Pochi i braccialetti elettronici, troppi detenuti devono restare in cella di Ilaria Sesana Avvenire, 13 dicembre 2015 Solo 2.000 apparecchi che costano 11 milioni di euro l’anno, ma ne servirebbero almeno il doppio per ridurre il sovraffollamento. Il primo braccialetto elettronico venne applicato alla caviglia di un detenuto e attivato nel lontano 2001. Prendeva così il via, 14 anni fa, una sperimentazione che venne più volte presentata come un importante strumento per combattere il sovraffollamento nelle carceri italiane: permettere di scontare la pena agli arresti domiciliari e, grazie al controllo offerto dalla tecnologia, evitare fughe o allontanamenti. Riducendo allo stesso tempo il lavoro di controllo delle forze di polizia. A più di dieci anni dall’inizio della sperimentazione, però, il meccanismo di controllo a distanza ancora non è decollato. I braccialetti elettronici a disposizione dei magistrati sono troppo pochi, secondo l’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere penali che ha da poco concluso un monitoraggio in tutti i tribunali italiani. Complessivamente, gli apparecchi a disposizione sul territorio nazionale, sono circa duemila e costano allo Stato italiano 11 milioni di euro l’anno (5.500 euro l’uno) versati a Telecom. Ma sono troppo pochi rispetto ai detenuti che avrebbero diritto a usufruirne per andare agli arresti domiciliari. E così molti sono costretti a restare in cella. Il caso più recente - e più noto - riguarda Pierangelo Daccò, condannato in primo e secondo grado per il crac della "Fondazione San Raffaele". Lo scorso 4 dicembre aveva ottenuto gli arresti domiciliari a Sant’Angelo Lodi-giano, ma l’indisponibilità del localizzatore lo ha costretto a rimanere in cella. La situazione nei vari tribunali è molto variegata. Con diversi casi di " giurisprudenza creativa", come li definisce l’avvocato Riccardo Polidoro, responsabile dell’Osservatorio. Talvolta il giudice non concede gli arresti domiciliari obbliando il detenuto a restare in carcere, in altri invece li concede anche senza la disponibilità del braccialetto. In altri ancora mantiene la custodia cautelare in carcere e inserisce il detenuto in una sorta di lista d’attesa a tempo: non appena un’altra persona finisce di scontare i domiciliari con il braccialetto, subito si "dirotta" il dispositivo di controllo sugli altri detenuti in attesa. "Ne servirebbero almeno 5mila e questo aiuterebbe a ridurre il sovraffollamento nelle carceri - aggiunge Polidoro - e inoltre sarebbe utile poter contare anche su dispositivi tecnologicamente più avanzati. Oggi questo tipo di controllo a distanza potrebbe essere effettuato con il gps". Peccato però che l’attuale contratto di fornitura tra il Ministero dell’Interno e Telecom non preveda la possibilità di aumentare il numero dei dispositivi. Occorrerebbe prima rifare l’appalto milionario. "Il braccialetto elettronico - aggiunge l’avvocato Polidoro - è utilizzato in diversi paesi europei anche per le detenute madri e i malati. In Italia da 15 anni una legge prevede questo strumento, ma ancora non viene utilizzato a pieno regime. Come al solito ci sono le norme, ma non vengono applicate". L’esiguo numero di apparecchi disponibili sta, di fatto, costituendo una tacita abrogazione delle due norme di legge che introducono l’uso del braccialetto elettronico, denuncia l’Osservatorio Carcere: "Ne consegue l’illegale detenzione di colui che, pur avendo ottenuto gli arresti domiciliari con braccialetto elettronico, si trovi costretto a rimanere in cella per carenza del mezzo di controllo". Peraltro, una sentenza della Corte di Cassazione depositata lo scorso 25 agosto dovrebbe rappresentare un’ulteriore spinta all’utilizzo dell’apparato. I supremi giudici hanno infatti stabilito che non è possibile condizionare l’assegnazione dei domiciliari alla disponibilità del braccialetto elettronico. E hanno così disposto la scarcerazione del detenuto. Il Sottosegretario alla Giustizia Ferri: "garantire trattamento dignitoso ai detenuti" Agenparl, 13 dicembre 2015 "Il Ministero della Giustizia sta portando avanti una rivoluzione culturale sul tema della detenzione e dell’umanizzazione della pena. È necessario continuare sulla strada intrapresa, garantendo ai detenuti un trattamento dignitoso e una seconda opportunità di vita, dando loro la possibilità di riflettere, prendere consapevolezza dei propri sbagli e reinserirsi al meglio nel contesto sociale al di fuori del carcere. Abbiamo agito nell’emergenza del sovraffollamento delle carceri, normalizzando la situazione e continuando a garantire la sicurezza per i cittadini e la certezza della pena. I provvedimenti attuati hanno carattere strutturale e di sistema e garantiscono una velocizzazione e razionalizzazione dei procedimenti, una modifica delle misure cautelari in carcere, da utilizzare solo per i casi strettamente necessari, ed infine, l’istituzione di innovativi strumenti come la messa alla prova. L’esigenza di garantire un trattamento dignitoso, umano e coerente con i principi dell’articolo 27 della Costituzione nasce, non solo dalla condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo del 2013, ma anche da una maggiore consapevolezza del fatto che più un detenuto venga responsabilizzato e trattato dignitosamente, più crescono i vantaggi sia in termini di recidiva, sia in termini di qualità della vita all’interno delle strutture". Lo ha dichiarato il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Maria Ferri, intervenendo al convegno "La riforma penitenziaria del 1975" presso la sede del Consiglio regionale della Toscana a Firenze. Rieducare significa lavorare per l’integrazione dei detenuti - Certezza, flessibilità ed umanizzazione della pena sono le linee da seguire per garantire l’equilibrio tra sicurezza e rieducazione. Rieducare significa lavorare per l’integrazione dei detenuti nella società civile ed evitare che incorrano nella recidiva. Il ministero della Giustizia lavorerà sulle proposte costruttive che emergeranno dai tavoli degli Stati generali delle carceri e che disegneranno un nuovo modello di carcere aperto alle idee, ed attento sulla tutela effettiva dei diritti. Ritengo che oggi i pilastri di una riforma debbano partire da una maggiore valorizzazione del lavoro penitenziario in ogni sua forma intramuraria ed esterna, quale strumento di responsabilizzazione individuale e di reinserimento sociale dei condannati, da una previsione di attività di giustizia riparativa quale momento qualificante del percorso di recupero sociale. La sfida è quella di vedere affermato un modello di esecuzione della pena all’altezza dell’articolo 27 della nostra Costituzione, non solo per una questione di dignità e di diritti, ma anche perché ogni detenuto recuperato alla legalità significa maggiore sicurezza per l’intera comunità". Lo ha dichiarato il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Maria Ferri, intervenendo al convegno "La riforma penitenziaria del 1975" presso la sede del Consiglio regionale della Toscana a Firenze. Tutte misure contribuiranno a creare un sistema più giusto - La legge delega sulla modifica all’ordinamento giudiziario è frutto di un necessario adeguamento delle regole che disciplinano le carceri, con le esigenze della società e le disposizioni contenute all’articolo 27 della Costituzione, che, ancora oggi, non vengono del tutto rispettate. Il provvedimento delinea le linee guida alle quali il Governo dovrà attenersi per l’approvazione di un nuovo sistema regolatorio sulle carceri. Gli obiettivi perseguiti sono la semplificazione delle procedure, la revisione delle modalità e dei presupposti di accesso alle misure alternative alla carcerazione al fine di facilitarne il ricorso, l’incentivo alle attività di giustizia riparativa come strumento di rieducazione e recupero sociale, la maggiore valorizzazione del lavoro nelle carceri come mezzo di responsabilizzazione e di professionalizzazione, la previsione di norme che considerino i diritti e i bisogni culturali, linguistici, sanitari, affettivi e religiosi dei tanti stranieri che sono detenuti nelle nostre strutture, ed infine un adeguamento delle norme alle esigenze educative dei minori, con una giurisdizione specializzata e affidata al Tribunale per i minorenni. Tutte queste misure contribuiranno a creare un sistema più giusto, garantendo una migliore qualità di vita per i detenuti e per gli operatori, incentivando i percorsi di rieducazione e diminuendo i casi di recidiva. Il provvedimento è già stato approvato alla Camera e si trova ora in discussione al Senato, dove speriamo possa concludere il suo iter in tempi ragionevoli. Il nostro impegno sarà quello di seguire da vicino questo provvedimento e contribuire al raggiungimento di un risultato importante". Lo ha dichiarato il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Maria Ferri, intervenendo al convegno "La riforma penitenziaria del 1975" presso la sede del Consiglio regionale della Toscana a Firenze. E intanto è sparito il reato di tortura di Giulio Cavalli fanpage.it, 13 dicembre 2015 Dopo che l’Europa aveva ripreso l’Italia per l’assenza del reato di tortura nel nostro codice penale Matteo Renzi aveva promesso un iter veloce perché il Parlamento legiferasse il prima possibile. Eppure la legge è sparita nei meandri della Commissione Giustizia. Mentre su Cucchi continuano ad uscire nuovo raccapriccianti particolari e a due detenuti del carcere di Asti viene proposta una transizione amichevole. Quando la politica diventa pancia, sdegno gratuito e troppa comunicazione succede che l’agenda delle riforme risenta inevitabilmente del momento storico. E non è un male, sia chiaro, se non fosse che poi, passato il rumore, le leggi promesse finiscono nel cassetto delle promesse non mantenute. Un cassetto zeppo, non c’è che dire. Così ogni volta che si discute del reato di tortura emergono i due soliti schieramenti: da una parte le destre filo-militari che sentono il dovere di difendere la divisa pregiudizialmente e dall’altra chi chiede alla giustizia di rimanere nei confini umani. Un dibattito di per sé anche noioso e prevedibile se non fosse che intanto qualcuno muore di botte, ogni volta. Così mentre (finalmente) diventa chiaro che Stefano Cucchi sia stato violentemente (e ingiustificatamente) pestato per il divertimento di qualche carabiniere (e proprio di "divertimento" parla la moglie di un militare al telefono con il marito) è curioso andare a riprendere il "reato di tortura". Ve lo ricordate? Eravamo rimasti che l’Europa (era il 9 aprile di quest’anno) aveva dichiaratamente richiamato l’Italia per l’assenza nel codice penale del reato di tortura. Matteo Renzi aveva risposto, roboante come al solito, che il Governo avrebbe risposto alla Corte di Strasburgo nel migliore dei modi, inserendo quanto prima il reato nel codice penale e attivando immediatamente le Camere per lo studio della legge. E poi? Poi nulla. Anzi, peggio. La Commissione Giustizia in Senato comincia la valutazione di un testo già monco rispetto alle direttive europee, un progetto di legge, tanto per capirsi, che punisce i torturatori solo se le violenze sono più d’una. Insomma: torturare la prima volta è lecito, mentre solo ripeterlo è un reato. Roba da fare accapponare la pelle per la strisciante ottusità di una preoccupazione di "avere le carte a posto" piuttosto che scrivere una legge giusta. E siamo ben lontani dalle richieste dell’Europa. Al solito. Così come non può non destare qualche dubbio la lista delle persone, enti e associazioni audite