A Filippo Ristretti Orizzonti, 14 dicembre 2015 Noi di AltraCittà e di Ristretti Orizzonti dedichiamo questi giorni prenatalizi a Filippo. Il "nostro" Filippo, che l’altro ieri a Bologna è morto sotto un treno, non sappiamo se volontariamente o per un malore. Il nostro viaggio con lui è stato lungo, denso di momenti buoni e di momenti difficili, e si è interrotto circa un anno fa, quando ha scelto di far perdere le proprie tracce e di rientrare nel mondo della strada, dei senza fissa dimora. Un mondo che dichiarava essere una delle opzioni sempre aperte per lui, una delle scelte consapevoli possibili. Redattore di Ristretti Orizzonti, sempre lucido e originale nei pensieri, a volte caustico, scevro da ipocrisie o interventi di facciata, è stato per anni nel progetto "Scuola-Carcere" un testimone prezioso, per certi versi unico, per i ragazzi per la lucidità con cui descriveva il disastro che aveva prodotto in lui l’uso di sostanze, disastro emotivo, fisico, familiare, affettivo. Con la cooperativa AltraCittà Filippo ha lavorato per un anno con una borsa lavoro presso l’Archivio Generale del Comune di Padova. Anche in Archivio erano emerse le spigolosità del suo carattere, la sua fatica a misurarsi con il mondo "normale", ma anche la sua simpatia, l’originalità del suo pensiero, la sua energia nel lavorare. Anche in Archivio avevano imparato a volergli bene, e ad aiutarlo nel suo difficile cammino. Di sé diceva di essere un caso disperato, a volte sorridendone in modo sornione. Prima Ristretti e poi anche noi abbiamo scommesso su di lui, e non ci pentiamo di averlo fatto, anche se la storia non ha un lieto fine. Sappiamo che non può sempre esserci e che comunque ne valeva la pena. Come sappiamo che molte persone adesso stanno piangendo per lui, per il nostro Filippo. Redazione di Ristretti Orizzonti e Cooperativa AltraCittà Cibo per l’anima Il Mattino di Padova, 14 dicembre 2015 Succede spesso che nelle carceri si introducano, in nome della sicurezza, nuove proibizioni, e c’è sempre un motivo per farlo. Ogni carcere poi ha le sue regole, spesso in un istituto si può ricevere dai propri famigliari del cibo, che in altri istituti è proibito. E le famiglie, quando vanno a trovare il loro caro, devono fare un percorso a ostacoli per riuscire anche solo a capire che cosa gli si può far arrivare e che cosa no. Noi vogliamo solo fare una piccola richiesta: il cibo che arriva da casa è prezioso più per l’anima che per il corpo, è un modo per vivere un po’ con l’illusione di avere la propria famiglia vicina, perché allora nelle carceri non ci si ferma un attimo a riflettere se davvero tutte quelle proibizioni, che continuano ad aumentare e a diventare più complicate, sono necessarie per responsabilizzare le persone detenute? o non sarebbe forse meglio rinunciare a tante proibizioni poco significative e riconoscere che un carcere più umano è sicuramente un carcere più sicuro? Dadini sì, merendine e patatine no perché proibite Capisco che il titolo faccia sorridere, ma non ha niente a che vedere con le merendine o le patatine che i bambini si portano a scuola per la ricreazione, bensì riguarda i generi alimentari che i detenuti della Casa di reclusione di Padova non possono più ricevere, tramite i propri famigliari (per pacco postale o portati a mano il giorno delle visite). Ho trascorso diversi anni in varie carceri d’Italia e sempre lontano dal luogo di residenza, e sono rimasto per tantissimo tempo senza fare colloquio con i miei famigliari a causa dei km che dovevano affrontare. In quegli anni di detenzione i miei famigliari mi sono sempre stati vicini, e anche se non li potevo vedere, mi inviavano sempre i pacchi tramite la posta. Con quei pacchi ricevevo anche generi alimentari che duravano per diversi giorni: salami, pezzi di parmigiano, grana, asiago stravecchio e altri tipi di formaggio, pezzi di pancetta affumicata e pezzi di speck e qualche mezza soppressa veneta. Attualmente sono cinque anni che mi trovo nella Casa di reclusione di Padova, detenuto a pochi km dalla casa dove sono nato, e ogni quindici giorni, per bontà di mia sorella, riesco a vedere anche la mia anziana madre tramite il cosiddetto colloquio familiare. Ovviamente telefono a mia sorella ogni settimana, e quando mi dice "vedi che il tal giorno vengo a trovarti con la mamma, dimmi cosa vuoi da mangiare che glielo riferisco", io le rispondo sempre che non ho esigenze e che mangio quello che loro desiderano preparare. Per mia madre, mi spiega mia sorella, il giorno in cui lei andrà a prenderla per portarla in carcere per farmi visita, è il giorno speciale perché, per ogni colloquio, prepara sempre cose diverse da mangiare. Malgrado le sue patologie e l’età avanzata, continua a far da mangiare con la stufa a legna e quando sa il giorno che deve venire al colloquio, alle quattro del mattino è già in piedi, ad accendere la stufa per prepararmi da mangiare, mettendoci anima e cuore. Al colloquio ci raccontiamo quasi sempre le solite cose, ma nei primi minuti mi dice cosa mi ha portato da mangiare nel pacco e mi ricorda sempre: vedi che ti abbiamo messo un pezzo di parmigiano, un pezzo di grana, un pezzo di asiago stravecchio, c’è anche un pezzo di pecorino, dovrebbero bastarti fino alla prossima volta che verremo. Già in questo momento sto pensando a domani mattina, quando si presenterà mia sorella con la mia anziana madre all’entrata del carcere, e l’agente addetto ai controlli forse le dirà: signora, i pezzi di formaggio non entrano più, il formaggio deve essere a cubetti o dadini e in confezioni trasparenti e sigillate e proveniente dal supermercato, e i salumi devono essere affettati e nelle dovute vaschette sempre sigillate provenienti sempre dal supermercato. Mi auguro di tutto cuore che la mia anziana madre riesca a capire che c’è una specie di nuova circolare sui generi alimentari, e mi auguro che il cibo preparato con tanta cura, anima e cuore, non glielo diano indietro. Spero che non si senta male, già deve subire le intemperie delle stagioni per l’attesa del turno per poter entrare in carcere, ma apprendere che tutto quello che per diversi anni mi portava al colloquio potrebbe non poterlo più portare è davvero troppo. In questa "circolare" c’è scritto anche che merendine e patatine non possono più entrare in carcere. Sono sulla soglia dei cinquant’anni, sono nato in campagna, figlio di contadini, cresciuto mangiando cibi genuini e pezzi di formaggio e vari tipi di insaccati. A oggi sono più di ventun anni di carcere fatto, e mi ricordo quando ero detenuto per i processi nelle diverse carceri venete, i miei famigliari al colloquio mi portavano galline, faraone, conigli, costate con l’osso alla brace e pesce, ma con il passare degli anni e con queste benedette circolari non si può più gustare i sapori dei vari cibi dei luoghi dove siamo nati. Non penso che queste nuove circolari facciano parte del giusto percorso rieducativo per il corretto reinserimento nella società, anzi, già siamo privati della libertà, ma perché questa cattiveria di privarci anche delle nostre tradizioni e obbligarci ai cubetti o dadini di formaggio? Angelo Meneghetti Per un detenuto spesso è gioia pura mangiare una fetta di torta che arriva da casa Questo ozio forzato mi annebbia il cervello, credo che questo dipenda dai posti dove limitano ogni cosa che ti portano a essere meno dinamico fino a sembrare un vegetale. La cosa che più mi impressiona del carcere sono le restrizioni, limitazioni, abusi e vessazioni che non hanno senso. (Diario di un ergastolano: www.carmelomusumeci.com) Alle restrizioni del carcere ci si fa l’abitudine, ma quelle inflitte per mancanza di cuore sono le più difficili da mandare giù. Per un detenuto che non ha niente per essere felice spesso è gioia pura anche un piccolo gesto di normalità come quello di mangiare una fetta di torta che ti porta da casa un tuo familiare. In carcere, "le circolari ministeriali" e "gli ordini di servizio interni" si accumulano, si accavallano, qualche volta si negano a vicenda e rendono poco comprensibile qualunque decisione. Per non parlare del fatto che quello che è permesso in un carcere è proibito in un altro. E basta che nello stesso istituto ci sia un cambio di dirigenza, o di responsabili della sicurezza, che ti ritrovi all’improvviso con restrizioni nuove, spesso umilianti da accettare, che ti impediscono di mantenere la tua individualità di essere cosciente e responsabile. Quello che fa più male è che spesso certe restrizioni "cattive" e un po’ repressive vengano fatte in nome della sicurezza dell’istituto. Basta che in un carcere venga trovato un telefonino, uno spinello o un po’ di grappa fatta in casa (scusate in cella) con della frutta macerata, che tutte le persone detenute vengono punite e con loro tutti i loro famigliari. In carcere non è come nella società libera, che la responsabilità è personale, e accade invece che se un singolo detenuto sbaglia per rappresaglia ne vengono puniti cento. In questo modo all’improvviso ti proibiscono di fare entrare in carcere accappatoi perché di colore bianco, formaggi se non a dadini, salumi se non affettati, lacci della tuta se troppo lunghi, berretti di lana se rigidi. Mi fermo qui per solidarietà agli agenti che nelle galere sono costretti a fare rispettare ordini così complicati. In tutti i casi delle nuove restrizioni che ci riguardano da vicino, qui nel carcere di Padova, vorremmo ci spiegassero il senso, visto che non mi sembra siano motivabili con ragioni di sicurezza (esistono nell’istituto efficienti strumenti di controllo tecnologici), ma piuttosto con una logica punitiva. Io penso che il carcere non dovrebbe essere solo un luogo di punizione, ma dovrebbe essere anche una occasione di recupero. E dovrebbe rieducare ed aiutare chi ha sbagliato a reinserirsi nella società, ma non è possibile farlo se ci trattano come deficienti e non ci responsabilizzano. In carcere in Svezia ai detenuti danno persino le chiavi delle loro celle. Forse anche per questo in quel Paese le carceri sono vuote e sono costretti a chiuderle. Penso che in carcere non ci sarà mai sicurezza costruttiva fin quando non si tenterà di favorire la responsabilizzazione dei detenuti nella quotidianità detentiva. Carmelo Musumeci Papa Francesco saluta i carcerati di Padova che ieri gli hanno dedicato un concerto di Alberto Gottardo padova24ore.it, 14 dicembre 2015 È arrivata una carezza sui visi scavati di rapinatori, assassini stupratori. Visi induriti, che avrebbero fatto la felicità di Cesare Lombroso. La carezza li ha inteneriti, alcuni sono stati solcati da lacrime di commozione: un piccolo miracolo del papa Francesco, che nel primo angelus dall’apertura della porta Santa per il Giubileo della misericordia, ha salutato tutti i carcerati ed in particolare quelli di Padova. I reclusi del Due Palazzi hanno idealmente "regalato" al Papa un concerto, tenutosi oggi nella struttura di reclusione. Ho visto alcuni di questi uomini commuoversi sentendo un brivido quando il Santo Padre li ha nominati collettivamente. E mi sono commosso un po’ anch’io che ho avuto una vita che non mi ha portato a finire degli anni dietro alle sbarre, a pensare che in una città come Padova può capitare una grande fortuna. Quella di avere una orchestra di ragazzi, i "Polli(ci)ni" che sceglie di accettare l’invito a suonare in carcere. Un’altra fortuna è sicuramente quella di avere avuto un uomo della provvidenza come Nicola Boscoletto che 25 anni fa con un gruppo di sognatori ha messo in piedi un’opera che dà da lavorare in carcere, recuperandoli attraverso il lavoro, a centinaia di persone. Uomini che entrano tra le mura del Due Palazzi perché si sono macchiati di crimini pesanti, ma che escono con una possibilità di redenzione sociale ed umana grazie al mestiere che apprendono. Sulla strada di Nicola Boscoletto la Provvidenza ha messo una persona per bene come Salvatore Pirruccio, ora sostituito da Ottavio Casarano, persona con cui ho avuto modo di scambiare un paio di parole oggi e che mi ha fatto una ottima impressione: forse a Padova continueremo ad essere fortunati ed ad avere un altro operatore di bene in una amministrazione, quella carceraria, delicatissima. In tempi in cui si inneggia alla giustizia fai da te, allo sparare ai ladri, si rischia di passare per buonisti se non si inneggia al "buttare via la chiave" ed alle "pene esemplari". Io continuo a credere che la pena esemplare è quella che dà all’uomo che ha sbagliato una seconda possibilità. Che rende possibile il perdono, e per chi crede, la misericordia appunto, che è la compassione per la miseria altrui. Ed allora io mi sono immedesimato nell’uomo dai capelli bianchi che piangeva di fianco a me. Ed una lacrima è scesa anche sul mio viso. La musica ci ha commossi entrambi: una musica bellissima quella che i ragazzini padovani dell’orchestra del Pollini sanno suonare con una capacità di coinvolgimento profonda. Si divertono i ragazzi, si vede e si sente. E suonano addirittura senza maestro. Il concerto è stato trasmesso in diretta da Sat 2000. Spero che lo replichino così magari lo potranno vedere anche quelli che ciclicamente inneggiano alla pena di morte, alla castrazione chimica, alla giustizia sommaria. Nessuno di quelli che ho visto in queste settimane parlare del presepe ed agitare il Gesù bambino come se fosse una clava, come scriveva tempo fa su un bell’editoriale un mio amico, nessuno di questi così pubblicamente cristiani cattolici, era in carcere questa mattina. Avrebbe fatto bene anche a loro vedere un vecchio galeotto commuoversi ascoltando un brano di Morricone eseguito da una ragazzina con un clarinetto che trafiggeva il cuore. Provo misericordia per i cuori induriti dall’odio. E spero che il Papa Francesco, che ha mandato una carezza ai carcerati di Padova, ne provi anche per me che ero con loro a commuovermi per una pagina bellissima della città del Santo. Qui di seguito il comunicato stampa di Officina Giotto. "In tutte le cattedrali del mondo, vengono aperte le Porte Sante, perché il Giubileo della Misericordia possa essere vissuto pienamente nelle Chiese particolari. Auspico che questo momento forte stimoli tanti a farsi strumento della tenerezza di Dio. Come espressione delle opere di misericordia, vengono aperte anche le "Porte della Misericordia" nei luoghi di disagio e di emarginazione. A questo proposito, saluto i detenuti delle carceri di tutto il mondo, specialmente quelli del carcere di Padova, che oggi sono uniti a noi spiritualmente in questo momento per pregare, e li ringrazio per il dono del concerto". È papa Francesco a parlare, all’Angelus di sabato domenica 13 dicembre, mentre all’applauso fragoroso di piazza san Pietro ne risponde uno non meno commosso in diretta dalla casa di reclusione Due Palazzi di Padova. Qui oltre centocinquanta detenuti, operatori e volontari della casa di reclusione stanno seguendo la preghiera del papa. Il laboratorio che normalmente accoglie il magazzino del laboratorio di biciclette è diventato una sala da concerto, ma anche uno studio televisivo, perché Tv2000 sta riprendendo l’evento in diretta. C’è anche la Rai - per la precisione Rainews24, Rai3 e Rai5 Cultura - con la giornalista Caterina Doglio che, da giorni presente nella casa di reclusione, sta girando lo speciale "Giubileo, l’altro sguardo" che andrà in onda il 3 gennaio. Tanti operatori e tanti cameraman per un evento senza precedenti: un concerto di un’orchestra di ragazzi, i Polli(ci)ni del Conservatorio Cesare Pollini di Padova, all’interno di un carcere. "Un concerto per ringraziare papa Francesco", spiega Nicola Boscoletto, presidente di Officina Giotto, che con la parrocchia del carcere ha organizzato l’evento, "di aver scelto di diventare la voce degli ultimi, quelli di cui non parla nessuno. Qui tra queste mura può capitare di vedere il più bello spettacolo a cui si possa assistere: gli occhi di persone cambiate. E ancora più belle sono le lacrime dei genitori per i figli che erano su una brutta strada e poi hanno cambiato vita". Dopo