Dal carcere di Padova un concerto per il Papa. In diretta su Tv2000 La Stampa, 12 dicembre 2015 Si svolgerà domenica 13 dicembre dalla casa di reclusione "Due Palazzi" di Padova. Sarà trasmesso in diretta su Tv2000, l’emittente della Conferenza episcopale italiana, il "Concerto per Papa Francesco" con I Polli(ci)ni, l’orchestra giovanile del Conservatorio Cesare Pollini di Padova, che si svolgerà domenica 13 dicembre 2015 dalla casa di reclusione "Due Palazzi" di Padova. Il programma prevede alle 12, unitamente al mondo del volontariato e delle cooperative sociali e alle istituzioni cittadine, il collegamento con piazza San Pietro per l’Angelus del Papa, un’occasione anche per i detenuti del carcere padovano per sentirsi uniti alla Chiesa universale che dà inizio al Giubileo. Subito dopo, alle 12,15, i detenuti offriranno al Santo Padre il concerto dei Polli(ci)ni, orchestra di ottanta ragazzi dai 9 ai 18 anni con musiche di Elgar, Bach, Massenet, Grieg, Morricone, Anderson e Warren. È un gesto al quale i carcerati tengono moltissimo, come ringraziamento a un Papa che (oramai s’è perso il conto dei suoi interventi) è diventato la loro voce in questi due anni di magistero. E, non da ultimo, per quel gesto di rendere le porte delle celle altrettante "porte sante" in quest’anno giubilare. Al termine del concerto ogni detenuto farà un dono a un ragazzo dell’orchestra, come segno di vicinanza umana e di ringraziamento. Ci saranno infine più di 10 brevi saluti di detenuti al Papa in altrettante lingue diverse. L’evento si concluderà intorno alle 13,10. La giornata, promossa dalla parrocchia del carcere e dal Consorzio sociale Giotto, inizierà con la santa Messa, che sarà celebrata nella cappella della casa di reclusione con inizio alle 10. Tv2000 trasmette sul digitale terrestre al canale 28, sul satellite al canale 140 Sky, sulla piattaforma satellitare tivùsat al canale 18 e in streaming su tv2000.it. Il caos giustizia di Gianluigi Pellegrino La Repubblica, 12 dicembre 2015 Da qui a fine mese la giustizia rischia di trovarsi nel caos totale. Ben maggiore del solito. E il ministro Orlando lo ha denunciato. Una riforma che era ormai attuata rischia infatti l’improvviso azzeramento per un parere di poche righe emesso da una sezione consultiva del Consiglio di Stato, contro plurimi precedenti delle più attente sezioni giurisdizionali di Palazzo Spada. La riforma è quella fortemente voluta dal Governo relativa al ricambio generazionale pure in magistratura. Per controversa che fosse almeno era pronta per entrare in vigore. Si tratta molto semplicemente dell’abolizione di una delle tante norme ad personam forgiate dall’ineffabile Berlusconi. Nel 2002 infatti da Palazzo Chigi il cavaliere, nel trasparente, quanto vano, tentativo di ingraziarsi gli allora vertici della Cassazione che dovevano decidere sulla pretesa di sottrarre a Milano i suoi processi, infilò nel calderone di una finanziaria il codicillo che consentiva ai magistrati di rinviare la pensione rimanendo in carica fino a 75 anni, in difformità da quello che avviene nella gran parte dei paesi europei. E così nel 2014 il nuovo governo in uno dei suoi primi provvedimenti di auspicata ripartenza del paese, ha abolito la deroga. La decisione se mai peccava di qualche difetto di gradualità tant’è che si concordò una proroga per abbattere i rischi di vuoti di organico e consentire all’organo di autogoverno lo svolgimento delle procedure per la sostituzione dei pensionandi. Questo è avvenuto. Con grande impegno del Csm, tra le consuete agitazioni correntizie e la difficoltà di far digerire ai giudici più anziani una norma per loro chiaramente indigesta, decine di concorsi sono stati effettuati. Ovviamente magistrati che vi hanno partecipato hanno dovuto rinunciare a candidarsi ad altri incarichi; e così via. Insomma si era pronti, almeno per questa piccola novità, a metterla in pratica. Ognuno certo rimaneva delle sue idee. Chi apprezza lo svecchiamento, chi lamenta un qualche eccessivo cedimento ad un messaggio giovanilista. E però per una volta, tutti si concordava che "cosa fatta capo a". Troppo facile. Perché come ogni buon colpo di scena, arriva venerdì la bomba di una decisione della seconda sezione consultiva presso il Consiglio di Stato che prima ancora di garantire il contraddittorio al Ministero ha espresso avviso che non se ne faccia nulla e che i pensionandi ricorrenti debbano invece, per ora, restare in carica. Se ciò venisse davvero attuato le ripercussioni sarebbero a valanga: paralisi di concorsi già espletati, compromissione di tutte le altre procedure dove risulterebbe viziata la platea dei concorrenti. E addio allo sbandierato ricambio. Incertezza assoluta su chi e per quanto debba decidere questa o quella causa. Insomma una gran caos proprio ai vertici della magistratura, in ogni Procura e in ogni Corte d’appello. Per non parlare delle somme e delle risorse umane spese inutilmente. La soluzione c’è ma si deve essere rapidi e determinati nel volerla. E infatti proprio per insegnamento dello stesso Consiglio di Stato i pareri sulle istanze cautelari emessi nell’ambito dei cosiddetti ricorsi straordinari non sono per nulla efficaci se assunti senza previo ascolto delle ragioni del ministero. Quindi, nel caso, il dicastero della giustizia può e deve rifiutare l’emissione del decreto che dovrebbe dare vigore alla sospensiva. Nel frattempo anche una sola delle parti interessate può chiedere che le cause siano trattate nelle ordinarie aule giudiziarie a cominciare da quelle dei Tar che già in più occasioni hanno respinto analoghe istanze che volevano fermare la riforma; come pure hanno fatto le sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato con pronunce attente alla forza della legge che dovrebbe essere rispettata da tutti. In questo modo il caos sarebbe evitato, concorsi e ricambi sarebbero salvi e al 31 dicembre vedremmo almeno un piccolo cambiamento attuato. Del resto c’è un principio da riaffermare. In uno stato di diritto tutti, anche i giudici, sono