tutti, rivolto ieri in diretta a papa Francesco. "Carissimo Papa Francesco, perdonami l’emozione che ho nel darti questo saluto a nome di tutti i detenuti. Il giorno che sei diventato Papa, ci sembrava di conoscerti da sempre: quando, poi, sei entrato in carcere a lavare i piedi ai detenuti, le nostre strade si sono unite per sempre. Sentiamo che tu sei una persona della quale possiamo fidarci. Tu parli sempre di noi, delle nostre mamme, delle nostre famiglie: sapere di essere nel tuo cuore ci fa stare un po’ più sereni la sera quando ci addormentiamo. Per chi, come me, deve scontare una condanna all’ergastolo, ci fa bene sentire che tu lo definisci una pena di morte mascherata: abbiamo sbagliato nella vita, ma abbiamo bisogno di sapere che anche per noi Dio tiene una sorpresa. Tu sei stato una sorpresa per noi. Da qualche giorno abbiamo iniziato il Giubileo: sapere che le porte delle nostre celle sono porte sante e che la nostra chiesetta è un santuario della misericordia è una cosa che ci rende felici e gioiosi e ci fa sentire sereni quando raccontiamo la nostra storia agli altri. Nel cammino che mi ha fatto diventare cristiano, una frase di san Paolo mi piaceva: "Dove abbonda il peccato, la grazia di Dio sovrabbonda". È la storia di Paolo, ma è anche la storia di tanti di noi. Questo concerto è il nostro grazie. Grazie che ci porti nel cuore, che non ti dimentichi di noi, che ci ricordi sempre che "Dio non si stanca di perdonarci e noi non dobbiamo vergognarci di chiedergli scusa". Grazie, infine, che ci ricordi sempre che dobbiamo cambiare il nostro modo di pensare e di agire: la misericordia di Dio non è una bella favola, è una storia molto seria. Te lo dico a nome di tutti i miei fratelli detenuti: Ti vogliamo bene, papa Francesco. Noi preghiamo sempre per te, tu non abbandonarci mai: abbiamo bisogno della tua parola che è capace di mettere un po’ di pace nel nostro cuore. Ti abbracciamo forte!". Roma: detenuti in Vaticano "il Papa ci ha detto di pregare per lui. Lo faremo" di Fiorenzo Vespasiano (Cooperativa "Il Germoglio") Corriere della Sera, 16 dicembre 2015 La giornata vissuta con Papa Francesco resterà impressa per sempre nei miei (e nostri) ricordi. Le emozioni sono state tantissime e delle più contrastanti. I detenuti hanno incontrato e parlato con il Papa. Difficile da credere, straordinario da vivere. La sua dolcezza, unica e di una profondità incantevole, e lo sguardo penetrante dritto al cuore hanno certamente contribuito al cambiamento di ognuno di noi, e in particolare dei detenuti. Vederli mentre baciavano le mani del Santo Padre, stringerlo fino a strattonarlo, mi ha riempito il cuore di grazia. Sono orgoglioso di aver, nel mio piccolo, contribuito a rendere il loro periodo di detenzione meno amaro, aver reso possibile la realizzazione di un sogno, essere riuscito a far vivere emozioni incredibili a chi è meno fortunato di me. E poi il monito che il Papa ha rivolto loro: "Grazie a voi per essere qui. E ricordatevi, ogni giorno, quando rientrare in cella, fatevi il segno della croce e pregate. Pregate anche per me che ne ho tanto bisogno". Ho visto occhi pieni di gioia. Sono stati affascinati da ciò che hanno ascoltato e qualcuno ha anche detto: "Sentito? Il Papa mi ha chiesto di pregare per lui, lo farò. Ogni giorno lo farò". Le parole del Pontefice sono state straordinarie. Essere incoraggiati a continuare a "inventare" ci fa capire che siamo sulla strada giusta, ancora una volta ci sollecita a proseguire e a promuovere iniziative di coinvolgimento giovanile in forma comunitaria e partecipata. Certo, quella indicata è una strada in salita, dove sicuramente ci saranno tanti fallimenti e dove siamo continuamente chiamati a fare sacrifici. Ma noi giovani siamo pronti a percorrerla, perché non vogliamo perdere la nostra dignità e vogliamo essere artefici del nostro futuro. La vera sfida dunque è mettere l’uomo al centro, non il profitto. Dobbiamo continuare a realizzare progetti concreti che rispondo ad esigenze concrete e a misura d’uomo: questa è la ricetta che il