che si limitano ad alcuni capi delle forze dell’ordine e l’Associazione Nazionale Magistrati. Le associazioni e i comitati che si occupano di carceri e violenza? Niente. Non pervenuti. La legge sparisce dall’ordine del giorno della Commissione e si inabissa. Silenzio totale. Finché non arriviamo ad oggi, a quelle parole terribile di Stefano Cucchi reso cencio a suon di botte e soprattutto all’incredibile epilogo di un’altra vicenda, questa volta in carcere ad Asti, che vede due detenuti torturati dalla polizia penitenziaria. Nel 2012, dopo il dibattimento in aula, il Giudice scrive nella sentenza che "i fatti in esame potrebbero essere agevolmente qualificati come tortura […] ma non è stata data esecuzione alla Convenzione del 1984 […] né sono state ascoltate le numerose istanze (sia interne che internazionali) che da tempo chiedono l’introduzione del reato di tortura nella nostra legislazione […] in Italia non è prevista nessuna fattispecie penale che punisca coloro che pongono in essere i comportamenti che (universalmente) costituiscono il concetto di tortura". L’associazione Antigone e Amnesty decidono di portare la questione alla Corte Europea e il ricorso viene dichiarato ammissibile. E l’Italia che fa? Accelera il percorso del disegno di legge? No. Magari. Il Governo propone ai due detenuti una transazione amichevole di 45.000 euro a testa. E il reato di tortura? Dov’è finito? Consulta, ora ci provano con l’eterno Squitieri di Luca De Carolis Il Fatto Quotidiano, 13 dicembre 2015 La partita della Corte costituzionale è un guazzabuglio? Niente paura, dopo 29 fumate nere si tornerà alla carica con un accordo da Partito della Nazione: con Gianni Letta tessitore, Renzi consenziente, Alfano e Casini intenti a procurare voti e a convincere lui, il volubile dei volubile, Silvio Berlusconi. Devono spiegargli che il nome giusto per sbloccare lo stallo da Consulta (o illudersi di farlo) è il presidente della Corte dei Conti Raffaele Squitieri, 74 anni, prorogato in carica da una norma dello scorso luglio. Un veterano con cui sostituire il deputato forzista Francesco Paolo Sisto: forse ormai bruciato in vista del 30° voto per la Corte costituzionale, previsto per domani alle 15. Tanto che ora vogliono riprovarci con una terna da sfondamento. Rimane Augusto Barbera, il nome di Renzi, intoccabile per il premier; entrano Franco Modugno, il nome dei 5Stelle, per provare a tirarli dentro il gioco (o far finta di farlo), e Squitieri. Così raccontano da ambienti del centrodestra. Dove la parola d’ordine fino a venerdì era questa: "Ci riproveremo con la terna dell’altra volta". Ossia Barbera, Sisto e Ida Angela Nicotra, ex candidata del Pdl. Ma nelle ultime ore il lavoro su Squitieri è proseguito. "Vanno avanti, ma manca il sì dì Berlusconi" conferma un maggiorente dem. Che aggiunge: "Gli altri due nomi sono Barbera e Modugno". Peccato però che ai 5Stelle nessuno abbia detto nulla. Danilo Toninelli, lo sherpa del M5S, è secco: "Non sono venuti da noi. Squitieri? Non commentiamo nomi che non sono stati resi pubblici". E dire che il Quirinale aveva monitato più volte: "Lo stallo sulla Consulta incrociati". Mentre Pietro Grasso era entrato nel dettaglio: "Bisogna cambiare metodo per trovare il consenso più ampio possibile su una terna di nomi. Il segreto del voto e il quorum di tre quinti impongono una condivisione ampia, all’interno dei gruppi e tra maggioranza e opposizione". Parole vane. Dal 3 dicembre scorso, il giorno dell’ultima fumata nera sui tre nomi con cui completare la Consulta (ora con 12 membri su 15), le opposizioni sono state pressoché ignorate. La maggioranza ha parlato e parla solo con Forza Italia. Comunque un rischio, perché raggiungere il quorum dei 571 voti senza i 127 del M5S rimane complicato. "Non ce la faranno mai, sono troppo spaccati tra loro" sibilano dal Movimento. Domani, salvo sorprese, i 5Stelle voteranno solo Modugno. Per valutare altri nomi sarebbe necessaria un’assemblea dei parlamentari: difficile da organizzare in poche ore. A meno che non ci sia un’accelerazione su Squitieri oggi, con proposta ufficiale. Già, Squitieri. Cavaliere di Gran Croce, la sua carriera l’ha fatta tutta nella Corte dei Conti, dove lavora dal 1971. Con qualche parentesi: come quella da capo di gabinetto dell’allora ministro dei Beni Culturali, il forzista Giuliano Urbani, tra il 2002 e il 2005. L’estate scorsa il suo nome piovve sui giornali per la proroga dei pensionamenti dei magistrati, compresi quelli contabili. Ci furono discussioni e polemiche. A protestare anche un renziano doc, il vicepresidente della Camera Roberto Giachetti: "Scopro ora che nei giorni scorsi è stata approvata una norma ad hoc che consente la proroga al pensionamento dei magistrati della Corte dei Conti. Mi domando: se ne avvarrà forse il presidente Squitieri?". La risposta è sì. Il magistrato potrà restare al suo posto fino al 30 giugno 2016, come previsto dal decreto legge sulla giustizia civile. Ma ora è in gioco per la Consulta. Il suo principale sponsor, assicurano, è Pier Ferdinando Casini, che vuole strappare un trofeo rilevante per l’ex Udc, il lato ipercattolico di Area popolare. E Angelino Alfano, leader del partito, avrebbe accettato. Soprattutto, Renzi non ha posto obiezioni. Anche se la Corte dei Conti a novembre era stata dura sulla manovra finanziaria: "Lascia nodi irrisolti, e ci sono dubbi sulle coperture". Ma il premier è uomo di mondo. Imperturbabile, quando la sezione toscana della Corte ha aperto una procedura sui suoi scontrini da sindaco di Firenze, tuttora misteriosi (il sindaco renzianissimo Dario Nardella nega l’accesso agli atti). Imperturbabile anche quando il procedimento è stato archiviato, il 25 novembre scorso. Ma per Squitieri sarà comunque complicata. "Sisto vuole resistere, e convincere Silvio a cambiare mi pare difficile" rifletteva ieri un forzista che conta. Tra oggi e domani mattina, bisognerà convincerlo. Per provare con la terna modificata. Obiettivo, eleggerne almeno due su tre. In caso di 30° flop "si andrà a votazioni ad oltranza tutte le sere", ha minacciato la presidente della Camera Laura Boldrini. Il duello in Cassazione sull’elezione del presidente (con l’ombra della politica) di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 13 dicembre 2015 Quelli che denunciano l’ingerenza della politica sostengono che con una nomina Matteo Renzi ne ha fatte due. Dieci giorni fa ha mandato alla Consob - per coprire un posto vacante da un anno e mezzo - Giuseppe Maria Berruti, uno dei magistrati in pole position per la presidenza della Corte di cassazione, e in questo modo ha spianato la strada per la poltrona di primo giudice d’Italia a Giovanni Canzio, attuale presidente della Corte d’appello di Milano. Un nome di certo non sgradito al premier e al suo partito (c’era persino che voleva proporlo per la Consulta), nonché al vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Giovanni Legnini; particolare non irrilevante, visto che il prescelto diventerà membro di diritto del Csm e lo affiancherà nell’ufficio di presidenza. Quelli che invece negano l’invasione di campo rivendicano l’autonomia di ogni indicazione, Legnini in testa. E ribattono che per eleggere il primo presidente della Cassazione bisogna guardare a qualità e profili professionali dei candidati, anziché alle sponsorizzazioni politiche, vere o presunte. E se alla fine dovesse toccare a un giudice di alto profilo come Canzio, sarebbe per meriti e capacità dimostrate in 45 anni di carriera, "scrivendo sentenze su cui si sono formate generazioni di magistrati"; altro che interferenze esterne. È un duello che balla sul filo delle interpretazioni, prima ancora che sulla decisione finale. Il plenum straordinario per il voto definitivo, alla presenza del capo dello Stato Sergio Mattarella, è fissato per il 22 dicembre, ma tra domani e martedì il vaglio della quinta commissione (competente per gli incarichi direttivi) renderà i giochi più chiari. Tutti interni, per ciò che riguarda i candidati, al gruppo della sinistra politico- giudiziaria che fa capo ad Area, cartello che riunisce Magistratura democratica e Movimento per la giustizia. Oltre a Canzio sono in corsa, nella stessa fascia d’età, Franco Ippolito (segretario generale della Cassazione al fianco degli ultimi due presidenti, Lupo e Santacroce) e Renato Rordorf, stimato presidente di sezione alla Corte suprema e della Commissione per la riforma del diritto fallimentare. Tutti e tre fanno riferimento ad Area, sebbene Ippolito si sia speso molto di più nella vita associativa e di Md, anche come rappresentante al Csm. L’unico appartenente a una corrente diversa era Berruti, di Unità per la costituzione. Il problema però è un altro. Tutti e tre dovrebbero essere già in pensione, o andarci nel 2016, se a giugno il governo non avesse varato un decreto per lasciarli in servizio un altro anno, "al fine di salvaguardare la funzionalità degli uffici giudiziari e garantire un ordinato e graduale processo di conferimento da parte del Csm degli incarichi direttivi che si renderanno vacanti". In pratica, una norma per assicurare continuità alla guida degli uffici, e sgravare un po’ il Csm che deve procedere a centinaia di nomine. La ratio è chiara e ieri dal coordinamento di Area è emersa l’indicazione di attenersi a questa interpretazione. Ma se Ippolito o Rordorf sono già in Cassazione (il primo in un ruolo centrale sul piano organizzativo, quasi da presidente-ombra, da diversi anni), la scelta di Canzio andrebbe a scoprire la corte d’appello di Milano costringendo il Csm a fare una nomina in più, anziché alleggerirne il carico di lavoro. Tuttavia il decreto non impedisce ai settantenni "prorogati" di correre per le sedi vacanti, e anche i posti interni alla corte suprema prima o dopo andrebbero colmati. Dunque non può essere questo parametro ad escludere "l’esterno" Canzio, affermano i suoi sostenitori. Fra i quali, dopo l’uscita di scena di Berruti, ci sono i "centristi" di Unicost (sebbene la rappresentante proveniente dalla Cassazione abbia manifestato qualche dubbio). Dalla sua parte ci sono anche i "laici" di centrosinistra, mentre a favore di Ippolito resta Area (anche qui con almeno un’eccezione). La destra del Csm - i "laici" di Forza Italia e Ncd, e i togati di Magistratura indipendente - non hanno ancora espresso posizioni chiare e definite. Una partita tra giudici sulla quale pesa l’ombra della politica, che siano realtà o congetture i sospetti sulla mossa del governo di sfilare un concorrente dalla corsa per fare spazio a un altro. Ma c’è ancora chi spera in una soluzione unitaria, anche per non mostrare un Csm spaccato al cospetto del presidente della Repubblica; che potrebbe verificarsi se il voto in commissione con la netta prevalenza di un candidato inducesse i perdenti a convergere sul vincente. Stasi senza più appello, è colpevole. "In carcere innocente e Chiara lo sa" di Paolo Berizzi La Repubblica, 13 dicembre 2015 Garlasco, la condanna ora è definitiva. La Cassazione conferma i sedici anni di pena per l’omicidio della fidanzata. Lui in lacrime, poi si consegna a Bollate. "Sono vittima di errori giudiziari che hanno portato a una sentenza ingiusta". Colpevole, una volta per tutte. Condannato con sentenza definitiva a 16 anni di carcere. Dopo otto anni, quattro mesi e cinque processi il destino di Alberto Stasi si compie alle 11.40 in un’aula dove, ad ascoltare il verdetto dei giudici, non ci sono né l’imputato né i genitori della vittima, Chiara Poggi, uccisa la mattina del 13 agosto 2007. È