soggetti alla legge. E quindi anche alle piccole o grandi riforme; soprattutto se li riguardano. Sono pure liberi di criticarle e sollevare ipotesi di incostituzionalità, ma devono rimetterne l’esame alla Consulta, giammai disapplicarle sostituendosi agli apprezzamenti che il legislatore ha compiuto. Altrimenti salta ogni sistema, proprio a cominciare da chi della forza della norma, uguale per tutti, dovrebbe essere il custode. Le carceri? Non sono obbligatorie di Cinzia Ficco L’Unità, 12 dicembre 2015 Parla Stefano Anastasia, ricercatore di filosofia e sociologia del diritto all’Università di Perugia: "Liberiamoci dal preconcetto che i penitenziari siano necessari" Tra il 2000 e il 2004 più di cento agenti di polizia penitenziaria si sono suicidati. Fino al 30 giugno scorso erano trentacinque i bambini di età compresa tra zero e tre anni reclusi con le loro mamme. Negli ultimi quindici anni ben 2.368 persone sono morte nelle carceri italiane: quasi 160 ogni anno, di cui almeno un terzo per propria scelta, ricorrendo ai vari strumenti che consentono a chi si trovi recluso di togliersi la vita: dall’impiccagione alle sbarre della cella all’aspirazione del gas del fornello. Più della metà dei detenuti sopporta la reclusione solo grazie all’uso abituale di psicofarmaci. A fornire questi dati è Stefano Anastasia, nato a Roma nel 1965, ricercatore di filosofia e sociologia del diritto presso il dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Perugia, dove coordina la clinica legale penitenziaria e che con Luigi Manconi, Valentina Calderone e Federica Resta ha scritto un libro, edito da Chiarelettere, intitolato: Abolire il carcere. Una proposta che sembra provocatoria, ma che gli autori definiscono ragionevole, con dati ed esperienze documentate nel lavoro di 120 pagine. Nel 1978 il Parlamento italiano votò la legge per la soppressione dei manicomi. Ora - fanno intendere i quattro - tocca alle carceri che, così come sono strutturate, servono a riprodurre crimini e criminali, non proteggono i cittadini e non aiutano i detenuti a rieducarsi. "Il carcere - afferma Anastasia - è un’istituzione storica, a cui la Costituzione, che parla solo di pene e mai di carcere, non ci obbliga". Molti dei Paesi europei più avanzati stanno investendo sulle alternative al carcere: solo il 24 per cento dei condannati va in carcere in Francia e in Inghilterra, in Italia l’82 per cento. Non solo. Nel nostro Paese chi ruba in un supermercato si trova detenuto accanto a chi ha commesso crimini efferati. Il carcere - aggiungono - non serve a nessuno. I numeri lo dicono in modo chiaro: la percentuale di recidiva è altissima. La detenzione in strutture fatiscenti e sovraffollate deve essere abolita e sostituita da misure alternative, efficaci ed economiche. Su quest’ultimo punto a pagina 59 si legge: "Il costo medio affrontato dallo Stato per un detenuto rinchiuso in un istituto penitenziario è di 125 euro ogni giorno. Facendo un rapido calcolo e moltiplicando questa cifra per i 62.536 detenuti disseminati nelle 206 carceri italiane al 31 dicembre 2013, per i 365 giorni dell’anno, scopriamo facilmente l’enormità della spesa che mediamente affrontiamo ogni anno: quasi tre miliardi di euro. Questo costo giornaliero è così ripartito: 101,69 euro il costo per il personale, 5,93 euro il costo di funzionamento, 9,26 il costo del mantenimento, 6,90 euro sono per gli investimenti e la cifra mancante per i debiti pregressi". "Ma non vogliamo - aggiunge Anastasia - fare una questione solo di costi. Proponiamo, ovvio l’abolizione del carcere, ma non delle pene, che, però, devono essere alternative. Quando la Corte federale della California ha intimato a Schwarzenegger di ridurre di un terzo la popolazione detenuta, ha spiegato come con la metà della spesa si sarebbero potuti approntare i migliori programmi di sostegno al reinserimento sociale dei 50mila detenuti da liberare". Scrivete che nelle carceri non esiste la suddivisione tra spazi per il giorno e per la notte, non c’è l’acqua calda, non viene rispettata la separazione tra categorie di detenuti e, soprattutto, quella tra i giovani sotto i venticinque anni e gli altri e che l’assistenza post-penitenziaria, intesa come accompagnamento da una situazione di detenzione a una di libertà, non viene quasi mai garantita. Ma perché, anziché abolire, non si umanizza il carcere? "L’impegno per l’umanizzazione del carcere è nato con la sua stessa invenzione, ma non ha mai potuto fare di meglio che modificare leggermente condizioni di detenzione sempre e comunque degradanti rispetto alla concezione corrente della dignità umana. Bisogna prendere atto di due cose: il carcere - salvo casi eccezionali - non rieduca, e poi, costituisce strutturalmente un luogo di degradazione delle persone". Però, esistono leggi come la Gozzini dell’86 che promuovono il reinserimento sociale e, per chi se le merita, varie misure alternative, (affidamento in prova ai servizi sociali, semilibertà, liberazione anticipata, detenzione domiciliare, permessi premio). Non sarebbero misure sufficienti? "Se per la Gozzini intendiamo il potenziamento delle misure alternative alla detenzione, è esattamente una delle cose che proponiamo, fino a farle diventare pene principali che possano essere comminate già nella sentenza, senza passare dal carcere". Pensare a nuove strutture o ripristinare quelle abbandonate non potrebbe essere una soluzione contro i mali del carcere da sovraffollamento? "Tutte le esperienze internazionali insegnano che inseguire l’affollamento penitenziario, costruendo nuove carceri produce nuovi detenuti, in una specie di vertigine senza fondo. Il problema è cambiare la cultura della pena. Intanto puntare ad una maggiore depenalizzazione. Non solo. L’Europa ci ha più volte richiamati per l’eccessivo uso della custodia cautelare - con il 40 per cento della complessiva popolazione detenuta, doppiamo la media del vecchio continente - per il sovraffollamento e per la durata dei processi nonostante in Italia il tasso di criminalità sia