Progetto Policoro ci ha insegnato e che siamo chiamati a testimoniare continuamente. Solo così contribuiamo a costruire una società migliore e dove anche chi ha sbagliato non resti indietro. Brindisi: Anno Santo, il vescovo celebrerà una messa in carcere con tutti i parroci brindisireport.it, 16 dicembre 2015 Giovedì prossimo l’arcivescovo di Brindisi-Ostuni, monsignor Domenico Caliandro, celebrerà l’inizio del Giubileo della Misericordia con una liturgia eucaristica alla quale prenderanno parte non solo il cappellano della Casa circondariale don Nino Lanzillotto, ma anche tutti i parroci della Vicaria del capoluogo. "In molti casi appare urgente adottare misure concrete per migliorare le loro condizioni di vita nelle carceri, accordando un’attenzione speciale a coloro che sono privati della libertà in attesa di giudizio avendo a mente la finalità rieducativa della sanzione penale e valutando la possibilità di inserire nelle legislazioni nazionali pene alternative alla detenzione carceraria". Le parole di papa Francesco sono quelle che tra l’altro costituiscono il Messaggio per la Giornata della pace del prossimo 1 gennaio 2016, diffuso nelle scorse ore. In questo Anno santo straordinario della misericordia, come sovente ha già fatto nelle settimane pregresse (vedi anche il Mons. Domenico Caliandroringraziamento finale ai detenuti dopo al celebrazione eucaristica nello Stadio di Firenze in occasione del Convegno nazionale della Chiesa italiana) il Santo Padre invita a porre particolare attenzione alla realtà carceraria. Così a Brindisi, giovedì 17 dicembre prossimo alle ore 10, l’arcivescovo di Brindisi-Ostuni, monsignor Domenico Caliandro, celebrerà l’inizio del Giubileo della Misericordia con una liturgia eucaristica alla quale prenderanno parte non solo il cappellano della Casa circondariale don Nino Lanzillotto, ma anche tutti i parroci della Vicaria del capoluogo. "Molte volte nei discorsi sociologici si è portati a considerare un carcere come un "non luogo", benché sia, come quello di Brindisi, nel bel mezzo della città - dice don Nino Lanzillotto - dal "non luogo" si è portati a pensare che dentro vi siano "non persone" e così si innesca una catena di indifferenza e di chiusura". "La volontà di aprire l’anno giubilare presso la Casa circondariale, invece ha un significato ben preciso ed è in molte parole del Papa e soprattutto in quelle pronunciate a Santa Marta il giorno successivo all’apertura della porta Santa l’8 dicembre scorso, in piazza San Pietro: "Dio perdona sempre, ma tutto; oltre il deserto c’è l’abbraccio del Padre, il perdono", ci ha ricordato. E ancora: "Dio perdona tutto, soltanto aspetta che tu ti avvicini"". Catania: lo chef Pietro D’Agostino professore per un giorno nel carcere di Bicocca di Chiara Asero siciliaedonna.it, 16 dicembre 2015 "Quando sono entrata in questo istituto guardando i miei studenti per la prima volta, non ho mai pensato cosa avessero fatto per essere qui dentro, ma indipendentemente da ciò, ognuno di loro ha subito rappresentato una persona con la propria storia da raccontare." Così ha esordito Daniela Di Piazza, dirigente scolastico istituto alberghiero Karol Wojtyla che ha pensato ad un’iniziativa davvero speciale per gli allievi detenuti nel carcere di massima sicurezza Bicocca. Ieri infatti gli allievi dell’istituto alberghiero Karol Wojtyla di Catania, sono stati alle prese per un giorno con un professore d’eccezione del calibro di Pietro D’Agostino. Un’iniziativa che si è potuta realizzare grazie alla disponibilità del direttore del penitenziario Giovanni Rizza e del team dell’area didattica, coordinato da Maurizio Battaglia, consapevoli tutti di quanto possano essere fondamentali momenti di socialità e di confronto per chi si trova ristretto in una cella per scontare lunghe pene detentive. Un invito che lo chef D’Agostino, ambasciatore della cucina siciliana nel mondo, ha raccolto con grande entusiasmo, da sempre attento ad utilizzare il linguaggio del cibo per parlare anche di solidarietà e impegno sociale. "Con i ragazzi si è