l’Angelus, introdotto dalla solenne "Pomp and circumstance" di Elgar, scorrono i brani di Bach, Massenet, Grieg, Morricone, Anderson e Warren, intervallati da brevi messaggi dei protagonisti. Dei detenuti, in primo luogo. "Diventando cristiano", è il racconto di Gaetano, "una frase mi colpiva durante il cammino di preparazione: "Laddove abbonda il peccato, la grazia di Dio sovrabbonda". È la storia di Paolo, è la storia di tanti di noi. Grazie, papa Francesco: che ti ricordi di noi, che ci ricordi che Dio ci sta aspettando. Grazie anche che ci chiedi di convertire le nostre storie: la misericordia di Dio è una faccenda seria, non una favola". "Siamo dei privilegiati", fa eco il cappellano del carcere don Marco Pozza, "a poter contemplare storie di "perduti" che, con la grazia di Dio e l’amore degli uomini, stanno rimettendosi in piedi. I vivi possono risorgere, non solo i morti". Nelle prime file ci sono i rappresentanti delle istituzioni e del mondo penitenziario. "I giorni in carcere possono essere giorni di dolore, di speranza, oppure di indifferenza. La peggiore tra queste è certamente l’indifferenza", dice il provveditore alle carceri del Triveneto Enrico Sbriglia, "oggi, grazie al concorso di tante persone è un giorno di speranza, un giorno che potremo ricordare a lungo". La conduttrice Eugenia Scotti chiama a intervenire anche i ragazzini dell’orchestra, soprattutto Alessandro, violinista che strappa il sorriso a tutta la platea per la freschezza delle sue risposte. Ad Alessandra e Giulio, i due piccoli dell’orchestra, due detenuti, Michele e Giuseppe, fanno il dono simbolico del panettone, che poi verrà regalato a tutti i ragazzi, ai docenti e ai genitori intervenuti. C’è anche tempo di darsi il prossimo appuntamento: domenica 27 dicembre il nuovo vescovo di Padova don Claudio Cipolla inaugurerà la "porta della misericordia" nella cappella del carcere di Padova. Un portale che assomiglia poco a quello di un santuario, ma la porta di sicurezza rossa di pesante metallo per l’occasione verrà ingentilita e rivestita con una riproduzione della porta giubilare della basilica di San Pietro. È il momento dei saluti finali. "Caro Papa Francesco, la tua vicinanza è per noi motivo di speranza, la tua attenzione ci fa sentire più vivi che mai", dice Guido, detenuto che lavora al call center della casa di reclusione, "ringraziamo Dio per il dono che sei per tutti noi carcerati e per tutte le persone del mondo. Grazie Papa Francesco. Un forte abbraccio. E ricordati che preghiamo per te". Lo stesso messaggio viene echeggiato in otto lingue diverse: anzitutto in spagnolo, la lingua del papa, poi in albanese, arabo, kossovaro, cinese, portoghese. Da ultimo Roberto, detenuto svizzero di lingua tedesca, lo ripropone con una significativa aggiunta dedicata al papa emerito Benedetto XVI. L’ultimo brano, un frizzante Chattanooga choo choo, viene accompagnato a ritmo dai battimani dei detenuti, che poi invocano a gran voce il bis. È Fiddle Faddle di Leroy Anderson, brano swingante che dà modo ai giovani percussionisti dell’orchestra di mettere in mostra tutta la strumentazione. Applausi scroscianti, ragazzini che escono applauditi tra due ali di folla. Ed è già ora di tornare: qualcuno a casa, qualcuno in cella. Varcando quelle porte che, proprio grazie all’iniziativa di papa Francesco, possono diventare altrettante porte della misericordia. A Microcosmo nel carcere di Verona per scrivere sulla paternità di Carla Chiappini Ristretti Orizzonti, 14 dicembre 2015 Scrivere sulla paternità, riflettere sulla paternità. Vicini, gomito a gomito, seduti intorno a un tavolo papà detenuti e papà liberi, donne libere accanto a una donna detenuta e ancora detenuti comuni e detenuti protetti. E non una sola volta ma per ben cinque consecutivi pomeriggi di sabato; scrivere nel silenzio e condividere nel totale rispetto. Questo è stato l’avvio del progetto "In nome del padre" che l’associazione "Verso Itaca - Onlus" sostenuta dalla Fondazione Cattolica e dalla società di consulenza Axing ha sperimentato nella casa circondariale di Verona, grazie alla disponibilità della Direttrice dell’Istituto di Montorio Maria Grazia Bregoli, alla fiducia della Garante Margherita Forestan e alla preziosa, irrinunciabile collaborazione con il gruppo "Microcosmo" attivo da ormai circa 20 anni. Paola Tacchella ed Erica Benedetti ci hanno ospitato nella stanza del loro Laboratorio Stabile Integrato e ci hanno introdotto in un contesto già molto affiatato e allenato. Non era facile. Dentro di me custodivo la consapevolezza delle difficoltà e la paura di poter fallire ma anche la speranza forte di trovare fecondità di scritture e ricchezza di riflessioni. Così è stato. Per tanti anni ho lavorato costruendo con parole detenute un ponte tra carcere e città e so molto bene che trovare l’alchimia giusta tra le mura è una questione complessa; anche collaborare è una faccenda complessa. E in prigione ancor di più. Con Paola ed Erica è stato un lento, ricco cammino fino a ieri, fino all’ultimo laboratorio sul tema delicato della verità. La verità - in tutte le sue implicazioni - è stata osservata, corteggiata ma anche contestata all’interno del gruppo. È stata raccontata, descritta sui fogli ma anche rivelata a voce, con pudore ed emozione. In cinque tappe abbiamo raccolto testimonianze tanto ricche da scuotermi in profondità. Come donna e mamma mi sono interrogata più e più volte su questo maschile sconosciuto, sulla tenerezza e la cura. Sulle figure paterne che sono mancate in queste storie e su quelle presenti spesso vissute come rigide e avare di affetto. All’inizio ero molto preoccupata dalla singolare composizione di questo gruppo ma con gioia, da subito ho visto una grande generosità nelle scritture di tutti noi. Nessuno si è arroccato; questa generosità ha trascinato e appassionato anche noi conduttrici tanto che abbiamo scritto e condiviso con tutti gli altri. Ora il progetto è pronto per traslocare in Emilia - Romagna supportato dalla qualità dell’esperienza vissuta e dalla maturata convinzione del suo potenziale di scambio, riflessione e confronto. In una rinnovata fiducia nella scrittura autobiografica come strumento di analisi, di riflessione e di consapevolezza; come possibilità di dare forma a pensieri e ricordi talvolta ancora confusi, nascosti o rimossi. Come traccia su cui costruire e ricostruire il nostro cammino. Sassolini bianchi, come dice Silvia Vegetti Finzi, che ci portano al cuore delle nostre vicende umane. Il carcere in queste scritture è rimasto spesso sullo sfondo mentre in primo piano avanzavano ricordi, emozioni, persone. Sono affiorati lievemente anche il bambino che ognuno è stato, che ancora vive nella propria interiorità così spesso inascoltata; in una piccola stanza di carcere i bambini di un tempo si sono affacciati, hanno dato voce ed emozione attraversando la dimensione adulta; finalmente hanno trovato accoglienza, con tenerezza, paure, sofferenze e richiesta di affettività. Legami, con i propri padri, con le madri, con mogli e figli, e anche alcuni nonni, legami anche quelli riscoperti col proprio sé, ci avvicinavano scavalcando lo stigma del reato e del carcere. Abbiamo sfondato il muro, lo sappiamo ma non ce lo siamo ancora detti. Profonda gratitudine verso tutti ma proprio tutti i partecipanti al gruppo, verso coloro che ci hanno permesso di osare qualcosa di nuovo, di tentare sentieri non ancora percorsi, verso le generose, affidabili compagne di viaggio e infine verso Antonio Zulato docente della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari che per un pomeriggio ha scritto insieme a noi. Diritti umani. Italia ancora a mani vuote: il reato di tortura sempre fuori dal codice di Alessandra Ballerini La Repubblica, 14 dicembre 2015 Il 10 dicembre è stata celebrata, abbastanza sommessamente visto l’attuale clima politico nel quale i diritti umani sono percepiti come un ostacolo alle scelte securitarie anziché come un baluardo della democrazia, la giornata mondiale dei Diritti Umani. Come sottolineano le grandi organizzazioni umanitarie (in primis Amnesty, Antigone e a Buon Diritto), ancora una volta l’Italia si presenta a questo anniversario a mani vuote: senza aver introdotto nel codice penale il reato di tortura e quindi senza ancora riconoscere - e punire quella che è una delle più gravi violazioni della dignità e dei diritti delle persone. Come peraltro ci ricorda la Corte Europea nella decisione Cestaro (il sessantenne massacrato dalle forze dell’ordine all’interno della scuola Diaz durante il G8) contro Italia, talvolta le nostre divise sono capaci di violare il divieto posto dall’art. 3 della convenzione dei diritti dell’uomo e di infliggere trattamenti inumani o degradanti che tuttavia possono restare impuniti grazie alla prescrizione. Ma nonostante appelli e campagne una legge che punisca la tortura in Italia non è ancora stata approvata. Eppure viene da chiedersi cosa possa esserci di più un urgente in uno Stato che si definisce di diritto, dove tuttavia nelle carceri, caserme, commissariati, hotspot, centri di primo soccorso e accoglienza per profughi e nei centri di identificazione ed espulsione per migranti irregolari, le persone vengono, sempre troppe volte, sottoposte a trattamenti inumani e degradanti, come testimoniato non solo dalle denunce delle singole vittime o dei loro parenti, ma anche dai rapporti delle associazioni e degli osservatori indipendenti, dalle interrogazioni parlamentari (è di mercoledì scorso l’interrogazione a firma di 23 europarlamentari per le gravi violazioni dei diritti umani commesse nell’hotspot di Lampedusa) e dalle indagini della procura (come quella di Roma che in queste ore finalmente rivela che: "nella notte tra il 15 ed il 16 ottobre 2009 Stefano Cucchi fu sottoposto a un violentissimo pestaggio da parte di carabinieri appartenenti al comando stazione di Roma Appia"). Che cosa stiamo aspettando? Cosa c’è di più urgente della tutela della dignità e dell’incolumità delle persone? Se lo chiedono anche i 117 medici che in data 22 ottobre scorso hanno provveduto ad inviare all’ordine dei medici genovese e nazionale nonché al ministro della salute una petizione per chiedere la radiazione dottori Toccafondi e Zaccardi in servizio presso la Caserma di Bolzaneto durante i fatti del G8. Ed infatti nonostante Zaccardi e Toccafondi si fossero resi responsabili in quelle indimenticabili giornate di luglio 2001 di gravi reati screditando (come si legge nella petizione) tutti i medici italiani e compromettendo la fiducia che fa riconoscere nel medico la figura capace di portare, con la cura del male fisico e psichico, consolazione e aiuto, l’ordine dei Medici di Genova, non ha ritenuto di radiare i due medici che invece continuano ad indossare il camice. La Zaccardi tra l’altro, come sottolineano i 117 medici firmatari della petizione, lo indossa nel suo ruolo di Dirigente Medico presso la Casa Circondariale di Genova Marassi, "paradossalmente operando con pazienti privati della libertà e inseriti in un sistema chiuso, situazione che, a nostro avviso, richiama proprio quella delle persone allora ristrette nella caserma di Bolzaneto, dove sono avvenuti i fatti per i quali è stata condannata". Queste parole suonano tanto più vere oggi dopo la notizia dell’indagine a carico della dottoressa per un pestaggio avvenuto all’interno appunto del carcere di Marassi. E allora sancire, con l’introduzione del reato di tortura, quel divieto imposto dall’art. 5 della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: "Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamenti o punizioni crudeli, disumani e degradanti" e richiedere la punizione per chi lo viola, è oggi, un’inderogabile dovere. Depenalizzazione: alla ricerca del reato perduto di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 14 dicembre 2015 In attuazione della delega per la "riforma della disciplina sanzionatoria", prevista dall’articolo 2 commi 2 e 3 della legge 67/2014, il Governo ha predisposto due schemi di decreti legislativi volti all’abrogazione e alla depenalizzazione di alcune fattispecie, al fine di deflazionare il sistema processuale penale. Iter avviato per la depenalizzazione. Questi due provvedimenti sono stati esaminati in fase "preliminare" nel Consiglio dei ministri del 13 novembre scorso. Le commissioni Giustizia di Camera e Senato il 2 e 3 dicembre hanno reso i loro pareri con osservazioni su entrambe i provvedimenti. Ora manca solo un nuovo passaggio al Cdm per l’esame definitivo. Solo dopo questo via libera i due schemi approderanno alla "Gazzetta Ufficiale". Lo schema di Dlgs sulla depenalizzazione dei reati. Il primo dei due decreti, cioè lo schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di depenalizzazione (atto del Governo sottoposto al parere parlamentare n. 245) mira a depenalizzare una serie di reati, ovvero a trasformare alcune fattispecie penali in illeciti amministrativi. Si tratta di illeciti rispetto ai quali una sanzione certa in tempi rapidi è considerata avere forza di prevenzione maggiore rispetto alla minaccia di un processo penale lungo e costoso, che rischia di concludersi con una mancata sanzione. Oltre ad alcuni reati specificamente individuati, tra i quali spicca l’omesso versamento di ritenute previdenziali fino a 10mila euro, la depenalizzazione riguarda tutti i reati puniti con la sola pena della multa o dell’ammenda previsti al di fuori del codice penale. In particolare, si applica una sanziona amministrativa pecuniaria: • da euro 5.000 a euro 10.000 per i reati puniti con la multa o l’ammenda non superiore nel massimo a euro 5.000; • da euro 5.000 a euro 30.000 per i reati puniti con la multa o l’ammenda non superiore nel massimo a euro 20.000; • da euro 10.000 a euro 50.000 per i reati puniti con la multa o l’ammenda superiore nel massimo a euro 20.000. Numerose sono però le eccezioni. In ossequio ai criteri di delega, la depenalizzazione non si applica infatti ai reati in materia di: • edilizia e urbanistica; • ambiente, territorio e paesaggio; • alimenti e bevande; • salute e sicurezza nei luoghi di lavoro; • sicurezza pubblica; • giochi d’azzardo e scommesse; • armi ed esplosivi; • elezioni e finanziamento ai partiti; • proprietà intellettuale e industriale. Si è scelto, poi, di non depenalizzare i reati in materia di immigrazione clandestina; il disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone; e la violazione delle prescrizioni impartite con l’autorizzazione alla coltivazione delle piante da cui si estraggono sostanze stupefacenti. L’abrogazione dei reati e l’introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili. Il secondo decreto, cioè lo schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di abrogazione dei reati e l’introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili (atto sottoposto al parere parlamentare n. 246) si propone, invece, di abrogare alcuni reati previsti dal codice penale e di sostituirli con degli illeciti puniti con sanzioni pecuniarie civili. Si tratta di fattispecie poste a tutela della fede pubblica, dell’onore e del patrimonio, procedibili a querela e accomunate dal fatto di incidere su interessi di natura privata. L’obiettivo è quello di contrastare in maniera più efficace ed effettiva tali illeciti connotati da scarsa effettività, collocandone il disvalore sul piano delle relazioni private, attraverso una sanzione pecuniaria civile, accompagnata dal risarcimento del danno, che risulta più efficace ed effettiva e che, allo stesso tempo, consente un alleggerimento del carico di lavoro dei giudici penali. Le sanzioni civili sono così configurate: • da euro 100 a euro 8.000 per gli illeciti in materia di onore e patrimonio; • da euro 200 a euro 12.000 per gli illeciti relativi al falso in scritture private. Codice antimafia più attento alle imprese di Lionello Mancini Il Sole 24 Ore, 14 dicembre 2015 L’11 novembre, la Camera ha approvato in prima lettura il Ddl 2134/S, contenente modifiche al codice antimafia e la delega al