"In dubio pro reo"?… sperate che Alberto Stasi sia davvero colpevole di Piero Tony Il Foglio, 15 dicembre 2015 Perché è culturalmente mostruoso (e giuridicamente lo è in tutto il mondo) il caso di Alberto Stasi, assolto due volte e ora condannato da chi non ha visto le prove. Tristezza e rabbia, per me e per tanti altri, fortunatamente non sono solo. Perché, a seguito di un processo durato circa 8 anni, Alberto Stasi si è costituito dopo aver riportato una condanna a 16 anni di reclusione resa definitiva dalla sentenza emessa dalla Cassazione. Per carità, nessuna polemica - ci mancherebbe altro - nei confronti dei magistrati. Ma tanta rabbia per un sistema giudiziario che non può non fare paura per quanto è lento e contraddittorio. E tanta vergogna visto che Voltaire si rivolta nella fossa da ormai quasi 250 anni con la stessa rabbia. Alberto Stasi venne assolto in primo e secondo grado, evidentemente perché quantomeno la maggioranza dei magistrati intervenuti aveva giudicato insufficienti le prove a suo carico. Magistrati regolarmente in servizio, di normale esperienza, mai interdetti per imbecillità, mai accusati di condotte dolose o colpose fuorvianti la Giustizia. Ma dalla procura venne proposta impugnazione e la Suprema Corte annullò l’assoluzione con rinvio alla corte d’Appello che questa volta, naturalmente in diversa composizione come vuole la legge, ritenne sufficienti le prove a carico. Nuovo ricorso da parte di tutte le parti, e oggi la Suprema Corte ha respinto i ricorsi: così confermando la condanna a 16 anni di reclusione. "Il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio", prescrive, come è a tutti noto, l’art. 533 del Codice di procedura penale. E allora? Allora ancora una volta ha colpito quella maledetta disposizione (artt. 570 e 593 dello stesso Codice) che dal 2006 prevede che il pubblico ministero possa impugnare anche le sentenze di assoluzione. Disposizione introdotta dopo una sentenza della Corte costituzionale che, con motivazione per più versi e da più parti criticata, aveva abrogato l’allora vigente ininpugnabilità delle assoluzioni per motivi che non fossero di legittimità. Disposizione che non di rado determina situazioni kafkiane come questa: essendo vistosamente incompatibile con i canoni di guida e garanzia "in dubio pro reo" e "al di là di ogni ragionevole dubbio". Se uno viene assolto è assolto e basta in tutto il mondo. In tutto il mondo meno che da noi. E per far questo il resto del mondo scomoda addirittura, guarda caso, la preclusione processuale del "ne bi in idem". E dunque solo da noi accadono cose così strazianti, che uno possa oggi sentirsi dire "sei innocente" e domani "sei colpevole" da magistrati ammantati della stessa toga e con la stessa espressione solenne sul volto, perché l’espressione non cambia tra chi comprende e chi crede di aver compreso. Dunque solo da noi accadono i casi Sollecito e Knox, i casi Mannino, Carnevale, Aquila, Sofri, Penati, Girasole, Pacciani e chi più ne ha più ne metta. Solo da noi il pubblico ministero può continuare a difendere la propria ipotesi accusatoria anche quando un giudice l’ha smentita motivatamente con sentenza di assoluzione, solo da noi quel pm può perseverare per anni, e sulla pelle degli altri: cioè di persone. Solo da noi la legge pretende che i magistrati dell’impugnazione giudichino ex ante, cioè mettendosi nei panni del giudice impugnato e chiudendo gli occhi sul resto del quadro processuale. E solo da noi si continua a non scandalizzarsi più di tanto di fronte allo spettacolo, al minuetto del ti assolvo, ti riassolvo, no anzi come non detto, visto che dobbiamo rifare il processo, questa volta ti giudico responsabile. E, conseguenza non trascurabile: ti rieduco con quella pena della galera - scusa ma è l’unica a disposizione - che l’Europa da anni ci contesta come "disumana e degradante". Però, siccome non si sa mai, ti lascio quei 16 anni che - devi darmene atto, caro condannato - è una pena irrisoria rispetto alla gravità dell’efferato delitto che, secondo me, hai commesso: dunque non lamentarti. Perché accade tutto ciò? Di una riforma, che preveda anche una formazione professionale più seria, c’è bisogno, anzi urgenza. Affinché un’assoluzione resti assoluzione per sempre, e i giudicanti dei successivi gradi non siano costretti a transustanziarsi per poter giudicare ex ante: ovvero come fosse la prima volta, come se l’assoluzione e le sottese motivazioni non fossero mai esistite, chiuse alla realtà esterna proprio come gli antichi eunuchi stavano chiusi nell’harem. È urgente una riforma profonda per una cultura della prova che ai nostri giorni non sempre brilla, perché ancora oggi non di rado si continua a giudicare sulla base della sensazione, del "secondo me", intuendo o pensando di intuire in relazione alla fisiognomica, al comportamento processuale ed extra-processuale, perfino alle caratteristiche socio-esistenziali, al muso e allo sguardo non paffuti e sorridenti, ma invece affilati e algidi. O al grado di compostezza e di dolore delle vittime. Vogliamo metterci per un attimo nei panni dei supremi giudici, e tentare di immaginare oggetto e spessore delle loro discussione e dei loro interrogativi in vista della decisione presa sul caso Stasi? Sì è vero, è stato assolto in primo grado e poi anche nel primo processo d’appello con valutazioni più o meno motivate, ma per noi non deve rilevare, ci mancherebbe altro, per legge dobbiamo giudicare ex ante. Sì è vero, le ragioni dell’assoluzione non appaiono proprio abnormi, ma sicuramente sono opinabili: e allora? Sì è vero, oggi lo stesso procuratore generale di udienza ha richiesto l’annullamento della sentenza perché le prove sarebbero state mal governate, per di più in assenza di un movente ragionevole: e allora? "E allora", ex ante un cavolo, bando ai sofismi e scendiamo dalla luna, verrebbe da rispondere. Nella realtà la storia infinita di questo processo è fitta solo di contraddizioni. Perché continuo a guardare sotto il tavolo, chiedendomi dove mai sia finito l’al di là di ogni ragionevole dubbio? Lo ripeto ancora a scanso di equivoci: c’entra il sistema processuale - che va urgentemente riformato - e non i magistrati suoi celebranti. Attendiamo tutti con ansia di poter leggere la motivazione della decisione di Cassazione sul caso, ma credo che essa sia assolutamente prevedibile: diranno che l’assenza di tracce di sangue sulle scarpe fa piazza pulita di qualsiasi ipotesi alternativa; diranno che la frequentazione da parte dello Stasi di siti pornografici e le modalità del litigio, ad essa frequentazione verosimilmente collegato, appartengono a grave perversione psicopatologica e costituiscono il movente; che infine la sentenza di condanna della seconda corte d’Appello appare logicamente coerente con tutte le risultanze probatorie. Quali? Quelle che elencheranno minuziosamente ma solo per nome, come da indice, essendo impraticabile un reale controllo del loro peso valoriale. Una motivazione più o meno apparente, insomma. Questo perché - senza volerci attaccare a suor Gertrude e al solito "guazzabuglio del cuore umano" - nel campo delle prove logiche del processo indiziario non tutto è sempre sondabile e confrontabile e comprovabile e collegabile al di là di ogni ragionevole dubbio. Non spiegheranno - solo perché non è spiegabile se non con mere congetture - come Stasi, per quanto si sa al primo litigio e comunque mai segnalato per condotte aggressive, avrebbe potuto perdere completamente le staffe per un motivo assolutamente inadeguato, quale che esso sia tra quelli sospettati dall’accusa, e massacrare mortalmente Chiara con dolo perdurante nella sua elevata intensità, e aggravare le lesioni spingendone il corpo giù per le scale e poi, recuperata freddezza in pochi attimi, inscenare il ritrovamento e tutto il resto. Né potranno spiegare in modo soddisfacente del come e perché i magistrati delle due prime sentenze di assoluzione avrebbero preso quell’abbaglio. E perché avrebbe preso ieri lo stesso abbaglio un autorevole ed esperto pm di udienza, nel chiedere l’annullamento della sentenza di condanna. Non è ammissibile che tutto ciò possa ripetersi. Ecco perché a me pare che sia soprattutto un problema di cultura e che s’imponga una radicale e urgente riforma giudiziaria. Cultura del rispetto della dignità umana che, se sussistente, non può che impedire compressioni di diritti fondamentali sulla sola base di personali intuizioni. Cultura della prova e dei suoi limiti. Cultura del confronto e del riguardo per opinioni e giudizi diversi. Cultura insomma. Mi auguro che Alberto Stasi sia colpevole. Il contrario sarebbe terribile per tutti, compresi - lo accenno per i fortunati credenti - quelli che non ci sono più e gli volevano bene. Consulta: trentesima fumata nera, si va a oltranza di Vittorio Nuti Il Sole 24 Ore, 15 dicembre 2015 Niente da fare: anche stavolta, complice la scheda bianca suggerita da Pd e Forza Italia, i centristi di Ap-Ncd e Sel-SI, le Camere riunite ieri in seduta comune a Montecitorio hanno mancato l’elezione dei tre giudici della Consulta. A vuoto, come succede ormai da un anno e mezzo, (444 schede bianche, 22 nulle, 37 disperse su 632 votanti) la 30ma votazione per l’elezione del successore di Luigi Mazzella, in carica sino al giugno 2014. Stesso discorso per le votazioni n. 9 e n. 7, per le quali erano in palio gli scranni di Sergio Mattarella, in carica sino al 2 febbraio, e Paolo Napolitano, in carica sino a luglio. Da stasera si cambia copione, almeno per quanto riguarda i tempi. Va in scena la strategia del voto ad oltranza, voluto dai presidenti delle Camere per costringere i parlamentari a trovare un accordo: si tornerà a votare alle 19, al termine della seduta pomeridiana, e così nei prossimi giorni, sperando di far uscire il Parlamento dall’impasse. Difficile però fare pronostici. Giorni di trattative sotterranee non sembrano aver smosso le acque stagnanti dei veti incrociati. E ieri a Montecitorio rimbalzava la preoccupazione del Quirinale per uno stallo che si trascina da troppo tempo. L’indicazione per la scheda bianca, arrivata in mattinata via sms ai parlamentari dem, dovrebbe deporre per un’apertura al M5S. Anche se i grillini al momento smentiscono trattative. "Nessun contatto del Pd nei nostri confronti, né viceversa", ha spiegato Danilo Toninelli. "La situazione è ferma a due settimane fa", e da allora "non abbiamo sentito nessuno dei gruppi di maggioranza. Pd compreso". Toninelli ha confermato il voto grillino per il candidato Franco Modugno (a fine spoglio ha incassato 110 preferenze; 26 i voti per Gaetano Piepoli, 16 quelli per Francesco Paolo Sisto, candidato azzurro, 11 quelli per Augusto Barbera, candidato dem), e la linea del Movimento. Che è quella del confronto "alla luce del sole, senza inciuci e compromessi al ribasso sui nomi". Il M5S, ha ribadito Toninelli dopo il voto, chiede di eliminare dalla terna Sisto, "ma il Pd ancora non lo ha fatto ufficialmente; così un accordo con il Pd è impossibile". La risposta del Pd non si è fatta attendere. Accantonata con la scheda bianca la terna di nomi votata inutilmente da dem, Fi e centristi dell’area di governo nelle ultime tre votazioni (oltre a Barbera e Sisto, Ida Angela Nicotra indicata da