fatto un bellissimo lavoro di squadra - ha commentato Pietro D’Agostino -ognuno si è impegnato per ottenere il risultato che c’eravamo prefissi. È stato senz’altro un momento di crescita, che è servito per mostrare loro come funziona il mondo dell’alta ristorazione. Un momento di formazione professionale a tutti gli effetti". Infatti, ieri mattina per i 15 allievi-detenuti che formano le due classi del quarto e quinto anno dell’alberghiero, la campanella è suonata puntuale alle 8.30, ma ad attenderli nelle cucine, non c’era soltanto il docente di ristorazione Giuseppe Rapisarda ma lo stellato D’Agostino che con loro ha preparato un vero e proprio menu di Natale. Dall’insalata di pesce spada con cipollotto, arance e mandorle servito come antipasto al primo di paccheri al ragù di capretto dei Nebrodi con cannella, cacao e fonduta di ragusano. E come dessert non poteva mancare il dolce Qas’at, la tipica cassata siciliana firmata D’Agostino. Al di là della tavola imbandita con prelibatezze d’autore, però, l’iniziativa ha ricoperto un enorme valore simbolico. "Io trovo straordinario essere riusciti a pensare e realizzare questo evento - ha aggiunto Daniela Di Piazza -perché l’essere qui rappresenta per ciascuno dei nostri studenti un valore aggiunto nel loro quotidiano: noi rappresentiamo la prospettiva, la speranza, il sentirsi liberi pur essendo qui dentro, e questo costituisce un travaglio emotivo molto forte". Al Carcere di Bicocca circa 75 studenti, con una media di 30 anni, frequentano le lezioni dell’istituto alberghiero all’interno del penitenziario Bicocca, essi rappresentano un terzo del numero complessivo dei detenuti che hanno deciso di acquisire un titolo di studio superiore. "Dopo undici anni di continuità possiamo dire che i risultati ci sono stati e non è stato facile - ha dichiarato responsabile area educativa di Bicocca, Maurizio Battaglia - soprattutto perché all’interno di un carcere dobbiamo fare i conti con una percentuale molto elevata di dispersione scolastica. Ma con l’alberghiero ci attestiamo su una trentina di alunni per la prima e seconda classe e una decina alla terza è senz’altro un partner privilegiato. Degli studenti che sono passati in questi anni dall’istituto penitenziario - ha aggiunto ancora Battaglia - c’è chi magari il ristoratore lo faceva già ma senza qualifica e in carcere ha avuto modo di acquisire un titolo di studio e chi, invece, partendo, proprio da un percorso didattico è riuscito poi a ricominciare a vivere, fuori dal carcere, aprendo un proprio ristorante, facendo lo chef o lavorando in sala". Libri: "All’inferno fa freddo. Racconti dal carcere", a cura di Antonella Bolelli Ferrera eri.rai.it, 16 dicembre 2015 "All’inferno fa freddo. Racconti dal carcere" è un romanzo corale dove gli autori coincidono con i protagonisti delle tante storie che in comune hanno solo il luogo dove a turno si muovono: l’inferno. Il girone è quello dei condannati. Uomini e donne che provengono da mondi diversi, a volte molto lontani. Carcerati che narrano squarci di vite consumate nel freddo di una cella, la melma prima di finire dentro, il sogno di un riscatto. Nessuna retorica, né autocommiserazione. Piuttosto, parole taglienti che non risparmiano al lettore la violenza e l’asprezza della prigionia, di vicende criminali. Ma anche di destini dannatamente crudeli, come quelli di alcuni adolescenti, giovani fiori del male. Il camorrista, la prostituta, il rapinatore, lo spacciatore, l’assassino, il sequestratore, il tossico, il violento, il ladro, il terrorista, il ricattatore… E poi il profugo in balia degli scafisti, l’imprenditore fallito che cambia pelle, l’abusato che diverrà colui che abusa. C’è chi non ce l’ha fatta, chi è diventato pazzo, chi più cattivo di quando era entrato. Per qualcuno, il carcere è diventato una casa, oppure luogo di espiazione. E c’è anche chi ha riassaporato la libertà e, come colto da capogiro, è ricaduto all’inferno. Ma un giorno, "la neve che non ti aspetti" può farti vivere anche dietro a quelle sbarre una giornata insolita. Venticinque