stato lui, Stasi - stabilisce la sentenza della Cassazione confermando il giudizio della Corte d’Assise d’Appello di Milano - a massacrare la fidanzata ventiseienne nella casa di famiglia, a Garlasco. La parola fine su uno dei casi giudiziari più controversi degli ultimi anni l’hanno messa i giudici della Suprema Corte (quinta sezione penale) dopo due ore e mezza di camera di consiglio: respinti sia il ricorso di Alberto Stasi - che chiedeva l’assoluzione - sia quello della procura generale di Milano. Che per l’imputato aveva avanzato la richiesta di una condanna a 30 anni, contestando anche la crudeltà dell’omicidio (non riconosciuta nel precedente grado di giudizio). Il verdetto va nella direzione opposta rispetto a quella suggerita a sorpresa venerdì dal sostituto procuratore generale Oscar Cedrangolo. Che, smontando punto per punto la sentenza di condanna ("Troppo fragile l’impianto accusatorio"), con una requisitoria durissima e inattesa aveva chiesto di ripartire da capo con un nuovo processo in appello. Il colpo di scena faceva pensare a una conclusione diversa. E invece la Cassazione ha reso definitiva la condanna. "Giustizia è stata fatta", hanno commentato commossi Rita e Giuseppe Poggi. Per Stasi - unico imputato e unico indagato dall’inizio della vicenda, due volte assolto (2009 e 2011), rimandato a processo nel 2013 e condannato nel 2014 (appello bis) - si sono aperte le porte del carcere. Si è costituito lui, nella casa di reclusione di Bollate, nel milanese. "Vado in carcere da innocente, Chiara lo sa. Sono vittima di errori giudiziari che hanno portato a una sentenza ingiusta". È lo sfogo, dopo le lacrime, consegnato dal commercialista 31enne ai suoi legali (il professor Angelo Giarda, il figlio Fabio e i fratelli Giulio e Giuseppe Colli). Ma vediamo come è andata la giornata che ha deciso la sorte di Stasi. In fondo al pomeriggio segnato da quella che sembrava essere, venerdì, l’ennesima svolta di una lunga storia giudiziaria scandita da perizie e controperizie, indagini "anomale", il presidente del collegio, Maurizio Fumo, aveva rinviato alle 9 di ieri la camera di consiglio. Un breve rinvio "considerata l’importanza e la complessità della decisione". Quanto avesse pesato, nella "complessità", la requisitoria del pg Cedrangolo, era apparso chiaro a tutti. "Siamo increduli e amareggiati" avevano commentato a sera i legali di parte civile, Gianluigi Tizzoni e Francesco Compagna. Di contro, il difensore di Stasi, Angelo Giarda, aveva tirato un sospiro di sollievo: "Anche la pubblica accusa ha ammesso che la sentenza contro Alberto fa acqua". Poi, ieri mattina, lo scenario che si stava profilando - un altro processo - muta. Tutti gli indizi su cui si basa il provvedimento con cui Milano aveva inchiodato Stasi, convincono la Cassazione. Che conferma. "Indizi gravi, precisi e concordanti" è scritto nelle motivazioni del dispositivo dei giudici milanesi. Riassumiamoli. La scena del crimine, anzitutto. Rivela che l’assassino appartiene "alla cerchia delle persone più vicine" a Chiara. Di sicuro il killer arriva con una bicicletta nera da donna, vista da due testimoni davanti alla casa. Stasi "possedeva più di una bicicletta rispondente alla macro descrizione" fornita dalle testimoni. E però, interrogato dai carabinieri, tace il possesso di una bici nera da donna. È solo una delle falle nel racconto dell’ex studente modello. Un racconto che i giudici definiscono "incongruo, illogico e falso quanto al ritrovamento del corpo". Il punto più importante. Alberto attraversa la scena del crimine piena di sangue "senza guardare dove mettevo i piedi": eppure non lascia tracce. Le scarpe non si sporcano. Prova a buttare lì: Chiara è morta in seguito a un incidente domestico. Ma le mani del fidanzato si sporcano di sangue: ci sono tracce sul dispenser del sapone e sul pigiama della vittima (che stringeva in mano un capello castano chiaro). Poi, i pedali della bicicletta. Su quella bordeaux, un’altra, del killer c’è il Dna di Chiara. Risulterà che quei pedali non sono originali ma cambiati. Ultimo "nodo": le scarpe. L’assassino calzava scarpe marca Frau numero 42, e Stasi ne possedeva un paio. Ma perché uccide Chiara? Dice la sentenza confermata ieri: "Era diventata, per un motivo rimasto sconosciuto (si è ipotizzato la passione di Alberto per la pornografia e la scoperta sul suo pc da parte di Chiara di immagini "forti", ndr), una presenza pericolosa e scomoda, come tale da eliminare per sempre dalla sua vita di ragazzo "per bene" e studente "modello"". Da qui il raptus omicida di quel 13 agosto 2007. "Sentenza illogica e pena che non sta né in cielo né in terra - ha commentato l’avvocato Fabio Giarda - Se una persona ha commesso un fatto del genere deve avere l’ergastolo". Garlasco: la "non vita" di Alberto e la responsabilità "per sempre" dei giudici di Giusi Fasano Corriere della Sera, 13 dicembre 2015 Stasi dovrà scontare 16 anni per l’omicidio di Chiara Poggi. Tutti davano per scontato l’annullamento della sentenza, ma i giudici hanno confermato gli anni di carcere nonostante le inaspettate e dure parole del procuratore contro la condanna. Dunque per Alberto è la non-vita. Dovrà scontare i 16 anni di carcere a cui lo aveva condannato la Corte d’Appello di Milano un anno fa. La Cassazione ha messo la parola fine al caso Garlasco, alla responsabilità per l’omicidio di Chiara Poggi, uccisa a 26 anni nella villetta di famiglia (a Garlasco, appunto) il 13 agosto 2007. Sedici anni di condanna confermati. Che messi assieme agli otto anni e mezzo passati sulla graticola della Giustizia, da sospettato, diventano più di 24. E alla fine di quella strada Alberto Stasi, oggi 32enne, sarà un uomo che non saprà che fare della sua laurea alla Bocconi, dell’azienda del padre, di un lavoro da commercialista sul quale non potrà più contare... Le parole del procuratore. Fino all’ultimo la sorte gli ha lasciato credere di essere dalla sua parte. Venerdì, mentre il procuratore generale della corte di Cassazione Oscar Cedrangolo demoliva a colpi di "inaccettabile" la sentenza di condanna, lui aveva osato sperare che forse stavolta sarebbe davvero diventato innocente per sempre con l’annullamento secco della condanna. E invece no. Non lo hanno messo al riparo nemmeno le parole durissime del procuratore generale contro i colleghi che hanno scritto la sentenza di condanna. Anzi. Forse quella sorta di violenza verbale nel distruggere i passaggi chiave della condanna ha sortito sui giudici l’effetto opposto. Forse. Lo sapremo soltanto quando saranno rese note le motivazioni. La responsabilità dei giudici. Quello che sappiamo oggi è che ancora una volta - l’ultima volta - Garlasco è stato sinonimo di imprevedibilità. Tutti, ma proprio tutti, si aspettavano che la Cassazione accogliesse il ricorso di Stasi e che annullasse la sentenza di condanna, non importa se con o senza rinvio a un nuovo processo. Tutti a evocare quel principio del "ragionevole dubbio" che è stato istintivo invocare dopo la requisitoria del procuratore Cedrangolo. Il ragionamento è quasi scontato. Ma come? La pubblica accusa ha sempre sostenuto la responsabilità di Stasi. Sempre. E proprio adesso che contro di lui c’erano in fila tutti gli elementi dettati dalla condanna a 16 anni la pubblica accusa per la prima volta si mette di traverso...È chiaro che tutti hanno dato per scontato che quel ragionevole dubbio (e quindi l’annullamento della sentenza di condanna) fosse più forte dopo la requisitoria sorprendente del procuratore. Che peraltro non è arrivata fino al punto in cui sarebbe stato più logico arrivasse. No. Alberto in carcere. Il pg ha smontato la sentenza di condanna, ha definito "buonista" i 16 anni dati per un omicidio accostando la pena al concetto di "cerchiobottismo" e alla fine che ha fatto? Ha chiesto pure lui di non essere netti. Né una conferma né un annullamento secco. Voleva un altro rinvio in corte d’Appello. Tutto da rifare di nuovo. I giudici, al contrario, stavolta si sono presi la responsabilità di andare fino in fondo per sempre. Conferma della condanna. Alberto Stasi è colpevole dell’omicidio di Chiara Poggi. Le motivazioni diranno con quale ragionamento sono arrivati a questa convinzione. Ma ad Alberto, già in carcere poche ore dopo la sentenza, a quel punto importerà poco. Forse niente. Quando anche i giudici farebbero meglio a tacere di Paolo Graldi Il Messaggero, 13 dicembre 2015 Se otto anni e sei mesi e una mezza dozzina di processi vi sembrano pochi allora la fiducia che ciascuno deve riporre nella giustizia, a qualsiasi costo, è cosa buona e accettabile. Otto anni e sei mesi tra corsi e ricorsi, indagini e udienze preliminari più udienze a pioggia, due volte fino su in Cassazione, sfilando tutti i gradi di giudizio, andata e ritorno, accompagnati da un fardello di quintali di atti, interrogatori, perizie, requisitorie, arringhe, in un’altalena che è sembrata non fermarsi più. La Suprema Corte, (Quinta Sezione) là dove gli ermellini volano, col verdetto finale di colpevolezza dell’imputato, ha scritto la parola fine verso mezzogiorno di ieri, dopo una nottata squassata da oscuri presagi, dolorosi timori, flebili ma tenaci speranze sui fronti opposti della difesa e dell’accusa. Alberto Stasi condannato a sedici anni di reclusione (mai in carcere finora) per aver assassinato la fidanzata Chiara Poggi: questo il verdetto. Fine. La vigilia, scossa nelle previsioni delle parti e del pubblico dalla arcigna requisitoria del pg Oscar Cedrangolo, si era chiusa all’insegna del tutto è possibile, anche del suo contrario. Condanna, assoluzione, rinvio ad altro giudice, per l’ennesima verifica. Sì, perché il magistrato dell’accusa con linguaggio severo ma a tratti surreale aveva dipanato un ragionamento che ha lasciato di stucco tutti: tre le ipotesi per uscire dall’impasse proposte al collegio giudicante. Se Stasi è colpevole va condannato con l’aggravante della crudeltà, (e magari della premeditazione!) come chiedevano i giudici della corte d’assise d’appello di Milano, se invece è innocente, naturalmente, va assolto, se però restano i dubbi sull’una o sull’altra ipotesi meglio rinviare ad altri giudici e approfondire i tanti lati oscuri attraverso l’ennesimo passaggio processuale. Armato di una potente clava dialettica l’alto magistrato ha demolito a furia di fendenti quasi tutto del caso che tanto ha appassionato l’opinione pubblica, con una copertura mediatica negli anni che ha suggerito un aperto rimbrotto a quanti, secondo il pg, si fanno influenzare da giornali e tv e tra questi, di passata, ha messo anche qualche magistrato. Testuale: "L’omicidio di Garlasco è stato oggetto di una perniciosa forma di spettacolarizzazione attraverso quei processi televisivi che inquinano la capacità di giudizio degli spettatori, tra i quali, nessuno ci pensa, rientrano anche i giudici, togati e popolari, di queste vicende". In buona sostanza per Cedrangolo si è voluto costruire a tutti i costi un movente per il delitto: la sentenza di Milano non lo ha individuato "ma poi si è industriata a cercarne uno, legato alla vicenda delle immagini pedopornografiche" che Stasi custodiva nel suo pc. Questo delle foto è un passaggio cruciale. I genitori di Chiara, quando si è scoperto il vizietto di Alberto, considerando quelle immagini particolarmente offensive per la dignità della donna, costretta alla più brutale sottomissione, hanno sempre ripetuto (e l’hanno fatto anche a sentenza ancora calda) che quella scoperta avrebbe messo in gravissimo pericolo il legame tra i due giovani. Per