Governo per la gestione delle aziende confiscate. Il passo avanti compiuto dalla legge è di per sé una buona notizia per il mondo delle imprese, perché il testo tenta di sciogliere nodi cruciali come il contraddittorio nell’iter processuale del sequestro, la possibilità di svincolarsi dalle interdittive prefettizie con nuovi strumenti come il controllo giudiziale, la gestione dei beni sequestrati e il funzionamento della relativa Agenzia. In più, secondo gli osservatori più qualificati, i contenuti della normativa costituiscono una buona base per giungere, con poche correzioni apportabili dal Senato, a un testo definitivo in grado di superare i difetti emersi in questi anni, anche da vicende come lo scandalo della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Il disegno di legge appena licenziato a Montecitorio è stato analizzato sulla rivista online "Diritto penale contemporaneo", dal giurista palermitano Costantino Visconti, tra i massimi esperti della materia. Si nota, osserva Visconti una "maggior cura dei diritti della difesa" nelle procedure di sequestro, compresa la partecipazione degli avvocati alla camera di consiglio che delibera sulle proposte dell’amministrazione giudiziaria riguardo alla sopravvivenza dell’impresa. Anche se alcune asimmetrie resistono, come quella della possibilità di impugnazione delle decisioni del tribunale, prevista per l’accusa in caso di revoca del sequestro, ma non per la difesa in caso di conferma. Bene anche le regole più stringenti sulla nomina degli amministratori giudiziari da parte dei giudici, tra le quali il limite dei tre incarichi nella stessa sede giudiziaria, l’obbligo di segnalare quelli ricevuti da altre sedi e una serie di incompatibilità (professionali, amicali, di parentela eccetera) cui deve attenersi il magistrato, previsioni tese a evitare nuovi casi di distorsioni come quelle palermitane. Tuttavia, osserva il professor Visconti, "il limite dei tre incarichi comporta il rischio di impedire la crescita del "saper fare" specialistico e altamente professionalizzato delle amministrazioni giudiziarie e, insieme, di disperdere il know how fin qui accumulato". A migliorare la gestione delle aziende sequestrate e confiscate vengono introdotte modifiche per la tutela dei creditori, passaggio cruciale per la continuazione - ove l’ipotesi si dimostri realistica - delle attività e per la salvaguardia "del tessuto civile in cui risulta insediata l’azienda sequestrata". Per ottenere questo risultato, la norma accorda all’amministrazione giudiziale nuovi poteri (sempre delegati dal giudice) per subentrare nei contratti in corso, per stilare l’elenco dei creditori essenziali e verificare la fondatezza delle richieste creditorie. Ma, tra le urgenze del giudice, c’è la possibilità di bonifica delle realtà produttive o di servizi sequestrate, per evitarne la semplice liquidazione. E a questo dovrebbe servire il nuovo "controllo giudiziario delle aziende", istituto applicabile quando il tribunale accerta che l’agevolazione degli interessi mafiosi da parte di un’impresa è occasionale e che la stessa corre il rischio di condizionamenti criminali. In questi casi, il tribunale può contenere l’invasività dell’intervento imponendo all’azienda di informarlo puntualmente su ogni attività oppure nominando un tutor che attui una "vigilanza prescrittiva" per un massimo di tre anni, in modo che l’attività possa essere "ripulita". A differenza, poi, di ogni altro istituto vigente, il controllo giudiziario può anche essere richiesto dall’azienda destinataria di interdittiva prefettizia (e già impugnata davanti al Tar): con l’ok del giudice, il controllo sospende gli effetti del provvedimento prefettizio, offrendo una chance in più per rimettersi in carreggiata o per rimediare a un errore, attivando le energie interne all’impresa stessa. Anche su queste innovazioni esistono criticità, ma nulla che Palazzo Madama non possa migliorare con opportuni correttivi. L’Unione delle Camere Penali e la giustizia spiegata ai ragazzi di Beatrice Migliorini Italia Oggi, 14 dicembre 2015 La formazione prima di tutto. Ai giovani deve essere insegnato che mettere in campo una buona difesa significa prima di tutto riuscire a far comprendere le ragioni degli ultimi. Ha scritto Jan Sobotka: "È dimostrato che si può sopravvivere tre giorni senza acqua, due mesi senza cibo e tutta la vita senza giustizia". Ecco perché serve qualcuno che della ricerca di questo ideale scelga di farne uno stile di vita e della diffusione della cultura della legalità una vera e propria missione. Qualcuno come Beniamino Migliucci, classe 1955, sposato, padre di due figli, laureato in Giurisprudenza a Bologna, cresciuto a pane e diritto penale nell’ambiente di via Zamboni e alla guida dell’Unione delle camere penali italiane fi no all’autunno 2016. Legato alla categoria fi n da neolaureato, negli anni ha guidato la sede di Bolzano fino a entrare a far parte della giunta nazionale prima guidata dall’avv. Ettore Randazzo e, successivamente dal prof. avv. Oreste Dominioni. Percorso, quello umano e professionale, di Migliucci, che affonda le sue radici nella passione per lo sport, il calcio in particolare, che ha sempre portato avanti fi no alla serie C e che, negli anni gli ha trasmesso dei valori che gli sono tornati più che utili quando ha iniziato a esercitare la professione. "L’avere avuto modo di portare avanti una passione così grande ed essere riuscito a conciliarla con lo studio mi ha permesso di imparare fin da subito non solo ad organizzarmi, ma anche cosa significhi sposare una causa e portarla avanti fino alla fine", ha raccontato a Italia Oggi Sette il presidente dell’Unione delle camere penali italiane, "il pallone, infatti, lo ho abbandonato solo quando non sono più riuscito a conciliarlo con lo studio e la laurea imminente" con una tesi che non poteva che essere sulla responsabilità penale in relazione alle attività sportive. Già, perché nel cuore del numero uno della Camere penali la vocazione è sempre stata chiara. "Mio padre era un avvocato penalista, quindi ho respirato la materia fi n da ragazzo. Al di là di questo, però", ha sottolineato Migliucci, "riuscire a difendere le persone nelle varie situazioni è qualcosa che mi è sempre appartenuto anche quando non facevo l’avvocato. Mi piaceva mettermi a confronto con le persone su alcuni principi e, più di ogni altra cosa, mi piaceva l’idea di poter essere d’aiuto in qualche modo alle persone abbandonate a loro stesse. Cercare di difendere i diritti degli ultimi e, soprattutto, cercare di farle capire agli altri è qualcosa che mi ha sempre appassionato tantissimo". E, a proposito di comprensione e aiuto non è un caso che nella vita del numero uno dell’Ucpi un ruolo importante lo abbia la formazione. "Sia a livello personale, sia a livello professionale, mi piacerebbe molto avere la possibilità di dedicarmi maggiormente ai giovani che aspirano a fare questa professione", ha sottolineato Migliucci, "è necessario che i ragazzi, soprattutto in un momento storico come quello attuale, possano fare affidamento su una guida e su questo fronte ho intenzione di impegnarmi molto nel corso della mia presidenza". Ma da buon avvocato penalista nell’anima, ecco che tra le priorità di Migliucci c’è la volontà di mantenere saldo il contatto con la professione e l’entusiasmo per la materia, perché quando la presidenza sarà finita la famiglia e il suo torneranno ad essere il centro nevralgico dei suoi interessi. Perché essere penalisti, a volte, può significare solo esercitare una professione occupandosi di un tema ma, spesso, come nel caso del presidente dell’Ucpi, significa dedicare il proprio tempo e le proprie energie a far comprendere agli altri, partendo dagli ultimi fino ad arrivare alle giurie e all’opinione pubblica, le mille sfaccettature del sacro principio del giusto processo. "Vi siete divertiti a picchiare Cucchi", un’intercettazione incastra i Carabinieri di Giuseppe Scarpa La Repubblica, 14 dicembre 2015 Stefano Cucchi sarebbe stato picchiato da tre carabinieri della stazione Appia, Francesco Tedesco, Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, la notte del 16 ottobre del 2009. Malmenato forse fino a causarne il decesso. Per confermare questa ipotesi, il pm Giovanni Musarò ha richiesto al gip un incidente probatorio, una nuova perizia medico-legale sulle lesioni patite quella notte dal giovane romano. Ma non è tutto. La procura ha scoperto una serie di documenti falsificati per nascondere quello che accadde, dopo l’arresto di Cucchi per detenzione di stupefacenti, nelle due stazioni di Appia e Casilina. I militari, secondo la procura, appoggiati dal loro maresciallo Roberto Mandolini (indagato per falsa testimonianza assieme all’appuntato Vincenzo Nicolardi), avrebbero tentato di mescolato le carte. E spunta anche una telefonata che potrebbe incastrare i carabinieri e chiarire cosa avvenne quella notte. Il pestaggio. "Nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009 Cucchi fu sottoposto ad un violentissimo pestaggio da parte dei carabinieri del comando stazione Appia (…) Fu scientificamente orchestrata una strategia - scrive il pm Musarò nella richiesta d’incidente probatorio - finalizzata ad ostacolare l’esatta ricostruzione dei fatti e l’identificazione dei responsabili per allontanare i sospetti dai militari dellacaserma. Non si diede atto della presenza di D’Alessandro e Di Bernardo nella fasi dell’arresto. Il nominativo dei due militari non compariva nel verbale, pur essendo gli stessi pacificamente intervenuti. Fu cancellata ogni traccia del passaggio di Cucchi dalla compagnia Casilina per gli accertamenti foto segnaletici e dattiloscopici. Al punto che fu contraffatto con il bianchetto il registro delle persone sottoposte a foto segnalamento". In particolare, dicono i magistrati, "si è appurato che l’annotazione relativa all’unico foto segnalamento nel registro per la giornata del 16.10.09 (quello di Misic Zoran) era stata eseguita sopra un’altra annotazione cancellata col bianchetto. Osservandola in controluce era possibile leggere Cucchi Stefano". La telefonata. L’ex moglie di Raffaele D’Alessandro ha confermato in procura il contenuto di una telefonata intercettata durante le indagini: "Ricordo che Raffaele mi parlò di un violento calcio che uno di loro aveva sferrato al Cucchi. Preciso che Raffaele raccontava che il calcio fu sferrato proprio per provocare la caduta. Quando raccontava queste cose Raffaele rideva, e davanti ai miei rimproveri, rispondeva: "Chill è sulu nu drogatu è merda". E ancora la donna ha spiegato al pm ciò che allora le aveva confidato il marito: "Gliene abbiamo date tante a quel drogato". Lo scaricabarile. Vuotano il sacco due militari della stazione, Riccardo Casamassima e Maria Rosati. Raccontano agli inquirenti ciò che l’allora comandante dell’Appia, maresciallo Mandolini a ottobre del 2009, riferì a loro e al comandante della stazione di Tor Vergata: "Il Mandolini mettendosi una mano sulla fronte mi disse: "È successo un casino, i ragazzi hanno massacrato di botte un arrestato". Poi si diresse verso l’ufficio del comandante della stazione, il maresciallo Enrico Mastronardi. All’interno dell’ufficio c’era anche il carabiniere Maria Rosati la quale ebbe modo di ascoltare qualche cosa in più. In particolare, come riferitomi dalla Rosati, Mandolini fece il nome dell’arrestato (Cucchi) e aggiunse che stavano cercando di scaricare la responsabilità sugli agenti della polizia penitenziaria". Il compagno di cella. Luigi Lainà, detenuto con Cucchi nell’ottobre del 2009, confida: "Dissi a Cucchi che se era stata la penitenziaria a ridurlo in quelle condizioni, noi avremmo fatto un casino. Cucchi mi rispose che era stato picchiato dai carabinieri all’interno della prima caserma da cui era transitato nella notte dell’arresto. Aggiunse che era stato picchiato da due carabinieri in borghese, mentre un terzo, in divisa, diceva agli altri due di smetterla". "Andiamo a fare le rapine". La procura intercetta i tre carabinieri indagati per il caso Cucchi. Di Bernardo e D’Alessandro temono di essere destituiti dall’Arma e ipotizzano nuovi impieghi: "Se ci congedano ci apriamo un bar" dice Di Bernardo a D’Alessandro. Quest’ultimo risponde: "Se mi congedano te lo giuro sui figli miei, e non sto giocando, mi metto a fare le rapine". Di Bernardo chiede di nuovo al collega: "Ma se ti buttano fuori che lavoro fai?". "Ti ho detto che vado a fare le rapine. Magari agli orafi". Caso Cucchi. Ilaria: "la verità si fa strada ma è terribile sapere che si sono divertiti" di Maria Novella De Luca La Repubblica, 14 dicembre 2015 "Il muro di gomma si sgretola, la verità si fa strada, ma come volete che mi senta? Penso alla sofferenza di mio fratello Stefano mentre lo massacravano di botte, penso a quel carabiniere che rideva raccontando i calci che gli avevano dato...". Ilaria Cucchi è emozionata e pacata insieme. Le nuove prove - clamorose - sul "violentissimo pestaggio" cui Stefano fu sottoposto in una caserma dei carabinieri, prima dunque di giungere nelle celle di sicurezza del tribunale romano di piazzale Clodio, potrebbero rivoluzionare l’intera vicenda giudiziaria sulla sua morte. Era il 2009, Stefano, arrestato per spaccio, aveva 31 anni. Morì una settimana dopo, solo, in un letto dell’ospedale Pertini, con il corpo devastato da botte e fratture. Da allora Ilaria combatte per la verità, per dimostrare che quella fine, dice, "è stata un omicidio di Stato". Ci sono voluti sei anni perché si indagasse sul ruolo dei carabinieri... "Noi abbiamo sempre chiesto che si facesse luce su quanto era successo la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009, quando Stefano fu arrestato e portato in caserma. Perché è lì che è iniziato tutto. È lì che mio fratello ha subito il primo trattamento disumano. Ma un incredibile muro di omertà e di depistaggi ha coperto per sei anni quelle spaventose violenze. Dobbiamo chiederci com’è stato possibile, e quanti altri segreti ci sono dietro la sua morte". Però sono stati proprio due carabinieri ad aprire una breccia nel silenzio... "Sì, due colleghi di chi materialmente massacrò mio fratello. Sapevano, avevano sentito. Forse non ne potevano più di tenersi questo segreto. Hanno cercato il mio avvocato Fabio Anselmo, ci hanno dato la loro testimonianza, preziosa, per ricostruire quanto era avvenuto, e poi accuratamente nascosto, nella caserma della stazione Appia". Ora gli agenti della Penitenziaria chiedono delle scuse... "Io non devo chiedere scusa a nessuno, sto soltanto cercando la verità sulla morte di Stefano. Mi chiedo però: come mai, se mio fratello arrivò nelle celle del tribunale già in quelle condizioni, nessuno ha parlato? Nei giorni in cui è stato detenuto a piazzale Clodio noi abbiamo ricostruito che è entrato in contatto con più di cento persone. Cento, non una. Eppure hanno taciuto. Agenti, carabinieri, giudici. Tutti. Forse è qualcuno di loro che dovrebbe scusarsi con chi è finito sotto processo". La procura di Roma ha chiesto una nuova perizia medico-legale... "Il procuratore Pignatone sta facendo un lavoro accurato. Si era impegnato dopo la sentenza di appello, e oggi i risultati si vedono. Mi sento un po’ più fiduciosa nella Giustizia. Del resto noi abbiamo sempre affermato che molte di quelle perizie fossero sbagliate". "Mio marito rideva ricordando il pestaggio di Cucchi", ha raccontato l’ex moglie di uno dei carabinieri sotto accusa... "Capite perché il nostro calvario non finirà mai? Perché ogni nuovo dettaglio sugli ultimi giorni di Stefano è un dettaglio sulla sua sofferenza, sulle botte, sulla solitudine, su quanto è stato torturato. Si divertivano a picchiarlo. Ridevano. Sapere tutto questo è un tormento necessario per arrivare alla verità, però è un tormento". Ilaria, crede che ci sarà un nuovo processo? "Tra pochi giorni la Cassazione dovrà pronunciarsi sulla sentenza d’appello, che aveva assolto tutti. Affermando, scandalosamente, che non c’erano colpevoli per la morte di mio fratello. Vedremo