Ap dopo il ritiro di Giovanni Pitruzzella), il Pd ha spiegato la nuova linea con la necessità di non ostacolare le trattative in corso con "tutti i gruppi". Il candidato ufficiale, ha detto il presidente del gruppo alla Camera Ettore Rosato, rimane Barbera. Nome che il premier considera di garanzia, in attesa di individuare un’alternativa condivisa, per le scelte della Consulta che nei prossimi mesi potrebbe doversi esprimere su Italicum e riforma della Costituzione. In casa Fi resiste, al momento, l’arroccamento su Sisto, anche se da qualche giorno circola anche il nome di Raffaele Squitieri, presidente uscente della Corte dei Conti. Tra i centristi di Ap, la carta alternativa è Alessandro Pajno, ex sottosegretario a palazzo Chigi, possibile candidato anche alla presidenza del Consiglio di Stato. Inutile l’ultimo appello a fare presto, lanciato alla vigilia delle votazioni dalla presidente della Camera Laura Boldrini, in linea con il pressing in atto da tempo dal Quirinale e dal presidente del Senato, Pietro Grasso. "Ora andremo avanti con la convocazione su base quotidiana - ha detto Boldrini. Ci auguriamo serva da stimolo". I sette vizi capitali dei capi-partito sui tre nuovi giudici costituzionali di Franco Monaco (Deputato Pd) Il Manifesto, 15 dicembre 2015 L’impasse sui tre giudici della Consulta è sempre più umiliante e imbarazzante. Mi sia lecito fare qualche appunto a margine. Primo: si spiega perfettamente l’ulteriore discredito - come se ve ne fosse bisogno - gettato sul parlamento dalla sua ingiustificabile inadempienza. Essa investe l’istituzione, ma anche tutti e singoli i parlamentari. Si deve tuttavia sapere che essi (intendo i singoli parlamentari) sono totalmente esclusi da tali decisioni, gestite nella forma più verticistica dai capi partito. Nonostante le mie rimostranze, mai, dico mai, quantomeno il gruppo parlamentare cui appartengo ci ha dato modo di discutere non dico i nomi (che pure non dovrebbe essere vietato), ma quantomeno metodo e profilo di essi. Dunque, risponda chi più precisamente deve risponderne, ovvero i vertici dei partiti. Secondo: mi si è obiettato che, in passato, si è sempre fatto così (ieri il bigliettino allungato in aula, ora l’sms all’ultimo minuto). Non è esattamente così e tuttavia non è un buon argomento. Anche per due novità specifiche che riguardano l’elezione attuale: la circostanza che questa volta si tratta di eleggerne ben tre e dunque di concorrere significativamente a disegnare il profilo complessivo della futura Corte; proprio in queste settimane, la Camera sta varando una riforma costituzionale di grande portata che, comunque la si giudichi, disegna una democrazia maggioritaria (specie se la si considera associata all’Italicum) e che, conseguentemente, prescriverebbe di marcare vieppiù la terzietà degli organi di garanzia. Mai come ora. Conseguenza? Terzo rilievo: a maggior ragione ci si dovrebbe orientare su figure di alto profilo e a tutti gli effetti indipendenti. Non figure controverse (erano necessarie 20 votazioni per comprendere che Violante, a torto o a ragione, rappresentava un nome divisivo e dunque un ostacolo a quella larga intesa prescritta dal quorum?). Quarto: giusto per farsi carico di questa esigenza di terzietà e sapendo quanto sia facile cadere in tentazione da parte dei partiti, sarebbe utile ancorarsi a una sorta di convenzione: no al passaggio diretto, senza soluzione di continuità, dal parlamento o dal governo agli organi di garanzia. Per essere esplicito: no a Sisto oggi (che peraltro fatica a raccogliere anche i voti di Fi). Come sarebbe stato meglio evitare ieri, in questo caso per il Csm, l’elezione di due ex colleghi che menziono per onestà intellettuale proprio perché amici che stimo: Legnini e Balduzzi. Piuttosto che Leone e Casellati, a suo tempo molto esposti politicamente nella stagione da dimenticare (o da ricordare!) delle leggi ad personam. Quinto: tra le motivazioni dell’impasse, si dice, vi sarebbero ragioni di puntiglio rappresentate come ragioni di principio e cioè la tesi secondo la quale non devono essere gli altri gruppi a scegliere il "nostro". Tesi da confutate in radice: il criterio più convincente e più coerente con la suddetta "terzietà" è semmai che i principali gruppi convergano su tutti e tre i nomi. Non è impossibile. In passato ci si è riusciti. Nessuno può sedersi al tavolo dicendo: Tizio o morte. Sennò effettivamente non se ne esce. L’imparzialità non è la somma delle partigianerie. Sesto rilievo: la discussione non possono essere confinate nel perimetro della maggioranza di governo. Stando alla tradizione e alle consuetudini parlamentari, gli attuali tre grandi raggruppamenti dovrebbero poter esprimere candidati (naturalmente con il suddetto profilo). In concreto, non si capisce perché non lo possa fare il gruppo 5 stelle, tanto più se si considera che, nel caso concreto, esso ha proposto un metodo di trasparente confronto e, quanto al merito, un candidato da tutti giudicato all’altezza. Settimo: il Pd propone Barbera. Anche sul suo nome si può discutere. Non è un mistero che, anche in settori del Pd, gli si rimprovera di avere ispirato le riforme di stampo maggioritario e segnatamente il ddl Boschi che a taluni non piacciono. È un argomento. Ma, complice la mia stima per la persona e lo studioso, mi sentirei di fare tre osservazioni: egli teorizzava il "modello Westminster" ben prima della stagione renziana; è costituzionalista di vaglia, ha tutti i titoli per la Consulta, come ha riconosciuto anche Zagrebelsky, che pure ha posizioni politico-costituzionali assai lontane dalle sue; per come lo conosco, sono sicuro che, una volta eletto, egli di sicuro non si farebbe dettare i comportamenti dal governo. Da vecchio cattolico, credo nella "grazia di stato". Guariniello: "i processi non funzionano, servono controlli e ordine" intervista a cura di Paola Italiano La Stampa, 15 dicembre 2015 Guariniello lascia la magistratura in anticipo sulla pensione. "Non volevo proroghe, avrei solo creato un problema al governo". Alla fine, sarà lui ad andarsene. Poche ore prima che sia il decreto di pensionamento a costringerlo. E lo annuncia proprio ora che aleggia la possibilità di una proroga, dopo il ricorso di pochi altri magistrati che come lui hanno raggiunto i limiti di età ma che, diversamente da lui, vorrebbero restare. Raffaele Guariniello, 74 anni, lascerà il suo ufficio a palazzo di giustizia di Torino pochi giorni prima del suo congedo previsto il 31 dicembre. A 48 anni dal suo primo incarico che, nel 1967 lo portò, giovane pretore, in un paese della provincia di Torino per un sopralluogo in un villaggio abusivo di roulotte che sembravano villette: una vita fa, prima delle inchieste sul doping, sull’Eternit, su ThyssenKrupp, su Stamina, sull’olio, che lo avrebbero consacrato agli occhi di molti come un paladino degli ultimi, e a quelli dei più critici come una specie di rockstar in toga. Ha rassegnato le dimissioni, la sua lettera è di qualche giorno fa. Perché lasciare pochi giorni prima del previsto? Un gesto polemico? "Non intendo fruire di proroghe. È una cosa che non condivido. Il governo ha già tante difficoltà, perché creargliene altre? E avrei anticipato molto di più, se non dovessi concludere alcune indagini delicate - amianto, colpe professionali, malattie sul luogo di lavoro - perché sento un bisogno di futuro". E cosa c’è nel suo futuro? "Per carattere, ho bisogno di operare in un mondo in cui ci sia entusiasmo. Spero di trovarlo in altri contesti". Quali? Se lo chiedono tutti: cosa farà Guariniello dopo la pensione? "Mi sono state proposte alcune cose: ci devo pensare, devo ancora decidere. Ma ho bisogno per il futuro di stimoli che siano pari a quelli che ho avuto in passato in magistratura". Li ha persi? "Sto notando una giustizia in crisi, con difficoltà che portano a sfiducia e disaffezione, tra carenze di personale e di risorse". Sono problemi denunciati da molti anni: che cosa è cambiato adesso? "Le faccio un esempio. Ieri ho fatto un rinvio a giudizio per una malattia professionale: il processo è stato fissato al 2017. Non è colpa del tribunale, è che proprio non ci sono date disponibili prima. Abbiamo lavorato tanto per fare le indagini, gli interrogatori, le consulenze. Che fine farà ora questo processo? Ed è solo il primo grado. La prescrizione galoppa. E se un processo come quello sulla Thyssen, con indagini chiuse in pochissimi mesi, non è ancora arrivato a una sentenza definitiva, figuriamoci quelli che non hanno lo stesso rilievo mediatico. In Cassazione trovo continuamente sentenze che dicono che il reato c’è, ma è prescritto, anche nei settori delicati di cui mi occupo, la tutela della salute e la sicurezza sul lavoro. Con dati impressionanti". Si riferisce ai numeri sugli infortuni sul lavoro? "Sì. Quest’anno, a fine ottobre, abbiamo avuto cento infortuni mortali in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, con un aumento del 14%. Eppure è un settore in cui abbiamo fatto tanto, siamo stati all’avanguardia, la procura di Torino è riconosciuta come una punta di diamante in quest’ambito". Allora che cos’è che non funziona? "Non è pensabile che un Paese in cui si fanno tutte queste leggi sulla sicurezza ci ritroviamo con questi numeri. Non funziona la pubblica amministrazione, che dovrebbe fare i controlli, e non funzionano nemmeno i processi penali. In questo modo si sviluppa l’idea che le regole ci sono, ma che si possono violare impunemente. In che modo aiutiamo i più deboli?". Sembrano parole di un uomo rassegnato, eppure lei parla di futuro: come si cambia la situazione? "É sulla prevenzione che bisogna lavorare, sulla vigilanza. Dobbiamo trovare questi strumenti ed estendere quelli che ci sono, come l’Osservatorio sui tumori professionali. È in questa direzione che bisogna andare. Serve più ordine e vitalità nei controlli. Servirebbe un’istituzione che operi su tutto il territorio nazionale. Guardi che non sto dicendo che sia questo il mio futuro". Caso Cucchi. La Cassazione decide su assoluzioni medici, all’udienza ci sarà anche Ilaria Ansa, 15 dicembre 2015 Il caso di Stefano Cucchi approda oggi in Cassazione, mentre procede l’inchiesta bis della Procura di Roma che ha iscritto - a diverso titolo - cinque carabinieri nel registro degli indagati nel fascicolo aperto sulla morte del giovane geometra romano avvenuta sei anni fa. Per questa udienza è stata riservata una apposita aula della Suprema corte e la V sezione penale, con un collegio interamente dedicato ad esaminare l’esito della prima inchiesta sulla morte di Cucchi, tratterà solo questo fascicolo in via esclusiva senza doversi occupare anche di altre cause. La Procura generale ha schierato uno dei magistrati di punta, l’avvocato generale Nello Rossi, da poco rientrato in Cassazione dopo otto anni passati alla guida del pool contro la criminalità economica e finanziaria degli inquirenti romani, un lavoro che ha scoperchiato enormi sacche di malaffare, dal "Madoff dei Parioli" a "Roma Capitale". Dopo la relazione che sarà svolta dal consigliere Alfredo Guardiano sarà Rossi a prendere la parola e nella sua requisitoria chiederà se confermare o meno le assoluzioni dei 12 iniziali imputati. Si tratta di sei medici, tre infermieri e tre