inferiore, se rapportato alla media europea". Ma come spiegare al cittadino perbene, che non ha mai commesso alcun reato, che il carcere deve essere abolito? "Sono anni, decenni, che ci battiamo per il rispetto e la promozione dei diritti dei detenuti, ma con questo libro abbiamo voluto parlare a chi è dall’altra parte per spiegare che il carcere non produce più sicurezza. Al contrario, alimenta rabbia, disperazione e risentimento, se non vere e proprie carriere criminali. Dunque, è proprio nell’interesse di chi non ha commesso reati e pensa che non ci finirà mai, che noi proponiamo che sia abolito. Tutti dovrebbero conoscere i dati di quelle poche e certe statistiche che dicono che il 67% di coloro che scontano interamente la pena in carcere entro sette anni sono di nuovo dentro, mentre solo il 19% di chi sconta una pena fuori dal carcere ci ritorna. È certamente una battaglia difficile, ma merita di essere fatta. L’uso populistico del diritto penale acquieta gli animi scossi da episodi di violenza, ma non produce sicurezza. E, d’altro canto, si illude chi pensa di approfittarne per guadagnare qualche voto. Si tratta di consensi volatili quanto arrabbiati". A proposito di recidiva, nel libro sono descritti gli effetti positivi dell’indulto del 2006, che, però, richiedeva un’amnistia. Un nuovo indulto potrebbe essere nell’immediato una soluzione? "Per fortuna il momento più grave di sovraffollamento penitenziario è stato superato, ma stiamo come sospesi, a metà del guado. Se gli Stati generali dell’esecuzione penale, promossi dal ministro Orlando, approdassero a una proposta di decarcerizzazione, si spianerebbe la strada ad una significativa riduzione della popolazione detenuta a fine pena o condannata per reati minori. Secondo gli ultimi dati del Ministero della giustizia più della metà dei detenuti sta scontando meno di tre anni di pena, che è il vecchio limite per accedere alle alternative alla detenzione". Dieci le proposte alternative che indicate e che vanno verso una giustizia risarcitoria e interdittiva. Ma non per quel dieci per cento di detenuti oggi ritenuti pericolosi. È così? "Non è certo dai detenuti più pericolosi che si può partire per abolire le carceri, ma ci si deve liberare dal preconcetto che il carcere sia necessario. È successo con la schiavitù, i manicomi. Ci vorranno tempo e un processo graduale, ma deciso, di avvicinamento". Il Garante dei detenuti Corleone: stato di diritto e diritti hanno valore nei momenti difficili met.provincia.fi.it, 12 dicembre 2015 Seconda giornata del convegno sulla riforma del 1975 e le conseguenze della condanna della Corte europea dei diritti umani. Il Garante dei detenuti: "Rischio ritorno a tolleranza zero. Governare pulsioni pericolose". Esiste un pericolo che deve essere governato. Nel complesso dibattito sulla riforma penitenziaria italiana, si inserisce la riflessione del Garante dei detenuti della Toscana, Franco Corleone, lanciata nel corso della tre giorni in programma a Firenze. "Viviamo il rischio di un ritorno alla tolleranza zero. Il ritorno a misure coercitive e di richiusura del carcere da un lato e la riflessione abolizionista, affrontata da voci autorevoli come quelle di Gherardo Colombo, Luigi Manconi e Gustavo Zagrebelsky, dall’altro". Nella seconda giornata di lavori ospitati in Consiglio regionale, i mutamenti della pena, l’efficacia del carcere, le misure alternative alla detenzione sono state al centro di una tavola rotonda dalla quale è emerso il "fallimento del carcere". "Appena l’anno scorso - ha ricordato Corleone in apertura del dibattito - organizzammo un convegno su questo tema e presentammo il manifesto "No Prison" di Massimo Pavarini. Oggi sono convinto che il contrasto a pulsioni pericolose passa attraverso un fruttuoso confronto su abolizione dell’ergastolo ostativo, chiusura dei manicomi criminali e riduzione al minimo della pena detentiva femminile" ha detto ricordando che lo "stato di diritto e i diritti hanno valore nei momenti difficili". Ai lavori del convegno che tenta di "mettere punti fermi sui possibili cambiamenti" e che potrà essere un "patrimonio di riflessione da consegnare, in questo momento storico, al dibattito culturale e politico", ha osservato il presidente del Tribunale di sorveglianza di Messina, Nicola Mazzamuto, c’è stato spazio anche per parlare di terrorismo e di momenti drammatici che travalicano ogni confine. "Sono convinto - ha detto Mazzamuto - che l’arma migliore per combattere la violenza islamica e in generale ogni forma di terrorismo, sia usare il rigore filologico". "Non dobbiamo abbassare il livello di garanzie né fare la faccia feroce" ha sottolineato riferendosi, tra l’altro, all’intenzione della Francia di ridurre le garanzie costituzionali europee. Il magistrato di sorveglianza di Padova, Michele Bortolato, ha aperto la sessione dedicata alle riforme della penalità osservando come il "tema del profilo sanzionatorio sia strettamente legato a quello del sistema della legittimità e della compatibilità con la costituzione dell’intero sistema penitenziario italiano". "Io credo che il difetto genetico della grande riforma del 1975 sia stato la frattura tra il profilo sanzionatorio, il codice penale e l’ordinamento penitenziario. Il carcere deve sempre avere come cornice la Costituzione". "Nel punire - ha continuato - c’è l’essenza dello Stato. La pena, per quanto mite ed utile, è sempre un problema complesso. Ancora di più oggi che ci siamo accorti che non esiste un carcere capace di limitare la sofferenza umana allo stretto indispensabile. La prigione è diventata il luogo della violazione dei diritti". Il problema della penalità, anche alla luce di sentenze della Corte di Strasburgo che hanno avuto il merito di accendere i riflettori sulla situazione italiana, ha fatto nascere dubbi che "non abbia mai capacità riparativa nei confronti della vittima". Da qui le domande filo conduttore della tavola rotonda: chi, come, quando, quanto e perché punire, cui ha tentato di rispondere Luigi Ferrajoli, professore