il pg la tesi è "insostenibile", incredibile pensare che bastasse quel fatto e per di più la prova del segreto inconfessabile era nel computer che Stasi ha poi consegnato ai carabinieri. Così la pensa il procuratore generale, l’uomo della pubblica accusa. Parole come pietre anche sulle indagini preliminari, errori marchiani nei rilievi, ventiquattro persone sul luogo del delitto a calpestare prove e indizi prima dell’arrivo dei Ris dei carabinieri per i rilievi scientifici, congetture tenute attaccate con lo sputo, esami biologici da dilettanti, sette anni per individuare marca e numero delle scarpe del presunto assassino, impronte di Stasi su un portasapone insignificanti perché il giovane frequentava la casa, una complessiva debolezza dell’impianto accusatorio. I giudici del rinvio trattati da esperti del gioco delle tre carte: "Il giudice ha ritenuto che gli fosse stato affidato un imputato che dalla posizione di accertato innocente (assolto due volte n.d.r.) fosse passato a quella di presunto colpevole e così ha ritenuto di dover cercare indizi a suo carico...". Per concludere che non è questo il modo corretto di fare giustizia, andando "perfino a ipotizzare la crudeltà". Un fiume in piena che travolge tutto e tutti, che fa a pezzi il lavoro di alcune decine di colleghi e di chissà quanti investigatori, una demolizione progressiva per cercare di dimostrare che le cosiddette prove altro non sono che svolazzi giuridici, arrampica ture sugli specchi. E dire che era sembrato un caso semplice, inconsueto da queste parti ma semplice, l’omicidio di quella ragazza di ventisei anni trovata senza vita, ancora in pigiama, il corpo disteso lungo le scale che portano in cantina, il cranio fracassato con un oggetto, forse un martello, schizzi di sangue ovunque, sul pavimento, sulle pareti, tra gli oggetti, la mattina del 13 agosto 2007, un caldo infernale a Garlasco (Pavia). Nessun giallo, niente horror. Un delitto d’impeto. Lei che fa colazione, apre all’assassino, e poi i colpi mortali. Non è andata così. Le indagini si sono impantanate, tra errori, omissioni, dispute peritali dispiegando una sequenza che ha visto due assoluzioni, un verdetto della corte del Palazzaccio che invita a rimediare agli sbagli e agli abbagli, una condanna a sedici anni con rito abbreviato e, adesso, la conferma. Alberto Stasi in tutti questi anni non è mai stato in carcere, salvo tre giorni all’inizio, prima d’essere scagionato dal gup. Ora si apre un conto con la giustizia parecchio più salato. Resta, nell’affannosa e indispensabile ricerca della verità processuale, come un grande spazio pieno di vuoti, così è stato per l’uccisione di Simonetta Cesaroni (assolti i diversi imputati) e di Meredith (assolti alla fine Raffaele Sollecito e Amanda Knox) e per tanti altri. Giudici che giudicano imputati e che si giudicano tra loro all’interno di una missione garantista che inquieta e sgomenta. Troppo spesso, alla fine di un iter processuale, si può dire con pacata certezza: sì, giustizia è fatta. Non rimane che dire: la giustizia ha detto la sua ultima parola perché oltre c’è solo la condanna o l’assoluzione. A quel punto anche la Giustizia deve tacere. Per dovere d’ufficio. Delitto di Garlasco, la vicenda non poteva chiudersi con un nulla di fatto di Luca D’Auria Il Fatto Quotidiano, 13 dicembre 2015 Salvo future revisioni è stata messa la parola fine al giallo del delitto di Garlasco. L’omicida di Chiara Poggi sarebbe il fidanzato dell’epoca, Alberto Stasi. Avrebbe ucciso tra le 9,12 e le 9,35 del mattino, il 13 agosto 2007, all’interno della villetta dei Poggi. Dopo aver passato la serata a mangiare una pizza con la fidanzata (di li a poche ore vittima) nel soggiorno di quella stessa casa, teatro dell’omicidio. Chissà qual è il movente, chissà qual è l’arma. Chissà se è mai (ri)entrato in quella casa, come ha sempre affermato, prima di dare l’allarme a seguito del ritrovamento del cadavere, dopo le 13,30 di quel tragico giorno. Chissà che fine hanno fatto le scarpe che Stasi calzava al momento del delitto (sulla scena del crimine ci sono le impronte, nette, di una calzatura con la suola a pallini, che però non è mai stata rinvenuta). Chissà se è di Alberto la bicicletta che la teste ha visto quella mattina, alle 9,10 (circa, ci sarebbe da dire, posto che a quell’ora Alberto non sarebbe dovuto ancora essere da Chiara, se è vero che suona ed entra alle 9,12). Chissà se è vero che nell’arco temporale 9,12/9,35 (quando è certamente di ritorno a casa sua perché accende il computer) c’è il tempo di uccidere a colpi in testa, senza "perdere tempo" la fidanzata, buttare il suo cadavere dalle scale e poi uscire, prendere la bicicletta e fare ritorno a casa. Chissà se la bicicletta sul cui pedale è stato trovato il Dna di Chiara è quella che ha visto la testimone alle 9,10, atteso che la descrizione è diversa. Restano molti dubbi, come in tutte le vicende umane, quelle più felici e quelle più tragiche. Ma cercare la ragione sottostante a ogni elemento, anche il più labile, non porta a nulla. Perché, di contro, la difesa della famiglia Poggi ha dimostrato che quel tempo è sufficiente per uccidere e tornare a casa; la giurisprudenza insegna che il movente è un dato che se c’è aiuta, altrimenti è indifferente; le scarpe a palline possono essere state buttate via e dunque la loro assenza a casa di Stasi è un fatto irrilevante; e così la testimone, come ogni testimone, può aver visto male i contorni fisici della bicicletta. E dunque, quella con il dna di Chiara (sequestrata ad Alberto) sarebbe la medesima vista davanti a casa Poggi. E la camminata sulla scena del crimine? Stasi ha sempre detto di essere andato a cercare la fidanzata presso la villetta dei Poggi, perché Chiara non ha risposto alle sue telefonate nel corso di tutta la mattinata (alibi ben costruito o ricostruzione genuina?). Ha detto di essersi mosso da casa propria dopo il telegiornale delle 13, di essere entrato in casa scavalcando il cancello perché nessuno gli ha risposto (Chiara era morta da ore, ma Alberto non lo sapeva) e, dopo qualche vana perlustrazione, di aver visto il corpo della fidanzata in fondo alle scale della cantina, riverso in una pozza di sangue. Se le scarpe a pallini non sono le sue, può aver camminato nel soggiorno (cosparso "a macchia di leopardo" di sangue) senza sporcarsi le suole? L’accusa dice che è statisticamente impossibile (almeno in un calcolo di probabilità ragionevole), la difesa sostiene il contrario. Ancora dubbi. Ma si tratta di dubbi ragionevoli e cioè utili per smontare l’impianto accusatorio, oppure no? La decisione di oggi viene dopo l’inaspettata richiesta dell’accusa di Cassazione di annullare la sentenza di condanna: probabilmente il Procuratore Generale l’ha pensata in questo senso e cioè che si trattasse di dubbi decisivi. Il pubblico si aspettava che il collegio giudicante "aderisse" a questa richiesta. Ma è accaduto il contrario: i giudici hanno condannato. Posso azzardare alcune considerazioni (anche se la verità della decisione ci sarà solo quando verranno depositate le motivazioni): una sulle prove (che dovrebbero essere l’unica luce a cui guarda il giudicante); una sulle sentenze precedenti (che hanno alternato assoluzioni e condanne); una sul contesto "ambientale". Quanto alla prima: sul portasapone dove si è lavato (certamente) l’assassino c’è l’impronta digitale di Stasi. Si dice che è normale la presenza di quella traccia perché è la casa della fidanzata e dunque è usualmente frequentata dall’accusato. Sarebbe vero, se si fossero trovate altre impronte, in altri luoghi. Invece nulla. Solo un’altra impronta, sul cartone della pizza (indiscutibilmente) mangiata la sera prima. Questa è la targa dell’assassino. Credo sia stato condannato per questa prova. Le altre sono dubbie, questa no. Le sentenze precedenti: a cominciare dalla prima, quella dell’abbreviato, il processo è stato usato non per giudicare gli elementi d’accusa (che sarebbe la regola) ma per cercare la prova della colpevolezza (o dell’innocenza). Cosa che non va fatta, mai. Ma non per ragioni di vago garantismo, ma perché si creano, nel giudice, euristiche (errori di ragionamento) e trappole mentali, che poi incidono sul ragionamento, quello limpido, non contaminato. Un conto è cercare un testimone, fare una singola analisi, decisiva. Altro conto è rifare l’indagine una, due, tre, quattro volte. Per fortuna non c’è stato un nuovo rinvio per un nuovo giudizio d’appello. Sarebbe stato un "accanimento terapeutico processuale". Justice of Mind si occupa di analizzare le trappole mentali che investono il giudice quando deve analizzare determinate prove. Le stesse trappole, moltiplicate, si hanno quando più giudici che si susseguono vogliono trovare e ritrovare, fare e rifare le medesime prove. Quanto al contesto: la vicenda di Chiara non poteva chiudersi con un nulla di fatto. È troppi anni che la Pop Justice (il nuovo genere letterario "giallo", cioè il romanzo con delitto, preso dalla cronaca reale e trasportato nella metafisica dei media) aveva decretato l’esigenza di trovare un colpevole (e forse l’aveva trovato in Stasi). Questo può influire sul giudizio dell’Aula, presunto logico ed "illibato" da contaminazioni ambientali? La risposta del giurista è no. La risposta dello psicologo cognitivo, dello studioso di marketing e psicologia sociale o del filosofo della mente è si (certamente). È un ragionevole dubbio? "Un’altalena che disorienta perché manca la prova regina" di Giacomo Galeazzi La Stampa, 13 dicembre 2015 Il magistrato-scrittore Francesco Caringella: con Meredith più garantismo. "Nell’opinione pubblica crea scandalo, ma per un magistrato è fisiologico". Sul caso Garlasco, in pochi giorni, nello stesso grado di giudizio, sono rimbalzate verità opposte. "Anomalia che affascina lo scrittore di legal thriller e interroga il giudice", dice Francesco Caringella che è entrambe le cose. Direttore scientifico della Dike editrice, magistrato e consigliere di Stato, incrocia nei pluripremiati romanzi noir delitti senza movente e gialli che si risolvono in processi mozzafiato. Cinque gradi di giudizio, poi la condanna. Come è possibile? "Per l’omicidio a Perugia di Meredith Kercher la sentenza definitiva fu garantista, stavolta è stata colpevolista. Una sola sentenza di merito aveva condannato Alberto Stasi, che adesso però finisce dietro le sbarre. Capisco, perciò, che la verità processuale venga avvertita dalla gente come casuale e frutto dell’estro del singolo giudice. Reazione comprensibile a un’ altalena che disorienta". Lei ha scritto best seller incentrati sui meccanismi processuali, qual è la psicologia del giudice in situazioni così complesse? "Convivono il dato giuridico oggettivo e la valutazione soggettiva. Il sistema italiano è l’unico che preveda la ripetizione del processo in tre gradi di giudizio che possono diventare cinque quando la Cassazione annulla. I delitti di Perugia e di Garlasco sono esempi tipici di processi indiziari nei quali manca la prova regina. Se si devono mettere insieme le tessere di un mosaico, il processo ha una maggiore soggettività rispetto a quando c’è la prova certa. E qui entra in gioco la psicologia del giudice. Per molti chiedere l’assoluzione è come ammettere un errore". Il rischio di errore giudiziario? "Di fronte a una questione opinabile è normale che due giudici possano leggerla in maniera diversa. Nel Regno Unito, in Francia, negli Usa, in Germania non esistono appello e ripetizione del processo. O.J. Simpson è stato assolto pur essendo quasi