agenti della Penitenziaria. In primo grado solo sei medici furono condannati per l’omicidio colposo di Cucchi, morto dopo una settimana di ricovero nel reparto detenuti dell’ospedale Sandro Pertini, dopo l’arresto per droga avvenuto il 15 ottobre del 2009. In secondo grado, il 31 ottobre del 2014, la corte d’appello mandò assolti anche i medici. Contro il proscioglimento del personale sanitario e dei tre agenti della Penitenziaria, ha fatto ricorso in Cassazione il sostituto procuratore Mario Remus. Come parti civili hanno fatto ricorso anche i familiari di Stefano Cucchi, il padre, la madre e la sorella Ilaria che domani sarà presente all’udienza. La famiglia Cucchi ha fatto ricorso solo contro le assoluzioni dei tre agenti dopo aver ritirato la costituzione di parte civile nei confronti del personale sanitario in seguito ad un risarcimento avuto dall’ospedale Pertini. Il collegio è presieduto da Piero Savani, che insieme al consigliere Stefano Palla, ha scritto la sentenza sul pestaggio alla scuola Diaz di Genova. Gli altri componenti sono Antonio Settembre, Giuseppe de Marzo, Andrea Fidanzia e ovviamente il relatore Guardiano. L’udienza si svolgerà al quarto piano della Cassazione, nell’aula "La Torre" e potrebbe anche non concludersi in giornata e proseguire in una ulteriore convocazione. In particolare il pg Remus ha fatto ricorso contro le assoluzioni dei tre agenti della Penitenziaria Nicola Minichini, Corrado Santantonio, Antonio Domenici e contro i sei medici ed i tre infermieri del Pertini che avrebbero dovuto occuparsi della salute di Stefano Cucchi. Si tratta di Aldo Fierro, Stefania Corbi, Rosita Caponetti, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis, Silvia Di Carlo, Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe. Ilaria Cucchi, il padre Giovanni e la madre Rita Carole sono assistiti dagli avvocati Fabio Anselmo ed Alessandro Gamberini nel ricorso per l’annullamento dell’assoluzione dei tre agenti. L’inchiesta sulla morte di Cucchi è nata dalle denunce dei suoi familiari e dall’impegno della sorella Ilaria per fare luce sul pestaggio che, in base all’inchiesta bis, la vittima avrebbe subito nella caserma Appia dei carabinieri. Cuffaro: Cosa Nostra fa schifo, ma anche il carcere... Agi, 15 dicembre 2015 "La mafia? Uno schifo, quanto di peggio possa avere una terra bella come la Sicilia". A parlare è Totò Cuffaro, che oggi, il giorno dopo la sua scarcerazione dopo avere scontato quasi 5 anni per favoreggiamento alla mafia, ha rilasciato una lunga intervista a Un Giorno da Pecora, il programma di Rai Radio 2. Nel suo primo giorno di libertà è sceso in Sicilia, in macchina, con il figlio e i fratelli, per andare a trovare sua madre: "Mi sono portato dietro, dal carcere, 12 scatoloni che contengono 14mila lettere che ho ricevuto. Quelle lettere mi hanno tenuto in vita quando ero lì". Tra queste quelle inviate da una signora che le ha scritto, ogni giorno, una cartolina: "Vorrei conoscerla e abbracciarla, so solo che si chiama Antonella. Il terzo giorno di carcere mi scrisse che mi avrebbe fatto compagnia scrivendomi ogni giorno e lo ha fatto: da lei, ho ricevuto 1.800 cartoline da tutto il mondo, ma la maggior parte me le spediva da Roma e da Pescara". In carcere dice di essere dimagrito di quasi 30 chili: "La dieta in carcere ce la fa fare gratuitamente lo Stato. Si mangia poco e si mangia male. Poi uno si organizza coi fornelletti, e si fa degli spaghetti, l’unica cosa che si può fare con un po’ di aglio e un po’ di olio. Uno spaghetto per sopravvivere", ha spiegato a Radio2. Nel corso dell’intervista, Cuffaro si è rivolto a Ivan Scalfarotto, deputato Pd, chiedendogli se fosse giusto che il governo avesse tolto la tassa sulla prima casa raddoppiando però la tassa sulla cella ai detenuti: "Pochi sanno che il detenuto paga una quota di mantenimento mensile, una cifra di 56 euro al mese. Io ho speso circa 2.500 euro. Fino a quando li pago io va bene, anche se ora mi hanno tolto vitalizio, ma ci sono detenuti che non hanno reddito". Indagini, per il video nel piazzale non serve il decreto del Gip di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 15 dicembre 2015 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 14 dicembre 2015 n. 49286. Le riprese video nel piazzale aziendale possono essere utilizzate come elementi indiziari a carico dell’indagato, anche se le captazioni non risultano autorizzate dal Gip (ma solo dal Pm). Con questa motivazione la Sesta penale della Cassazione (sentenza 49286/15 ) ha confermato l’ordinanza di custodia cautelare - per concorso in peculato - ai danni di un dipendente di una municipalizzata palermitana, incastrato appunto dalle telecamere posizionate dalla polizia giudiziaria. I difensori dell’uomo contestavano, sul punto, la mancata applicazione della disciplina sulle intercettazioni (articolo 266 del codice di procedura), in quanto le registrazioni sarebbero avvenute in un’area da considerare "domicilio", come tale tutelato dalle norme più restrittive riferite, appunto, al luogo "sovrano" della privacy individuale. La Sesta tuttavia, nel solco di un importante precedente (Sezioni Unite 26795/06), ha riaffermato che "le videoregistrazioni in ambiti non riconducibili alla nozione di domicilio costituiscono prove "atipiche", soggette alla disciplina dell’articolo 189 cpp" ("Quando è richiesta una prova non disciplinata dalla legge, il giudice può assumerla se essa risulta idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti e non pregiudica la libertà morale della persona") e non richiedono quindi - tra l’altro - limiti e soglie previsti dalle intercettazioni (art.266 cpp), a cominciare dal decreto autorizzativo del Gip. Nel caso specifico, sottolinea la Corte "il piazzale antistante il magazzino e le parti comuni dell’azienda non sono estensione di un domicilio privato, non essendovi affatto la possibilità per ciascuno dei numerosi dipendenti di fruirne con una pienezza corrispondente ad un domicilio". Gare truccate: concussione se l’imprenditore rischia la chiusura di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 15 dicembre 2015 Cassazione, VI sezione penale, sentenza 49275 del 14 dicembre 2015. Concussione e non induzione indebita per il pubblico ufficiale che chiede soldi in cambio di un appalto a un imprenditore che cede per evitare la chiusura dell’azienda. La Corte di cassazione, con la sentenza 49275 depositata ieri, sceglie la via del rigore nel punire gli ufficiali che avevano messo in piedi un sistema di gare truccate all’interno di una cittadella militare, che poteva essere "espugnata" solo con le tangenti. Uno schema collaudato basato sulla doppia busta: una contente l’offerta dell’impresa e un’altra lasciata in bianco per mettere, se necessario, una cifra più vantaggiosa rispetto a quella scritta nella prima busta. La Suprema corte punisce per il reato più grave di concussione, la cui pena massima è di 12 anni, rispetto all’induzione indebita che ha un tetto di tre anni di reclusione. Entrambe le figure di reato sono state ridisegnate dalla legge 190 del 2012. L’induzione indebita si contraddistingue per persuasione, suggestione inganno e pressione morale, dotati però di un minor potere nel condizionare la libertà di autodeterminazione del destinatario. In questo caso il "prescelto" per l’induzione ha dalla sua un maggior margine di manovra nel decidere se prestare il consenso alla richiesta illegittima e concludere l’"affare" con la prospettiva di ottenere un tornaconto personale, ipotesi che giustifica una sanzione a suo carico. Diverso lo scenario della concussione in cui il gioco si fa più duro da parte del pubblico agente che, per costringere, usa la violenza e minaccia un danno illecito. In questo caso il concusso si trova a un bivio, con una libertà limitata: senza alcun vantaggio per sé deve scegliere tra subire un danno ingiusto o evitarlo con un pagamento in denaro o un’altra utilità non dovuta. Gli imputati "rivendicavano" il diritto a essere puniti per il reato più lieve di induzione indebita. Gli imprenditori, secondo la difesa, erano di casa nella cittadella militare e si trovavano a loro agio nel muoversi fra le mura "fortificate" di un sistema in virtù del quale la gara si vinceva con la tangente grazie al trucco della doppia busta. Secondo la ricostruzione dei ricorrenti erano gli stessi imprenditori a rivolgersi a loro per aggiudicarsi gli appalti in esclusiva, aderendo immediatamente alle richieste. Una confidenza con i pubblici ufficiali in contrasto con l’ipotesi della sopraffazione tipica del reato contestato. La Suprema corte, consapevole di muoversi in un terreno scivoloso nel quale le azioni dei protagonisti possono essere ambigue, ricorda che i giudici devono sempre basarsi sul fatto "cogliendo da quest’ultimo i dati più qualificanti idonei a contraddistinguere la vicenda concreta". Nel caso esaminato ha pesato il timore degli imprenditori di perdere l’azienda. La Cassazione sceglie la concussione e non l’induzione perché le persone offese erano state messe con le spalle al muro: la conseguenza inevitabile di un rifiuto era l’esclusione da qualsiasi lavoro. L’imprenditore che si ribellava sapeva di rischiare la chiusura della sua l’attività. Certo una minaccia non blanda. Piemonte: superamento degli Opg, intesa tra Regione e magistratura per una soluzione Adnkronos, 15 dicembre 2015 Un’intesa che definisce termini e modalità in merito all’esecuzione delle misure di sicurezza applicate, in via definitiva o provvisoria, nei confronti dei soggetti affetti da vizio parziale o totale di mente. È quella sottoscritta nel pomeriggio da Regione Piemonte e Corte d’appello e procura generale di Torino nel percorso di superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari. Di un "importante tassello" ha parlato il presidente Sergio Chiamparino: "in Piemonte - ha spiegato - applichiamo la legge ed abbiamo individuato due strutture sanitarie extra ospedaliere (Rems), una delle quali già attiva a Bra, destinate ad accogliere le persone a cui sono applicate le misure di sicurezza detentiva, ma nel contempo lavoriamo perché nel medio periodo si possa contenere l’uso delle Rems proprio con misure alternative, che i nostri Dipartimenti di salute mentale applicheranno proprio grazie allo strumento del protocollo con la magistratura". "Attualmente in Piemonte già 400 pazienti sono seguiti in alternativa alla detenzione - ha aggiunto l’assessore regionale alla Sanità, Antonio Saitta - e in questa materia serve collaborazione tra la sanità e la giustizia. Per questo aumenteremo di 2 milioni lo stanziamento ai Dipartimenti di Salute mentale per questo progetto". Il protocollo è stato sottoscritto dal Presidente della Corte d’Appello di Torino, Arturo Soprano, dal procuratore generale, Marcello Maddalena, e dal presidente della Sezione gip Francesco Gianfrotta. Erano presenti anche il Garante regionale delle carceri, Bruno Mellano, e il responsabile regionale Assistenza sanitaria e socio sanitaria Vittorio Demicheli. Il protocollo è uno strumento che definisce le modalità di collaborazione e collegamento tra i servizi sul territorio e la magistratura ordinaria, in modo da individuare le soluzioni più appropriate e di presa in carico di tali