cosa accade". Sei anni di battaglie. Il coraggio di mostrare il corpo di Stefano martoriato. Ne valeva la pena? "Certo, perché la verità alla fine vince sempre. Lo devo a mio fratello, ai miei genitori, ai miei figli, e a tutte le vittime degli omicidi di Stato". Alberto Stasi in carcere a Bollate: "spegnete la tv, non voglio sapere cosa dicono di me" di Giusi Fasano e Pierpaolo Lio Corriere della Sera, 14 dicembre 2015 Il primo giorno in cella dopo la condanna a 16 anni per l’omicidio della fidanzata Chiara Poggi: "Non me l’aspettavo - dice Stasi - Da casa non ho preso nulla sono venuto subito qui". In piedi, occhi bassi e mani in tasca. Alberto Stasi comincia dal suo ultimo momento di speranza, il punto esatto in cui la parola "innocente" sembrava ancora possibile. "Non me l’aspettavo. Giuro che proprio non me l’aspettavo. Anche il procuratore generale aveva chiesto l’assoluzione. Io non ho ucciso Chiara, ero tranquillo". Poi il mondo che si capovolge: "Quando mi hanno detto della condanna ero dall’avvocato. Non sono nemmeno passato da casa a prendere il necessario. Mi sono immaginato la ressa di giornalisti davanti al cancello, il muro di telecamere, il solito clamore. E allora ho preferito venire qui direttamente". Qui. Nel carcere di Bollate, cella 315 del reparto I, terzo piano, luogo di partenza dei suoi 16 anni di condanna per aver ucciso Chiara Poggi (la sua fidanzata) la mattina del 13 agosto 2007. Davanti al consigliere regionale che alle undici passa a trovarlo c’è un ragazzo "abbattuto e dimesso". Faccia stanca di chi ha dormito poco o nulla. "Com’è andata la prima notte?" chiede il suo interlocutore. E lui: "Veramente non è la prima volta, in carcere c’ero già stato ma non mi ricordavo com’era, sono passati più di otto anni... però anche allora mi avevano rilasciato al quinto giorno, avevano analizzato il sangue (era il Dna di Chiara trovato sul pedale della sua bicicletta, ndr ) e alla fine avevano capito di avere davanti un innocente". Il chiodo batte sempre sullo stesso punto: sono innocente, questa sentenza è ingiusta. Nel penitenziario-modello di Bollate le celle non sono piccole. Stasi condivide la sua con altri tre detenuti, un italiano e due montenegrini. Quand’è arrivato, sabato, ha chiesto a tutti un unico favore: "Vorrei non guardare in televisione i programmi che parlano di me. Non voglio vederne nessuno. Si può?". Quasi una preghiera. Alberto non vuole sapere che cosa dicono di lui oltre le barriere del carcere, non ha più importanza, non vale più neanche la pena di arrabbiarsi per le interpretazioni fuori luogo, per un titolo sbagliato, per il saccente di turno che parla di lui e del processo senza aver mai letto nessuna carta. "Ve lo chiedo per favore" ha implorato i nuovi compagni delle sue giornate. E loro hanno capito, hanno evitato qualunque notizia o trasmissione sul caso Garlasco. "Tua mamma?" chiede il consigliere cambiando argomento. "L’ho chiamata, la vedrò lunedì". Pausa. Nodo in gola e poche altre parole, "la mamma ora è sola...". Il politico regionale lo vede in difficoltà, così emozionato da essere sul punto di piangere. E allora cambia di nuovo la direzione del discorso. Gli chiede del futuro, di come immagina tutto quel tempo dietro le sbarre. "Devo ancora capire, non riesco a credere di essere qui" dice. "Ero convinto che sarebbe finita bene e non ho avuto il tempo di pensarci né di preparare niente, domani la mamma mi porterà un po’ di cose, magari vado in biblioteca a prendere un libro, vedrò come devo organizzarmi, cosa fare". La vita in carcere è una sequenza di azioni che si ripetono identiche ogni santo giorno, di orari sempre uguali per fare questo o quello. Si pranza alle 11, si cena alle 17, le celle sono aperte dalle otto del mattino alle otto di sera. Si può passeggiare nei corridoi, andare in palestra, in biblioteca, appunto. Ma ieri mattina era troppo presto per fare qualsiasi cosa che non fosse parlare, raccontare, sfogarsi. Consegnare a qualunque sconosciuto fosse arrivato quella parola che Alberto ripete da sempre: innocente, io sono innocente. Prima di costituirsi, sabato, aveva affidato all’avvocatessa Giada Bocellari (che lo aveva accompagnato fino al portone del carcere) un saluto a "tutti quelli che si sono occupati umanamente e professionalmente di questa triste vicenda". "Grazie, vi voglio bene" aveva chiesto di far sapere. Poi lei aveva seguito la sagoma di quel ragazzo fino a vederla sparire dietro il portone. Per i prossimi 16 anni. Scarcerato l’ex governatore della Sicilia Salvatore Cuffaro: "bello respirare la libertà" di Emanuele Lauria La Repubblica, 14 dicembre 2015 L’ex governatore della Sicilia è uscito dal penitenziario di Rebibbia dopo 1.786 giorni di carcere e grazie all’indulto di un anno. "È bello respirare la libertà. Oggi posso dire di aver superato il carcere", queste le prime parole dell’ex governatore della Sicilia Salvatore Cuffaro, appena uscito dal carcere di Rebibbia a Roma. Dopo 1786 giorni di carcere, e grazie all’indulto di un anno per i reati "non ostativi" e lo sconto di un mese e mezzo ogni sei per buona condotta, Totò Cuffaro torna oggi uomo libero. Lascia il penitenziario di Rebibbia e, assieme ai familiari già da ieri a Roma, affronta un viaggio in auto per rientrare in Sicilia e raggiungere subito Raffadali, per fare visita all’anziana madre. Resta indefinito il suo futuro. L’ex presidente della Regione siciliana condannato per favoreggiamento alla mafia, il politico italiano che ha scontato la pena più lunga, non può assumere incarichi pubblici. Glielo impedisce l’interdizione perpetua che gli è stata inflitta. "La politica attiva, elettorale e dei partiti è un ricordo bellissimo che non farà parte della mia nuova vita. Ora ho altre priorità", dice l’ex governatore della Sicilia appena uscito dal carcere di Rebibbia. "Ho amato la politica e non rinnego nulla di ciò che ho fatto, non mi sento tradito". Ma aggiunge: "Nella mia coscienza sono innocente. Sono andato a sbattere contro la mafia. Tornassi indietro metterei un airbag. Ho fatto degli errori, non mi voglio nascondere, io li ho pagati, altri no. Ora credo di avere il diritto di ricominciare". L’ex presidente della Regione sottolinea: "È stato grande il prezzo che ho pagato per aver deciso di stare in mezzo alla gente. Appartiene alla mia coscienza ciò che sono stato. Non ne voglio più parlare. Credo di non aver mai favorito la mafia ma di averla sempre osteggiata e parlano gli atti amministrativi per me. Per fare una vera lotta alla mafia credo sia necessario l’impegno delle forze di polizia, dei magistrati. Ma se lasciassimo la lotta solo a loro credo che purtroppo non riusciremmo a raggiungere l’obiettivo finale. È necessario ci sia una grande educazione. E questo è il grande errore della politica. Fin quando non sarà data alle persone la possibilità di scegliere di stare nella legalità sarà difficile vincere la mafia". "Ho pagato i miei errori, altri no". "Non credo la Sicilia sia cambiata in meglio. Io credo che Vecchioni abbia detto una cosa con amore. Forse non lo sa Crocetta ma pure questo è amore. La Sicilia, la nostra terra, è straordinaria, bellissima e merita di essere servita - aggiunge - Quello che vedo nella politica di oggi in Sicilia è poco amore per le cose che si fanno. Quando non ci sono ideali la politica rischia di essere sterile e inumana. È diventata cattiva la politica di ora". Ma: "Io non partecipo alla disfida di Barletta che c’è contro Crocetta. Per due motivi: primo perché Crocetta non è Ettore Fieramosca, secondo perché io non mi schiererei mai dalla parte dei francesi". E sul suo futuro afferma: "Credo che io abbia il dovere di continuare a occuparmi dei detenuti e di seguire le vicende delle carceri perché possano diventare più umane e vivibili. Vivendo in questi anni dentro una cella insieme ad altri ho capito quanto è importante non sentirsi abbandonati e dimenticati. Andrò in Africa nell’ospedale che ho fatto costruire quando ero presidente della Regione. La società Motherworld Foundation che lo ha in gestione mi ha contattato in questi ultimi mesi e abbiamo organizzato la mia esperienza di medico volontario in Africa che farò non appena avrò sistemato alcune vicende della mia famiglia". Cuffaro aveva più volte espresso il desiderio di recarsi presto in Burundi come volontario. Ci sarebbe già una data di partenza: il 30 marzo. In cella Cuffaro ha studiato per conseguire la seconda laurea in Giurisprudenza (gli manca solo un esame) e ha scritto due libri. Da oggi, mentre ex avversari politici interni ed esterni (da Micciché a Genovese) fanno a gara per rivalutarne la figura, e il presidente dei senatori di Area popolare Ncd-Udc, Renato Schifani twitta: "Bentornato Totò. Ora hai il diritto di riprenderti la tua vita", per l’ex presidente della Regione comincia una seconda vita. Stupefacenti: misure cautelari diverse dal carcere solo con distacco dall’associazione di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 14 dicembre 2015 Corte di Cassazione - Sezione V - Sentenza 7 agosto 2015 n. 34686. In materia di misure cautelari, allorquando si proceda per un reato associativo per il traffico illecito di stupefacenti, la presunzione di adeguatezza della sola misura carceraria, di cui all’articolo 275, comma 3, del Cpp, può essere vinta fra l’altro in ragione della emergenza di circostanze obiettive, idonee a revocare in dubbio la ripetibilità del contributo causale offerto dall’indagato e, con essa, l’attualità delle esigenze di cautela. Tali circostanze, peraltro, non possono essere rappresentate esclusivamente dal tempo trascorso dai fatti, pur rilevante, richiedendosi la presenza di contegni indicativi della presa di distanza dell’indagato dalla realtà malavitosa locale, dai quali potersi desumere l’irreversibile recisione dei legami di quest’ultimo con l’associazione criminosa di appartenenza. Questo il principio espresso dalla sezione V della corte di Cassazione con la sentenza 34686/2015 Le altre pronunce della Corte - In termini più rigorosi, di recente, Sezione VI, 13 novembre 2015, Proc. Rep. Trib. Lecce in proc. D’Alema, ha affermato che, in tema di misure coercitive disposte per il reato associativo di cui all’articolo 74 del Dpr 9 ottobre 1990 n. 309, in presenza di condotte esecutive risalenti nel tempo, la sussistenza delle esigenze cautelari deve essere desunta da specifici elementi di fatto idonei a dimostrarne l’attualità, in quanto il decorso di un arco temporale significativo può essere sintomo di un proporzionale affievolimento del pericolo di reiterazione. Infatti, si è sostenuto, anche per i reati per i quali vige la presunzione relativa di cui all’articolo 275, comma 3, del Cpp (esistenza delle esigenze cautelari e adeguatezza della misura cautelare carceraria), la distanza temporale tra i fatti e il momento della decisione cautelare, quale circostanza tendenzialmente dissonante con l’attualità e l’intensità dell’esigenza cautelare, comporta l’obbligo per il giudice di motivare sia in relazione a detta attualità sia in relazione alla scelta della misura. Ciò valendo, in particolare, proprio per il reato di cui all’articolo 74 citato perché l’associazione ivi sanzionata non presuppone necessariamente l’esistenza di una struttura organizzativa complessa, essendo, al contrario, una fattispecie aperta, idonea a qualificare in termini di rilevanza penale situazioni fortemente eterogenee, oscillanti dal sodalizio a vocazione transnazionale all’organizzazione di tipo familiare; con la conseguenza che, in un panorama così variegato, il giudice deve valutare ogni singola fattispecie concreta, ove la difesa rappresenti elementi idonei, nella sua ottica, a scalfire la presunzione relativa operante per il reato de quo, ovvero a dimostrare l’insussistenza di esigenze cautelari o la possibilità di soddisfarle con misure di minore afflittività. Guida in stato di ebbrezza e lavoro di pubblica utilità. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 14 dicembre 2015 Guida in stato di ebbrezza - Sanzione - Sostituzione della pena con il lavoro di pubblica utilità - Richiesta avanzata per la prima volta con l’atto di appello - Ammissibilità. In tema di guida in stato di ebbrezza, la richiesta di sostituzione della pena inflitta con la sanzione del lavoro di pubblica utilità può essere avanzata per la prima volta anche con l’atto di appello. • Corte di Cassazione, sezione IV, sentenza 17 luglio 2015 n. 31226. Guida in stato di ebbrezza - Sanzione inflitta - Sostituzione con il lavoro di pubblica utilità - Onere dell’imputato di individuare specificamente le modalità di esecuzione del trattamento sanzionatorio - Esclusione. In tema di guida in stato di ebbrezza, ai fini della sostituzione della pena detentiva o pecuniaria - irrogata per il reato di guida in stato di ebbrezza o di alterazione psicofisica per uso di sostanze stupefacenti - con quella del lavoro di pubblica utilità non è richiesta alcuna istanza dell’imputato, essendo sufficiente, ex art. 186, comma nono bis, c.d.s., la sua non opposizione. Ne deriva che ove l’imputato abbia manifestato la non opposizione, la legge non gli impone alcun obbligo determinativo delle modalità di esecuzione del trattamento sanzionatorio sostitutivo della pena irrogata, obbligo che ricade, invece, sul giudice che si determini a disporre il predetto beneficio. • Corte di Cassazione, sezione IV, sentenza 14 maggio 2015 n. 20043. Guida in stato di ebbrezza - Sanzione inflitta - Sostituzione con il lavoro di pubblica utilità - Valutazione discrezionale del giudice. La sostituzione della pena detentiva e pecuniaria con il lavoro di pubblica utilità, ai sensi dell’articolo 187, comma 8-bis, cod. strada, non consegue automaticamente al ricorrere dei presupposti legali ma è rimessa alla valutazione discrezionale del giudice in ordine alla meritevolezza dell’imputato ad ottenerla. • Corte di Cassazione, sezione IV, sentenza 20 aprile 2015 n. 16387. Guida in stato di ebbrezza - Trattamento sanzionatorio - Sostituzione della pena inflitta con il lavoro di pubblica utilità - Presupposti di operatività. In tema di guida in stato di ebbrezza, ai fini della sostituzione della pena detentiva o pecuniaria inflitta con quella del lavoro di pubblica utilità non è richiesto dalla legge che l’imputato indichi l’istituzione presso cui intende svolgere l’attività e le modalità di esecuzione della misura, gravando sul giudice l’obbligo determinativo delle modalità di esecuzione del trattamento sanzionatorio sostitutivo. • Corte di Cassazione, sezione IV, sentenza 8 agosto 2014 n. 35278. Guida in stato di ebbrezza - Sanzione - Sostituzione della pena inflitta con il lavoro di pubblica utilità ex articolo 186, comma nono bis, C.d.S. - Applicabilità ai fatti anteriormente commessi - Ragioni. In tema di reato di guida sotto l’influenza dell’alcool, la sostituzione della pena detentiva o pecuniaria con quella del lavoro di pubblica utilità prevista dall’articolo 186, comma nono bis, C.d.S., introdotto dall’articolo 33, comma primo, lett. a), punto 1 della legge n. 120 del 2010, è applicabile anche ai fatti, non definiti con sentenza irrevocabile, commessi anteriormente alla predetta novella, in virtù dell’articolo 2, comma quarto, cod. pen., trattandosi di disposizione oggettivamente ed in concreto più favorevole rispetto a quella previgente. • Corte di Cassazione, sezione IV, sentenza 1 dicembre 2014 n. 50053. Cause di estinzione del reato: l’oblazione. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 14 dicembre 2015 Reato - Cause di estinzione del reato - Oblazione - Reato contestato insuscettibile di oblazione - Possibilità di qualificazione giuridica compatibile con la concessione del beneficio - Onere dell’imputato formulare un’istanza di ammissione all’oblazione correlata al diverso reato ritenuto configurabile. Ove la contestazione elevata nei confronti dell’imputato faccia riferimento ad un reato per il quale non è consentita né l’oblazione ordinaria di cui all’articolo 162 c.p., né quella speciale di cui all’articolo 162 bis c.p., qualora l’imputato ritenga non corretta la relativa qualificazione giuridica del fatto e intenda sollecitare una diversa qualificazione che ammetta il procedimento di oblazione di cui all’articolo 141 disp. att. c.p.p., è onere dell’imputato stesso formulare istanza di ammissione all’oblazione in rapporto alla diversa qualificazione che contestualmente solleciti al giudice di definire, con la conseguenza che - in mancanza di tale richiesta - il diritto a fruire della oblazione stessa resta precluso ove il giudice provveda di ufficio, a norma dell’articolo 521 c.p.p., comma 1, ad assegnare al fatto la diversa qualificazione che consentirebbe l’applicazione del beneficio, con la sentenza che definisce il giudizio. • Corte di Cassazione, sezioni Unite, Sentenza 22 luglio 2014 n. 32351. Reato - Cause di estinzione del reato - Oblazione - Modifica dell’originaria imputazione disposta con la sentenza - Derubricazione di reato non oblabile in reato oblabile - Richiesta di oblazione - Ammissibilità - Condizioni. Nel caso in cui il giudice, al momento della deliberazione finale, abbia derubricato un reato non oblabile in altro oblabile, l’imputato ha il diritto di chiedere l’oblazione soltanto se, entro il momento della formulazione delle conclusioni, abbia proposto la relativa istanza per l’ipotesi di derubricazione dell’originaria imputazione. • Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 7 novembre 2011 n. 40037. Reato - Cause di estinzione del reato - Oblazione - Modifica dell’originaria imputazione disposta con la sentenza - Reato derubricato suscettibile di oblazione - Rimessione in termini a norma dell’articolo 141 comma quarto bis disp. att. cod. proc. pen. - Esclusione. In tema di estinzione del reato per oblazione, la disposizione di cui all’articolo 141 comma quarto bis disp. att. cod. proc. pen., che prevede la rimessione in termini dell’imputato in caso di modifica dell’originaria contestazione in altra per la quale sia ammissibile l’oblazione, non si applica al caso in cui la modifica dell’imputazione sia fatta direttamente dal giudice con la sentenza di condanna. • Corte di Cassazione, sezioni Unite, sentenza 2 marzo 2006 n. 7645. Reato - Cause di estinzione del reato - Oblazione - Modifica dell’originaria imputazione - Reato derubricato suscettibile di oblazione - Superamento del termine di apertura del dibattimento - Richiesta di oblazione - Rimessione in termini dell’imputato. Il superamento del termine dell’apertura del dibattimento previsto dagli articoli 162 e 162-bis cod. pen. non preclude la possibilità di richiedere l’oblazione, in quanto, nei casi di modifica dell’originaria imputazione in altra per la quale sia ammissibile la procedura estintiva, spetta al giudice, a norma dell’articolo141 comma 4-bis disp. att. cod. proc. pen., rimettere in termini l’imputato affinché possa esercitare tale facoltà, indipendentemente dall’esistenza o meno di precedenti istanze e dal tempo in cui siano state formulate. • Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 7 ottobre 2002 n. 33420. Il caso Cucchi e il reato di tortura di Adriano Prosperi La Repubblica, 14 dicembre 2015 Le ultime clamorose notizie sulla vicenda di Stefano Cucchi cadono sul terreno di un’opinione pubblica distratta da altri problemi e pronta a voltare pagina. In fondo, si pensa, ora che la verità è venuta a galla, il compito di far luce piena e di punire i colpevoli tocca alle istituzioni. Quello che ci spinge a pensare così è il bisogno di tranquillità, sempre più forte quanto più si cavalca il fantasma del Terrore per invitarci a chiudere bene la porta di casa e a delegare ad altri il compito di azioni decisive e risolutive (anche la bomba atomica, perché no?). E invece questa storia di Stefano Cucchi non può chiudersi qui. Se ci sentiamo obbligati a fermarci su di essa non è solo per l’umana pietà dovuta a chi muore vittima della violenza e dell’omertà delle istituzioni, né per la solidarietà e l’ammirazione che merita la straordinaria sorella Ilaria, colei che ha incarnato per noi l’immortale figura di Antigone. Oggi che la sua battaglia ha portato a scoprire la verità sull’assassinio del fratello e a rendere pubblici i nomi dei responsabili c’è qualcosa che l’opinione pubblica deve chiedere alle istituzioni colpevoli di aver coperto fino ad ora delinquenti e delitto. Ilaria è stata eroica. Il suo esempio ha dato coraggio a una piccola pattuglia di genitori, fratelli e amici di altre vittime che le si è stretta intorno ed è andata come lei e con lei sulle piazze e in televisione: esempi di quell’eroismo quotidiano che ci vuole per reagire, per impedire di lasciarsi andare. Ma vale sempre il monito di Bertolt Brecht: "beato quel paese che non ha bisogno di eroi". E invece troppo spesso in Italia se ne sente il bisogno. I singoli si sentono isolati e impotenti. È sintomatico il mito - anche la realtà - dei "poteri forti". Il nome di Stefano ci accompagna da quando in quell’ottobre 2009, uscito vivo da casa vi ritornò cadavere dopo una settimana passata nelle mani di carabinieri, agenti carcerari, personale sanitario. Caserma, carcere, ospedale: tutti luoghi deputati a garantire la sicurezza delle persone. Ma il corpo che i familiari si ritrovarono davanti era trasformato in uno scheletro, il volto che da allora tutti abbiamo potuto vedere era una maschera che non si poteva guardare senza orrore. Che cosa fosse successo, come quella metamorfosi fosse stata possibile è rimasto a lungo un mistero. Oggi sappiamo. Conosciamo le parole che furono dette dai suoi assassini: erano carabinieri, oggi lo sono ancora ma si dicono pronti a saltare il fosso e a "fare le rapine" se fossero puniti: lo ha detto Alessio Di Bernardo al collega e complice del delitto. Ed è qui che ritroviamo l’altra faccia della sorda resistenza delle organizzazioni dei corpi di sicurezza al disegno di legge per l’introduzione del reato di tortura nelle leggi penali italiane. Si vuole l’impunità: non si capisce che solo l’esistenza della legge e la sua efficacia "erga omnes" possono offrire a tutti, incluse le varie e diverse polizie italiane, la vera garanzia dall’arbitrio e la tutela del buon nome di corpi sempre minacciati nel loro onore e nella loro credibilità dalle mele marce che della forza delegata loro dai cittadini vorrebbero fare strumento di privato potere, esercizio di un impunito sadismo. Il silenzioso accantonamento di un disegno di legge sulla tortura, debole fin dall’inizio e svuotato di ogni residua efficacia nel suo itinerario parlamentare, è un caso preoccupante di cedimento della democrazia all’arbitrio di corporazioni potenti. E qui si situa un bivio, una delle tante occasioni in cui un governo nato non dall’esito di elezioni democratiche ma dal gioco di maggioranze mutevoli in corpi di nominati, deve decidere quale strada vuole battere per rafforzarsi: se quella di breve respiro del consenso del maggior numero possibile di corporazioni o quella, in prospettiva più lunga ma più solida, del "buon governo". Il celebre dipinto del Palazzo pubblico di Siena lo rappresentò con l’immagine delle persone che si muovono tranquillamente per le strade del paese. Oggi l’unico strumento per far stringere i cittadini intorno ai loro governi è anche quello che li spinge a chiudersi al mondo esterno: la paura del "Terrore", il Lucifero pervasivo della nostra modernità. Ci si dimentica che tutte le più nefaste esperienze politiche dell’Europa sono nate da una radice identica. L’impunità del reato scoraggia la denuncia di Alfredo Mantovano (Consigliere Corte di appello di Roma) Il Sole 24 Ore, 14 dicembre 2015 Un paio di mesi fa, a Roma. Un’universitaria torna di giorno nel miniappartamento che ha in locazione e lo trova svaligiato: fra quanto sottrattole c’è un ipad sul quale è installato un gps. Col proprio cellulare la ragazza scopre che l’ipad si trova a breve distanza, è segnalato a qualche centinaio di metri, in corrispondenza di un insediamento abusivo rom. Corre al più vicino presidio di polizia e parla con chi di dovere: si aspetta che qualcuno venga mandato sul posto, che si recuperi almeno una parte della refurtiva e che si identifichi chi ne sia in possesso, magari arrestandolo. Viene invece invitata a tornare il giorno successivo per formalizzare la denuncia. Inutile dire che il segnale gps scompare dopo poco, e con esso i pochi beni sottratti e la possibilità di scoprire chi è il ladro. Un paio di settimane fa, sempre a Roma. Mentre passeggia coi bambini, un professionista viene avvertito da un passante che un tale gli ha appena sfilato dalla tasca un telefono mobile: si gira, vede il ladro mentre si allontana ma non riesce a raggiungerlo. Si reca al primo comando di polizia - se il cellulare è acceso lo si può ancora localizzare -, ma gli viene consegnato un modulo di smarrimento dell’apparecchio, accompagnato dal consiglio di non perdere tempo con denunce di furto: far finta di averlo perso è più rapido - così si sente dire - per bloccare la scheda col gestore ed evitare problemi. Storie del genere sono frequenti, non solo nella capitale. Leggendo le pagine del Sole-24 Ore sui reati denunciati in Italia nel 2014, compresi i box di approfondimento su talune tipologie di illeciti, è legittimo domandarsi se e quali criteri esistono per fornire - insieme con i numeri ufficiali, basati sulle denunce - una stima della consistenza effettiva di alcuni delitti. Non vale solo per il furto: l’incremento di circa il 20% fra 2013 e 2014 delle estorsioni non è un dato in sé negativo; con molta probabilità indica una maggiore propensione alla denuncia, e quindi più fiducia nel sistema di contrasto, rispetto a un fenomeno che non è detto che sia cresciuto di 1/5 da un anno all’altro. Il caso del furto è però più emblematico: l’esperienza di ciascuno, limitata e soggettiva, attesta una quantità crescente di denunce non presentate o non fatte presentare. Capire perché questo accade, nonostante l’enorme mole di denunce comunque ricevute, è più importante che prendersela con presunte omissioni fra le forze di polizia: le incombenze scaricate su poliziotti e carabinieri sono sempre di più e sempre più impegnative, mentre il turn over è ridotto all’osso, i mezzi pure, e gli straordinari non si sa se e quando vengono pagati. Vi è poi una percezione delle priorità, che fra esse non fa individuare la repressione dei furti: se gli automezzi a disposizione sono destinati ad altre funzioni, è ovvio che il territorio non viene pattugliato per scoraggiare gli scippi o gli accessi indesiderati nelle abitazioni. Se - nonostante tutto - il ladro è scoperto, non sempre il magistrato di turno autorizza l’arresto; di frequente dispone che sia denunciato a piede libero. Se il ladro è scoperto e viene consentito l’arresto, in cella trascorre qualche ora, al massimo qualche giorno: il tempo di patteggiare al minimo (non più di 3 o 4 mesi di reclusione) e di tornare in libertà a riprendere il proprio "lavoro", dal momento che quella limitata entità di pena non viene mai espiata. Se non si fa il patteggiamento, nella gran parte dei casi il processo si estingue per prescrizione già in primo grado, al più tardi in appello: ciò spiega perché alla fine - pur se denunciato - il furto resti impunito nel 98% dei casi. E poiché in altre nazioni europee per il furto i giudici irrogano anni di reclusione, ciò contribuisce a spiegare la migrazione in Italia, all’interno dell’area Schengen, di persone che per mestiere svaligiano il prossimo. Perché allora lo zelo dovrebbe manifestarsi al momento della denuncia, e dei successivi immediati accertamenti, quando gli operatori dei polizia hanno la piena consapevolezza che saranno fatica, uomini e mezzi sprecati? Non è questione di sanzioni, che sulla carta esistono e sarebbero pure elevate, o di modifiche legislative: discettare di questo non fa fare passi avanti. La decisione di abrogare un reato che altrove non viene ritenuto bagatellare, e che continua a turbare chi lo subisce, non può restare tacita, ma esige un dibattito, come accade per le scelte di politica della sicurezza. Meglio un confronto sincero che discutere, spesso demagogicamente, sui limiti della legittima difesa, dopo reazioni sproporzionate verso chi entra nella propria abitazione, dettate dal senso di impotenza e dalla mancanza di effettiva tutela. Più che appassionarsi sul se e del quando un privato può sparare, conviene capire quanto e come oggi lo Stato tutela la proprietà e le persone oneste. Quel vizio tutto italiano di riprocessare chi è stato assolto di Luca Fazzo Il Giornale, 14 dicembre 2015 Alberto Stasi è solo l’ultimo ad essere stato con-. dannato definitivamente nonostante una precedente sentenza di assoluzione. Un caso esclusivamente italiano. Per questo esisteva una norma (varata dal centrodestra) per rendere inappellabili le assoluzioni. Ma i giudici della Corte Costituzionale nel 2007 la dichiararono illegittima e la cancellarono dal nostro ordinamento. Pur di azzerare quella norma, la Corte si dimenticò che a mettere in discussione la parità assoluta tra accusa e difesa è in realtà un principio cardine di ogni ordinamento civile: in dubio pro reo. Se la bilancia delle prove sta in equilibrio, la sentenza deve assolvere: perché è meglio avere un colpevole in libertà, che un innocente in carcere. Nella sua cella a tre letti del carcere di Bollate, Alberto Stasi deve ringraziare per la sua sorte non tanto i giudici della Cassazione che lo hanno condannato in via definitiva per l’omicidio della sua fidanzata Chiara Poggi: quanto giudici ancora più autorevoli. Per l’esattezza, i giudici della Corte Costituzionale che nel 2007 dichiararono illegittima, e cancellarono dal nostro ordinamento, la norma varata l’anno prima dal Parlamento, che rendeva inappellabili le sentenze di assoluzione. Per la Consulta quella norma (varata indubbiamente in un contesto in cui i rapporti tra politica e giustizia erano più complessi di oggi, e gettavano la luce del conflitto di interessi su qualunque tentativo di riforma) violava la parità tra accusa e difesa, lasciando all’imputato condannato la possibilità di ricorrere in appello, ma impedendo al pubblico ministero di impugnare le sentenze di assoluzione. Pur di azzerare la norma, la Corte Costituzionale si dimenticò che a mettere in discussione la parità assoluta tra accusa e difesa è in realtà un principio cardine di ogni ordinamento civile: in dubio pro reo. Se la bilancia delle prove sta in equilibrio, la sentenza deve assolvere: perché è meglio avere un colpevole in libertà, che un innocente in carcere. Concetti ovvi, perfino banali. E sono questi stessi valori di fondo a rendere indigesto il percorso che ha portato alla condanna definitiva di Alberto Stasi. A esprimere dubbi sulla colpevolezza dell’imputato (o, più precisamente: sulla esistenza di prove sufficienti a dimostrarla) sono stati uno dopo l’altro tre giudici in toga: prima Stefano Vitelli, giudice preliminare a Vigevano; poi Anna Conforti e Fabio Tucci, presidente e giudice a latere della Corte d’assise d’appello di Milano che confermò l’assoluzione di Stasi. Giudice esperti, equilibrati, scrupolosi. Furono loro a certificare, nelle loro sentenze, che i dubbi esistevano. E allora, perché non scatta il principio di civiltà, in dubio pro reo. Semplicemente, perché il nostro ordinamento consente un andirivieni teoricamente infinito di processi e di sentenze, in cui condanne e assoluzioni possono venire impugnate e annullate senza che si arrivi a un punto fermo. Dal caso Sofri a piazza Fontana, dal delitto di Perugia a quello di Garlasco, le cronache di questi anni sono cariche di casi in cui l’unico prodotto certo dell’andirivieni è il disorientamento inevitabile di quel popolo nel cui nome le sentenze vengono pronunciate. E il cui unico rimedio sarebbe stabilire che se un imputato sceglie di affrontare il processo, e un tribunale stabilisce che non ci sono prove per condannarlo, la faccenda si chiude lì. La sentenza di Garlasco insegna che ormai la giustizia