grandi scrittori ed artisti introducono, ciascuno, ogni storia. "La parola - scrive uno di loro - unisce gli uomini al di sopra di ogni diversità". Pag. 368 Anno 2015. Prezzo € 12,00. Codice ISBN: 978883971659-0. Televisione: "Mani libere", Padre Pio Tv entra nelle carceri italiane di Virna Bottarelli millecanali.it, 16 dicembre 2015 "Mani libere. Viaggio nelle realtà lavorative delle carceri italiane" è in onda sull’emittente di ispirazione cattolica di San Giovanni Rotondo. Dal 13 dicembre alle 16.00 sono in onda su Padre Pio Tv 13 puntate per raccontare l’esperienza di 13 cooperative sociali, più quella di un consorzio e di un’azienda, che hanno portato in 12 carceri italiane il lavoro, insieme alla consapevolezza che la detenzione deve diventare un’esperienza finalizzata alla riabilitazione e a ridare la speranza in una vita più dignitosa a chi si trova in una situazione di privazione della libertà. Al centro di ogni puntata di "Mani libere. Viaggio nelle realtà lavorative delle carceri italiane" ci saranno le storie dei detenuti e la dimostrazione di come il lavoro sia lo strumento principale del loro cambiamento. Esperienze toccanti, di uomini e donne che non si sono lasciati piegare dalle difficoltà e hanno accettato l’opportunità che gli è stata concessa per imparare a rimettersi in gioco in modo onesto. Grazie alla collaborazione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e alla disponibilità dei direttori degli istituti, Padre Pio Tv è entrata in diverse case di reclusione e circondariali italiane per documentare l’attività delle numerose cooperative sociali e realtà lavorative che operano sul territorio a favore di soggetti svantaggiati, come coloro che vivono in condizioni di restrizione della libertà. Fra Mariano Di Vito, presidente di Padre Pio Tv, ha dichiarato: "A pochi giorni dall’inizio del Giubileo della Misericordia e interpretando i desideri di Papa Francesco, la nostra emittente ha scelto di raccontare storie di umanità e sofferenza partendo dalle periferie. Dal carcere, luogo di periferia ma anche di speranza e rinascita, arrivano nelle case dei nostri telespettatori testimonianze di persone che sono state segnate dalla violenza e dal crimine ma che attraverso il lavoro hanno ritrovato la dignità e il ravvedimento". "Questi reportage nelle carceri che producono prodotti di eccellenza, impiegando un numero significativo di persone detenute, offrono un’importante testimonianza sulla realtà di un sistema penitenziario che valorizza la produzione lavorativa dei detenuti come principale elemento del trattamento. Ringrazio il presidente, i giornalisti e gli operatori di Padre Pio Tv per la sensibilità e l’impegno con cui hanno documentato questa realtà", ha aggiunto il capo Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Santi Consolo. Partendo dal Due Palazzi, con la famosa pasticceria Giotto del carcere di Padova, il viaggio di "Mani Libere" ha fatto tappa a Torino e Saluzzo (Cn) per una "Pausa Cafè", la cooperativa sociale conosciuta per l’attività di torrefazione e per il suo birrificio artigianale; passando per Verbania, dove "Banda Biscotti" sforna ogni giorno fragranti bontà. A Busto Arsizio è stato facile scoprire come il cioccolato possa diventare sinonimo di libertà grazie al cioccolatificio "Dolci libertà", a cui si aggiunge la cooperativa 3B, che confeziona borse e accessori. Una lunga sosta a Venezia consentirà di raccontare l’impegno della cooperativa "Rio Terà dei Pensieri", che gestisce un orto biologico e un laboratorio di cosmetica nel carcere femminile e una serigrafia e un laboratorio di recupero e riutilizzo di PVC in quello maschile. Sempre a Venezia la cooperativa "Il Cerchio" porta nel carcere della Giudecca l’arte della sartoria e l’impegno di gestire una lavanderia. Il catering di "Abc la Sapienza in tavola" e "Cascina Bollate" costituiscono alcune delle attività collegate al carcere di Bollate - Milano, a cui si aggiungono le realtà lavorative dell’istituto Opera: il panificio, che ogni notte sforna pane lievitato