soggetti sia dal punto di vista clinico sia da quello di contenimento della pericolosità sociale. Impegna le parti a promuovere congiuntamente, iniziative di formazione e periodici incontri di aggiornamento e di informazione destinati a giudici, medici e operatori sanitari. Piemonte: detenuti al lavoro per i Comuni, l’Anci diffonderà il progetto nato a Novara Gazzetta di Asti, 15 dicembre 2015 Anci Piemonte è tra i firmatari di una convenzione, sottoscritta in questi giorni a Novara, che prevede il reinserimento sociale dei detenuti attraverso il lavoro esterno in progetti di pubblica utilità. "Si tratta di un’iniziativa collaudata negli anni scorsi - spiega il presidente di Anci Piemonte, Andrea Ballarè, sindaco di Novara - la novità consiste nel fatto che, per la prima volta in Italia, si dà attuazione in modo stabile e continuativo ad un protocollo siglato nel 2012 a Roma da Anci e Ministero per la Giustizia". Grazie all’accordo, del quale fanno parte il Comune di Novara, l’azienda dei servizi ambientali Assa, Atc, la Casa Circondariale, Magistratura di Sorveglianza e Uepe (ufficio esecuzione penale esterna), un gruppo di detenuti sarà impegnato, tutte le settimane, nella pulizia di parchi e strade e nella manutenzione delle case popolari. Il progetto ha la durata di tre anni, è totalmente gratuito per il Comune e coinvolge 58 carcerati, che saranno operativi nelle giornate di mercoledì. Proprio in virtù di tali caratteristiche, occorre sottolineare l’unicità del progetto in ambito nazionale. "Riteniamo che l’iniziativa abbia un indubbia valenza sociale ed economica, sia per i detenuti che per la collettività - aggiunge il presidente Ballarè - come Anci ci attiveremo per far conoscere questa opportunità ai Comuni piemontesi sedi di istituti penitenziari, con la speranza che possa estendersi nei loro territori trovando, al contempo, una migliore realizzazione anche a livello nazionale". Roma: giallo sul decesso di un detenuto. L’avvocato denuncia "era gravissimo" La Repubblica, 15 dicembre 2015 Quando si è presentato a colloquio con il suo avvocato a Regina Coeli era irriconoscibile: non si reggeva in piedi, aveva la bava alla bocca e biascicava frasi sconnesse. Così il suo legale, l’avvocato Giampaolo Balzarelli, ha fatto un fax urgente al carcere e al gip di Viterbo per chiederne il trasferimento immediato in ospedale. Lo scorso sabato, dopo essere stato portato nell’ospedale Santo Spirito, ed avervi trascorso 7 giorni, Maurizio L., 50 anni, è morto. Era entrato nel nosocomio il 6 dicembre ed era a Regina Coeli dal 26 novembre dopo l’arresto per rapina. Per la morte dell’uomo il pm Antonino Di Maio ha aperto un fascicolo. Il pm, dopo aver fatto sequestrare la cartella clinica, ha disposto l’autopsia. Non si esclude nessuna ipotesi. Al momento dell’arrivo al pronto soccorso, aveva dolori addominali ed era in uno stato soporoso, tanto che i medici avevano ordinato una visita chirurgica. Sette giorni dopo la morte. Napoli: detenuto 42enne colto da malore, muore nella caserma dei carabinieri Corriere del Mezzogiorno, 15 dicembre 2015 L’uomo, R. M., stava per essere portato al carcere di Poggioreale: ha chiesto di andare in bagno e lì è stato trovato privo di vita. Inutili i tentativi di rianimarlo. Muore nella caserma dei carabinieri dopo un malore. È accaduto nel pomeriggio all’interno della tenenza di Quarto flegreo, nel Napoletano. A perdere la vita è R. M., classe 1973, residente a Quarto. Secondo quanto ricostruito dai militari R. M. era in caserma, in attesa di essere tradotto al penitenziario di Poggioreale in esecuzione di ordine di carcerazione dopo la sospensione degli arresti domiciliari. Il 42enne ha chiesto di andare al bagno e passati alcuni minuti è stato poi scorto appoggiato al muro, privo di vita. Vani sono risultati gli immediati tentativi di rianimazione prima da parte dei militari sul posto e subito dopo dei medici del 118 arrivati con urgenza. Sul posto per i rilievi del caso è intervenuto il magistrato di turno, il medico legale e personale della sezione investigazioni scientifiche del nucleo investigativo del comando provinciale carabinieri di Napoli. Bari: siglato in Comune un accordo per il reinserimento sociale dei detenuti trmtv.it, 15 dicembre 2015 L’assessorato al Welfare guidato da Francesca Bottalico e l’Ufficio dell’Esecuzione Penale Esterna di Bari, rappresentato dalla dirigente Paola Ruggeri, hanno siglato ieri presso il Municipio un protocollo operativo con la finalità di promuovere il reinserimento sociale delle persone condannate in esecuzione penale esterna, detenuti, internati, soggetti sottoposti alle misure di sicurezza ed ex detenuti e per il supporto alle famiglie d’origine. La collaborazione tra i due soggetti è finalizzata alla istituzione di un osservatorio cittadino per la legalità, i diritti e l’inclusione sociale con una funzione di ricognizione dei casi e di mappatura di servizi e progetti territoriali in modo da favorire una presa incarico coordinata del soggetto e dell’intero nucleo familiare e uno scambio di buone prassi in materia tra istituzioni, e una Cabina di Regia interistituzionale che abbia lo scopo di definire le linee programmatiche relative all’inclusione socio-formativa-lavorativa, alla sicurezza, alle politiche abitative, alle politiche sociali-psicologiche-affettivo-relazionali e di tutela della salute". Parma: gli agenti penitenziari chiedono provvedimenti contro insulti e aggressioni La Repubblica, 15 dicembre 2015 Indetto un sit-in per il 17 dicembre, dopo che l’istituto penitenziario di via Burla è balzato agli onori delle cronache per le denunce di presunti pestaggi da parte della polizia penitenziaria. Mentre il carcere di Parma è balzato agli onori delle cronache per le denunce di presunti pestaggi da parte degli agenti, il sindacato Sinappe comunica che continua lo stato di agitazione, proclamato in data 12 dicembre "a seguito delle crescenti aggressioni verbali e fisiche che il personale della polizia penitenziaria è costretto a subire nella quotidianità della propria attività lavorativa da parte di detenuti particolarmente facinorosi, che hanno causato infortuni di una certa gravità, meritevoli di prognosi anche pari o superiore ai 15 giorni". Per il 17 dicembre è stato indetto un sit-in in via Burla per sollecitare il provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria "all’attivazione delle previste procedure di raffreddamento dei conflitti, al fine di ristabilire il rispetto delle norme di legge e contrattuali" e "al fine di informare tutta l’opinione pubblica parmigiana sul rischio che il continuo aggravarsi dei problemi di cui sopra possa provocare serie ripercussioni sulla sicurezza del territorio di riferimento". "Ulteriori ragioni poste a fondamento di tale iniziativa - si legge nella nota - sono le seguenti: 1. mancato rispetto di quanto disposto dalla commissione arbitrale regionale in tema di mobilità interna, che fa dell’istituto ducale l’unico in regione a sottrarsi alle procedure d’interpello per l’accesso a tutti i posti di servizio; 2. movimentazione temporanea di numerose unità di polizia penitenziaria da e per uffici e/o servizi, a cui si dovrebbe accedere, viceversa, attraverso regolare procedura d’interpello; 3. mancata adozione dei principi di equità e rotazione nella valutazione delle istanze di congedo ordinario nel cosiddetto piano ferie natalizio; 4. estremo disagio del personale in servizio, dovuto all’assenza o al non corretto funzionamento dei sistemi di riscaldamento nei turni notturni e all’inadeguatezza degli arredi (a cominciare dalle sedie quasi del tutto inutilizzabili), segnalato in apposite note sindacali mai riscontrate; 5. mancato riscontro della nota sulle anomale procedure adottate nell’indizione dell’interpello per il locale Ntp, circostanza che rischia di creare una situazione di stallo con conseguente grave nocumento alla funzionalità del servizio del Nucleo Traduzioni e Piantonamenti; 6. mancato riscontro di numerose altre note sindacali indirizzate alla Direzione degli II. PP. di Parma". Palermo: il Vescovo di Monreale guida delegazione in visita al carcere dell’Ucciardone Italpress, 15 dicembre 2015 "In carcere si trovano le persone più disponibili a seguire il Vangelo". Lo ha detto monsignor Michele Pennisi, arcivescovo di Monreale, nel corso di un incontro che si è svolto, nei giorni scorsi, al carcere dell’Ucciardone di Palermo. L’iniziativa rientrava nella Giornata del perdono e della Misericordia, promossa, oltre che dalla Diocesi, dal Parlamento della Legalità Internazionale Multietnico, presieduto da Nicolò Mannino e dal vice Salvo Sardisco, di cui il presule è guida spirituale. Una delegazione di studenti dell’Istituto "Ferrara" di Palermo ha fatto visita ai detenuti all’indomani dell’apertura della Porta Santa in san Pietro da parte di papa Francesco. Tra di loro anche una giovane musulmana e una ragazza di religione indù, a dimostrazione che i valori della pace e del perdono vanno oltre gli steccati ideologici e religiosi. Ad accoglierli i giovani "parlamentari" hanno trovato la direttrice Rita Barbera, il magistrato di sorveglianza, Pietro Cavarretta, il comandante ed il vicecomandante della polizia penitenziaria, Michelangelo Aiello e Mariateresa Gallo e un giovane frate cappuccino, fra Carmelo Torino Saia, cappellano del carcere. La piccola ma determinata delegazione ha visitato alcune strutture della casa di detenzione, tra cui lo spazio verde che viene messo a disposizione dei genitori per incontrare i loro bambini in un ambiente protetto e senza sbarre. Nel corso della visita diversi detenuti, impossibilitati a prendere parte al momento di riflessione e di preghiera, hanno chiesto all’arcivescovo Pennisi una parola di conforto ed una benedizione che non è mai mancata. Quindi ha preso il via l’incontro vero e proprio nella sala teatro. Palermo: le battaglie Pio La Torre messe in scena con uno spettacolo all’Ipm Malaspina Ansa, 15 dicembre 2015 Le battaglie di Pio La Torre per una Sicilia migliore saranno messe in scena da un gruppo di giovani dell’area penale esterna del centro polifunzionale diurno Malaspina di Palermo, domani alle ore 12. È l’iniziativa prevista nell’ambito del progetto "Giovani cittadini consapevoli, attivi e responsabili" realizzato dal centro studi Pio La Torre con il sostegno del dipartimento della Gioventù e del servizio civile nazionale della Presidenza del Consiglio dei ministri. I giovani, dai 17 ai 19 anni, si sono cimentati con la pièce "Pio La Torre. Orgoglio di Sicilia" scritta da Vincenzo Consolo per il centro studi Pio La Torre. Sono sette, in tutto, i ragazzi che domani porteranno in scena il testo, al culmine di un lungo percorso di formazione, come spiega il responsabile del laboratorio teatrale, Salvo Dolce: "Il progetto si è articolato in diverse fasi e dalla testimonianza antimafia di Pio La Torre la riflessione si è estesa alla Sicilia e agli uomini che si sono spesi in prima persona per liberare questa terra. All’interno della rappresentazione finale ci saranno improvvisazioni e momenti di reading. L’obiettivo è utilizzare il teatro come strumento di formazione, cambiamento, crescita, integrazione, attraverso il linguaggio personale dei ragazzi". "Vincenzo