ordinario di filosofia del diritto all’Università di Roma. "Si è puniti per i fatti, non per ciò che siamo. Occorre insistere sul principio della pari dignità sociale e sul principio di uguaglianza e procedere sulla strada maestra per un abbassamento della durata massima della pena". "Qualunque discussione razionale sul perché punire, come punire, quanto e quando deve muoversi da una distinzione radicale tra pena e carcere" ha continuato. "La prima è una garanzia e una seconda violenza istituzionalizzata che si aggiunge a quella del diritto. Garanzie penali e processuali sono tecniche di minimizzazione, condizioni in assenza delle quali non è giustificato punire". "Altra cosa è il carcere, storicamente un tipo di pena alternativo a misure orrende come la tortura, fondato sul principio di privazione di un tempo di libertà personale e non di altri diritti, primo fra tutti l’identità personale". Secondo Ferrajoli se è "provocatorio sostenere l’abolizione del carcere, è pur vero che alternative esistono. Pene riduttive della libertà personale quali l’affidamento in prova, la detenzione di fine settimana, la sorveglianza speciale, gli arresti domiciliari". Pene alternative che dovrebbero, sempre secondo il professore, marciare di pari passo ad una "previsione del carcere solo per i reati più gravi e comunque con una riduzione della sua durata massima". Il convegno, voluto dal coordinamento magistrati di sorveglianza e realizzato in collaborazione con il Garante regionale, la Fondazione Giovanni Michelucci, il dipartimento di scienze giuridiche dell’Università degli Studi di Firenze e le associazioni L’Altro diritto e La Società della Ragione, proseguirà nel pomeriggio. Al centro del dibattito gli ospedali psichiatrici giudiziari, ancora drammaticamente aperti e in attesa che le Regioni diano forma, nella maggior parte dei casi, alle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Emilio Santoro, professore ordinario di filosofia del diritto all’Università di Firenze, presiederà i lavori della tavola rotonda. Prevista la partecipazione del sottosegretario di Stato al ministero della salute, Vito De Filippo, cui sono affidate le conclusioni. Dal Consiglio dei Ministri via libera a Dlgs su assistenza e protezione delle vittime di reato Public Policy, 12 dicembre 2015 Il Consiglio dei ministri, su proposta del presidente Matteo Renzi e del ministro della Giustizia Andrea Orlando, ha approvato, in esame definitivo, il dlgs di attuazione della direttiva Ue che istituisce norme in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato. Il decreto, si legge in un comunicato post-Cdm, "si rivolge in modo particolare a chi, vittima di un reato, si dovesse trovare in condizione di particolare difficoltà come, ad esempio, le donne, i minori, gli stranieri con difficoltà con la lingua italiana e a chi ha subito violenza". Il provvedimento "attua la delega normativa prevista dalla legge 96/2013 con riferimento alla direttiva 2012/29/Ue che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e si colloca nel più ampio contesto della legislazione Ue che, in materia, introduce disposizioni comuni per i vari Stati membri". Il decreto legislativo "apporta parziali modifiche al sistema normativo vigente. Alcune sono di particolare rilievo per l’ordinamento processuale penale, come la previsione secondo la quale, qualora la persona offesa sia deceduta in conseguenza del reato, le facoltà e i diritti previsti dalla legge possano essere esercitati, oltre che dal coniuge, anche dalla persona legata da relazione affettiva e con essa stabilmente convivente". Il provvedimento interviene inoltre "in materia di interpretariato e traduzione, rafforzando i diritti della vittima a conoscere e ricevere, nella propria lingua, gli atti essenziali per una sua migliore e consapevole partecipazione al processo sin dal primo contatto con l’autorità". Viene anche garantita la facoltà di presentare, alla procura della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto, "la denuncia o querela nella propria lingua e di ottenere gratuitamente la traduzione della relativa attestazione". Nel decreto è introdotta la definizione di "vulnerabilità della vittima", che ora è desunta, oltre che dall’età e dallo stato di infermità o di deficienza psichica, "dal tipo di reato, dalle modalità e circostanze del fatto per cui si procede. Nella valutazione della condizione della persona offesa si terrà conto quindi se il fatto risulta commesso con violenza alla persona o con odio razziale, se è riconducibile a criminalità organizzata, terrorismo o tratta degli esseri umani, se ha finalità di discriminazione e se la vittima è affettivamente, psicologicamente o economicamente dipendente dall’autore del reato". In caso di delitti commessi con violenza alla persona, "la vittima avrà la possibilità di essere informata della scarcerazione o dell’evasione dell’imputato o del condannato. Viene inoltre consentito al giudice di estendere alle persone offese particolarmente vulnerabili le particolari cautele oggi previste solo per i procedimenti penali relativi a specifiche tipologie di reato: l’obbligo della riproduzione audiovisiva delle dichiarazioni anche al di fuori delle ipotesi di assoluta indispensabilità; l’assicurazione che la persona particolarmente vulnerabile non abbia contatti con la persona sottoposta ad indagini e non sia chiamata più volte a rendere sommarie informazioni; la previsione che l’esame della persona offesa particolarmente vulnerabile, in incidente probatorio e in dibattimento, sia condotto con modalità protette". Orlando: da oggi tutela per tutte le vittime di reato Non più tutela per le vittime di alcuni reati. Da oggi sarà in vigore un "quadro di protezione e tutela per tutte le vittime di reato, soprattutto le più vulnerabili", a cominciare dall’assistenza sin dalla primissima fase delle indagini preliminari. Su Facebook è il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ad annunciare con soddisfazione il via libera del cdm alla sua proposta. Si tratta