sicuramente colpevole, ma l’impugnazione negli Usa può avvenire per errori processuali o violazioni del diritto di difesa. Il processo di merito è uno solo". Indizi ma non prove. Perché? "È il risultato di imperfezioni nelle indagini, soprattutto nel repertare prove scientifiche e nell’assumere le prime informazioni. Nel caso Garlasco manca persino la sicurezza sull’orario della morte di Chiara Poggi. La ragazza non è stata pesata: c’è carenza di dati certi. Sono stati commessi errori e così si è arrivati ad una conclusione che scandalizza l’opinione pubblica e cioè una condanna definitiva dopo due sentenze consecutive di assoluzione". Dall’esperienza come commissario di polizia e magistrato penale al Tribunale di Milano, si aspettava questa sentenza? "L’ombra dell’errore c’è sempre. Oscar Wilde diceva che dietro ogni delitto c’è una vicenda umana più interessante del delitto stesso. Il giudice deve convivere con il dubbio. Al termine di un percorso giudiziario così lungo e tortuoso era logico aspettarsi una sentenza garantista, come accaduto per il delitto di Perugia. Così non è stato. Il giudice non ha il compito di accusare ma di valutare se ci sono gli elementi o no per chiedere una condanna. Il giudice non solo deve porsi la domanda se un imputato ha ucciso, ma anche perché ha ucciso, quali sono i problemi, le vicende che hanno portato al delitto". La Cassazione e le "verità" mediatiche di Caterina Malavenda Il Sole 24 Ore, 13 dicembre 2015 "Giustizia è fatta" hanno esclamato all’unisono i genitori di Chiara Poggi, quando la Suprema corte ha confermato, dopo una lunga camera di consiglio, la condanna di Alberto Stasi, che ha già cominciato a scontare i 16 anni inflittigli, per l’omicidio della sua fidanzata. Egli è da ieri, dunque, l’assassino che freddamente e lucidamente ha posto fine alla vita della ragazza che diceva di amare, anche se è rimasto in ombra il movente. Il passaggio in giudicato di una sentenza è, infatti e non solo per gli operatori del diritto, una necessità, perché stabilisce con certezza ahimè, solo giuridica, se un imputato, fino ad un momento prima presunto non colpevole, abbia commesso o meno il reato di cui è accusato. Certezza che può essere vinta, ma solo in caso di condanna, dalla revisione del processo, ove emergano nuove prove. Una certezza che sopisce dubbi e perplessità, placa per un momento le opposte fazioni, ma soprattutto consente ai giudici di superare quegli scrupoli, così veri e così umani, quando una vicenda è lunga e tormentata, quegli scrupoli che anche il Procuratore generale ha riconosciuto e compreso, nel corso della sua requisitoria. Ma può parlarsi davvero di certezza del diritto quando, durante un processo insopportabilmente lungo per tutte le parti in causa, si alternano due sentenze di assoluzione - la c.d. doppia conforme, bestia nera degli avvocati, perché di norma prelude ad un’ennesima conferma -, un annullamento con rinvio, una condanna e, non ultimo, un duro intervento della pubblica accusa, nel suo grado più alto, che quella condanna smonta pezzo per pezzo, sostenendo che occorra quantomeno un sesto grado di giudizio? Più d’uno potrebbe così credere che l’esito di un processo, qualunque processo, non dipenda dall’esistenza, al di là di ogni ragionevole dubbio, di prove certe, univoche e concordanti che l’accusa ha l’onere di offrire ai giudici, ma da variabili indipendenti, non ultima l’attenzione che i mass media riservano ad alcuni delitti e ad alcuni imputati, dividendosi fra innocentisti e colpevolisti ed analizzando mille volte quelle prove, nell’ottica della scelta di campo effettuata, anche a seconda della maggiore o minore simpatia del protagonista. Le stesse prove che il Gup, assolvendo Stasi, aveva ritenuto contraddittorie ed altamente insufficienti a dimostrarne la colpevolezza, con sentenza che il giudice d’appello aveva definito immune da vizi; che la Cassazione aveva invitato ad approfondire e ad integrare e che il rappresentante della pubblica accusa aveva, da ultimo, qualificato come dati non certi e non affidabili. Questo pone più di un interrogativo non solo sulla coerenza che dovrebbe caratterizzare ogni processo, ma anche sulla opportunità che delle Corti d’assise, in una società multimediale e super connessa, continuino a far parte i giudici popolari, probabilmente più permeabili - ma quanto di più? - di quelli togati, alle sollecitazioni ed alle suggestioni esterne, cui sono sottoposti anche mentre si celebra il processo. Questa ennesima vicenda, mostra come occorra ripensare, dunque, all’effettivo ruolo della Corte di cassazione, giudice di legittimità che qualche volta sconfina nel merito, a quello del Pm che dovrebbe raccogliere tempestivamente ed offrire tutte le prove subito e che a volte le rincorre, spesso sollecitato dai giudici; e ad un cordone di sicurezza che, nel processo accusatorio, garantisca la effettiva formazione della prova in dibattimento e non anche negli studi televisivi. Rimane il dubbio insolubile, che accompagna ogni processo indiziario, come il Procuratore generale non ha mancato di sottolineare: se Alberto Stasi è davvero colpevole, 16 anni sono una pena giuridicamente ineccepibile, ma forse fin troppo lieve, se fosse innocente, però, anche un solo giorno di galera sarebbe una pena insopportabile. Cucchi, quei 100 minuti cancellati dai verbali di Giuseppe Soria La Repubblica, 13 dicembre 2015 Il comandante dei carabinieri Del Sette: "Fatti inaccettabili, ma no alla delegittimazione dell’Arma". L’inferno per Stefano Cucchi si materializza tra le due e le tre e 40 di mattina del 16 ottobre 2009. È in questo lasso di tempo, 100 minuti, che il giovane subisce secondo gli inquirenti un "violentissimo pestaggio" da parte dei carabinieri. Probabilmente prima alla stazione Casilina, quando si oppone al foto-segnalamento, poi alla stazione Appia, sempre per mano di tre militari, Francesco Tedesco, Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro. Sono cinque i tasselli chiave dell’indagine che ha permesso al pm Giovani Musarò e agli agenti della Squadra mobile di ricostruire orari, luoghi e presunti responsabili: tre testimonianze (rese da un compagno di cella di Cucchi e di due carabinieri); la falsificazione di alcuni documenti sull’arresto del 31enne e le intercettazioni dei tre militari accusati del pestaggio. La prima traccia che porta gli inquirenti sulla strada giusta, il 18 novembre 2014, è il racconto di Luigi Lainà, detenuto con Stefano a Regina Coeli: "Cucchi mi disse che era stato picchiato dai carabinieri nella prima caserma in cui era transitato". Un faro si accende sugli uomini dell’Arma. Ma quali? Cucchi, tra il 15 e il 16 ottobre 2009, ha a che fare con diversi militari. Un passo avanti arriva il 30 giugno 2015, quando due carabinieri di Tor Vergata raccontano al pm tutto quello che sanno: "Mandolini (il comandante della stazione Appia, ndr) fece il nome dell’arrestato. Cucchi, e aggiunse che si stava cercando dì scaricare la responsabilità sulla polizia penitenziaria". A luglio, le intercettazioni fanno il resto, con la moglie di uno dei militari sospettati che accusa al telefono: "A picchiarlo vi siete divertiti". L’ultimo "colpo" della procura risale al 16 novembre scorso, neanche un mese fa, quando a piazzale Clodio arrivano i documenti sull’arresto di Stefano. Sul registro dei foto-segnalamenti, un rigo è cancellato maldestramente con il bianchetto: sotto al nome di Misic Zoran si intravede quello di Stefano Cucchi. Una falsificazione deliberata, pensano gli inquirenti, per cancellare del tutto le tracce del passaggio di Cucchi dalla stazione Casilina, dove sarebbe avvenuto il primo pestaggio. "È una vicenda estremamente grave - afferma il comandante generale dei carabinieri, Tullio Del Sette - perché è inaccettabile per un carabiniere rendersi responsabile di comportamenti illegittimi e violenti. Siamo rattristati e commossi, siamo accanto alla magistratura con forza e convinzione nel ricercare la verità. Ma no alla delegittimazione dell’Arma". Il Comandante dei Carabinieri: "Cucchi, vicenda grave" Il Tempo, 13 dicembre 2015 Dopo le pesanti accuse contro i carabinieri da parte della procura di Roma che indaga sul caso Cucchi, è sceso in campo anche il comandante generale dell’Arma, Tullio Del Sette. Secondo il generale, si tratta di "una vicenda estremamente grave. Grave il fatto che alcuni carabinieri abbiano potuto perdere il controllo e picchiare una persona arrestata secondo legge per aver commesso un reato, che non l’abbiano poi riferito, che alcuni altri abbiano potuto sapere e non lo abbiano segnalato a chi doveva fare e risulta aver fatto le dovute verifiche, se tutto questo sarà accertato. Grave il fatto che queste cose possano emergere soltanto a partire da oltre sei anni dopo, nonostante un processo penale celebrato in tutti i suoi gradi". Il Comandante la ripete più volte la parola "grave", riferendosi al presunto comportamento dei militari finiti nel mirino dell’inchiesta bis sulla morte del ragazzo avvenuta sei anni fa. "Per questo sono - lo è l’Arma dei carabinieri, lo sono tutti i carabinieri - accanto alla magistratura con forza e convinzione, come sempre, per arrivare fino in fondo alla verità, per poi poter adottare con tempestività, con giustizia trasparente, equanime e rigorosa i dovuti provvedimenti, giacché è gravissimo, inaccettabile per un carabiniere rendersi responsabile di comportamenti illegittimi e violenti". E ancora: "Siamo rattristati e commossi dalla triste vicenda umana di Stefano Cucchi, prima e dopo quel 15 ottobre 2009, addolorati delle sue sofferenze, della sua morte. Rispetto, perciò, per tutto questo e determinazione nel ricercare la verità, nel perseguire quelli che dovessero risultare responsabili di reati, di condotte censurabili sotto ogni profilo". Il numero uno dell’Arma non si ferma qui. Anzi. L’accertamento delle responsabilità "comporterà, se vi sarà, dolore e amarezza, ma nessuna delegittimazione può derivare da notizie e iniziative mediatiche, legittime e comprensibili: non sfugge a nessuno, credo che decine di migliaia di carabinieri assolvono quotidianamente, in Italia e apprezzatissimi anche all’estero, la loro missione a tutela della legge e della gente, con professionalità, impegno, abnegazione, rischio continuo per la loro incolumità - come attestato dalle decine di infortunati, contusi e feriti di ogni giorno - e profonda umanità nelle migliaia di servizi, interventi, investigazioni di ogni giorno, nelle decine di migliaia di arresti di ogni anno, dei quali tutti i cittadini possono avere conoscenza grazie ai mezzi di informazione". Totò Cuffaro dopo 5 anni oggi esce dal carcere di Gaetano Mineo Il Tempo, 13 dicembre 2015 Rivede la "luce" nel giorno di Santa Lucia, dopo cinque lunghi anni di carcere. Per Totò Cuffaro, oggi, si aprono le porte del carcere di Rebibbia. L’ex governatore della Sicilia torna ad essere un uomo libero, ma la pena che non potrà mai espiare è il non poter più fare politica attiva, essendo interdetto dai pubblici uffici. In molti già pensano che l’uomo da un milione di voti avrà o che gli verrà attribuito un ruolo politico. Lui continua a ripetere che andrà "in Burundi a fare il medico volontario presso l’ospedale Cimbaye Sicilia". Si vedrà. Stamattina, ad attenderlo fuori dal penitenziario romano ci sarà uno dei suoi legali di fiducia, Marcello Montalbano. Quella che, il 22 gennaio 2011, ha portato in carcere Cuffaro è una storia giudiziaria complessa e a tratti misteriosa. Tutto comincia il 5 novembre 2003 con la scoperta