naturalmente; la liuteria, in cui si realizzano completamente a mano i violini, e la sartoria "Borseggi". Verso Sud le "Mani libere" sono quelle di chi impasta la pasta di mandorle d’Avola nel Biscottificio "Dolci Evasioni" nel carcere di Siracusa o delle donne del laboratorio "Made in Carcere" di Lecce, ma anche di coloro che lavorano nel tarallificio gestito dalla Cooperativa "Campo dei Miracoli". "Mani libere" è, dunque, un viaggio per divulgare un messaggio di speranza, di concreta solidarietà e per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’importanza di dare una seconda opportunità alle persone che hanno commesso degli errori, offrendo loro, attraverso l’apprendimento di un mestiere, la possibilità di reinserirsi nella società e nel mondo del lavoro. Il programma è firmato da Paola Russo, giornalista di Padre Pio Tv. La prima puntata, dedicata al Consorzio sociale Giotto e alla pasticceria del carcere di Padova è andata in onda domenica 13 dicembre alle ore 16.00. Ue sempre più chiusa per i migranti di Carlo Lania Il Manifesto, 16 dicembre 2015 Guardia costiera europea e un documento di viaggio per i rimpatri. Ma i ricollocamenti sono fermi. Si va delineando sempre più la strategia europea per fermare gli arrivi dei profughi e l’espulsione dei migranti economici. La commissione Ue ha dato ieri il via libera a Strasburgo alla creazione di una guardia costiera e di frontiera europea da far intervenire lungo i confini dell’unione, ma ha anche proposto la creazione di un documento di viaggio europeo per velocizzare i rimpatri di coloro ai quali non viene riconosciuto il diritto di asilo. Viaggio di sola andata, naturalmente. Tutto questo mentre, attraverso un rapporto molto critico nei confronti del nostro paese, si sollecita l’Italia ad aprire entro la fine dell’anno almeno altri due hotspot (oltre a Lampedusa) a Pozzallo e Porto Empedocle, e altri tre nei primi mesi del 2016 aumentando l’impegno a identificare quanti arrivano "anche con l’uso della forza". "Sappiamo che l’Italia sta facendo un grande lavoro, ma sul fronte degli hotspot è ancora indietro", ha detto il vicepresidente della commissione Frans Timmermans. L’accordo messo a punto con la Turchia per impedire nuove partenze di migranti verso l’Europa sta già dando i suoi frutti, ma Bruxelles vuole ridurre ulteriormente gli arrivi (oggi la percentuale di migranti intercettati non supera il 20%). La creazione di un Agenzia europea capace di intervenire lungo i confini sia terrestri che marittimi serve anche a questo. La nuova guardia costiera sostituirà Frontex e avrà il compito di recuperare in mare i migranti per poi sbarcarli in quei porti dove sono già operanti gli hotspot in modo da consentirne l’identificazione immediata. Stessa cosa ai confini terrestri, dove la nuova forza verrà impiegata a rinforzo delle polizie locali. La commissione ha stabilito che il corpo di guardie europee potrà intervenire anche se il paese interessato non ne farà richiesta, ignorando così il fatto che la sicurezza delle frontiere è una delle materie ancora di competenza dei governi. L’agenzia avrà anche il compito di monitorare se gli stati stiano affrontando in maniera adeguata le situazioni di crisi e la presenza di eventuali carenze nei controlli che possano mettere in forse la sopravvivenza di Schengen. Ma i problemi veri riguardano due questioni centrali per la commissione europea come i rimpatri e i ricollocamenti. Per quanto riguarda i primi da tempo l’Europa lamenta le difficoltà nel metterli in atto. Del circa mezzo milione di espulsioni decretate ogni anno nel 2014 ne è stato eseguito il 40%. A ostacolare le operazioni è proprio la mancanza di documenti validi per il rimpatrio. Problema che Bruxelles sta pensando di superare proponendo un documento di viaggio europeo con caratteristiche tecniche e di sicurezza accresciute e riconosciuto da tutti gli stati membri. Resta da capire dove possano essere rimpatriate persone che si sono rifiutate di fornire generalità e paese di origine. L’ipotesi più probabile è che alla fine si