di "un passo in avanti importante", sottolinea il Guardasigilli, "il prossimo e imminente sarà quello di creare un fondo indennizzi per le vittime". In questo modo, l’Italia non si "allinea semplicemente all’Europa ma mette il sistema giustizia all’altezza delle persone, delle loro fragilità e dei loro bisogni quando siano state offese da un reato". Perché fino ad oggi, "chi subisce un’offesa rischia di essere vittima due volte, quando viene commesso il reato e durante il procedimento giudiziario che a volte diventa un calvario". Per Orlando "assistenza sin dalla fase delle indagini, protezione e tutela e garanzie durante il processo sono strumenti fondamentali per il sistema giustizia, che troppo spesso concentrandosi sul ruolo delle parti principali in gioco, accusa e difesa, rischia di lasciare troppo sullo sfondo chi ha subito l’offesa". Questo di oggi - sottolinea il ministro della Giustizia - "è un passo che va nella direzione che Piero Calamandrei sosteneva dovesse essere un tratto della giustizia frutto della collaborazione fra avvocati e giudici: un’alleanza contro il dolore". Per Orlando è l’ulteriore dimostrazione che in tema di giustizia da tempo si sta facendo molto e che "i risultati ottenuti sono tanti". "Da 18 mesi accade una cosa nuova - spiega il ministro - sempre con maggior frequenza riceviamo riconoscimenti del lavoro che stiamo portando avanti. Due giorni fa il consiglio d’Europa ha chiuso 177 casi contro l’Italia sulla durata dei processi civili, motivando la decisione con l’apprezzamento per le riforme messe in campo e i primi risultati tangibili conseguiti e la loro capacità di ridurre i tempi dei processi. Nei mesi scorsi la Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha chiuso positivamente il dossier sul sovraffollamento delle Carceri italiane, l’Onu ha evidenziato i progressi dell’Italia nella lotta alla corruzione lodando l’introduzione nel nostro ordinamento dell’auto-riciclaggio e la reintroduzione del falso in bilancio, il rapporto Doing Business 2016 evidenzia l’importanza dell’introduzione del pct e il fatto che l’Italia abbia scalato in un solo anno 13 posizioni nella classifica relativa alla durata delle dispute commerciali". L’addio (polemico) del pm Guariniello: niente proroghe, non ho entusiasmo di Marco Imarisio Corriere della Sera, 12 dicembre 2015 Il pm dei processi Eternit e Thyssen: c’è disaffezione intorno a noi, ma è anche colpa nostra. Comunque la si pensi sul suo conto, sarà ben difficile trovare un altro Raffaele Guariniello. L’esemplare è unico, un magistrato che unisce l’amore per la Cassazione e lo spirito di Don Chisciotte, capace di partire per inchieste anche destinate alla sconfitta, "ma in fondo l’importante non è la condanna dell’imputato, quel che conta è eliminare la patologia, incidere sui problemi della nostra vita, dare una mano per renderla migliore". Il suo metodo è stato analizzato e pure criticato in lungo e in largo, si sono sprecate le ironie sul fatto che in quarant’anni abbia indagato sulle morti sul lavoro e sulle mozzarelle blu, sulla tragedia dell’amianto e sulla farina di castagne nociva, sull’inchiostro dei tatuaggi, le caraffe filtranti eccetera. Ma pochi hanno sottolineato come il presunto esibizionismo giudiziario del "pretore globale" sia stato anche lo strumento per far capire all’opinione pubblica e soprattutto alla sua categoria che un processo sulle morti bianche e la tutela delle fasce cosiddette deboli deve avere la stessa dignità di una inchiesta sulla mafia o sulla corruzione. E il primo a pagare consapevolmente il prezzo di una vita spesa ad occuparsi di argomenti ritenuti a torto minori da molti suoi colleghi è stato lui, che con la consueta ironia, si definisce spesso campione nazionale di mancata carriera, dal 1969 a oggi mai uno scatto. "Se permette, un record". L’annuncio dato ieri durante un colloquio con la stampa, uno degli ultimi date le draconiane disposizioni all’ufficio impartite dal procuratore Armando Spataro, molto cambiato dai tempi in cui era pubblico ministero a Milano, chiude così un’epoca e conferma la natura "strana" di magistrato convinto che le toghe "debbano fare solo il loro lavoro, nient’altro. Niente politica, niente proclami, niente correnti". Guariniello si dimette, senza aspettare il 31 dicembre, il giorno della pensione, e soprattutto senza aggrapparsi ai ricorsi al consiglio di Stato fatti da alcuni magistrati nella sua stessa situazione, che gli avrebbero garantito almeno altri otto mesi al suo posto. "La cosiddetta proroga non fa per me, e non sono d’accordo con questa iniziativa. È una questione che nessuno sa come verrà risolta, mentre noi siamo i primi che dobbiamo dare esempio di limpidezza e serenità, senza aggrapparci ai cavilli. Quando è il momento, si deve andare, e basta". Ci sarà tempo per i bilanci, ma certo l’addio poteva essere più sereno, e non solo per i recenti "affiancamenti" decisi da Spataro su alcune sue inchieste al fine di verificarne la competenza territoriale, un modo per metterlo sotto tutela che gran parte dell’ufficio torinese ha vissuto come una inutile umiliazione in zona Cesarini inflitta a un magistrato che ha sempre agito così, dal primo giorno. "Per carità, non c’entra nulla, ma davvero. La lettera di dimissioni era pronta da tempo, e il problema, se vogliamo definirlo tale, è generale, non riguarda certo i singoli casi. Ho cominciato a pensarci in tempi non sospetti". Lo spartiacque è stato l’entrata in vigore nel 2009 della decennalità, ovvero l’introduzione del criterio che impone ai magistrati un termine massimo di permanenza nello stesso gruppo di lavoro. "La ritengo una riforma deleteria, che nega la specializzazione in un mondo sempre più specializzato. Ho perso la "mia" squadra, e in quel momento ho preso a riflettere su quanto la macchina della giustizia sia ormai scricchiolante, schiacciata dalla troppa burocrazia, volta più all’apparire che all’essere". L’ultimo passo viene fatto nello stile dell’uomo, un anticipo della pensione di pochi giorni, per