Consolo nel 2009 ha scritto questo atto unico appositamente per il centro Pio La Torre e sapere che oggi questa orazione civile viene utilizzata nei percorsi educativi antimafia è per noi motivo di orgoglio - dice Vito Lo Monaco, presidente del centro studi Pio La Torre - Pio La Torre si batteva per il rispetto della democrazia e della convivenza civile. Per sconfiggere la mafia occorre formare criticamente i giovani cittadini e la costruzione di una coscienza critica, come ci ha insegnato Consolo, è fondamentale". Taranto: presentata la terza edizione di "Fuorigioco", testimonial è stato Antonio Cabrini manduriaoggi.it, 15 dicembre 2015 Venerdì il quadrangolare fra le rappresentative dei Magistrati, della Polizia Penitenziaria, dei Detenuti e degli Avvocati. Una festa del calcio e un passo in più nel processo di riabilitazione dei detenuti. La terza edizione di "Fuorigioco", il quadrangolare di calcio ideato e organizzato da Giulio Destratis che coinvolge le rappresentative della Polizia Penitenziaria, dei Magistrati, degli Avvocati e dei Detenuti, è stata presentata stamani a Taranto, alla presenza di un testimonial d’eccezione: il campione del mondo Antonio Cabrini. A prendere per prima la parola all’interno dell’aula dei convegni del carcere tarantino, è stata la direttrice Stefania Baldassarre, la quale ha rimarcato la valenza sociale della manifestazione e l’importante adesione fornita dall’Associazione Nazionale Magistrati e dalla Magistratura di Sorveglianza. Il moderatore dei lavori, il collega Gianni Sebasio, ha poi passato la parola proprio alla dott.ssa Casciaro, presidente del Tribunale di Sorveglianza. "Abbiamo aderito molto volentieri a questa iniziativa, fondamentale nel processo di rieducazione dei detenuti" le sue parole. "Una statistica testimonia come per i detenuti che aderiscono a eventi di tipo culturale o aggregativo la percentuale di recidiva è molto bassa. Poiché sono costretti ad allenarsi in uno spazio molto piccolo, sarebbe auspicabile che il Ministero potesse prevedere un campetto un po’ più adeguato alle loro esigenze". Il microfono è poi passato al campione del mondo, Antonio Cabrini. "Il calcio unisce e migliora la gente. I detenuti coinvolti in questa iniziativa" è l’auspicio di Cabrini, "non devono sentirsi ristretti. In passato saranno incappati in qualche errore, ma proprio questo torneo può costituire un punto di ripartenza". Stuzzicato dal giudice Rosati sul rigore sbagliato alla finale dei Mondiali del 1982, Cabrini ha risposto con una battuta. "Mi capita di rivedere quella partita e, ogni volta, sono convinto che sia quella buona per realizzarlo quel rigore" ha scherzato. "Purtroppo finisce sempre fuori". È stata poi la volta dei due magistrati presenti. Il dott. Carboni ha ricordato come la rappresentativa dei Magistrati sia la campionessa uscente e ha poi posto l’accento sulla necessità di avere delle carceri, oggi sovraffollate, a misura d’uomo. "Il torneo di venerdì? Speriamo di riuscire a offrire uno spettacolo decoroso". Per il dott. Rosati, invece, il torneo può essere una braccia nei muri che dividono i ragazzi detenuti dal resto del mondo. È intervenuto anche uno dei massimi dirigenti del Taranto, l’avv. Tonio Bongiovanni, presente con i calciatori Yeboah e Nosa. "Attraverso il calcio, ci sforziamo a offrire un rilancio all’immagine della città" il suo impegno. Infine il microfono è stato passato a Giulio Destratis, infaticabile organizzatore del torneo, che si svolgerà venerdì sera allo Iacovone di Taranto. Destratis ha letto una lettera che gli ha inviato, lo scorso anno, un detenuto che aveva partecipato al torneo. "Ho rivissuto emozioni che avevo perso: è stato uno stimolo a credere di più in un futuro diverso" le sue emozionanti parole. Venezia: gli albergatori fanno i camerieri e servono il pranzo alle detenute di Giorgio Cecchetti La Nuova Venezia, 15 dicembre 2015 Giornata speciale al carcere della Giudecca, impegnati i vertici dell’Ava assieme ad alcune recluse. Menù preparato dallo chef Davide Fanti e buona musica. Una giornata speciale per le ottanta detenute e per i sei bambini che vivono dentro le mura del carcere della Giudecca con le loro madri, ma anche per i vertici dell’Associazione veneziana albergatori, che hanno servito in tavola, e per lo chef dell’hotel Cà Sagredo, Davide Fanti, che in cucina ha coordinato anche il lavoro di alcune recluse. "Se potessero uscire le assumerei subito, brave e disponibili", ha dichiarato il grande cuoco. Giudizio positivo anche sulla cucina: "Bella e soprattutto grandi spazi", nonostante la struttura del carcere femminile veneziano sia antica e il ministero della Giustizia, si sa, non naviga certo nell’oro e per questo da anni non stanzia fondi per ristrutturazioni e ammodernamenti. L’Ava ha organizzato, grazie alla disponibilità della direttrice Gabriella Straffi e di tutto il personale della Polizia Penitenziaria e l’aiuto della cooperativa sociale Il Cerchio, un pranzo di Natale per le detenute, che non hanno solo mangiato. Gli albergatori veneziani, infatti, hanno portato anche la musica dal vivo, c’erano "Jessica e Lele Wonderfull" con i loro strumenti, e tanti regali, soprattutto per i bambini, ma anche per le recluse. "In questo preciso momento storico abbiamo deciso di porre l’accento sull’uomo, per questo abbiamo scelto un gesto significativo, forte e capace di esaltare umanità piuttosto che il mero gesto simbolico", Stefania Stea, vicepresidente dell’Ava, ha spiegato com’è nata l’idea di coordinare il pranzo in carcere per il secondo anno, la prima volta accadde nel 2013. "La nostra è una scelta di condivisione, preparare il pranzo per le detenute, servire ai tavoli e sedersi e mangiare accanto a loro sta ad indicare proprio questo: ci sediamo accanto a chi ha sbagliato nella sua vita nella speranza di regalare loro la possibilità di respirare un’atmosfera quasi familiare, di amore e di affetto. Volevamo fare qualcosa per il Natale che non fossero le solite luminarie, volevamo festeggiare la ricorrenza con chi normalmente non lo può fare con gioia". "Per noi tutto questo rappresenta la normalità" ha aggiunto Lorenza Lain, consigliera Ava degli hotel Cinque stelle, "ma per le persone che sono recluse in carcere è un grande emozione poter rivivere gesti normali, di affetto e di condivisione". Il pranzo si è svolto nell’ampia sala della biblioteca dove sono arrivate anche le madri con i loro bambini, per la maggior parte di pochi mesi ma che possono rimanere con loro fino a sei anni (naturalmente non rimangono nelle celle, esiste una struttura collegata ma distaccata dal carcere dove sono ospitate le detenute con i figli). Al pranzo hanno partecipato anche la direttrice, la comandante della Penitenziaria e alcuni agenti. "Le feste e in modo particolare quella di Natale" ha dichiarato la direttrice, "sono sempre particolarmente tristi per le detenute del carcere. Oggi, grazie alla collaborazione dell’Ava e della Cooperativa il Cerchio, abbiamo regalato una tavola apparecchiata, musica per cantare e per ballare, il sorriso delle persone dell’Ava e dei volontari che hanno servito e cucinato". Il clima, tra le recluse e le agenti è disteso e sereno, spesso si abbracciano, si salutano con gentilezza, un clima ben diverso da quello che si vive e si respira in un qualsiasi carcere maschile. Anche le celle sono diverse: alla Giudecca ci sono le tende alle finestre con le sbarre, ci sono i tappeti per terra, ci sono i fiori, anche se di plastica, sui tavoli. Pure il colore dei muri è diverso, ci sono colori brillanti e allegri, il verde, il giallo. Eppure anche alla Giudecca c’è chi deve scontare 20 o 30 anni di galera. Il menu è stato da hotel a 5 stelle (insalatina di mare e manzo salato alle erbette come antipasto, un tris di primi tra cui risotto al montasio e timballo di crepes ai funghi, guancette di vitello all’amarone con polentina e, infine, clementine con cioccolato fondente). E poi tutti a cantare, in particolare alcune detenute che si sono esibite nel karaoke. Infine, la distribuzione dei regali. L’Ue all’Italia: prendete le impronte ai migranti, anche con la forza di Marco Cremonesi e Fiorenza Sarzanini Il Corriere della Sera, 15 dicembre 2015 Un corpo di polizia di frontiera, e di guardia costiera, dell’Unione Europea. Lo ha annunciato il commissario Ue all’immigrazione Dimitris Avramopoulos: perché i problemi epocali di questi anni - ha sostenuto - richiedono "una risposta europea. Da qui dobbiamo muoverci verso il futuro: dando risposte europee". Tuttavia, il commissario Ue fa il suo annuncio poco dopo la diffusione dei contenuti di un rapporto sull’Italia non precisamente lusinghiero. Dieci pagine (più quattro di allegati) in cui Bruxelles esamina lo stato di attuazione da parte dell’Italia degli accordi intraeuropei sull’immigrazione. Risultato, la richiesta di "un’accelerazione" nella realizzazione degli hotspot - i centri di registrazione degli immigrati in arrivo - e soprattutto l’impegno per "dare cornice legale alle attività di hotspot, in particolare per permettere l’uso della forza per la raccolta delle impronte e prevedere di trattenere più a lungo i migranti che oppongono resistenza". La Commissione scrive di attendersi "che altri due centri, Pozzallo e Porto Empedocle, siano aperti a giorni". Perché "malgrado i sostanziali incoraggiamenti, solo uno dei sei previsti è pienamente operativo". Soprattutto: "Il livello relativamente basso di arrivi permette di assicurare che il concetto di hotspot sia realizzato in pieno e che i difetti individuati siano corretti". Il commissario Avramopoulos parla a Milano. È sullo stesso palco in cui siede il ministro dell’Interno Angelino Alfano che presenta il suo libro ( Chi ha paura non è libero ). Eppure, minimizza la portata della vicenda. Assicura che "non ci sono tensioni fra Europa e Italia, questa procedura è iniziata due anni fa". Soprattutto, dice il Commissario, "ora l’Italia sta andando velocemente e voglio lodare pubblicamente Alfano". Il quale, però, poco più tardi spiega che "la linea italiana è che hotspot, delocation e rimpatri vadano insieme". Al Viminale si ricorda che "le leggi italiane impongono che l’uso della forza sia proporzionato alla situazione che si deve affrontare e dunque non possiamo andare oltre. Siriani ed eritrei fanno resistenza per impedire di essere foto-segnalati, tengono i pugni chiusi, sono disposti a tutto pur di evitare la registrazione". Non a caso, già nella relazione trasmessa dal capo della polizia Alessandro Pansa a Bruxelles e nell’audizione del capo del Dipartimento immigrazione Mario Morcone era stato specificato che "di fronte a persone che cercano di impedire la propria identificazione si procederà a videoregistrare ogni passaggio". Una decisione presa a tutela dei poliziotti, per impedire che possano poi essere accusati di aver compiuto violenza sulle persone. Ferma è anche la scelta di non aprire nuovi hotspot fino a che non si procederà davvero con i ricollocamenti e con i rimpatri nei Paesi d’origine di chi non ha diritto allo status di rifugiato, come era stato stabilito nei mesi scorsi. La media non è cambiata: nonostante l’impegno della commissione guidata da Jean Claude Juncker di trasferire negli altri Stati 40.000 profughi in