è un far west di Francesco Caringella (Presidente di sezione del Consiglio di Stato) Libero, 14 dicembre 2015 I giudici che fanno lo stesso lavoro e applicano le stesse leggi quando sono in camera di consiglio elaborano una verità relativa e non assoluta. Andrebbero snelliti i processi, come in Usa e Francia. Sabato scorso, pochi minuti dopo la notizia della condanna definitiva di Alberto Stasi, il mio telefonino è stato raggiunto da una chiamata. Me l’aspettavo. Era una telefonata simile a quella che avevo ricevuto dopo il verdetto di Perugia e innumerevoli altre pronunce della Corte di Cassazione che avevano posto la parola fine a giudizi caratterizzati da continui colpi di scena di scena e da misteriosi ribaltamenti di prospettiva. L’autrice di queste telefonate è mia madre, una meravigliosa signora di ottantasette anni, di una vivacità intellettuale irrorata di saggezza contadina, appassionata delle sempre più numerose trasmissioni televisive che si occupano, a ogni ora del giorno e della notte, dei più complessi e pruriginosi casi giudiziari. Nel corso di questi colloqui mi chiede come sia possibile che giudici che fanno lo stesso lavoro, che hanno seguito gli stessi studi, che hanno superato lo stesso concorso, che applicano le stesse leggi in aule con la scritta "La legge è uguale per tutti", approdino sugli stessi fatti, in relazione a identiche prove, a decisioni non solo diverse, o molto diverse, ma del tutto antitetiche. Quindi non pene divergenti, benefici o circostanze applicati in modo differente, ma verdetti agli antipodi: assoluzione o condanna; paradiso o inferno; libertà immediata o carcere a vita; inizio di una nuova esistenza o definitivo strangolamento del futuro. Mi domanda, quindi, con il buon senso della persona comune di cui noi giuristi dobbiamo avere più rispetto, se la giustizia sia un orologio scientifico o una macchina capricciosa. In questo caso specifico mi ha anche chiesto se sia mai accaduto che un imputato sia stato condannato dopo due consecutive sentenze di assoluzione. È difficile per un figlio magistrato placare le curiosità di una madre desiderosa di capire un mondo che le sfugge, anche se le appartiene come donna e come cittadina non meno di quanto appartenga a me come professionista del diritto. Non è mai agevole offrire risposte semplici a domande semplici. Provo a spiegarle che la giustizia dei Tribunali è umana, e non divina; che la verità a cui può ambire un giudice è quindi relativa, non assoluta; che i giudizi dei magistrati sono soggettivi e opinabili, non e certi; che il diritto, come insegna Nietzsche, è un’arte, non una scienza; che nell’arte non esistono i fatti, ma le interpretazioni; che in definitiva la sentenza, come ammonisce Spaventa, è un’opinione, discutibile come ogni opinione, pur se ufficiale e, per convenzione, definitiva grazie alla forza del giudicato e al divieto, specie nel caso del verdetto penale di assoluzione, del bis in idem; che, pertanto, quando le questioni sono complesse e scivolose, con la verità che balla nervosa tra la colpevolezza e l’innocenza, la divergenza di vedute tra i diversi giudici che esaminano lo stesso caso è del tutto naturale; che quindi, in un sistema come quello italiano, caratterizzato dalla ripetizione del giudizio in tre gradi (primo grado, appello e cassazione), la divergenza tra le pronunce è ineliminabile; che in altri ordinamenti, da quello statunitense a quello francese, il problema non si verifica non perché i giudici siano più bravi, ma per il semplice fatto che il giudizio di merito sulla colpevolezza è uno solo, mentre le impugnazioni sono rimedi eccezionali volti a verificare la regolarità del processo e il rispetto dei diritti della difesa. Nel caso del delitto di Garlasco, ho aggiunto che in un processo indiziario, come quello terminato alle 11.40 dello scorso 12 novembre, il tasso di soggettività e di opinabilità è accentuato dalla mancanza di prove regine. Mia madre non comprende queste spiegazioni dotte e troppo sofisticate. Non le può capire. Come ogni persona di buon senso pretende che la giustizia sia chiara, semplice, prevedibile. Vuole che essa conquisti la verità, pensa che esiste la verità vera al pari della giustizia giusta. Ritiene che la verità sia una, una sola. Come ogni persona vera crede alla verità, non alle verità. Alla fine di una vicenda dai contorni kafkiani come quella di Garlasco è difficile spiegare agli uomini estranei al mondo del diritto cos’è la giustizia che ogni giorno viene amministrata in nome del popolo italiano nei nostri Tribunali. Una condanna che arriva a otto anni e quattro mesi di distanza da quel terribile 13 agosto del 2007, dopo ben due sentenze di merito che hanno assolto l’imputato (caso raro, se non unico), lascia per definizione adito a incertezze che dovrebbero portare all’assoluzione per il ragionevole dubbio sulla colpevolezza. Alle domande della gente comune noi magistrati e giuristi dobbiamo rispondere. E dobbiamo farlo parlando e scrivendo in modo più chiaro e più semplice. Una prima risposta porrebbe essere una semplificazione della macchina della giustizia penale, che consenta di arrivare in tempi rapidi a una pronuncia definitiva senza infinite impugnazioni e ripetizioni del processo. La spossante reiterazione della commedia della giustizia, che non ha eguali in altre parti del mondo, non garantisce una verità migliore, ma rischia di premiare solo l’ultima verità in fatto di tempo, troppo spesso sbiadita dagli anni e dalle amnesie. Emilia-Romagna: le donne (dimenticate) in carcere parmaquotidiano.info, 14 dicembre 2015 La vita delle donne detenute "non è un argomento che suscita particolare attenzione neppure tra gli addetti ai lavori": proprio per questo motivo, in occasione della Giornata mondiale dei diritti dell’uomo, la Garante regionale delle persone private della libertà dell’Emilia-Romagna, Desi Bruno, e la presidente della commissione Parità e diritti delle persone dell’Assemblea legislativa regionale, Roberta Mori, sono state alla casa circondariale di Forlì per presentare i risultati della ricerca "Detenzione al femminile - Ricerca sulla condizione detentiva della donne nelle carceri di Piacenza, Modena, Bologna e Forlì", promossa dall’Ufficio della Garante e realizzata dall’associazione di volontariato "Con…tatto". "Le recluse sono sempre state poche, meno del 5% della intera popolazione ristretta, e la loro esiguità numerica non le ha costrette a quel trattamento inumano e degradante costituito dalla mancanza dello spazio minimo vitale- commenta la Garante, Desi Bruno-. Eppure sono ingombranti, anche se la reclusione delle donne non ha una autonomia organizzativa, e vive spesso di quanto accade nel carcere maschile, dal quale riceve briciole, in termini di risorse". "Ci interessiamo, attraverso l’importante lavoro della Garante, a una ricerca rispetto alla detenzione femminile perché la popolazione femminile carceraria è del 4%, quindi veramente esigua rispetto alla popolazione carceraria tutta, e proprio per questo le esigenze e i bisogni che possono esprimere le donne detenute, ma anche le operatrici delle carceri, sono per noi importanti per capire e approfondire la loro relazione con il carcere e la vita al suo interno- commenta la presidente Mori-. Questo perché poi tutto si riflette anche sulla vita che sarà all’infuori del carcere e quindi speriamo e confidiamo che una ricerca approfondita su questo tema ci dia spunti utili alla prevenzione e al contrasto dei reati". In Emilia-Romagna le donne in carcere, alla data del 2 dicembre 2015, erano 123, di cui 44 straniere - in prevalenza provenienti dall’Est Europa. Sono 5 gli Istituti che ospitano al loro interno sezioni dedicate all’espiazione di pena per le donne: Piacenza, Modena Sant’Anna, Bologna, Forlì e Reggio Emilia. Nel 2014 si è registrato un parto in carcere, mentre erano 10 le detenute madri: ben tre di queste hanno scelto di non vedere i figli, o "perché il contatto è breve e il distacco è fonte di sofferenza" o per "non farli entrare in contatto con l’istituzione penitenziaria". Oggetto della ricerca, che Bruno e Mori hanno presentato insieme alla direttrice del carcere di Forlì, Palma Mercurio, e a esponenti nel mondo dell’associazionismo tra cui l’autrice, Lisa di Paolo, è la condizione di detenzione delle donne detenute all’interno degli Istituti dell’Emilia-Romagna, al fine di conoscere quali sono le modalità di organizzazione delle sezioni femminili, le attività, il rapporto con gli operatori, le opportunità di incontro con i familiari e figli, le difficoltà di convivenza. Si vogliono rilevare sia le variabili di tipo oggettivo - numero di detenute, nazionalità, tipologia di reato - che soggettivo - modalità di adattamento all’ambiente, sostegno e attività dedicate. Paola Cigarini, referente della Conferenza regionale del volontariato, ha poi presentato tutte le attività realizzate nelle altre carceri in occasione della Giornata mondiale dei diritti dell’uomo. "È proprio nella progettualità per un carcere diverso che si deve partire dall’uso del tempo della pena in funzione di costruzione di opportunità - sostiene Bruno. E si potrebbe partire dalle donne detenute, riconoscendo alle stesse una diversa capacità di relazione e di cura, nella consapevolezza che lavorare per i diritti nei luoghi di privazione della libertà personale trova un limite insuperabile nella esigibilità degli stessi in quel contesto, la soggettività delle recluse appare come una opportunità da cogliere, e non da accantonare, incentivando capacità, occasioni, riflessioni, cambiamenti: questa ricerca- conclude la figura di Garanzia dell’Assemblea legislativa vuole essere un piccolo, ma significativo, contributo". Sardegna: giovani detenuti, la seconda chance è un viaggio in barca a vela di Davide Madeddu L’Unità, 14 dicembre 2015 "La rotta per la legalità", un progetto di recupero dei carcerati. La seconda chance è un viaggio in barca a vela. Verso una nuova vita lontana dalle sbarre di una prigione o dalla strada, ma fatta di sacrifici, solidarietà e lavoro. E qui la barca a vela non è solo una metafora della vita ma anche un modo per chi, non ancora diciottenne, ha sbagliato e ora cerca di saldare il suo debito con la società. Una sfida in cui sport e giustizia, recupero sociale e solidarietà, si uniscono in un viaggio proprio in barca a vela attorno a tutta la Sardegna seguendo quella che è stata denominata la "Rotta della legalità". A bordo lo skipper Andrea Mura, cagliaritano con alle spalle un prestigioso curriculum sportivo e parecchie collaborazioni nel sociale. L’idolo per chi si avvicina allo sport della vela non solo in Sardegna. "Con l’associazione New Sardinia Sail di Simone Camba e la mia Vento di Sardegna - spiega Andrea - si porta avanti questo progetto ambizioso e complesso che vede la vela come strumento per il recupero e reintegro di giovani che hanno avuto problemi con la giustizia nella società". Una sfida, l’ennesima per il campione, in cui lo sport diventa scuola di vita "alternativa alla strada e a un’esistenza infelice, quella di una vita fuori dalle regole". Primo step della "Rotta della legalità" con il progetto "Una vela per amico" portato avanti dalle due associazioni con la collaborazione del Dipartimento di Giustizia Minorile per la Sardegna e la Polizia di Stato, il viaggio (si parte il 14 dicembre) da Cagliari sino a Villasimius. "È la prima tappa di un percorso importante che servirà ai giovani per comprendere questo mondo - spiega ancora - ma allo stesso tempo apprezzare una vita dentro le regole". Perché in barca, soprattutto quando si sta in mare, è come stare una famiglia affiatata e collaborativa. "A bordo ci si dà del tu. Ognuno deve svolgere il proprio compito e rispettare il ruolo che viene assegnato", rimarca lo skipper. "Questo è il primo esperimento che coinvolge i ragazzi con problemi con la giustizia e con alle spalle storie sfortunate. Diciamo pure che l’insegnamento che arri va dal vivere la barca a vela e dal suo andare per mare può diventare un passo importante per un riscatto sociale. E per abbandonare un mondo senza regole. Una possibilità per chi ha sbagliato e ora vuole cambiare vita e sa che da solo non riuscirebbe a farlo". I giovani aspiranti marinai saranno abrado di una barca a vela da 31 piedi, 11 metri circa e seguendo le istruzioni di tutore skipper solcheranno i mari della Sardegna seguendo la rotta antioraria che da Cagliari arriverà a Villasimius, si sposterà poi verso la Costa Smeralda, la zona di porto Torres, prima di raggiungere Carloforte e quindi fare ritorno a Cagliari. "Il progetto è autofinanziato e viene realizzato soprattutto grazie all’impegno e alla costanza di chi ogni giorno si adopera per fare tutto quanto - prosegue Mura. Allo stesso tempo vuole essere una sfida importante in cui si dimostra l’importanza dello sport nella società e nella crescita dei giovani". A bordo della barca a vela 6 giovani che "dovranno lavorare e vivere assieme". Un primo passo che potrebbe avere sviluppi positivi "Se tutto andrà bene, infuturo, ci sarà anche la possibilità di andare a fare le regate. Quando parli di agonismo, con i ragazzi, tutto cambia. Quando sei in gara devi darci l’anima. È un bel combattimento quello che si compie quando si sta in barca e non come quello a pugni nella strada". Un esperimento che dà fiducia: "Penso che apprezzeranno questa opportunità. Loro potrebbero diventare domani dei miei aiutanti". Una possibilità. Ora il primo passo, quello più importante per un futuro diverso. "L’obiettivo è quello di farli appassionare. Se poi non completeranno il periplo dell’isola non ci saranno problemi. Ci potrà essere una seconda possibilità, quando il tempo migliorerà". Venezia: incontro Ordine avvocati "superata l’emergenza carceri, ma c’è altro da fare" La Nuova Venezia, 14 dicembre 2015 Affollato incontro venerdì pomeriggio nella sede de Consiglio dell’Ordine degli avvocati in piazzale Roma, dove i deputati del Pd Davide Zoggia, componente della Commissione Affari istituzionali della Camera, e David Ermini, responsabile Giustizia del Partito, hanno presentato il lavoro del Governo e del Parlamento sui temi caldi della giustizia ed hanno poi risposto ad alcune domande dei legali presenti. Ha introdotto gli ospiti il presidente dell’Ordine forense veneziano Paolo Maria Chersevani. Ermini ha innanzitutto ricordato che è stato disinnescato il procedimento di infrazione europeo e il rischio di una pesante penalizzazione all’Italia per quanto riguarda il sovraffollamento delle carceri. "Siamo fuori dall’emergenza", ha sostenuto il deputato del Pd, "ma i problemi delle carceri non sono risolti". Per quanto riguarda il settore penale, ha spiegato che alla Camera sono già stati approvati la riforma del decreto penale, la messa in prova anche per i condannati adulti e l’abrogazione di alcuni reati in modo da permettere alle Procure di lavorare meglio e con maggior efficienza. "L’Italia è l’unico paese europeo", ha sottolineato, "in cui esistono oltre 30 mila condotte criminose". Ancora da risolvere, invece, la questione della prescrizione, in particolare per quanto riguarda i processi di corruzione. "Va ricordato che il governo Renzi", è intervenuto Zoggia, "non è interamente del Pd, dobbiamo fare i conti con gli alleati". Per quanto riguarda il settore civile, i due parlamentari hanno segnalato l’indispensabilità della collaborazione degli avvocati per fare in modo che funzionino la mediazione e la negoziazione assistita in modo da deflazionare l’enorme numero di cause che arrivano agli uffici giudiziari. Contemporaneamente, ha sostenuto Ermini, c’è la necessità di riformare la magistratura onoraria in modo da rendere la giustizia più veloce ed efficiente. Comunque, nel civile un passo avanti è stato fatto almeno per quanto riguarda il divorzio, approvando quello breve. Altamura (Ba): concluso una progetto di formazione edilizia per 10 detenuti di Pasquale Dibenedetto altamurgia.it, 14 dicembre 2015 Verranno illustrati domani nel carcere