decida di rispedirle nel paese dal quale sono partite dirette in Europa. L’accordo con la Tirchia e, se si dovesse davvero arrivare i tempi stretti a un accordo di pace e alla nascita di un governo unitario, quello che si potrebbe stilare presto con la Libia servono proprio a questo. Legata a filo doppio con i rimpatri c’è però la questione dei ricollocamenti. E qui l’Europa che bacchetta Roma sugli hotspot deve recitare un mea culpa per i ritardi con cui si sta procedendo. "Sono molto deluso, mi sarei aspettato molto di più", ha ammesso ieri il commissario europeo per l’Immigrazione Dimitris Avramopoulos. "Solo 9 paesi su 28 hanno attuato lo schema della commissione. Credo che tutti debbano collaborare di più e partecipare al programma". I numeri parlano chiaro: su 160 mila persone da ricollocare, finora sono stati reperiti poco più di un migliaio di posti. "Se continuiamo così finiamo tra un secolo" si era lamentato qualche settimana fa anche il presidente della commissione Jean Claude Juncker. Ritardi che, insieme alla lentezza dei rimpatri, permettono al ministro degli Interni Angelino Alfano di replicare alle accuse europee. "È tutto pronto per partire" con gli hotspot, "adesso vogliamo capire se partono i rimpatri", ha detto il titolare del Viminale. E sull’ipotesi di un uso della forza per rilevare le impronte, Alfano ha ricordato come la legge italiana preveda già un intervento "proporzionato" alla situazione a cui si deve far fronte. Impronte ai profughi anche per salvare Schengen di Danilo Taino Corriere della Sera, 16 dicembre 2015 Tra i rifugiati che entrano nella Ue ci possono essere militanti del Daesh camuffati. Dobbiamo rassicurare le opinioni pubbliche che chi arriva trovi un sentiero il meglio organizzato possibile per essere accolto e integrato. La tracciabilità dei movimenti è fondamentale per evitare il caos. È inutile che lo neghiamo: un incrocio tra terrorismo e rifugiati in arrivo in Europa esiste. Non nel senso che i profughi sono terroristi. Al contrario, cacciati dalle loro case e dalle loro vite dal settarismo islamista, se accolti in modo intelligente in Occidente possono essere la base sulla quale costruire un Islam moderno. Tra i rifugiati che entrano nella Ue, però, ci possono essere militanti del Daesh camuffati. Già da questo punto di vista, la decisione della Ue di raccogliere obbligatoriamente le impronte digitali dei migranti ha una sua giustificazione: non è certo una misura risolutiva ma, un mese dopo Parigi, non possiamo permetterci di dimenticare che ogni precauzione va presa. C’è però anche un altro motivo per il quale identificare i profughi è importante. Come ha sottolineato due giorni fa il presidente Sergio Mattarella, uno degli obiettivi dell’Europa dev’essere la difesa dei suoi spazi di libertà e tra essi quelli di movimento, cioè di Schengen. Se non vogliamo che - ipotesi tutt’altro che improbabile - l’accordo di circolazione libera dei cittadini crolli, dobbiamo rassicurare le opinioni pubbliche che chi arriva trovi un sentiero il meglio organizzato possibile per essere accolto e integrato. E dobbiamo essere certi che ciò avvenga senza creare tensione tra Paesi. La tracciabilità dei movimenti è fondamentale per evitare il caos. Caos che porterebbe al crollo di Schengen e da esso a disastri ulteriori in Europa. Siamo in un caso di conflitto tra due libertà. Quella di chi arriva e comprensibilmente non ama farsi prendere le impronte digitali e un continente che vuole rimanere senza frontiere interne. Spiegarlo ai profughi ed evitare che i controlli siano ingiustificati e repressivi è probabilmente la chiave per tenere assieme le due libertà. Italia in guerra. Renzi: "i nostri soldati per la diga di Mosul" Il Manifesto, 16 dicembre 2015 L’annuncio del premier a Porta a Porta: "450 militari per difendere la struttura e la ditta di Cesena". L’Italia invia 450 uomini in un’area tra le più calde dell’Iraq: la diga di Mosul, città contesa dall’Is. Lo ha annunciato il premier Matteo Renzi ieri sera a Porta a Porta: "L’Italia sarà non sarà solo