due anni - quindi 8.000 al mese - finora ne sono stati portati via appena 160. E non sembra ci siano le condizioni per poter cambiare la situazione. Del resto la linea era stata concordata dal premier Matteo Renzi con il ministro dell’Interno Angelino Alfano: "Saremo collaborativi nella misura in cui l’Europa ci aiuterà a superare l’emergenza". E invece sino a ora l’Ue ci ha messo sotto accusa, addirittura avviando una procedura d’infrazione che Alfano ha definito "ingiusta e irragionevole". Il ministro nelle ultime ore si è detto fiducioso che l’Italia non sarà sanzionata, ma tutto si gioca entro i prossimi due mesi e nulla al momento è scontato. Alla presentazione del libro di Alfano c’era anche il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti e il cardinale di Milano Angelo Scola. Roberti ha auspicato la nascita della figura di "un procuratore europeo con poteri di indagine in tutta l’Unione". Scola ha invece invitato a non ridurre il tema dell’Islam alla sola sicurezza: "Sarebbe importante favorire nelle università islamiche cattedre per lo studio dell’Europa e del cristianesimo". Migranti: la grande paura diventa solidarietà, ma resta la sindrome dell’assedio di Ilvo Diamanti La Repubblica, 15 dicembre 2015 Un tempo, neppure tanto tempo fa, l’immigrazione appariva la principale causa delle nostre paure. Agitate da alcuni attori politici. Moltiplicate dai media. Ma oggi la scena sembra cambiata. Certo, gli immigrati generano ancora inquietudine. Ma non evocano più, come prima, "il" nemico che incombe. Perché sono qui. Proiettano la loro immagine sui media. E ci costringono a fare i conti con il "mondo". Con il "nostro" futuro. Il III rapporto redatto da Carta di Roma mostra, infatti, come l’immigrato sia divenuto un personaggio comune del nostro paesaggio "sociale" e "mediale". Bastano poche cifre a renderne l’idea. Nel 2015 si registra infatti il record di notizie sui fenomeni migratori nei telegiornali e nella carta stampata. In particolare, sulla stampa, l’incremento, rispetto agli anni precedenti, è di circa l’80%. Inoltre, durante tutto l’anno, solo in 39 giorni non incontriamo almeno un titolo sull’argomento. Praticamente, si è parlato di immigrati quasi ogni giorno. Quanto alla televisione, nelle edizioni del prime time dei tg delle 7 reti generaliste italiane (Rai, Mediaset e La7), le notizie dedicate all’immigrazione, nel 2015, sono 3.437. Il numero più alto in 11 anni di rilevazioni. Peraltro, è diventato difficile riassumere l’immigrazione con una sola definizione. Il III Rapporto di Carta nel 2015 propone, non per caso, una rappresentazione "molteplice" degli immigrati. Descritti con nomi e volti diversi. Possibili terroristi, integralisti islamici che minacciano la nostra vita, insinuandosi nelle nostra società. Ma anche profughi, uomini in fuga dalla povertà o dalla violenza. Ebbene questa diversità di nomi e immagini costituisce una frattura cognitiva, rispetto al passato recente. Quando gli immigrati erano, comunque, l’altro. Non-persone (per citare Alessandro Dal Lago). Invece, mai come negli ultimi mesi gli immigrati sono stati descritti "anche" come persone. Che suscitano "pietà", prima che "solidarietà". Non perché siamo divenuti più "buoni" (anche se la pubblicazione della foto del bimbo siriano morto sulle coste turche ha sollevato grande emozione). Ma, piuttosto, "realisti". Di fronte a una "realtà" impossibile da allontanare, anche solo con la retorica. Così la "paura" suscitata dagli immigrati (come segnala l’Osservatorio di Demos) nell’ultimo anno è risalita. Ma è rimasta lontana dai livelli del 2008. Oggi, a differenza di allora, non siamo in campagna elettorale. Ma, soprattutto, l’immigrazione non ha un solo volto. E non c’è confine che possa difenderci dalle guerre, né dalle emergenze sociali e umanitarie che esplodono intorno a noi. La retorica dell’invasione è divenuta, quindi, retorica. Ha perduto efficacia polemica. Perché è difficile venire invasi da un mondo "sconfinato", dove i confini non garantiscono più certezze. Neppure cognitive. Non ci fanno sentire distinti e distanti dai luoghi da cui fuggono "gli altri". Così, le immagini dei "muri" eretti in Ungheria, sui Balcani, i "blocchi" sulla Manica e a Ventimiglia, evocano i fallimenti dell’Europa senza frontiere. Che ora cerca di presidiare, con poca fortuna, il Mare nostrum. E richiude le frontiere, al proprio interno. Com’è avvenuto dopo gli attentati di Parigi. Una vittoria degli "imprenditori della paura" - si è detto. Eppure, proprio in Francia, alle elezioni recenti, gli "imprenditori della paura" hanno ottenuto un risultato importante. Ma sono stati sconfitti. Segno che la la sindrome dell’invasione e dell’assedio si sono diffuse. In Europa e da noi. Ma restano minoritarie. Perché appaiono "irrealiste" di fronte a un fenomeno "reale", oltre che mediale. Gli immigrati: pongono una questione difficile e ineludibile. Inutile illudersi di rimuoverla. Con nuovi muri che ci separano, anzitutto, da noi stessi. Aiuti umanitari, ecco come l’Italia riesce a fare la sua parte di Giampaolo Cadalanu La Repubblica, 15 dicembre 2015 Metà del suo budget è dedicata alle emergenze più gravi, classificate dall’Onu come "livello tre": crisi siriana (21%); l’Iraq (10%); Sud Sudan (9%); Repubblica Centraficana (6%); Yemen (2%). Ma non sono solo i conflitti armati assorbono risorse: una fetta robusta nel 2015 è andata ai Paesi colpiti dall’Ebola, soprattutto la Sierra Leone. L’Italia fa la sua parte: c’è un filo di orgoglio nel bilancio che la Farnesina presenta sulle attività umanitarie. Niente venature di nazionalismo fuori tempo massimo, ma la coscienza tranquilla di chi affronta anche le difficoltà economiche senza mettere da parte la solidarietà. Nel 2015 il conto degli aiuti è arrivato a 75 milioni di euro, che saranno aumentati per l’anno in arrivo. Un budget impegnato soprattutto sulle emergenze. La Cooperazione spiega che metà del suo budget è dedicata alle emergenze più gravi, quelle classificate dall’Onu come "livello tre": la crisi siriana (che ne ha assorbito il 21 per cento), l’Iraq (dieci per cento), il Sud Sudan (nove per cento), la Repubblica Centrafricana (sei per cento), lo Yemen (due per cento). Ma non sono solo i conflitti armati ad assorbire le energie italiane: una robusta fetta degli stanziamenti 2015 è andata anche al soccorso dei Paesi colpiti dall’epidemia di virus Ebola, soprattutto la Sierra Leone, grazie anche alla possibilità di schierare l’intervento di eccellenza dell’ospedale Spallanzani e di Ong specializzate in campo sanitario. Per rispondere all’assalto del virus sono stati stanziati quest’anno quattro milioni di euro, che si aggiungono ai 7,7 milioni già erogati nel 2014. Le risorse per i flussi migratori. Oltre sei milioni di euro sono stati stanziati per le aree di origine e transito dei flussi migratori (Sahel e Corno d’Africa), oltre che per la protezione e assistenza dei migranti nelle aree della "rotta balcanica". Ma non sono state trascurate le zone in cui la Cooperazione è presente da anni (Afghanistan, Palestina) o le popolazioni protagoniste delle "crisi dimenticate": i Saharawi in Algeria, i Rohingya in Myanmar, gli sfollati e rifugiati in Camerun e nell’area del Lago Ciad. I destinatari privilegiati. Destinatari privilegiati dei cosiddetti Fondi di Emergenza sono state le Agenzie umanitarie dell’Onu e la Croce Rossa Internazionale, che hanno ottenuto 7,6 milioni di euro per gli interventi di prima risposta nelle zone colpite da catastrofi naturali: dal terremoto in Nepal alle alluvioni in Africa e Asia, passando per i cicloni "Pam" ed "Erika" nel Pacifico, il fenomeno climatico del "Nino" in Etiopia e il terremoto al confine fra Afghanistan e Pakistan. La capacità di risposta dei più vulnerabili. Altri fondi sono andati a finanziare la capacità di risposta dei Paesi più vulnerabili ai disastri naturali attraverso il Fondo Globale della Banca Mondiale per la prevenzione e la risposta d’emergenza, al funzionamento, al ripristino degli stocks ed ai trasporti umanitari effettuati dal Deposito Onu di Brindisi o dalle altre Basi delle Nazioni Unite, allo sminamento umanitario, che interessa Paesi come Palestina, Afghanistan, Somalia, Bosnia, Siria, Colombia, Sudan. Quei silenzi sul caporalato di Enrico Marro Corriere della Sera, 15 dicembre 2015 Tre mesi fa nasceva il "bollino etico" Ma solo 207 aziende lo hanno ottenuto (ovvero una su mille). Ricordate in estate, puntuale come il solleone, la tragedia dei morti nei campi e la polemica sul caporalato? "Piaga sociale che deve essere eradicata definitivamente", ha ammonito il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Quest’anno poi, a fare più scalpore era stato il caso di Paola Clemente, la bracciante pugliese di 49 anni, morta mentre nelle campagne di Andria era impegnata nell’acinellatura dell’uva. Lo sfruttamento della manodopera, che secondo le stime tocca 400 mila lavoratori e spesso è gestito dalla criminalità organizzata, si estendeva dunque agli italiani. Si mobilitarono tutti: sindacati, governo, associazioni imprenditoriali. Venne così lanciata l’idea del bollino etico per le aziende, un sistema di certificazione che attestasse l’essere in regola con le leggi e i contratti di lavoro, dando attuazione a quanto previsto dal decreto legge competitività del 2014. Una garanzia insomma di trovarsi di fronte a un’impresa non sospettabile di utilizzare manodopera in nero o clandestina e tantomeno di ricorrere ai caporali che la forniscono. Un’azienda pulita. Ma dopo tre mesi il risultato è deludente, almeno se commisurato alle attese e alla mobilitazione iniziale. Al 3 dicembre, solo 669 aziende hanno chiesto la certificazione e appena 207 l’hanno ottenuta. "Per la prima volta in Italia - annunciava il 19 agosto il ministro dell’Agricoltura, Maurizio Martina - si istituisce un sistema pubblico di certificazione etica del lavoro. Il certificato di qualità attesterà il percorso delle verifiche effettuate, individuando e valorizzando le aziende virtuose". Pochi giorni dopo l’Inps annunciava la nascita della "Rete del lavoro agricolo di qualità". Dal primo settembre, spiegava l’istituto di previdenza, "è possibile presentare le istanze di adesione alla Rete" accedendo al sito dello stesso Inps. Nel modulo online bisogna dichiarare le generalità del titolare dell’impresa e attestare di non aver riportato condanne penali in materia di lavoro, legislazione sociale e di imposte; di non aver subito sanzioni amministrative negli ultimi tre anni e di essere in regola con i contributi Inps e Inail. Le domande "saranno esaminate" e "deliberate entro 30 giorni". Verificato il possesso dei requisiti, l’azienda entra nella Rete e "riceve il certificato che ne attesta la qualità". Che cosa è successo dal primo settembre al 3 dicembre? Secondo i dati dello stesso Inps, sono state presentate 669 domande. Quelle ammesse sono 207, 12 quelle respinte, 399 quelle "in attesa di documentazione" e 51 quelle sottoposte ad "ulteriore valutazione". A settembre sono state presentate 230 domande, a ottobre 233 a novembre 192 e 14 nei primi tre giorni di dicembre. Non c’è stata quindi la corsa al bollino anti-caporalato. Le imprese agricole in Italia sono quasi un milione e mezzo. Ma