mandare un segnale minimo, una polemica appena accennata. "La giustizia italiana è in grande difficoltà. Il nostro mondo è stanco, sempre più rassegnato ad accettare la carenza cronica di organico e di personale e le vane promesse di future risorse che invece continuano a mancare. Siamo intimiditi dalla disaffezione che sentiamo nei nostri confronti, figlia anche dei nostri errori. Spero di sbagliarmi. Ma io ho bisogno di sentire quell’entusiasmo che ho sempre provato dal momento del mio ingresso nella magistratura. E purtroppo ormai ho l’impressione di dover cercare altrove". Parlare del futuro professionale del 74enne Guariniello, che ha incassato un ringraziamento non banale da parte del Guardasigilli Andrea Orlando, può anche sembrare un paradosso. Eppure è difficile pensarlo a riposo, il magistrato che si era fatto dare dai custodi le chiavi del palazzo di Giustizia per lavorare anche di notte. "Mi sento in gran forma. Ho ricevuto alcune proposte per mettere a frutto la mia esperienza, che purtroppo è tanta. Mi cercherò un contesto in cui possa esprimere la mia voglia di fare. Ho i miei rimpianti, come tutti, ma sono comunque consapevole di aver vissuto in un periodo molto positivo per la magistratura italiana. Spero di avere fatto cose importanti per i deboli e per le persone meno tutelate dalla società, e sono grato per avere avuto la possibilità di farlo". Mancherà. E non solo ai giornalisti, purtroppo. La Procura di Roma: "Stefano Cucchi fu pestato dai Carabinieri" di Eleonora Martini Il Manifesto, 12 dicembre 2015 Il procuratore capo Giuseppe Pignatone vuole l’incidente probatorio per chiedere un nuovo processo. Per i magistrati "è stata ostacolata la ricostruzione dei fatti e l’identificazione dei responsabili". La "svolta" della procura di Roma preannunciata a metà settembre scorso da Ilaria Cucchi è arrivata: "Nella notte tra il 15 ed il 16 ottobre 2009 Stefano Cucchi fu sottoposto ad un violentissimo pestaggio da parte di Carabinieri appartenenti al comando stazione di Roma Appia". A scriverlo nero su bianco in una richiesta di incidente probatorio per chiedere al gip una nuova perizia medico legale sulle lesioni riscontrate sul corpo dell’allora 31enne geometra romano, sono ora il procuratore capo Giuseppe Pignatone e il sostituto Giovanni Musarò, responsabile dell’inchiesta bis aperta sei anni dopo quella morte rimasta finora senza responsabili. Il pestaggio di Cucchi, arrestato per droga al Parco degli Acquedotti di Roma e deceduto il 22 ottobre nel reparto penitenziario dell’ospedale Pertini, avvenne, secondo gli inquirenti, "in un arco temporale certamente successivo alla perquisizione domiciliare eseguito presso l’abitazione dei genitori (quando Stefano stava ancora bene, come riferito dai genitori) e precedente al momento in cui l’arrestato fu tradotto presso il comando stazione carabinieri di Roma Tor Sapienza". Non solo: la procura formula un’accusa diretta, finora sostenuta soltanto dalla sorella Ilaria, dai genitori di Stefano e dall’avvocato della famiglia, Fabio Anselmo: in seguito al pestaggio, "fu scientificamente orchestrata una strategia finalizzata a ostacolare l’esatta ricostruzione dei fatti e l’identificazione dei responsabili per allontanare i sospetti dai carabinieri appartenenti al comando stazione Appia". Inoltre, da quel momento in poi, in due gradi di giudizio del processo conclusosi con l’assoluzione di tutti gli imputati, "non si diede atto della presenza dei carabinieri Raffaele D’Alessandro e di Alessio Di Bernardo nelle fasi dell’arresto di Stefano Cucchi", "fu cancellata inoltre ogni traccia di passaggio di Cucchi dalla compagnia Casilina per gli accertamenti foto-segnaletici e dattiloscopici al punto che fu contraffatto con bianchetto il registro delle persone sottoposte a foto-segnalamento". D’Alessandro e Di Bernardo sono già finiti ad ottobre nel fascicolo della procura, indagati insieme al loro collega Francesco Tedesco per "lesioni personali aggravate" e "abuso d’autorità". Ed era la prima volta, perché prima di loro nel registro era stato iscritto solo l’ex vice comandante della stazione di Tor Sapienza, Roberto Mandolini, accusato di falsa testimonianza come l’altro militare Vincenzo Nicolardi, indagato anche per false informazioni al pm. I primi tre sono accusati di aver cagionato a Cucchi le "lesioni personali, con frattura della quarta vertebra sacrale e della terza vertebra lombare" riscontrate nella perizia medica firmata dal professore Carlo Masciocchi consegnata a settembre dai familiari alla procura. Lo fecero, scrivono i pm, "spingendolo e colpendolo con schiaffi e calci, facendolo violentemente cadere in terra". E "il pestaggio fu originato da una condotta da resistenza posta in essere dall’arrestato al momento del foto-segnalamento presso i locali della compagnia carabinieri Roma Casilina, subito dopo la perquisizione domiciliare". Nella richiesta dei pm è riportata anche la testimonianza di un detenuto del centro clinico di Regina Coeli: "Cucchi mi disse che era stato picchiato da due carabinieri in borghese, mentre un terzo carabiniere, in divisa, diceva agli altri di smetterla". E una intercettazione dell’ex moglie di uno degli indagati che dice: "Non ti preoccupare, ché poco alla volta ci arriveranno perché tu come mi hai raccontato a me, lo hai raccontato a tanta gente quello che hai fatto. Hai raccontato la perquisizione, e di quanto vi eravate divertiti a picchiare quel drogato di merda". Tutte "novità" che, secondo i pm, rendono "necessaria una rivalutazione dell’intero quadro di lesività", anche per verificare il "nesso di causalità tra le lesioni patite da Cucchi a seguito del pestaggio, e l’evento morte". Cucchi, l’Arma e i depistaggi di Giovanni Bianconi e Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 12 dicembre 2015 "Depistaggi per coprire le botte". Dalle intercettazioni nuova luce sul caso Cucchi, il giovane fermato nel 2009 dai carabinieri e morto, per l’accusa, in seguito alle percosse. Ci sono voluti sei anni per scoprire che i nomi