di "talpe" negli uffici della Procura di Palermo. La rete di spionaggio, che fa capo al ras della sanità privata Michele Aiello si regge su due insospettabili, Giorgio Riolo sottufficiale del Ros dei carabinieri e Giuseppe Ciuro della Dia, che in seguito vengono arrestati. Le indagini coinvolgono un altro sottufficiale dell’Arma, Antonio Borzacchelli, che diventerà deputato regionale, il boss palermitano di Brancaccio, Giuseppe Guttadauro e lo stesso Cuffaro. L’ex governatore viene individuato come un punto di snodo della rete delle talpe. Sarebbe stato lui il principale terminale delle fughe di notizie su indagini riservate come l’"avvertire" Guttadauro che gli investigatori avevano piazzato una microspia nel suo salotto di casa. Il 2 novembre 2004 Cuffaro viene rinviato a giudizio per favoreggiamento aggravato di Cosa nostra e rivelazione di segreti d’ufficio. Il processo si apre il primo febbraio 2005 e si conclude il 18 gennaio 2008 con la condanna a 5 anni di reclusione, ma cade l’aggravante del favoreggiamento della mafia. Imputazione, però, riconosciuta il 23 gennaio 2010 dalla Corte d’Appello di Palermo. L’ultimo atto di una vicenda che segna la caduta dell’unico politico che ha scontato una pena così pesante viene scritto dalla Cassazione il 22 gennaio 2011. La condanna definitiva era sette anni, ma ne ha scontati meno di cinque, 4 anni e 11 mesi per la precisione, grazie all’indulto di un anno per i reati "non ostativi" e lo sconto di 45 giorni ogni sei mesi per buona condotta. Cuffaro abbandona la politica il 26 gennaio 2008 quando davanti al Parlamento siciliano presenta le sue dimissioni. "Arrivare in vetta non è facile, tornare indietro ancora meno facile, saper ripartire è certamente difficile ma si può: è segno di saper e voler vivere la vita", scrive l’ex governatore in L’uomo è un mendicante che crede di essere un re , suo terzo libro ( Il candore delle cornacchie e Le carezze della nenia i precedenti) scritto in cella, dove ha preso anche una seconda laurea in Giurisprudenza. Sardegna: da Sassari fino a Uta, il "check-up" della Uil-Pa sulle carceri sarde di Alessandro Congia castedduonline.it, 13 dicembre 2015 La visita di due giorni del segretario nazionale, Angelo Urso (Uil-Pa) negli Istituti di detenzione nell’Isola, tra casi di sovraffollamento e mancanza acqua potabile. Carceri nell’Isola, l’allarme Uil-Pa: una carenza cronica di organico. È il nodo cruciale che di fatto ha tenuto banco durante la visita di due giorni, del segretario nazionale, Angelo Urso: un lieve sovraffollamento e molti problemi da risolvere nelle carceri: "In linea di massima, il bilancio è positivo - ha evidenziato - su complessivi 1834 agenti previsti in servizio ne abbiamo 1455, quindi 379 unità in meno. Le carenze che ci preoccupano maggiormente sono quelle dei quadri intermedi: mancano ispettori e sovrintendenti che sono il collegamento tra dirigenti e agenti". Uta. Paga il prezzo della fase di rodaggio della nuova struttura e si registra la carenza di organico (347 agenti contro i 445 previsti). Discorso "appeso" per Sassari: Non abbiamo potuto visitare il carcere - ha concluso - nonostante avessimo annunciato formalmente il nostro arrivo, la direttrice ci ha fatto sapere di essere impegnate in altre attività". Tempio. Il sindacalista ha manifestato perplessità per la Casa Circondariale inaugurata nel 2012: un lieve sovraffollamento, su 167 detenuti previsti ne abbiamo 183. L’elemento scandaloso emerso a Tempio, carcere aperto tre anni fa, riguarda l’inadeguato impianto idrico. Dalle tubazioni non scorre acqua potabile e l’acqua per detenuti e agenti viene portata con le autobotti. Non c’è un comandante della polizia penitenziaria, c’è una carenza di organico di 63 unità e di conseguenza ci sono arretrati nei congedi". Secondo Urso, "Tempio ha potenzialità inespresse , sarebbe opportuno portare in questo carcere i 41 bis anziché destinarli a Cagliari anche per la sua disposizione periferica". Alghero. Struttura vecchia, "non ci sono problemi di sovraffollamento visto che ha una capienza di 156 detenuti e attualmente ne abbiamo 72. Mancano invece 16 agenti. Vista la situazione di questo penitenziario che ha ancora posti vacanti bisognerebbe rivedere la situazione dei circuiti penitenziari dell’isola". Toscana: il Garante; se l’Opg non viene chiuso la Regione rischia il commissariamento gonews.it, 13 dicembre 2015 L’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo Fiorentino (foto gonews.it) La Toscana corre il vero rischio di essere commissariata se non chiuderà definitivamente l’Opg di Montelupo. Lo ha sottolineato il garante toscano dei detenuti Franco Corleone a margine di un convegno su ‘La riforma penitenziaria del 1975’ presso la sede del Consiglio regionale della Toscana. Il convegno rientra in una tre giorni di lavori dedicata ai penitenziari. "In questi anni - ha aggiunto Corleone - ho fatto convegni e pubblicazioni auspicando che la Toscana fosse la prima Regione a chiudere l’Opg. Adesso Secondigliano lo ha fatto, la Campania è arrivata prima, in Emilia Romagna c’è una Rems che funziona mentre in Toscana arranchiamo". Il Governo, ha detto ancora Corleone, "ha recentemente mandato delle diffide a otto Regioni per la chiusura degli Opg. Cinque di queste, tra cui la Toscana, rischiano seriamente di essere commissariate. Anche il sottosegretario alla salute De Filippo ha confermato questo". Corleone ha anche ricordato che "oltretutto la magistratura di sorveglianza ha emesso un’ordinanza che ha dato alla Toscana tre mesi di tempo per chiudere l’Opg Montelupo Fiorentino. La Rems di Volterra è appena entrata in funzione ma ci sono solo tre internati e queste persone sono recluse a Volterra senza titolo, C’è dunque un’infrazione". "Siamo agli sgoccioli" eppure "in Toscana abbiamo un patrimonio di riflessioni negli anni ma non si è lavorato per tempo giocando solo sul rinvio della chiusura dell’Opg di Montelupo. Da tempo cerchiamo un’interlocuzione della Regione su questi temi ma anche oggi non c’è stata, nemmeno nei saluti". "Un errore accorpare le figure di garanzia". I problemi legati al mondo del carcere e della chiusura dell’Opg sono molti mentre "la Toscana sta ragionando di accorpare le figure di garanzia, riunendo il garante dei detenuti con quello dei minori e con il difensore civico. Non mi pare che ci sia questa urgenza rispetto alle problematiche che abbiamo". Lo ha sottolineato il Garante dei detenuti in Toscana, Franco Corleone, a margine di un convegno su "La riforma penitenziaria del 1975" presso la sede del Consiglio regionale della Toscana a Firenze. "Accorpamenti di questo genere li hanno fatti già in Veneto e Lombardia, ma non funzionano - ha aggiunto - e la Regione Toscana si mette a imitare queste due regioni. Soprattutto quando a breve sarà istituito il garante nazionale dei detenuti che avrà bisogno anche di una rete a livello regionale e territoriale". Genova: detenuto pestato, 13 indagati tra agenti, dirigenti e medici di Renzo Parodi Il Fatto Quotidiano, 13 dicembre 2015 Ferdinando B., 36 anni, ad aprile è stato rinchiuso in un locale della prigione privo di telecamere e picchiato in assenza di testimoni. Il fatto sarebbe stato poi coperto da colleghi e sanitari del Marassi che, in attesa degli sviluppi, lavorano regolarmente nella struttura. Si conclude, provvisoriamente, con l’avviso di conclusione delle indagini spedito a tredici indagati, l’inchiesta della procura di Genova su una delicata vicenda avvenuta lo scorso aprile nel carcere genovese di Marassi. Un detenuto per questioni di droga, Ferdinando B., 36 anni, vittima di un pestaggio da parte di una guardia penitenziaria, che grazie alle coperture offerte da colleghi e medici del carcere non sarebbe stato denunciato per tempo alla magistratura. La denuncia venne fatta in seguito dall’allora direttore della casa circondariale genovese, Salvatore Mazzeo, recentemente trasferito a Torino. Secondo il pm titolare dell’inchiesta penale, Giuseppe Longo, il responsabile della polizia penitenziaria di Marassi, il comandante Massimo Di Bisceglie, il suo vice, Cristiano Laurenti, sei agenti della penitenziaria e cinque medici che lavorano nel carcere, a diverso titolo avrebbero nascosto l’episodio. Gli uomini in divisa coprendo il responsabile del pestaggio, l’agente Dario Pincherla, 30 anni, indagato per lesioni personali. Costui avrebbe manganellato il recluso in un locale del carcere privo di telecamere e in assenza di testimoni. Pincherla ha un passato burrascoso alle spalle. Otto anni fa era stato arrestato per una sparatoria e ancora minorenne indagato e quindi archiviato come presunto autore del lancio di sassi da un cavalcavia dell’autostrada. Al suo superiore, Massimo Di Bisceglie, Picherla aveva raccontato di essere stato aggredito e che aveva dovuto difendersi. Ne era nata una colluttazione e il detenuto era rimasto ferito cadendo a terra. Il detenuto aveva denunciato il pestaggio subito, successivamente aveva cambiato versione e sostenuto di essersi ferito cadendo da solo. Pincherla era stato sospeso dal servizio per dodici mesi. Il Dap aveva applicato la sentenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo che aveva censurato il fatto che è i poliziotti coinvolti nella macelleria della scuola Diaz avevano continuato ad esercitare le proprie funzioni. Sono indagati per favoreggiamento, oltre al comandante e al suo vice, cinque agenti: Giuseppe Cissio, Mario Cutrano, Patrizia Smiraldi, Giuseppe Trinchese e Maurizio Barile. Se saranno rinviati a giudizio dal gip, dovranno rispondere di omissioni di vario genere cinque medici, fra i quali figura la dottoressa Marilena Zaccardi, già indagata per le torture alla caserma di Bolzaneto, durante il G8 genovese del 2001. Il reato si era prescritto, ma la Zaccardi era stata ritenuta responsabile in sede civile e sospesa dall’ordine dei medici per due mesi dalla professione. Il suo nome era tornato alla ribalta come invitata dalla una Asl come relatrice ad un convegno sulla salute nelle carceri. La notizia era finita sui giornali e la sua partecipazione era stata frettolosamente annullata. Gli altri sanitari coinvolti sono Ilias Zannis, Giuseppe Papatola, Silvano Bertirotti e la psichiatra Silvia Oldrati. Costei aveva visitato e medicato Ferdinando B. e si era accorta che presentava contusioni al volto e segni sul corpo che era possibile far risalire a manganellate. Oldrati aveva segnalato la cosa ai colleghi della Asl 3 in servizio nelle "case rosse" di Marassi ma costoro non avevano redatto alcun referto. Il responsabile medico del carcere, Bertirotti, aveva spedito il detenuto ferito al pronto soccorso dell’Ospedale San Martino dove gli erano state refertate contusioni al cranio, escoriazioni al volto ed ematomi al dorso. Al direttore del carcere di Marassi all’epoca dei fatti, Salvatore Mazzeo, il 23 novembre scorso è subentrata Maria Milano, che ha accettato di parlare col fattoquotidiano.it . "Il comandante, il vicecomandante e gli agenti (salvo Pincherla, ndr) sono regolarmente in servizio nel carcere. Nessuno di loro è stato ancora rinviato a giudizio e dunque non c’era motivo di sospenderli. Non posso commentare i fatti avvenuti in aprile, ma posso dire, da quel poco che finora ho potuto constatare, che l’atmosfera qui a Marassi è tranquilla. Non si sono verificati episodi di violenza da quando sono entrata in carica. Attualmente a Marassi sono detenut2 789 persone, tutte di sesso maschile. Con un’altra percentuale di stranieri e di tossicodipendenti". La dottoressa Milano dal 