tenendo conto che la stragrande maggioranza sono piccolissime e che l’iniziativa è rivolta in particolare alle aziende produttrici (cioè le prime della filiera, quelle dove si coltiva e raccoglie), l’Inps stima una platea potenziale di 200mila imprese interessate alla Rete. Al momento, dunque, appena una su mille vi è entrata. Uno dei primi imprenditori ad aderire alla Rete è stato Giorgio Mercuri, a capo di una cooperativa agricola nel foggiano che, spiega, fattura 10 milioni, vendendo il 40% del prodotto (ortofrutta) in Italia e il 60% all’estero, e impiega più di 200 lavoratori stagionali. Mercuri è anche presidente di Fedagri-Confcooperative, associazione che rappresenta 3.300 cooperative, con circa 430.000 soci e un fatturato complessivo di 28 miliardi. "Per me - dice - è stato naturale aderire. Ho sempre fatto tutto in regola e questo bollino di qualità mi è sembrato una grande idea". Nessuna difficoltà burocratica, racconta Mercuri: "La domanda si fa online e poi l’Inps controlla. Mi chiedo solo se poi questi controlli verranno fatti tutti gli anni o no". Ma questo dubbio sembra secondario, se le adesioni alla Rete resteranno così basse. Secondo Mercuri, le spiegazioni sono molte: "Come sempre, passato il clamore della cronaca, la spinta si è allentata. Comunque, il motivo principale è che se non c’è una richiesta da parte della distribuzione non se ne esce". In che senso? "Le faccio un esempio. Quando noi vendiamo a imprese del Nord Europa o della Svizzera, queste non ritirano il prodotto se non dimostriamo che lavoriamo in regola e sono disposte a pagarlo per questo un po’ di più. Per me, quindi, il bollino di qualità è un biglietto da visita sull’estero. Da noi, invece, la grande distribuzione da una parte ha inviato una circolare ai fornitori invitandoli ad iscriversi alla Rete ma dall’altra continua ad acquistare il prodotto fresco a chi offre di meno. Insomma, se non c’è una domanda a monte, molti non hanno motivo di chiedere il bollino". Basterebbe allora che dicessero ai fornitori "se non hai il bollino, non ritiro la tua merce"?. "Certo, ma temo che perderebbero il 30% dei fornitori e dovrebbero pagare di più". Non resta che sperare nello schema di disegno di legge contro il caporalato approvato in Consiglio dei ministri il 13 novembre: 9 articoli che prevedono, tra l’altro, arresto in flagranza di reato, confisca dei beni e rafforzamento dei compiti di monitoraggio della Rete. L’adesione alla stessa, però, precisa la relazione al ddl, resta "meramente facoltativa". Migranti succubi dei caporali, ma la Rete del ministero non decolla di Antonio Sciotto Il Manifesto, 15 dicembre 2015 Agricoltura. "Bollinata" solo un’impresa su mille, non si denuncia per paura. Studio Cittalia-Cgil per potenziare le tutele. "Più collocamento pubblico e sanzionare anche gli imprenditori". Dopo le morti dell’estate scorsa nei campi pugliesi - con relativa copertura mediatica - il dibattito sul caporalato sembra essersi affievolito, ma il fenomeno è ancora lontano da una soluzione: la recente riforma legislativa, che ha istituito la Rete del lavoro di qualità, non ha purtroppo dato grossi frutti. Alla rete - dati Inps al 3 dicembre scorso - hanno aderito solo 207 aziende su 669 che ne hanno fatto richiesta, su un bacino potenziale di circa 200 mila imprese: solo una su mille, insomma, è oggi "certificata". Del tema si è parlato ieri alla Cgil, in occasione dello studio Agree - condotto comparativamente in Italia, Spagna e Romania - da Cittalia dell’Anci e dalla Fondazione Di Vittorio, con il supporto della Commissione europea. Lo studio ha messo in evidenza, attraverso interviste realizzate nei campi grazie anche al supporto dei sindacati, come nei tre paesi siano perpetrati - soprattutto nelle piccole e medie imprese a gestione familiari -abusi e vessazioni che in alcuni casi (soprattutto nella stessa Romania) assumono il carattere della schiavitù o della semi-schiavitù. Con lavoratori costretti, anche con la violenza fisica e l’intimidazione, a restare nel campo e negli alloggi forniti dai caporali, isolati da tutto. Ovviamente sono situazioni estreme, ma più in generale si è ravvisato che dove si lavora per mezzo di caporali e in condizione irregolare o in nero, il bracciante vive in costante dipendenza dal datore di lavoro: per l’assenza del permesso di soggiorno, perché vengono forniti a lui, e alla sua famiglia, alloggio, vitto, mezzi di trasporto. Una sudditanza che diventa servitù, e che impedisce a chi subisce gli abusi di denunciare e di rivendicare diritti. La responsabilità - come ha spiegato Albin Dearing, dell’Agenzia per i diritti fondamentali della Ue - può anche essere imputata al pubblico, tutte le volte che non conduce ispezioni e controlli, che non vara leggi per sanzionare chi delinque e per incentivare le denunce: quando insomma, indirettamente, dissuade il lavoratore dal presentarsi davanti a una forza di polizia, perché si diffonde una impressione di "impunità". Naturalmente è importante anche informare: i lavoratori dei propri diritti, innanzitutto. Stefania Crogi, segretaria generale della Flai Cgil, ha spiegato come il sindacato si stia impegnando già da tempo a creare punti informativi nei paesi di partenza, dalla Tunisia, al Senegal, alla Romania. Poi si devono informare i consumatori: in Scandinavia, ad esempio, sono molto attenti alla filiera "pulita" che sta dietro a un prodotto. Meno scontato che questo accada in Italia, dove - sicuramente anche a causa di un reddito generalmente più basso - l’acquirente si indirizza sempre e comunque verso il prodotto a più basso costo. Lo rendeva bene ieri Giorgio Mercuri, presidente di Fedagri-Confcooperative, e che è a capo di una cooperativa agricola del foggiano tra le 207 "bollinate" dalle Rete del ministero: al Corriere della sera ha spiegato che mentre le imprese del Nord Europa e della Svizzera sono disposte a pagare un po’ di più per un prodotto "pulito", quelle italiane si muovono ancora sul massimo ribasso. Agree ha stilato dunque le condizioni "universali" dello sfruttamento sul lavoro nei campi: 1) salario di oltre il 50% inferiore a quello dei contratti; 2) giornate lavorative molto lunghe e protratte arbitrariamente; 3) periodi di riposo inesistenti o inadeguati; 4) condizioni di vita precarie e alloggi palesemente inabitabili. Marco Cilento, della Ces, ha osservato che la situazione rischia di aggravarsi con le ultime ondate migratorie: i sindacati europei in un prossimo vertice a Zagabria chiederanno un Piano straordinario di accoglienza, che superi le rigidità delle normative sull’asilo. In Italia, ha spiegato Paolo Pennesi, direttore generale dell’Ispettorato del Lavoro, "la difficoltà è quella di coordinare le ispezioni, oggi frammentate, e ci si dovrebbe riuscire con l’Agenzia prevista dal Jobs Act". Nel settore agricolo si svolgono tra le 10 e le 11 mila ispezioni l’anno, sulle 240 mila totali: e nel 2014 si è visto che il lavoro nero incide in agricoltura il 20% in più rispetto agli altri settori. Pennesi ha aggiunto di non credere in alcune soluzioni richieste dal sindacato, come quelle di potenziare il trasporto pubblico locale o il collocamento alternativo. Gli ha risposto Crogi, spiegando che invece "il collocamento pubblico - incrociando il lavoro di Inps, sindacati e imprese nei comitati locali - sarebbe prezioso, così come reti di trasporto alternative a quelle dei caporali". Flai e Cgil chiedono al governo di completare la riforma legislativa, estendendo alle imprese le sanzioni dei caporali, e sostenendo i lavoratori che denunciano, concedendo il permesso di soggiorno. "Servono più controlli, e un vero coordinamento Ue", ha concluso Fulvio Fammoni, presidente della Fondazione Di Vittorio. Libia, la pace può attendere di Giuseppe Acconcia Il Manifesto, 15 dicembre 2015 Si è chiusa domenica a Roma la conferenza sulla Libia. Una conferenza che dovrebbe iniziare la pacificazione della Libia, che però alla luce del giorno dopo appare tutt’altro che iniziata. Ieri si contano infatti almeno 9 morti e 35 feriti in violenti combattimenti scoppiati al mattino davanti all’ospedale di Tagiura, a est di Tripoli, tra due fazioni diverse della coalizione di miliziani già nota come Alba libica. La tv al Arabiya aggiunge al resoconto di devastazioni di case, anche l’incendio del carcere locale e la conseguente evasione di massa dei detenuti. L’agenzia di stampa Lana, vicina al governo riconosciuto internazionalmente di Tobruk, afferma che proprio domenica, mentre a Roma, alla Farnesina, si riunivano sul futuro della Libia, il Segretario di Stato Usa, John Kerry, rappresentati di 17 paesi, Onu, Unione africana e Lega araba, oltre a 15 rappresentati delle fazioni di Tripoli e Tobruk, a Sirte, capitale del califfato libico, venivano giustiziate due persone: un libico, accusato di spionaggio, e una donna araba accusata di stregoneria. La notizia è stata smentita da Sirte ma confermata invece dal portale Alwasat secondo cui la "strega" giustiziata sulla piazza principale si chiamava Abeer ed era marocchina, mentre l’uomo, un palestinese di nome Walid Anwar Ibrahim, sarebbe stato ucciso per aver taglieggiato gli abitanti nel nome di Daesh senza autorizzazione. Fonti attendibili o prove, non ce ne sono. E la "stregoneria" non esiste come reato neanche in Arabia Saudita ma altri reati di eresia e offesa alla religione islamica in una versione letterale della sharia possono essere utilizzati per punire pratiche mediche considerate non lecite o semplicemente una conservazione non ortodossa del Corano. Le due sentenze di morte a Sirte possono poi essere lette come una risposta diretta agli annunci della Farnesina, dove Kerry, insieme al ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, e all’inviato Onu, Martin Kobler, hanno promesso che entro 40 giorni si formerà un governo di unità nazionale con sede a Tripoli. L’intesa prevede il cessate il fuoco immediato e l’apertura di corridoi umanitari, soprattutto verso Bengasi (Washington ha già promesso 330 milioni di dollari di primi aiuti). La sigla dell’accordo finale dovrebbe tenersi mercoledì a Skhirat in Marocco dove era stata raggiunta la prima intesa, annunciata dall’allora inviato Onu, Bernardino Leon, ora pagato profumatamente negli Emirati arabi uniti, finanziatori di Tobruk e quindi favoriti nel negoziato. La scorsa settimana a Tunisi era stata annunciata un’altra intesa last minute con la mediazione della Nato, poi subito smentita da Tripoli. Tripoli, appoggiata dal Qatar e dalle milizie di Misurata, vuole rappresentare l’islamismo politico e moderato libico. Insieme a questo, un’alternativa politica, fiorita dopo gli attacchi della Nato del marzo 2011. Ma in realtà la Fratellanza musulmana libica né ha vinto le elezioni del 2012 né ha tagliato tutti i suoi legami con l’estremismo islamico. Tobruk, appoggiata dal Cairo e dalla milizia di Zintan, vorrebbe rappresentare, sul modello egiziano, insieme il ritorno del vecchio regime di Gheddafi e le aspirazioni democratiche del 2011. Ma non è né l’una né l’altra cosa: Haftar non è il continuatore di Gheddafi e le leggi per riabilitare i gheddafiani vengono usate soprattutto per propaganda politica. Che i post-gheddafiani non si sentano rappresentati da Tobruk lo dimostra