di Altamura (Bari), anche alla stampa e alle persone autorizzate, i risultati del progetto sperimentale di inclusione sociale che ha coinvolto dieci detenuti in custodia attenuata con l’obiettivo di accrescere l’autostima e di apprendere competenze nella pittura, stuccatura, rifinitura e decorazione edilizia, formando altrettante figure professionali, e di promuovere la partecipazione lavorativa degli stessi. Il progetto sposa le finalità previste dall’Asse III Inclusione Sociale del Programma operativo del Fondo sociale europeo Puglia 2007/2013 e contribuisce al conseguimento del 5° obiettivo prioritario Poverty/social exclusion declinato all’interno della nuova Strategia Europa 2020 che prevede di "diminuire il numero di persone a rischio di povertà e di esclusione sociale". L’obiettivo generale dell’Avviso con il progetto esecutivo Paint your wall è stato quello di potenziare le competenze professionali del detenuto e migliorare le relazioni e i rapporti interpersonali che agevolano il processo di inclusione sociale e lavorativa, attraverso l’offerta degli strumenti conoscitivi, sperimentali e professionali necessari per contrastare le condizioni di discriminazione nel mercato del lavoro e assicurare capacità competitiva. Il progetto è durato 3 mesi coinvolgendo la Auxilium & Dintorni per il supporto socio assistenziale di soggetti in condizioni di disagio; la Auxilium Impresa Sociale (soggetto proponente) per la formazione dei detenuti, e per la fase di accompagnamento, con il suo staff di psicologi ed esperti; la Amica Coop. per la fase di inserimento lavorativo, viste le precedenti esperienze (progetto Florovivaista) con soggetti discriminati. Queste componenti sono state affiancate da altri attori istituzionali come il Centro Territoriale per l’impiego di Altamura, Unione Sindacale Comunale Cisl, la Cna Area Metropolitana Bari, Confcooperative Bari e Bat, Istituto tecnico per geometri "Nervi" di Altamura (cultura), associazione Arché (Intercultura), Gruppo Ge.Di. Srl (settore edilizia), Ditta Vitale Michele (settore edilizia), Cobar Spa (settore edilizia), Azione Cattolica Italiana Diocesi di Altamura (sociale) e Comune di Altamura - Ufficio di Piano. Nel corso della giornata di domani le persone autorizzate potranno visitare in forma guidata gli spazi decorati in cui si è svolta l’attività e che per il futuro diverranno spazi di accoglienza e di incontro per attuare progetti diversi sempre rivolti ai detenuti e ai loro familiari. All’evento parteciperà l’assessore regionale al lavoro Sebastiano Leo. Bra (Cn): "quella clinica sia davvero più sicura, oppure via i detenuti psichiatrici" di Erica Asselle La Stampa, 14 dicembre 2015 L’appello di tre consiglieri comunali dopo l’incontro in Prefettura. La casa di cura "San Michele" di Bra ospita 18 pazienti psichiatrici giudiziari Continua a far discutere il "caso" Rems a Bra. Dopo l’incontro in Prefettura a Cuneo con tutti gli enti coinvolti, il sindaco Bruna Sibille ha riferito i contenuti alla conferenza dei capigruppo sottolineando gli impegni presi dall’assessore regionale alla Sanità, Antonio Saitta. Quest’ultimo ha assicurato che individuerà una struttura di coordinamento che faciliti le comunicazioni tra gli interessati e sosterrà la richiesta del primo cittadino di un potenziamento delle forze dell’ordine sul territorio e in tutti i centri interessati dalle nuove Residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria per i detenuti ex Opg (Ospedali Psichiatrici Giudiziari). "Tuttavia ci siamo resi conto - commentano i consiglieri della lista "Bra Domani", Davide Tripodi e Sergio Panero - che, ad oggi, non esiste nulla di concreto, ma solo dichiarazioni di impegno e rassicurazioni in merito alla sicurezza della Rems attivata dalla Regione nella clinica San Michele di Bra". Di tono analogo le considerazioni del capogruppo del Movimento 5 Stelle, Claudio Allasia: "La funzione pubblica di controllo deve essere assicurata formalmente e praticamente con assunzioni di responsabilità, altrimenti la Rems non potrà proseguire". Milano: Scola apre la Porta Santa in Duomo, nel corteo anche detenuti e migranti Corriere della Sera, 14 dicembre 2015 Duemila persone in piazza e cinquemila all’interno per assistere a un evento inedito nella storia. Il portale prescelto è quello dedicato alla libertà religiosa, il primo a sinistra. Si è aperto solennemente nella diocesi ambrosiana, domenica pomeriggio, il Giubileo straordinario della Misericordia indetto da Papa Francesco, con l’apertura della Porta Santa del Duomo da parte dell’arcivescovo di Milano cardinale Angelo Scola. In piazza si è radunata una folla di circa duemila persone per assistere all’evento, durante la celebrazione delle 17.30 (Messa vespertina della V domenica d’Avvento) presieduta dall’arcivescovo. È la prima volta che nella secolare storia del Duomo di Milano viene aperta una Porta Santa. Il portale prescelto è quello dedicato alla libertà religiosa, il primo a sinistra (lato nord) nella facciata. L’opera fu commissionata nel ‘37, dall’allora arcivescovo di Milano, il cardinale Alfredo Ildefonso Schuster ad Arrigo Minerbi, scultore di origini ebraiche che fu costretto ad abbandonare il progetto e a rifugiarsi in Vaticano per sfuggire alle persecuzioni razziali. Il portale fu poi portato a compimento dallo stesso artista nel 1948. La celebrazione è iniziata all’interno del Duomo, non all’altare principale ma a quello di San Giovanni Bono, con la proclamazione del Vangelo e la lettura della Bolla di indizione del Giubileo. La processione con il cardinale Scola, percorrendo la navata centrale, è poi uscita sul sagrato. Raggiunta la Porta Santa (chiusa da sabato) l’Arcivescovo ha introdotto l’apertura con le parole: "Aprite le porte della giustizia, entreremo a rendere grazie al Signore". Due penitenzieri hanno spinto i portoni aprendoli mentre veniva letto il versetto "È questa la porta del Signore: per essa entriamo per ottenere misericordia e perdono". All’apertura della Porta Santa da piazza Duomo si è levato un applauso spontaneo. L’Arcivescovo, con in mano il libro dei Vangeli, ha varcato per primo la Porta Santa, seguito dalla processione, mentre il coro intonava: "Io sono la porta, dice il Signore, chi passa per me sarà salvo". Nella processione sono entrati, per primi dietro Scola, il cardinale Dionigi Tettamanzi e sei vescovi ausiliari, presbiteri, diaconi, una rappresentanza dei fedeli delle sette zone pastorali, una suora, una consacrata e un consacrato, famiglie, ospiti in case di accoglienza per disabili, dei detenuti, alcuni migranti. In chiesa anche le autorità civili: il sindaco di Milano Giuliano Pisapia, il prefetto Alessandro Marangoni, il questore Luigi Savina, il presidente del Consiglio regionale Raffaele Cattaneo e l’assessore al Reddito di autonomia e inclusione sociale Giulio Gallera. L’omelia. Il cardinale Scola nell’omelia ha spiegato: "Col Giubileo, seguendo le orme di Gesù, la Chiesa offre tempi determinati perché la misericordia riscatti il nostro peccato, mediante il perdono. Il Giubileo è sorgente e annuncio di speranza per tutti, soprattutto per coloro che si sentono esclusi dalla salvezza". Il cardinale Scola ha poi spiegato il senso della pratica giubilare dell’indulgenza, "una prassi cristiana che nasce dalla consapevolezza della Chiesa di dover sostenere tutti i suoi figli nel cammino di conversione". Al termine della Messa e fino alle ore 20 è stata data la possibilità alle persone raccolte in Cattedrale e quelle in attesa in piazza Duomo di passare dalla Porta Santa, che per tutto l’anno giubilare resterà aperta ogni giorno dalle 7 alle 19. Le 9 chiese giubilari. Sono in tutto 9 le Porte Sante nella diocesi ambrosiana. Oltre al Duomo, a Milano saranno "chiese giubilari" la Basilica di Sant’Ambrogio e il santuario del Beato don Carlo Gnocchi: l’apertura delle porte sante è avvenuta domenica 13 dicembre mattina, con i vicari episcopali. Per le altre sei zone pastorali della diocesi ambrosiana sono stati scelti il santuario del Sacro Monte di Varese, la basilica di San Nicolò a Lecco, il santuario della Beata Vergine Addolorata a Rho, il santuario di San Pietro Martire a Seveso, ex sede del seminario, la chiesa parrocchiale della Madonna della Misericordia a Bresso e la chiesa dell’Istituto Sacra Famiglia di Cesano Boscone. Avellino: detenuti di Sant’Angelo dei Lombardi a Roma per incontrare Papa Francesco irpiniapost.it, 14 dicembre 2015 Lunedì 14 dicembre un gruppo di detenuti della Casa di Reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi parteciperà all’udienza con Papa Francesco. L’iniziativa, condivisa dal direttore del carcere altirpino, Massimiliano Forgione, è stata presa dalla Cooperativa Sociale il Germoglio di Sant’Angelo dei Lombardi, che opera già da molti anni nell’istituto penitenziario altirpino. L’idea di far incontrare i detenuti con il Pontefice è venuta quando Fiorenzo Vespasiano, vice presidente della cooperativa santangiolese ha avuto modo lui stesso, pochi mesi orsono, di fare la conoscenza con Papa Francesco e di donargli una bottiglia di vino "il Galeotto", prodotto dai detenuti nel tenimento agricolo del carcere di Sant’Angelo e presentato a Expo 2015. In quell’occasione il Pontefice, incuriosito dall’etichetta, volle sapere di più sul coinvolgimento dei detenuti nell’attività enologica che si svolgeva nella casa di reclusione. Il pontefice apprezzò molto l’implicito valore aggiunto della produzione vinicola poiché il "vino dei detenuti", com’è oramai conosciuto, si fa portavoce anche di un rilevante messaggio sociale connesso alla vasta rete del "Progetto Policoro" che da venti anni, sotto l’egida della Conferenza Episcopale Italiana, promuove la libera attività imprenditoriale dei giovani e allo stesso tempo l’attenzione alle classi deboli e svantaggiate. E così, nella suggestione dell’Aula Paolo VI i detenuti avranno modo di incontrare il Santo Padre e, per bocca di uno di loro, raccontare la loro esperienza umana e sociale, legata alla detenzione e al lavoro in carcere. "Sarà certamente un momento di significativa condivisione - ci anticipa Fiorenzo Vespasiano - che va messo in stretta relazione con il Giubileo della Misericordia indetto da Papa Francesco. L’udienza, che fa vivere ai detenuti anche l’esperienza del pellegrinaggio a Roma, va a legarsi a temi come quello del lavoro in carcere e ancora di più al reinserimento nel tessuto lavorativo troppo spesso negato agli ex detenuti. Temi assai cari al Pontefice, il quale non perde occasione per richiamare le istituzioni al dovere solidale di perseguire, dopo la reclusione, la re-inclusione sociale". Ad accompagnare gli ospiti della casa di Reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi saranno proprio gli operatori della Cooperativa il Germoglio con il presidente Marco Luongo e il responsabile della filiera enologica Angelo Fuschetto. I detenuti, che chiederanno al Pontefice di far visita alla struttura carceraria di Sant’Angelo dei Lombardi, porteranno in omaggio al Santo Padre i prodotti del loro lavoro e tra questi, ovviamente, il vino "Il Galeotto" che di recente è stato consegnato anche ai vertici dello Stato, dal Presidente della Camera Laura Boldrini al Presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano, dal Capo del Governo Matteo Renzi al Ministro di Giustizia Andrea Orlando e a quello del Lavoro Giuliano Poletti. Vuoi vedere che Papa Francesco accetti l’invito? Avezzano (Aq): concerto tra i detenuti, per portare l’atmosfera di Natale dietro le sbarre marsicalive.it, 14 dicembre 2015 "Aria di Natale" è il titolo del concerto che la Fisiorchestra Hespesion, diretta dal maestro Francesco Fina, ha tenuto lo scorso sabato 5 dicembre nella casa circondariale di Avezzano. Inserito in un contesto di eventi loro dedicati, il concerto ha avuto l’obiettivo di portare agli ospiti del San Nicola, l’augurio per un cammino quanto più sereno e riflessivo verso il Natale. Con una standing ovation incantata e felicemente commossa, detenuti, guardie, il personale coinvolto e gli ospiti, hanno accolto l’esecuzione di brani magistralmente eseguiti da musicisti di ottimo livello a cui si è unita la bella voce della soprano Natalia Tiburzi, strappati così da una routine quotidiana fatta di gesti faticosi e colmi di speranza, e trasportati come per incanto in Fisorchestra (attuale)un’atmosfera di armonia e calore umano. Quello di sabato non resterà il solo ricordo: accolti dalla disponibilità del direttore Mario Silla e coadiuvati dalle forze dell’ordine e dal personale dell’area educativa, i volontari che operano all’interno della struttura, hanno organizzato altri piacevoli eventi che si svolgeranno lungo il mese di dicembre. Non stona pensare sin da ora che il Natale quest’anno significherà per molti vivere e rafforzare il valore della misericordia, con le porte del cuore aperte proprio laddove sono ancora chiuse. La Fisorchestra Hesperion è nata nella primavera del 2009. Ideatore, fondatore e direttore della fisorchestra è il maestro Francesco Fina. La maturità umana e musicale raggiunta dal gruppo è il risultato di un grande e proficuo impegno di tutti i componenti. È composta da valenti e affermati Maestri di Fisarmonica. Presenta nella sua attività concertistica, partiture originali e rielaborazioni di brani classici perfettamente adattati per questo organico. La versatilità della fisarmonica e l’amore dei musicisti per la bella musica, sono le chiavi per spaziare dal genere classico al jazz, passando dalla musica sinfonica, all’opera ed altro ancora. Le manifestazioni tenute hanno determinato un successo sempre di pubblico e di critica. Il gruppo ha al suo attivo una rilevante attività artistica che lo vede protagonista in numerose iniziative organizzate da enti e organismi di riconosciuta valenza culturale. La Fisorchestra "Hesperion", con una produzione annuale di eventi musicali, unitamente a molte altre iniziative collaterali, rappresenta oggi un patrimonio artistico, culturale ed umano degno di inserirsi nel circuito delle più importanti realtà artistiche operanti a livello regionale e nazionale. Busto Arsizio: in carcere va in gol il fair play di Giovanni Toia La Provincia di Varese, 14 dicembre 2015 Al torneo di calcio dei detenuti un grande esempio: la rete decisiva è irregolare e il giocatore lo ammette. La coppa va alla Terza Sezione, ma vincono tutti. Gli organizzatori: "Dalle sconfitte ci si può rialzare". Se il torneo di calcio fra i detenuti della casa circondariale di Busto Arsizio aveva lo scopo di educare, questo è andato in gol. Durante la finale svoltasi ieri mattina fra la Terza Sezione e quelli dell’area Trattamento, a pochi minuti dalla fine questi ultimi segnano il gol del 3-2 in maniera regolare, ma da una ripresa del gioco un po’ confusa. C’è un attimo di smarrimento subito spazzato via da un giocatore (Sonny) della T.A. che decide di non considerare quella rete che dava il vantaggio alla sua squadra e che, probabilmente, le avrebbe assegnato la vittoria finale. "Non è successo nulla, riprendiamo daccapo", sentenzia. Il gioco riprende e sono quelli della Terza Sezione che vanno sorprendentemente in vantaggio fra gli sguardi increduli della T.A. Partita finita? Macché. Appena il tempo di rimettere la palla al centro e subito si ributtano in avanti trovando il 3-3 con un’azione spettacolare. Si va ai rigori e sono quelli della Terza Sezione che hanno la mira migliore. Se l’episodio del gol non gol fosse avvenuto su qualunque campo di calcetto o al parco pubblico, avrebbe scatenato una furente discussione e sicuramente sarebbero volate parole grosse. Chi aveva goduto del vantaggio non avrebbe indietreggiato di un millimetro. Dentro quelle mura di Via per Cassano ha invece prevalso la regola sportiva: quella appagante che sa rispettare l’avversario. E se, beffardamente sembra per un attimo metterti con le spalle al muro, se fai leva sulla tua forza che hai dentro, sa ripagarti facendoti sentire libero dentro. "I pilastri dello sport aiutano a rieducare". Il