in Afghanistan, Libia, Kosovo, Iraq ma anche con una operazione importante nella diga di Mosul, nel cuore di un’area pericolosa, che rischia il crollo con la distruzione di Baghdad. Una azienda di Cesena ha vinto questa gara e noi metteremo 450 uomini e metteremo la diga a posto". Proprio lunedì Obama aveva sollecitato anche l’Italia ad "un impegno nella lotta comune contro l’Is". Dall’area si sono appena ritirate centinaia di truppe turche, dopo le proteste dell’Iraq all’Onu. Il compito della missione, secondo la versione del governo italiano, sarà di evitare che la diga di Mosul possa entrare nel mirino di terroristi e far sì che i lavori di risistemazione di questa infrastruttura vitale per l’Iraq - a cura della ditta italiana che ha vinto l’appalto - possano partire. I 450 militari si aggiungeranno così ai 750 che partecipano all’operazione "Prima Parthica", sempre nell’ambito della coalizione contro lo Stato Islamico. La diga, viene spiegato, è pericolante e rischia di crollare. Ci sarebbe dunque bisogno di vigilanza armata per proteggerla da attacchi terroristici e l’Italia si è presa questo incarico, con militari di altri Paesi. Solo così partiranno i lavori di questa grande infrastruttura, importantissima per il Paese. I tempi tecnici per l’invio dei militari richiederanno qualche settimana. È un salto di qualità nella missione italiana, perché Mosul è una delle roccaforti dell’Is. Ora il grosso del contingente nazionale è impiegato tra Erbil (Kurdistan iracheno) e Baghdad, con funzioni di addestramento. La diga di Mosul è strategicamente fondamentale per gli approvvigionamenti energetici del paese. Già nel 2011 il gruppo Trevi - ditta proprio fondata a Cesena - era entrata in trattative per aggiudicarsi l’appalto della manutenzione della diga di Mosul, insieme alla tedesca Bauer. Messico: primi passi verso la canapa legale di Hassan Bassi Il Manifesto, 16 dicembre 2015 Il Messico pare pronto ad una svolta nelle politiche delle droghe. Domani 17 dicembre la Commissione federale competente rilascerà i primi quattro permessi per la coltivazione ed il consumo anche a scopo ricreativo di marijuana, a seguito della sentenza della Suprema Corte che il 4 novembre ha accolto il ricorso di un gruppo di attivisti della Sociedad Mexicana de Autoconsumo Responsable y Tolerante. Nel frattempo le domande inoltrate alla Commissione sono diventate 155 e se venissero rifiutate ci sarebbero ricorsi alla Suprema Corte e se anche solo 5 fossero accolte, allora il Governo sarebbe obbligato a varare una legge. Il pur dubbioso Presidente della Repubblica Pena Nieto non ha potuto che prendere atto della situazione e con intelligenza politica ha lanciato un’iniziativa che da gennaio 2016 toccherà le varie regioni dello Stato per informare e promuovere un confronto aperto fra esperti, medici e società civile su argomenti qualificanti come il costo di una potenziale regolamentazione della coltivazione e il consumo della marijuana, gli effetti sulla criminalità, il diritto al consumo. Malgrado Pena Nieto sia contrario al "consumo" e alla legalizzazione della marijuana, l’apertura di un dibattito pubblico favorirà il fatto che opinioni, dati e ricerche a favore di una depenalizzazione siano portati a conoscenza della popolazione. Un autorevole interlocutore ha già espresso pubblicamente la sua influente opinione, si tratta dell’ex Presidente della Repubblica Vincente Fox che ha dichiarato: "Tutte le droghe, inclusa la cocaina, l’eroina e la metanfetamina saranno legali in Messico entro 10 anni. La marijuana è un primo passo, ma il processo è irreversibile". Fox dopo la Presidenza è diventato un convinto antiproibizionista, e in una recente intervista (luglio 2015) ha sottolineato come la guerra alla droga lanciata da Nixon 45 anni fa ha convogliato in Messico risorse per armi e polizia ma nello stesso tempo lo ha trasformato in un sanguinoso campo di battaglia. Sono infatti più di 150.000 le vittime degli scontri fra narcos, e tra narcos e polizia solo negli ultimi 7 anni, ed è difficile contraddire la