1994 è nell’amministrazione penitenziaria. Ha ricoperto per sette anni la carica di vicedirettore del carcere di Marassi, altri sette anni li ha trascorsi a Chiavari, tre e mezzo nel carcere genovese di Pontedecimo - l’unico in Liguria dove esiste una sezione femminile - e gli ultimi tre anni e mezzo ha lavorato come vicario del provveditore, Carmelo Cantone che ha risposto al fattoquotidiano.it: "Il carcere di Marassi non è un carcere dove si maltrattano i detenuti né ci sono le squadre di punizione. Ci lavora gente degna, che sa fare il suo mestiere. Se c’è stato un abuso, la magistratura provvederà a punirlo. Ma si tratterebbe di un singolo episodio". Il governatore Toti aveva visitato il carcere di Marassi il 17 agosto scorso e aveva dichiarato: "Mi sono fatto l’idea di un carcere che ha i problemi di molti carceri italiani, ma sebbene sia inserito in un contesto urbano, è gestito come un’eccellenza del nostro sistema penitenziario". Dottoressa Milano, è un giudizio realistico? Marassi sconta le difficoltà di quesi tutte le case di pena italiane: sovraffollamento cronico, strutture vetuste (fu costruito nel 1865), spazi angusti. "Se Toti lo ha detto avrà avuto le sue buone ragioni. Gli spazi di socialità esistono, ci sono laboratori per fare il pane, tipografie, un teatro. Certo siamo ben oltre la capienza regolamentare che di poco oltre i 400 posti e anche rispetto alla capienza massima di 555 posti". Genova: incendio in carcere; grave un detenuto, tre agenti intossicati di Stefano Origone La Repubblica, 13 dicembre 2015 Il magrebino ha dato fuoco a un materasso: evacuati due reparti invasi dal fumo. Incendio in carcere: grave un detenuto, tre agenti intossicati. Incendio nel carcere di Marassi. Un detenuto ha dato fuoco al materasso in una cella del piano terra della Sesta sezione ed è stato salvato in extremis dagli agenti: tre sono rimasti intossicati e sono stati portati all’ospedale San Martino in codice giallo. Il detenuto, un magrebino, è invece ricoverato all’ospedale villa Scassi con ustioni di 1° e 2° grado agli arti inferiori e all’addome. A darne notizia è il segretario regionale della Uil Penitenziari, Fabio Pagani. "Si è evitata una tragedia in extremis; il detenuto, che ha gravi problemi psichiatrici, ha dato fuoco alla cella e poi ha tentato di gettarsi addosso dell’olio". La polizia penitenziaria lo ha salvato, ha spento l’incendio con gli estintori, quindi ha messo in sicurezza l’intero reparto, che è stato evacuato. Per il fumo i detenuti al primo piano sono stati trasferiti al "passeggio". In carcere sono arrivate tre ambulanze del 118 e l’automedica. Roma: progetto "Diritti in carcere", l’Università entra nelle carceri romane Askanews, 13 dicembre 2015 Gli studenti dell’Università degli Studi Roma Tre al lavoro a tutto campo per i detenuti di Roma grazie al "Progetto diritti in carcere", promosso dal professor Marco Ruotolo e realizzato dal Dipartimento di Giurisprudenza. "Le azioni che Roma Tre realizza nelle carceri romane sono diverse e articolate", spiega il rettore Mario Panizza, "ad oggi i detenuti iscritti ai corsi di laurea sono 28. Lo studio e la conoscenza sono fattori fondamentali nel percorso di riabilitazione del detenuto". "Il nostro ateneo ha siglato una convenzione con il Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria del Lazio e con il Garante regionale dei diritti dei detenuti per favorire lo studio universitario dei detenuti stessi", aggiunge Marco Ruotolo, membro del Comitato di esperti degli "Stati generali sull’esecuzione penale". "Al contempo, i nostri studenti sono i protagonisti di una speciale collaborazione con i loro colleghi in carcere". Il "Progetto diritti in carcere" di Roma Tre a Regina Coeli e a Rebibbia tiene conto della particolare posizione dello studente detenuto agevolando l’accesso agli studi universitari con esonero dal pagamento dei relativi contributi. Inoltre é in fase di realizzazione un progetto che consentirà l’uso di Skype per lo svolgimento di attività di assistenza agli studenti detenuti nel percorso di preparazione del singolo esame e che, in particolari circostanze, potrebbe essere utilizzato per le prove di profitto. Il Dipartimento di Giurisprudenza ha già sperimentato un’originale formula di tutoraggio da parte di propri studenti "senior" svolta a favore degli studenti detenuti. In base a specifica convenzione con l’Istituto di Rebibbia Nuovo Complesso, gli studenti "senior" si recano in carcere per offrire il proprio aiuto ai detenuti iscritti ai corsi di laurea in Giurisprudenza e per questa attività possono chiedere il riconoscimento di crediti formativi soprannumerari, che non concorrono cioè al computo dei crediti necessari per il conseguimento del titolo, ma che vengono regolarmente certificati ed entrano quindi nel curriculum dello studente e futuro laureato. La risposta degli studenti è molto positiva e si intende sperimentare l’ampliamento dell’iniziativa ad altri corsi di laurea dell’ateneo. Milano: Porta Santa, detenuti e migranti passeranno con il Cardinale Scola resegoneonline.it, 13 dicembre 2015 Oggi, domenica 13 dicembre alle ore 17.30, in Duomo è in programma la Messa nella V domenica di Avvento con il Rito di apertura della Porta Santa presieduta dall’Arcivescovo di Milano. Verrà dato così inizio nella Diocesi ambrosiana al Giubileo straordinario della Misericordia indetto da Papa Francesco. È la prima volta che nella secolare storia del Duomo di Milano viene aperta una Porta Santa. Il portale prescelto è quello dedicato alla libertà religiosa, il primo a sinistra (lato nord) nella facciata. L’opera fu commissionata nel 1937, dall’allora arcivescovo di Milano, il cardinale Alfredo Ildefonso Schuster ad Arrigo Minerbi, scultore di origini ebraiche che fu costretto ad abbandonare il progetto e a rifugiarsi in Vaticano per sfuggire alle persecuzione razziali. Il portale fu comunque portato a compimento da questo artista nel 1948. La celebrazione comincerà in Duomo, non all’altare principale ma a quello di San Giovanni Bono. Da qui l’Arcivescovo inviterà l’assemblea a benedire e lodare Dio. Dopo la proclamazione del Vangelo e la lettura della Bolla di indizione del Giubileo. Il cardinale Scola percorrendo la navata raggiungerà piazza Duomo. Raggiunta la Porta Santa (chiusa da ieri) l’Arcivescovo introdurrà l’apertura con le parole: "Aprite le porte della giustizia, entreremo a rendere grazie al Signore". Il cardinale Scola dall’esterno spingerà i portoni che si spalancheranno e pronunciando le parole "È questa la porta del Signore: per essa entriamo per ottenere misericordia e perdono" l’Arcivescovo, recando in mano il libro dei Vangeli, varcherà per primo la Porta Santa, seguito dalla processione. Il coro acclamerà in canto: "Io sono la porta, dice il Signore, chi passa per me sarà salvo". Comporranno la processione che con il cardinale Scola per primi passeranno la Porta Santa i vescovi ausiliari, presbiteri, diaconi, una rappresentanza dei fedeli delle sette zone pastorali, una suora, una consacrata e un consacrato, famiglie, fedeli ospiti in case di accoglienza per disabili, dei detenuti, alcuni migranti. Dopo una sosta al fonte battesimale, la processione risalirà la navata centrale mentre l’Arcivescovo aspergerà i fedeli con l’acqua benedetta. La Messa poi proseguirà normalmente dall’Altare maggiore con la liturgia della Parola. Livorno: gol, abbracci e tante emozioni nel quadrangolare alle Sughere Il Tirreno, 13 dicembre 2015 I blocchi di cemento, le sbarre, la recinzione e… il sintetico. Sì, un campo di calcio in mezzo al carcere, in mezzo alle Sughere. È una valvola di sfogo per i detenuti, compresi quelli del circuito di massima sicurezza. Sono proprio loro i protagonisti della squadra "Liberi dentro", che partecipa al torneo di calcio a 8 della Promosport Livorno - Uisp, un progetto lanciato da Paolo Stringara (allenatore della squadra) e da Pino Burroni (presidente dell’Aiac provinciale). Due campioni di sensibilità e umanità, che ieri mattina hanno organizzato pure un quadrangolare dentro la prigione. In campo i loro ragazzi, gli agenti di polizia penitenziaria, i paracadutisti della Folgore e i giornalisti sportivi. Ha vinto la Folgore (successo in finale sui carcerati, decisivi i rigori dopo l’1-1 al triplice fischio), ma in realtà hanno vinto tutti. I detenuti hanno poi chiuso con un cerchio in mezzo al terreno di gioco, ricordando così il Livorno di Davide Nicola. "Io ho giocato in Serie A e B - ha confidato Stringara - ma la gara che mi ricordo di più è una disputata in un carcere di Bologna. Ecco, forse da lì è partito tutto". Perché il quadrangolare di ieri è solo una piccola parte di tutta l’iniziativa, nata con Burroni. Rivolta al Cie di Ponte Galeria: incendiati materassi e suppellettili roma.fanpage.it, 13 dicembre 2015 Nuova rivolta ieri pomeriggio all’interno del Cie di Ponte Galeria, dove circa 90 migranti detenuti in attesa di espulsione hanno incendiato materassi e suppellettili per denunciare la loro condizione. Nella struttura sono intervenute le forze dell’ordine e i vigili del fuoco. Oggi pomeriggio in programma manifestazione di solidarietà all’esterno del Cie. Nuova rivolta al Cie di Ponte Galeria dove circa 90 migranti detenuti nella struttura hanno incendiato suppellettili e materassi. Nel Centro d’Identificazione ed Espulsione alla periferia della Capitale non è la prima volta che si verificano episodi simili, innescati dalle condizioni di vita all’interno del centro dove sono ospitati i migranti in attesa di essere rimpatriati. All’interno della struttura è intervenuta attorno alle 18.00 la polizia in assetto antisommossa per sedare la sommossa, assieme ad una squadra di vigili del fuoco per spegnere le fiamme. Oggi è in programma un presidio dei gruppi che chiedono la chiusura della struttura, in solidarietà con i migranti. L’appuntamento è alle 15.00 alla stazione Ostiense per poi muovere verso il centro d’identificazione. Angelo Del Boca: "sulla Libia l’Occidente scorda le sue responsabilità" di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 13 dicembre 2015 Intervista ad Angelo Del Boca, storico del colonialismo italiano ed esperto del paese. Abbiamo rivolto alcune domande sulla fase attuale della crisi libica ad Angelo Del Boca, storico del colonialismo italiano e esperto di Libia. Mentre si apre oggi a Roma la conferenza internazionale sulla Libia e mentre l’inviato di Ban Ki-moon Martin Kobler annuncia che i due parlamenti rivali di Tripoli e Tobruk, hanno raggiunto un accordo per un governo unitario che il 16 dicembre sarà sottoscritto in Marocco. Come giudica l’ultimo annuncio di un accordo definitivo tra Tripoli e Tobruk per la costituzione di un governo unitario? "Kobler dichiara che siamo in ritardo, che "il tempo è scaduto". Come a dire che il precedente inviato dell’Onu Bernardino Léon ha a dir poco perso tempo, finendo poi al ben pagato servizio degli Emirati arabi che erano una parte del contendere per il loro sostegno agli integralisti. Del resto un accordo sul governo unitario è stato purtroppo annunciato più di sei volte e più di sei volte smentito dai fatti. La novità è che indubbiamente la pressione interna è più forte, lo Stato islamico infatti sembra essere arrivato non solo a Derna e Sirte ma a 70 km da Tripoli, nella stupenda Sabrata. Dobbiamo impedire che ripetano a Sabrata gli scempi fatti in Siria e Iraq, sarebbe un’offesa per la bellezza di quegli scavi e per tutta l’umanità". Dall’annuncio fatto e da tutti quelli falliti, sembra che le fazioni che si