progetto di un torneo di pallone per i detenuti è un’intuizione di Luca Cirigliano, personaggio conosciuto a Busto nell’ambito della cultura. "Inizialmente consisteva nel creare una nazionale del carcere di Busto ed ho selezionato 16 giocatori su 220 che hanno fatto il provino. Ha affrontato qualche oratorio e la squadra del Pd. Poi è nata poi l’idea di organizzare anche un torneo interno fra le quattro sezioni con girone all’italiana la cui vincente ha sfidato la Trattamento, ammessa direttamente in finale". Il progetto è stato accolto con entusiasmo dal direttore del carcere, Orazio Sorrentini, perché "i pilastri dello sport fanno parte del percorso educativo del detenuto, aiutano a stare in gruppo e poi mi ritengo un calciofilo. Ma facciamo anche altre attività sportive come la corsa campestre", chiamata "Fuggi-Fuggi" Conclusione di torneo con premiazione per tutti i giocatori con tanto di attestato e con l’educatore Domenico Greco ad evidenziare che "dalla sconfitta ci si può rialzare". Con lui Rita Gaeta (responsabile dell’Area Trattamentale), il vice commissario Antonio Coviello ed il volontario Agostino Crotti. Tutti a dare solennità ad un evento che ha mosso la rete interiore anche di chi vi ha assistito. Il rinfresco finale è stato offerto dalla Uisp di Varese. Persone senza fissa dimora, indagine del governo e misure di aiuto di Alessandro Vitiello Il Sole 24 Ore, 14 dicembre 2015 Clochard in aumento nel nostro Paese: sarebbero 50.724, infatti, contro i 47.648 del 2011, secondo la stima del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali contenuta nell’indagine presentata la scorsa settimana con l’Istat, la Caritas e la Fio.PSD (Federazione italiana organismi per le persone senza dimora). Nord e Sud. Il numero corrisponde al 2,43 per mille della popolazione residente nei Comuni considerati, che nella distribuzione geografica rispecchiano il sempiterno divario tra Nord e Sud. Sostanzialmente stabile nelle regioni del Nord-ovest, del Centro e delle Isole, la quota dei senza dimora diminuisce nel Nord-est del Paese e aumenta al Sud. Rispetto al 2011, comunque, il numero dei servizi di mensa e accoglienza notturna diminuisce del 4,2%, mentre aumentano le prestazioni erogate mensilmente dai servizi attivi (+ 15,4%). Chi sono. I senza dimora sono quasi tutti uomini (85,7%), stranieri (58,2%), e come si può facilmente immaginare ha un basso titolo di studio. Cresce rispetto al passato la percentuale di chi vive solo (da 72,9% a 76,5%), a svantaggio di chi ha un partner o un figlio (dall’8% al 6%). Il 51%, inoltre, dichiara di non essersi mai sposato. Rispetto all’indagine del 2011, inoltre, si riduce il divario tra utenti stranieri e italiani in termini di età, durata della condizione di senza dimora e titolo di studio. Gli italiani sono mediamente più anziani e meno istruiti. La perdita di un lavoro stabile insieme alla separazione dal coniuge e/o dai figli si confermano come gli eventi più rilevanti nel percorso di emarginazione. Un peso importante, seppur più contenuto, lo hanno anche le cattive condizioni di salute: disabilità, malattie croniche e dipendenze. Il contrasto all’emarginazione. Per contrastare i casi più gravi di emarginazione e povertà, il ministero del Lavoro ha proposto linee di indirizzo approvate dalla Conferenza Unificata il mese scorso e presentate congiuntamente all’indagine. "Affrontare i problemi con la logica dell’emergenza non è il modo giusto per risolverli - ha commentato il ministro Poletti - e rischia anzi di essere una scusa per rinviarli e, di conseguenza, renderli più difficili. Occorre invece, come nel caso del contrasto ai casi di emarginazione più grave e in generale alla povertà, un approccio strategico che permetta di definire interventi strutturali coordinati tra più soggetti e, per questo, in grado di produrre risultati concreti". Le linee di indirizzo, che raccolgono le migliori esperienze locali, nazionali ed europee, sono state elaborate dai rappresentanti dei diversi livelli di governo (in particolare delle Città metropolitane), in collaborazione con i diversi soggetti che offrono servizi come la Federazione italiana organismi per le persone senza dimora. Le risorse. Le risorse del Pon Inclusione per i senza dimora e del programma operativo del Fead (il Fondo europeo di aiuti agli indigenti) sono associate alle linee guida. "Il Governo - ha chiarito Poletti - ha deciso di destinare, nell’ambito di questi due programmi comunitari, 100 milioni di euro in sette anni al finanziamento di servizi coerenti con le linee guida, cui potranno aggiungersi le risorse che le Regioni vorranno destinare con la programmazione regionale e le grandi città con la programmazione del Pon Metro. Ed è motivo di soddisfazione che la Commissione europea, intervenuta alla presentazione, abbia manifestato grande apprezzamento per questa modalità di utilizzo delle risorse comunitarie, ringraziando il Governo per aver saputo cogliere in maniera esemplare le opportunità offerte dal nuovo ciclo di Programmazione". I fantasmi da scacciare nell’islam italiano di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 14 dicembre 2015 L’Islam italiano è da tempo un paradosso. Seconda religione per numero di fedeli (gli islamici sono almeno un milione e seicentomila e nel 2030 potrebbero essere tre milioni, ovvero il 5 per cento della popolazione), unica religione non riconosciuta tra le principali praticate in Italia. L’Islam non ha con lo Stato un’intesa che traduca in norme la libertà di culto garantita dalla nostra Costituzione. La ragione primaria di questo vuoto sta nell’estrema difficoltà a trovare tra gli islamici un interlocutore che parli a nome dell’intera comunità: l’orizzontalità del sistema di culto e la litigiosità di leader che senza tregua si sconfessano a vicenda portano a un’inconcludenza mai superata, neppure dal tentativo dell’allora ministro Giuseppe Pisanu con la sua Consulta per l’Islam italiano del 2005. La ragione accessoria sta forse in un riflesso inconfessabile verso una fede che in passato ha fatto da propellente a invasioni e conquiste e ora viene brandita abusivamente come vessillo dal terrorismo assassino. Tuttavia la storia non cammina a ritroso e fingere che così tanti italiani di quella fede non esistano è, prima che sbagliato, controproducente. Nel vuoto e nella nebbia i pericoli crescono. Le "moschee" in Italia sono un migliaio: le virgolette qui sono indispensabili perché di esse solo quattro hanno il tratto architettonico della moschea e altre quattro sono luoghi di culto riadattati. Per il resto si utilizzano garage, cantine, ex magazzini. Senza sicurezza né dignità, con imam spesso improvvisati (i cosiddetti "fai-da-te"). Non ci vuole uno stratega per capire che il primo passo è fare emergere anche fisicamente questo magma di anime e aspettative. Appare contraddittoria la posizione di chi, tra i politici, invoca a ragione albo degli imam e sermoni in italiano sobillando però ogni volta, per raccattare qualche voto, i quartieri in cui si prospetta la costruzione di una moschea. Lo scambio tra regole accettate e dignità garantita, alla base di una convivenza civile, tiene ovviamente tutto assieme: piccole moschee di quartiere con imam formati e riconoscibili e sermoni comprensibili a tutti, aiuti concreti a chi accetta di uscire dalla nebbia spingendo così le comunità islamiche a dotarsi di una voce univoca, la più moderata possibile. Non basterà a sconfiggere "l’imam Google", lo spettro dell’auto-indottrinamento via Internet. Ma scaccerà i fantasmi dei predicatori più invasati, che incombono soprattutto sulle periferie. Proprio nelle periferie va mosso il secondo passo: le nostre non sono ancora banlieue, non hanno la cupa uniformità di rabbia e segregazione che altrove ha prodotto mostri. Bisogna intervenire ora, imboccando con provvedimenti governativi la strada del recupero indicata da Renzo Piano, per evitare che tra vent’anni Tor Sapienza somigli davvero a Courcouronnes. In questa sfida avremo un alleato prezioso: le giovani islamiche, seconda generazione femminile, le più interessate a coniugare fede e libertà. Come raccontato nell’inchiesta di queste settimane sul Corriere, sono loro, che qui studiano, lavorano e costruiscono il futuro, la vera cinghia di trasmissione dei valori (lo sa anche l’Isis, che a loro rivolge appelli incessanti). Il distinguo non sarà sull’hijab (che incornicia appena il volto e appare del tutto accettabile in luoghi pubblici, a differenza di veli che mascherano la persona). Conterà piuttosto la capacità di vivere e applicare la Costituzione oggi, da cittadine d’Italia, spingendo domani i figli a farlo. Tra il duro assimilazionismo francese e il disastroso multiculturalismo britannico dobbiamo cercare una nostra via originale: giorno per giorno, senza formule magiche. Abbiamo il talento per trovarla. Libia, via al cessate il fuoco Kerry: "Governo in 40 giorni" di Vincenzo Nigro La Repubblica, 14 dicembre 2015 Svolta a Roma. L’esecutivo di unità nazionale torna a Tripoli Gentiloni: accordo unanime. Gli esperti: Daesh può colpire. La diplomazia si misura anche interpretando i suoi riti nascosti. "Non c’è stato bisogno di riscrivere il comunicato finale, quello preparato dall’Italia con gli americani: alla fine tutti i ministri erano d’accordo", dice il responsabile della Farnesina Paolo Gentiloni. Significa che il lavoro preparatorio degli italiani, la pressione fortissima degli Stati Uniti, della Russia hanno convinto perlomeno a una tregua i Paesi regionali che in Libia da mesi si combattono per procura: Turchia e Qatar, Arabia Saudita ed Emirati hanno sul campo libico i loro alleati, che armano e "manovrano". Forse perché impegnati allo spasmo sul fronte siriano/iracheno, per il momento si sono impegnati ad appoggiare la pace in Libia. La conferenza sulla Libia di ieri a Roma è stata un passo importante, che il premier Matteo Renzi definisce "una speranza e un successo diplomatico per l’Italia". Questi i punti importanti: il 16 dicembre in Marocco le fazioni libiche firmeranno l’accordo per la nascita del nuovo governo proposto dal vecchio mediatore Onu Bernardino Leon in ottobre. Il segretario di Stato John Kerry annuncia poi che entro 40 giorni quel governo dovrà entrare pienamente in funzione. E precisa che siederà a Tripoli, in quella che se tutto andrà bene tornerà ad essere l’unica capitale di una Libia più decentrata, in cui le autonomie locali avranno maggior ruolo. Entrerà in vigore un cessate-il-fuoco e verranno aperti dei corridoi umanitari per assistere la popolazione. Soprattutto a Bengasi, dove la situazione è di emergenza totale. Paolo Gentiloni fa notare che la svolta più decisiva è maturata quando John Kerry in persona, e quindi l’amministrazione Obama, hanno deciso di ritornare a impegnarsi sulla Libia, di non tenersi più distaccati in attesa che gli eventi portassero chissà a che cosa. L’Italia ha fatto capire a Kerry che senza l’appoggio pesante degli Usa ogni idea o invenzione diplomatica italiana sarebbe stata debole. E Kerry spiega che nella divisione dei compiti "Gentiloni ha fatto pressioni su molti altri Paesi a muoversi con più velocità e con un maggior senso di urgenza sulla Libia, che è nel Mediterraneo, proprio al di là delle coste italiane". Altro elemento che l’Italia ha analizzato in maniera "non convenzionale" è il fattore-Daesh. "Gli attacchi di Parigi, i nuovi bombardamenti in Siria/Iraq, l’allargarsi del Daesh in Libia congiuravano per una sola pericolosa evoluzione", dice un diplomatico che segue i negoziati. "Sarebbero state possibili azioni militari unilaterali di Paesi europei in Libia contro il Daesh, prima della formazione del governo. Un disastro, avrebbe significato creare una nuova Siria fuori controllo, in cui Daesh e mille altri gruppi jihadisti si sarebbero uniti e avrebbero prosperato per anni". E non è detto che il pericolo sia scongiurato: come dice Ludovico Carlino, senior analist dell’IHS a Londra, "è probabile che il prossimo colpo terroristico del Daesh sia in programmazione, e se lo faranno ci terranno a far sapere che è stato lanciato proprio dalla Libia". Tra l’altro Kerry e il comunicato finale avvertono i potenziali spoilers, i sabotatori che vogliono far saltare l’accordo, che per loro sono pronte sanzioni Onu. "I responsabili della violenza e coloro che impediscono e minacciano la transizione democratica devono essere chiamati a rispondere delle loro azioni", dice il comunicato finale. Martin Kobler, il nuovo inviato Onu, è realistico: "Ci vorranno mesi, anni per una vera pace e una vera stabilità, ma il treno è partito". Vedremo quanti libici sceglieranno di salirci sopra e quanti invece proveranno a farlo saltare per aria. Cina: sotto processo attivista per i diritti umani, incidenti davanti al tribunale La Repubblica, 14 dicembre 2015 Pu Zhiqiang, avvocato, ha difeso anche l’artista dissidente Ai Weiwei. È accusato di incitazione all’odio etnico e rischia una condanna fino a 8 anni di carcere. Tafferugli davanti al tribunale dove si è aperto il processo ad uno tra i più celebrati attivisti per i diritti umani in Cina, l’avvocato Pu Zhiqiang, che ha difeso detenuti in campi di lavoro e il famoso artista dissidente Ai Weiwei. Supporter e giornalisti sono stati allontanati con la forza dall’ingresso del tribunale mentre almeno tre persone sarebbero state portate via dalle forze dell’ordine. Pu Zhiqiang è accusato di aver "incitato all’odio etnico" e di aver "sollecitato discussioni e provocato guai", con le sue critiche on line nei confronti del partito comunista. Pu Zhiqiang, che ha già trascorso in carcere un anno e mezzo in attesa del processo, rischia fino ad 8 anni. Le "evidenze del crimine" che saranno presentate dall’accusa sono 7 post pubblicati su un blog tra il 2011 e il 2014. Questa mattina, a diplomatici statunitensi ed europei è stato impedito di leggere comunicati di condanna per il processo. Video pubblicati sui social media mostrano decine di supporter gridare l’innocenza del 50enne Pu. Per lui la condanna appare scontata, con i giudici controllati dal partito comunista, sotto la diretta supervisione del presidente Xi Jinping. Regno Unito: progetto del ministero della Giustizia, un iPad per i carcerati touchblog.it, 14 dicembre 2015 Il ministero della Giustizia inglese avrebbe in progetto di distribuire dei tablet iPad ai detenuti attualmente ospitati nelle carceri del Regno Unito; tale iniziativa nascerebbe dell’esigenza di combattere gli effetti negativi derivanti dall’isolamento dal mondo esterno e con l’intento di semplificare il recupero sociale dei carcerati. Disponendo di un dispositivo mobile i detenuti potrebbero inoltre acquisire nuove competenze utili per il loro reinserimento una volta tornati in libertà, la possibilità di accedere alle risorse online potrebbe poi rappresentare un’occasione per limitare la piaga dell’analfabetismo che spesso colpisce gli strati meno fortunati della società. Secondo quanto dichiarato in proposito da un consulente del ministero, la digitalizzazione delle carceri dovrebbe incentivare i processi di riabilitazione necessari ad integrare la funzione deterrente legata allo scontare la pena che, da sola, non si dimostrerebbe sufficiente ad assolvere gli obbiettivi legati alle detenzione e alla limitazione della libertà. Un altro aspetto fondamentale relativo ai benefici derivanti dall’uso di un tablet riguarderebbe la possibilità di mantenere i contatti con i propri famigliari anche dall’interno delle celle, Skype e FaceTime potrebbe essere utilizzati per rinsaldare i legami con figli, genitori e coniugi anche nei casi, come quello di un allontanamento forzato, che tenderebbero a minarli. Inutile dire che tale progetto avrebbe già suscitato aspre polemiche, da una parte infatti vi sarebbero coloro che salutano con entusiasmo l’iniziativa sottolineandone il potenziale educativo e le ricadute positive sulla convivenza civile, ma dall’altra vi sarebbe chi avrebbe definito un "lusso" la dotazione di iPad per i carcerati.