diretta relazione fra proibizionismo e criminalità. Secondo la Dea (Agenzia Antidroga Usa) i cartelli dei narcotrafficanti messicani dediti all’esportazione di droga negli Usa, ormai insediati nelle maggiori città statunitensi dove si occupano anche della distribuzione, stanno puntando su sostanze maggiormente redditizie, come l’eroina prodotta direttamente in Messico, dopo il crollo dei pezzi della marijuana a causa della legalizzazione in Colorado, Oregon, Washington, Alaska e nel Distretto di Columbia. Ma ancor più indicative sono le notizie che arrivano dall’Asia e dall’Oceania: Giappone, Hong Kong, Tailandia e Australia sono i nuovi mercati di sviluppo per i cartelli dei narcos messicani. In questi paesi la domanda è in continuo aumento e le severe politiche proibizioniste, che in Tailandia prevedono anche la condanna a morte degli spacciatori, hanno portato il prezzo della cocaina alle stelle attirando sempre più l’attenzione della criminalità messicana. Insomma il re è nudo, solo la depenalizzazione del consumo ed una regolamentazione della produzione e vendita possono impensierire i grandi interessi criminali che raccolgono miliardi di dollari nelle praterie della war on drugs. Questa svolta conferma l’importanza della sessione straordinaria dell’Onu che si svolgerà nell’aprile del prossimo anno a New York per una riflessione critica sugli esiti della politica fallimentare delle droghe. È indispensabile un confronto pubblico anche in Italia su Ungass 2016 come richiesto dal Cartello di Genova al Dipartimento Politiche Antidroga. Cina: per tagliare i costi dei processi collegamenti degli imputati in videoconferenza di Mariangela Pira Milano Finanza, 16 dicembre 2015 L’esperimento consente risparmi del 40% e verrà probabilmente esteso in altre province del Paese. A Nanning, nel Sud della Cina, per i processi penali e civili si inizia a utilizzare la videoconferenza. Per gli esperti tale soluzione comporta una riduzione dei costi del 40% circa. Permette di risparmiare tempo e denaro e rende più efficiente la gestione della giustizia. Durante il processo al quale Milano Finanza ha assistito l’imputato si trovava nella sua cella in una prigione a circa 300 chilometri di distanza. Il collegamento in videoconferenza viene utilizzato nei processi di secondo grado, mentre in quelli di primo grado è richiesta la presenza fisica dell’imputato. "Al momento abbiamo effettuato questo tipo di collegamento con otto carceri attrezzate dal punto di vista logistico", spiega il vicepresidente del Tribunale di Nanning. Allo scorso settembre erano 235 i processi in cui si è utilizzato usato il sistema di videoconferenza. "Nel calcolo dei risparmi vanno considerati i minori costi relativi ai poliziotti in aula, alle guardie e agli autisti che devono scortare l’imputato dalla prigione al tribunale, al vitto e a numerosi incartamenti che in caso di processi in videoconferenza non sono più necessari", fa notare Liang Jinkang, il giudice del caso cui MF-Milano Finanza e China Radio International hanno assistito. La provincia del Guangxi, di cui Nanning è capoluogo, è stata scelta per fare da apriprista di questo esperimento anche per via delle caratteristiche fisiche del territorio, in prevalenza montagnoso e con collegamenti stradali spesso difficoltosi. "Il metodo della videoconfernza favorisce anche il ricorso di chi non è soddisfatto della prima sentenza, dato che con questo tipo di collegamento a distanza rende più semplice e veloce l’organizzazione dei processi", dice Li Yunlong, docente esperto di gestione dell’apparato giudiziario. Detto tutto ciò, resta ovviamente da capire se il metodo della videoconferenza possa comportare problemi al regolare svolgimento dei processi, in particolar modo per quanto riguarda le garanzie da riconoscere all’imputato nell’ambito del suo confronto con il giudice. Se le verifiche daranno esito positivo, è probabile che i "video processi" in Cina, oltre che a Nanning e nella provincia del Guangxi, saranno presto diffusi anche in altre zone dell’immenso Paese asiatico.