contendono il controllo della Libia siano solo due… "È questo che mi lascia sgomento. Perché se anche si trovasse un accordo tra due parti ancora duramente nemiche, gli islamisti radicali di Tripoli e i "riconosciuti internazionalmente" filo-occidentali di Tobruk, ci sono in Libia decine e decine di altre fazioni tutt’altro che marginali che hanno scoperto il valore politico del petrolio. E che non smobilitano. Ecco perché ricondurre tutta la questione a sole due parti è quantomeno riduttivo. Senza dimenticare le profonde divisioni e i condizionamenti delle due "firmatarie" dell’intesa del 16 in Marocco. Per esempio, a Tobruk il generale Khalifa Haftar, ex militare di Gheddafi poi passato alle direttive della Cia, non nasconde le sue mire egemoniche sul processo in corso, muovendosi con alle spalle il regime militare egiziano di Al Sisi, come una scheggia impazzita a partire dall contesa città di Bengasi; dall’altra gli islamisti al governo a Tripoli sono fortemente condizionati da un’ala ancora più radicale, quella delle milizie di Misurata che hanno quantità ingenti di armi e miliziani super-addestrati; sono loro non dimentichiamolo che hanno ucciso Gheddafi. Oggi la Libia è un paese con una complessità di interessi da difendere che non smobilitano. Accordo o non accordo". Non credi che nella fase attuale, dopo gli attentati di Parigi, ci sia un elemento in più di contraddizione? Parlo del nuovo protagonismo francese che ha cominciato a perlustrare e a bombardare obiettivi Isis a Derna e addirittura a Tobruk? "Sì, torna il protagonismo della Francia, stavolta motivato dalla tragedia subìta a Parigi. Tuttavia è un ritorno, perché fu proprio il protagonismo di Sarkozy a portarsi dietro tutta la Nato, compresa l’Italia e lo stesso Obama in prima battuta recalcitrante. La Francia non vuole perdere i suoi privilegi e in Libia punta sempre a sostituire la Total all’Eni. Ma dimentica che furono i suoi Mirage a stanare Gheddafi a Sirte, lì dove oggi c’è lo Stato islamico". Perché tutti dimenticano le responsabilità occidentali nel disastro libico? "Una dimenticanza quantomeno colpevole. Così, se la dichiarazione di cautela "non vogliamo una Libia-bis" di Matteo Renzi è certo apprezzabile, lo è di meno quando riduce la responsabilità dell’Italia e dei governi occidentali alla "mancata ricostruzione". L’interesse italiano, europeo e americano per la Libia era ed è per il petrolio e per la crisi dei migranti. Oggi a questi due argomenti si aggiungono le milizie dell’Isis che qui abbiamo contribuito a far nascere. Raccontano che ora il califfo Al Baghdadi starebbe arrivando da Raqqa in Siria a Sirte, e non si dice che comunque passerebbe da corridoi "amici" in Turchia. Ma quel che non si ricorda è che lo jihadismo radicale è rinato in Libia con la distruzione dello stato di Gheddafi, qui sono nati i santuari di armi e milizie che si sono irradiati in Tunisia, a sud nell’Africa dell’interno e a nord-est in Siria e in Iraq. Delle nostre responsabilità si tace. Come dell’11 settembre 2012 a Bengasi, quando gli stessi jihadisti prima coordinati dall’intelligence Usa guidata in Libia da Chris Stevens, sfuggiti al controllo americano, hanno ucciso in un agguato l’ex coordinatore Cia Chris Stevens nel frattempo diventato ambasciatore degli Stati uniti in Libia. È una storia che rischia di compromettere la candidatura di Hillary Clinton che preferiamo tacere. Come regna il silenzio sull’agire di Europa e Usa nella destabilizzazione della Siria dall’autunno 2011 al 2014 "perché Assad se ne deve andare". Solo che in Siria non sono riusciti a fare quello che hanno fatto in Libia". Nei giorni scorsi Ong umanitarie hanno ricordato della salute di Seif Al Islam il figlio di Gheddafi, detenuto a Zintan. E plenipotenziari di Tobruk sarebbero andati ad incontrarlo. C’è un ruolo in questa fase per Seif Al Islam? "Provocatoriamente si potrebbe dire che adesso tutti sono alla ricerca di "un Gheddafi". Come spiega l’oscuro episodio del sequestro e rilascio immediato di un altro figlio di Gheddafi, Hannibal, prelevato in Libano nella Bekaa da milizie sciite per via della sparizione in Libia nel 1978 dell’imam sciita Musa Sadr. Il fatto è che all’Italia e all’Occidente serve un interlocutore libico. Il governo unitario in Libia ci serve strumentalmente per fermare il flusso dei disperati in fuga da guerre e miseria, per dichiarare la "guerra agli scafisti" (dagli effetti collaterali annunciati) e per allontanare l’Isis. È fondamentale un interlocutore - come facevamo con Gheddafi - che fermi anche in campi di concentramento i profughi. E che magari combatta, come faceva il Colonnello libico, l’integralismo islamico armato. Cercano un altro Gheddafi, ma ora un interlocutore importante non c’è. Così torna interessante la figura del figlio Seif Al Islam, anche per la sua conoscenza degli integralisti islamici, uccisi e incarcerati dal padre e da Seif in gran parte liberati con amnistia per un tentativo di pacificazione interna. Non è esatto dire che Seif sia detenuto: formalmente agli arresti domiciliari dopo la cattura e l’uccisione del fratello e del raìs, di fatto è libero e protetto dalle milizie di Zintan. Che fanno riferimento al parlamento di Tripoli ma lo condizionano, contro l’alleata Misurata, in chiave anti-jihad. Credo che ora non sia possibile un accordo in Libia senza un coinvolgimento di Seif Al Islam". Norvegia: mini appartamenti e niente sbarre, un’altra prigione è possibile La Repubblica, 13 dicembre 2015 Il carcere di Halden, in Norvegia, è stato progettato dall’architetto danese Erik Møller e inaugurato il primo marzo 2010. Ogni cella è dotata di televisione, frigorifero e finestre senza sbarre per permettere n maggior afflusso di luce. I detenuti hanno a disposizione spazi comuni ogni 10 o 12 celle per le loro attività fisiche, istruttive e ricreative. Circa la metà delle guardie non sono armate, per non creare intimidazione e distanza sociale. Ai detenuti sono sottoposti periodicamente questionari su come pensano sia possibile migliorare la propria esperienza detentiva. È stato definito "prigione a cinque stelle" perché le sue celle sono dotate di televisore, frigorifero e sale comuni. Il carcere norvegese di Halden è tra le strutture che garantiscono le migliori condizioni di civiltà e rispetto della persona al mondo: per realizzarlo il governo del paese ha speso circa 200 milioni di euro, e si è ispirato al principio per cui è necessario che i detenuti siano trattati umanamente affinché abbiano maggiori possibilità di reinserimento nella società e minori incentivi a delinquere. In cinque anni di attività - la struttura è stata inaugurata nel 2010 - i dati hanno confermato la validità del progetto, ma sono ancora poche le carceri nel mondo che hanno deciso di seguirne l’esempio. Sovraffollamento, diritti calpestati, isolamento dalla società: sono solo alcuni dei problemi che affliggono il sistema carcerario mondiale. Il sito americano The Richest ha studiato alcuni degli istituti penitenziari definiti tra i più "umani" al mondo, ovvero strutture con programmi che prestano maggiore attenzione alle necessità dei detenuti. Come il Butner Federal Correctional Institution, dotato di un centro oncologico all’avanguardia, e il carcere spagnolo di Aranjuez, che riserva ampi spazi alle famiglie con bambini. Non mancano, però, situazioni meno virtuose, come quella del carcere di San Pedro in Bolivia e la prigione di massima sicurezza di Qincheng, dove il trattamento basato sulle "caste" non ha fatto che incoraggiare la corruzione interna. Turchia: Che Fine ha Fatto Abdullah Ocalan, il Presidente Curdo Detenuto su un’Isola? di Federico Ciapparoni smartweek.it, 13 dicembre 2015 Se avete vissuto con coscienza storica e sociale gli Anni 90, non potete non aver mai sentito parlare di Abdullah Ocalan, politico, guerrigliero e rivoluzionario turco di nazionalità curda, il cui nome per anni ha occupato le prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Nato nel 1948 a Omerli, un villaggio nella Turchia meridionale, Ocalan, come ogni ragazzo della sua età, frequenta prima il liceo e poi si iscrive alla facoltà di Scienze Politiche all’Università di Ankara. La sua era una Turchia diversa da quella di oggi. Con i suoi problemi sociali e culturali, ma con un piglio sessantottino che coinvolgeva il mondo giovanile e universitario. È proprio durante gli studi nella capitale che Ocalan entra in contatto con i movimenti studenteschi estremisti. Nel 1971, dopo il colpo di Stato militare lascia gli studi per arruolarsi nel servizio civile a Diyarbakir, conosciuta in seguito come la "Capitale del Kurdistan Turco". È qui che, grazie all’influenza della popolazione curda, Ocalan diventa membro dell’Associazione Democratica Culturale dell’Est, volta a promuovere i diritti del popolo curdo. Nel 1978 fonda il PKK, il Partito del lavoratori del Kurdistan (oggi grande nemico politico, ma anche sociale, di Recep Erdogan, presidente della Turchia, e impegnato nella lotta armata contro lo Stato Islamico). Nel 1984 il PKK iniziò una serie di offensive armate nei confronti delle forze governative e civili in Iraq, Iran e Turchia con la sola intenzione di creare uno stato curdo indipendente, dove affermare la propria identità culturale e nazionale. Gli scontri, che durarono dal 1984 al 2003, portarono alla morte di più di 30mila persone. Un’attività militare violenta, che gli costò un mandato di cattura internazionale. Per Ocalan fu l’inizio di una lunga odissea, alla ricerca di uno stato che gli fornisse asilo politico. Prima Russia, poi Grecia e infine Italia. Le difficoltà sulla sua estradizione furono ricondotte al fatto che in Turchia fosse ancora in vigore la pena di morte. Nel 1999 Ocalan venne catturato dai servizi segreti turchi, durante uno spostamento dalla sede della rappresentanza diplomatica greca in Kenya all’aeroporto di Nairobi. Il suo arresto fu motivo di grandi proteste da parte della popolazione curda, che in tutto il mondo assaltarono le ambasciate greche, ritenute responsabili di aver tradito il loro leader. Ma oggi, a 15 anni di distanza dal suo arresto, che fine ha fatto Abdullah Ocalan? Una volta catturato e tornato in Turchia riuscì a scampare alla pena di morte, abolita nel 2002 grazie all’intermediazione dell’Unione Europea. Da allora, il leader del PKK è recluso in un carcere di massima sicurezza situato a Imrali, un’isola del Mar di Marmara. La storia recente del posto dice che dopo lo scambio di popolazioni tra Grecia e Turchia del 1923, in cui i cristiani dell’Anatolia vennero trasferiti in Grecia e i cittadini greci di fede islamica furono trasferiti in Turchia, il posto venne di fatto abbandonato. Nel 1935 sull’isola venne costruito un complesso carcerario. Ai prigionieri veniva concessa la produzione e lo scambio di prodotti di agricoltura e pesca. A seguito dell’arresto di Ocalan, il complesso venne totalmente liberato e l’isola divenne luogo di detenzione per un solo prigioniero. Oggi le notizie su Ocalan sono rade e confuse. Si parla di una persona diversa, che ha cambiato il proprio pensiero dopo aver letto teorici sociali del mondo occidentale come Murray Bookchin, Immanuel Wallerstein e Fernand Braudel, rivalutando la propria società ideale come una "Democratic-Ecological Society" e definendo Nietzsche come profeta. Durante la sua prigionia ha scritto libri e articoli sulla storia della Mesopotamia pre-capitalista e sulle religioni abramitiche. In quanto leader del Pkk, Ocalan rilascia dichiarazioni attraverso il suo legale, Ibrahim Bilmez.