il fatto che a Sirte e Derna preferiscano ingrossare le fila dell’Isis piuttosto che dare credito ad Haftar. Ieri dal Cairo, dove vive, Ahmed Gaddaf Addam, cugino di Muammar Gheddafi e responsabile politico del Fronte nazionale di lotta, in una lettera indirizzata a Matteo Renzi, cerca di accreditarsi a sua volta come nuovo leader gheddafiano, mentre il figlio del Colonnello, Hannibal, viene colpito da un mandato d’arresto in Libano per aver nascosto l’imam sciita Moussa al-Sadr. Un accordo che crei un terzo governo o un governo fantoccio, favorirebbe un intervento internazionale sotto egida Onu o Nato con lo scopo di limitare l’avanzata dello Stato islamico in Libia, rafforzato dai nuovi arrivi dalla Siria, e già colpito dai raid aerei francesi e statunitensi. Il Cairo ci aveva già provato usando il pretesto dello stop ai flussi migratori. Ora torna alla carica il ministro della Difesa francese, Jean-Yves Le Drian, per il quale si tratta di far presto perché "l’Isis avanza verso i pozzi di petrolio libici". Tutti sembrano pronti ad intervenire in Libia, per un motivo o per l’altro. E Roma riesce solo a chiedere una maratona diplomatica in vista di una conferenza internazionale di cui non si intravede la consistenza reale. Renzi del resto ha preferito il palcoscenico della Leopolda a quello della Farnesina con Kerry, lasciando solo Gentiloni. Turchia: Ankara non ferma la guerra contro i kurdi di Chiara Cruciati Il Manifesto, 15 dicembre 2015 Due morti a Diyarbakir, cinque a Madin. Il sud del paese scende in piazza contro due settimane di coprifuoco che stanno affamando la popolazione. Fuori, ancora tensioni tra Mosca e Ankara: spari di avvertimento da una nave russa ad un’imbarcazione turca. Due morti a Diyarbakir: è il bilancio della violenta repressione della polizia turca contro i 5mila manifestanti scesi in piazza nella "capitale" kurda per protestare contro i coprifuoco imposti da Ankara nelle ultime due settimane. Dal 2 dicembre il pugno di ferro turco sta strangolando le città kurde del sud-est: a Diyarbakir (Amed in kurdo) è stato indetto nel quartiere di Sur dopo l’omicidio di Tahir Elci, presidente dell’Ordine degli Avvocati e noto attivista politico. La città - come le altre comunità target nel Kurdistan turco - è blindata, la vita si è interrotta: scuole chiuse, immondizia lungo le strade, autobus fermi, negozi sbarrati, ospedali in stato di emergenza. Nei villaggi a sud, lungo il confine con la Siria, la gente si mette in fila fuori dalle panetterie e dai supermercati, nelle "ore d’aria" per procurarsi il cibo nel timore di ulteriori chiusure. "A Cizre e Silopi gli insegnanti sono stati costretti a lasciare le città, i dormitori degli studenti sono stati evacuati ed è stata dispiegata l’artiglieria pesante - dice un’attivista locale al manifesto - Sono il chiaro segno della pianificazione di un grande massacro". Le proteste sono esplose ieri: una lunga marcia ha preso il via da diversi quartieri di Diyarbakir, diretta verso quello di Sur. Migliaia di persone a braccetto, una catena umana a cui hanno partecipato membri del partito di sinistra Hdp: l’obiettivo era riuscire ad entrare nel quartiere epicentro degli scontri e della repressione. La polizia ha subito sparato sulla folla lacrimogeni e cannoni ad acqua e arrestato almeno 40 persone. Giovani con il volto coperto hanno risposto lanciando pietre contro i blindati, innalzando barricate e appiccando il fuoco a copertoni. Due i morti, 21 e 25 anni: secondo testimoni sono stati colpiti alla testa dalle pallottole della polizia. Nei social network rimbalzavano ieri le immagini dei due corpi a terra, le teste coperte di sangue. Nelle stesse ore a Mardin, altra area sotto coprifuoco, cinque sospetti membri del Pkk sono stati uccisi, apparentemente in scontri con i militari. Da metà agosto, secondo la Fondazione per i Diritti Umani, sono stati imposti 52 coprifuoco in 7 province del paese, casa a 1,3 milioni di persone. I civili pagano un prezzo altissimo. Come a Silvan, 80 km a nord est di Diyarbakir: missili sulla comunità a metà novembre hanno ucciso due civili, mentre un coprifuoco lungo settimane ha affamato la popolazione. Una violenza tale da portare il deputato dell’Hdp, Ziya Pir, a lanciare l’allarme: "Tre quartieri di Silvan rischiano di scomparire dalle mappe". Situazione simile a Diyarbakir dove intere famiglie, a causa degli attacchi delle forze militari, stanno lasciando la città, portandosi dietro quel che possono: "Non possiamo uscire di casa per via degli scontri. Non abbiamo più acqua e cibo e le nostre case sono state danneggiate", racconta un residente del quartiere Sur all’agenzia Dogan News. Le immagini raccontano una guerra: edifici danneggiati, segni di proiettili nei muri, macerie per le strade, moschee date alle fiamme. La giustificazione del governo è la sicurezza: distruggere il movimento indipendentista Pkk. Ma per i kurdi turchi la repressione ha il sapore di una punizione collettiva, perpetrata contro la mobilitazione popolare e le vittorie politiche dell’Hdp. Violenza dentro, tensioni fuori. L’altra faccia della medaglia turca la si vede fuori dai confini. Facendosi scudo con la Nato, di cui è pedina, Ankara aggredisce. Soprattutto se di fronte ha la Russia, che non esita ad usare una strategia punitiva da guerra fredda. Domenica l’ennesimo screzio: una nave da guerra russa ha lanciato colpi di avvertimento contro un’imbarcazione da pesca turca nel mar Egeo. Secondo il Ministero della Difesa di Mosca, la nave turca era così vicina da rischiare una collisione. Un evento di scarsa importanza, se non avvenisse in un periodo in cui i rapporti tra Ankara e Mosca toccano i minimi termini. "La nostra pazienza ha un limite, la Turchia vuole superare le tensioni ma la Russia usa ogni opportunità per colpirci", ha detto il ministro degli Esteri turco Cavusoglu accusando la controparte di reazione esagerata. Mosca risponde cancellando il meeting al Cremlino, previsto per oggi, tra Putin e Erdogan. A monte sta la aggressività turca in Medio Oriente: nel disperato tentativo di ritagliarsi un posto al tavolo globale che ridefinirà zone di influenza e futuro della regione, Erdogan usa la forza. Come in Iraq, dove ha inviato 150 soldati e 30 carri armati facendo infuriare Baghdad e rischiando di accendere la reazione delle milizie sciite. Ieri Ankara ha ritirato una decina di tank dispiegati nella base di Bashiqa, 20 km da Mosul, per raffreddare gli animi iracheni. Ma a Baghdad non basta e insiste: tutti fuori. Stati Uniti: nel 2015 negli la polizia ha ucciso almeno 1.077 persone Internazionale, 15 dicembre 2015 Nicholas Robertson, un nero di 28 anni, è una delle 1.077 persone uccise dalla polizia statunitense dall’inizio del 2015. Di queste 1.077 persone, 207 erano disarmate e 18 erano minorenni. Il 12 dicembre Nicholas Robertson, un nero di 28 anni, è stato ucciso da due agenti di polizia a Lynwood una città vicina a Los Angeles. Robertson era armato e secondo i testimoni si stava comportando in modo strano; la madre ha riferito che fosse ubriaco. I poliziotti intervenuti per evitare che Robertson ferisse qualcuno gli hanno sparato dopo che l’uomo non ha lasciato la sua arma come richiesto. Robertson è una delle 1.077 persone uccise dalla polizia statunitense dall’inizio del 2015. Di queste 1.077 persone, 207 erano disarmate e 18 erano minorenni. Sono i dati raccolti dal quotidiano britannico The Guardian, che sta tenendo il conto dall’inizio dell’anno e raccoglie i dati in un progetto di data journalism: The Counted. Il progetto unisce le informazioni pubblicate sulla stampa e le segnalazioni dei lettori, perché il governo statunitense non tiene un registro complessivo delle morti dovute alle azioni delle forze dell’ordine. Nel conteggio rientrano diversi tipi di episodi: la maggior parte delle morti considerate sono state dovute a ferite da arma da fuoco, ma non mancano i casi di persone uccise dopo essere state colpite con un taser, quelli di persone investite da auto della polizia o morte in custodia. The Guardian ha pensato di cominciare questa raccolta di dati dopo l’omicidio di Michael Brown a Ferguson, in Missouri, il 9 agosto del 2014: Brown, un ragazzo nero, aveva 18 anni ed era disarmato. Le cinque città dove la polizia ha ucciso più persone nel 2015. Los Angeles. Venti persone sono state uccise dalle forze dell’ordine; se si considera tutta la California, si sale a 196. Houston. Nel capoluogo texano i morti sono stati 16. Dopo la California, il Texas è lo stato in cui la polizia ha ucciso il maggior numero di persone: 106. Indianapolis. Si scende a 10 morti e sono solo 21 in tutto lo stato dell’Indiana. Phoenix. Delle 42 persone uccise dalla polizia in Arizona (quarto stato per numero assoluto), nove sono morte nel capoluogo. Las Vegas. Anche nella più grande città del Nevada i morti per mano di poliziotti sono nove. Il conteggio sale a 16 se si considera tutto lo stato. In proporzione al numero di abitanti, i cinque stati in cui la polizia ha ucciso più persone sono: Oklahoma, New Mexico, Wyoming, District of Columbia, Alaska. Cina: giustizia e ragion di Stato di Guido Santevecchi Corriere della Sera, 15 dicembre 2015 In Cina vige lo "Stato di Diritto". Lo ha stabilito a ottobre del 2014 il Plenum del Comitato centrale in una riunione a porte chiuse. E siccome ormai parte del dibattito interno al Partito è tradotta in inglese, la Xinhua annunciò l’avvento del "rule of law", l’espressione radicata nella democrazia britannica. Ma è solo una traduzione suggestiva: "Sia chiaro che il "rule of law" non può essere in conflitto con la guida del Partito", spiegava l’agenzia. Quindi, il sistema giudiziario in Cina resta soggetto all’interesse supremo del Partito-Stato. E questo interesse prevede che la confessione piena dell’imputato sia la prova regina (ottenuta spesso con la tortura). E che il dissenso e la critica al sistema siano puniti. Quest’anno sono stati arrestati almeno 77 avvocati dei diritti civili; sono finite in carcere femministe; giornalisti e sindacalisti. E poi c’è la grande offensiva contro la corruzione, condotta con sistemi da santa inquisizione. Uno Stato di Diritto con caratteristiche molto cinesi. Tunisia: sei studenti condannati a tre anni di carcere per "atti omosessuali" Nova, 15 dicembre 2015 Un tribunale del governatorato tunisino di Kairouan ha condannato a tre anni di carcere sei studenti tra i 18 e i 19 anni per "atti omosessuali". I giudici hanno altresì imposto ai giovani il divieto di ingresso nel territorio di Kairouan, 60 km ad ovest dalle località turistiche di Susa e Monastir, per cinque anni. La sentenza di primo grado risale al 10 dicembre scorso, ma lo ha reso noto oggi l’associazione "Shams" per la difesa dei diritti della comunità Lgbt. Il giudizio di appello dovrebbe iniziare intorno al 20 dicembre. Commentando la sentenza, il portavoce del ministero dell’Interno, Walid Louguini, ha spiegato che il governo si limita ad applicare la legge: se queste la legge è ingiusta spetta al parlamento cambiarla. Il reato di omosessualità è previsto dall’articolo 230 del codice penale e prevede fino a tre anni di reclusione. Secondo "Shams", l’articolo sarebbe in contrasto con i principi della nuova Costituzione tunisina del 2014.