di due carabinieri che parteciparono all’arresto di Stefano Cucchi, in abiti borghesi, furono taciuti negli atti ufficiali, tanto che nessuno li aveva mai cercati prima; per accertare che il 31enne romano morto dopo una settimana di detenzione era stato portato in una caserma per essere foto-segnalato, come si fa per ogni fermato, ma che quell’operazione non avvenne; per appurare che Cucchi si ribellò e tentò di aggredire uno dei carabinieri, e che per reazione fu picchiato con forza. Al punto che la ex moglie di uno dei militari ricorda ancora oggi di quando il marito le raccontava "gliene abbiamo date tante a quel "drogato di merda"". Tutto questo è stato scoperto a sei anni di distanza, grazie a una minuziosa indagine della Procura di Roma e della Squadra mobile, condotta con uno spiegamento di mezzi pari a quelli di un’inchiesta antimafia. Arrivando a concludere, scrivono il procuratore Giuseppe Pignatone e il sostituto Giovanni Musarò, che "nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009 Stefano Cucchi fu sottoposto a un violentissimo pestaggio da parte dei carabinieri appartenenti al comando stazione Appia"; e che subito dopo "fu scientificamente orchestrata una strategia finalizzata ad ostacolare l’esatta ricostruzione dei fatti e l’identificazione dei responsabili". Gli indagati per le lesioni restano tre, i carabinieri Alessio Di Bernardo, Raffele D’Alessandro e Francesco Tedesco (rispettivamente 36, 30 e 34 anni d’età; poco meno di quella che avrebbe Cucchi), altri due risponderanno di falsa testimonianza, ma contemporaneamente si apre un’altra partita: la richiesta di incidente probatorio per effettuare una nuova perizia medica, al fine di accertare "la natura e l’effettiva portata delle lesioni", in modo da verificare l’eventuale "nesso di causalità (cioè un qualche collegamento, ndr) con l’evento morte". In tal caso l’imputazione si aggreverebbe, la ghigliottina prossima della prescrizione si allontanerebbe, ma tutto ciò appartiene al futuro. Il passato e il presente sono un’inchiesta e un processo (che la prossima settimana approderà in Cassazione) dove gli agenti della polizia penitenziaria sono stati assolti, mentre solo adesso emergono le possibili responsabilità di carabinieri che neppure comparivano nelle carte. È stato un detenuto chiuso nel carcere di Regina Coeli insieme a Cucchi a riferire (nel 2014) che Stefano gli aveva confidato di essere stato "picchiato dai carabinieri nella prima caserma da cui era transitato la notte dell’arresto; aggiunse che era stato picchiato da due in borghese mentre un terzo, in divisa, diceva agli altri due di smetterla". Da questa e altre testimonianze portate dai familiari di Cucchi è partita l’inchiesta bis che - sostiene la Procura - ha trovato solo conferme. Dagli stessi carabinieri prima testimoni e poi inquisiti, nelle intercettazioni telefoniche e ambientali in cui cercavano di concordare le versioni ("me li ricordo che lo portammo a fare il foto-segnalamento... si sbattette... ti dette uno schiaffo in faccia a te e si buttò a terra..."; "mi raccomando non dire puttanate... che qua scoppia una bomba"; "ci dobbiamo vedere... pariamoci il culo"), ma anche dagli atti ufficiali: la resistenza di Cucchi e il foto-segnalamento mancato non risultano da nessuna parte. Anzi, quel che i carabinieri avevano cominciato a scrivere è stato cancellato con il bianchetto e sostituito con i dati di un’operazione successiva. E diversi particolari riferiti nelle relazioni di servizio non corrispondono al vero. Nonostante le precauzioni di non parlare al telefono, le conversazioni tra il carabiniere D’Alessandro e la ex moglie svelano ciò che il militare le aveva confessato, all’epoca dei fatti o in seguito: "Hai raccontato di quanto vi eravate divertiti a picchiare "quel drogato di merda"... lo hai raccontato a tanta gente di quello che hai fatto". Frasi confermate dalla donna nell’interrogatorio davanti al pubblico ministero ("mi confidò che la notte dell’arresto Stefano Cucchi era stato pestato da lui e da altri colleghi di cui non mi ha fatto il nome"), dal suo nuovo convivente e dalla madre di lei. Altri carabinieri che lo portarono in tribunale la mattina seguente hanno riferito che le condizioni di Cucchi "facevano impressione, io non ho mai visto niente del genere in vita mia", e che "era evidente che era stato pestato prima che lo prendessimo in consegna noi". Ma il muro di omertà ha retto per sei lunghi anni, mentre altri venivano processati. Adesso emerge un’altra verità, sebbene dopo tanto tempo non sia prevedibile a quali risultati porterà. È scomparsa la proposta di legge che criminalizza la tortura di Patrizio Gonnella (Presidente di Antigone) Il Manifesto, 12 dicembre 2015 Meglio pagare piuttosto che fare una legge contro la tortura. Scompare dai lavori parlamentari la proposta di legge che criminalizza la tortura. Desaparecida. Non c’è traccia all’ordine del giorno della Commissione Giustizia del Senato. Era il 9 aprile 2015 quando la Corte Europea dei diritti umani nel caso Cestaro (torturato alla Diaz) nel condannare l’Italia stigmatizzava l’assenza del crimine di tortura nel codice penale italiano. Renzi aveva promesso che la risposta italiana alla Corte di Strasburgo sarebbe stata la codificazione del reato. Da allora è accaduto qualcosa di peggio che il consueto niente. Le forze contrarie hanno trovato buoni alleati al Senato. La Commissione Giustizia di Palazzo Madama avvia la discussione di in testo già di per sé non fedele al dettato delle Nazioni Unite. A maggio calendarizza una serie di audizioni. Sono tutte di natura istituzionale. Vengono auditi, in modo informale, i capi delle forze dell’ordine e l’associazione nazionale magistrati. Manca un resoconto stenografico degli incontri. Non vengono sentite le Ong, gli avvocati, gli accademici. Così, nonostante le prese di posizione favorevoli al reato da parte dell’Anm, il risultato - prevedibile - è l’approvazione di un testo che pare pensato in funzione della non punibilità dei torturatori. Un esempio: per esservi tortura le violenze devono essere più di una. Colui che tortura una volta sola pertanto la può scampare. La lettura degli interventi dei parlamentari lascia inebetiti. La pressione istituzionale esterna ha funzionato: viene prima concordato un testo di bassissimo profilo e poi viene messo in naftalina. Siamo quasi alla fine del 2015 e la melina continua senza tema di sottoporsi al ludibrio pubblico. Ma non è finita. C’è qualcosa di peggio che il nulla. Il governo italiano si rende disponibile a pagare fior di soldi pur di evitare una nuova condanna dei giudici europei. È notizia fresca dei giorni scorsi. Meglio pagare piuttosto che fare una legge contro la tortura. Ricapitoliamo: era il 2004, tre anni dopo Genova, quando nel carcere di Asti due detenuti vengono torturati. L’indagine questa volta va avanti. Ci sono le intercettazioni telefoniche e ambientali. Antigone attraverso il proprio difensore civico Simona Filippi si costituisce parte civile nel processo. Si arriva al 2012. Così scrive il giudice nella sentenza: "Dal dibattimento emergono alcuni elementi che possono essere ritenuti provati aldilà di ogni ragionevole dubbio. In particolare, non può essere negato che nel carcere di Asti sono state poste in essere misure eccezionali (privazione del sonno, del cibo, pestaggi sistematici, scalpo) volte a intimorire i detenuti più violenti. Tali misure servivano a punire i detenuti aggressivi…e a dimostrare a tutti gli altri carcerati che chi non rispettava le regole era destinato a subire pesanti ripercussioni…I fatti in esame potrebbero essere agevolmente qualificati come tortura…ma non è stata data esecuzione alla Convenzione del 1984…né sono state ascoltate le numerose istanze (sia interne che internazionali) che da tempo chiedono l’introduzione del reato di tortura nella nostra legislazione…in Italia, non è prevista alcuna fattispecie penale che punisca coloro che pongono in essere i comportamenti che (universalmente) costituiscono il concetto di tortura". Così il giudice è costretto a non sanzionare gli agenti di polizia penitenziaria. I reati lievi per cui è costretto a procedere sono oramai prescritti. Tutti assolti ma tutti coinvolti e responsabili. La Cassazione conferma la sentenza. Questa volta Antigone (con il proprio difensore civico) in collaborazione con Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International e con gli avvocati dei due detenuti reclusi ad Asti, presenta ricorso alla Corte europea dei diritti umani. E qui arriviamo ai giorni scorsi. Il ricorso è dichiarato ammissibile. Il Governo, pur di evitare un’altra condanna che stigmatizzi l’assenza del delitto di tortura nel codice penale (dopo il caso Cestaro-Diaz), chiede la composizione amichevole e offre 45 mila euro a ciascuno dei detenuti ricorrenti. Dunque sostanzialmente ammette la responsabilità ma preferisce pagare piuttosto che farsi condannare ed essere costretta ad approvare una legge contro la tortura. Che ne pensano il premier Renzi e il ministro della Giustizia Orlando? Che ne è della promessa del Presidente del Consiglio? Caso Garlasco: il Procuratore generale alla Cassazione "annullare la condanna di Stasi" La Repubblica, 12 dicembre 2015 Al termine della sua requisitoria la richiesta di un nuovo processo che dovrà decidere se l’imputato va assolto o condannato. Colpo di scena in Cassazione per il nuovo atto del processo contro Alberto Stasi condannato a 16 anni in appello per l’omicidio della fidanzata Chiara Poggi. Il procuratore generale ha chiesto alla Quinta sezione della Suprema Corte, presieduta da Maurizio Fumo, di annullare la condanna. In aula non ci sono né Stasi né la famiglia Poggi. "L’annullamento che chiedo è con rinvio - ha sottolineato il pg Oscar Cedrangolo - per una questione di scrupolo e rispetto nei confronti del grido di dolore di tutte le parti. Il rinvio servirà per nuovi accertamenti prove e valutazioni". "Debolezza dell’impianto accusatorio". Nell’articolata requisitoria ha scandagliato punto per punto gli indizi che hanno portato la Corte d’appello di Milano lo scorso anno, dopo il rinvio della Cassazione, a emettere la condanna. "In questa sede non si giudicano gli imputati, ma le sentenze. Io non sono in grado di stabilire se Alberto Stasi è colpevole o innocente. E nemmeno voi" ha detto rivolgendosi al collegio, "ma insieme possiamo stabilire se la sentenza è fatta bene o fatta male. A me pare che la sentenza sia da annullare". "Nuove acquisizioni o differenti apprezzamenti". Il pg ha sottolineato che a suo avviso "potrebbero esserci i presupposti di un annullamento senza rinvio, che faccia rivivere la sentenza di primo grado" e quindi l’assoluzione di Stasi. Ma il procuratore ha sottolineato come la prima sentenza della Cassazione dell’aprile 2013 abbia voluto "ascoltare il grido di dolore" dei genitori della vittima. "Ho apprezzato lo scrupolo della Cassazione, quando dopo le due assoluzioni ha chiesto un nuovo giudizio. E vi chiedo di concedere loro lo stesso scrupolo". Il pg ha quindi suggerito che si dispongano "nuove acquisizioni o differenti apprezzamenti" ma ha poi precisato che "l’annullamento deve essere disposto sia in accoglimento del ricorso del pg, sia di quello dell’imputato. Perché se Alberto è innocente deve essere assolto, ma se è colpevole deve avere la pena che merita". "Perniciosa forma di spettacolarizzazione". Il magistrato ha sottolineato anche che l’omicidio di Garlasco, così come altri, ha sofferto di "quei processi televisivi che inquinano la capacità di giudizio degli spettatori, tra i quali, forse nessuno ci pensa, rientrano anche i giudici, togati e popolari, di queste vicende". "Un modo di procedere non corretto". Nel corso della sua analisi Cedrangolo ha spiegato che "al di là delle motivazioni tecniche, la Corte di Cassazione nell’annullamento disposto nell’aprile 2013 non se l’è sentita di dire la parola fine su una vicenda così articolata. Ma di questo ampio mandato il giudice del rinvio, ritengo, non ha fatto buon governo". E ha proseguito il pg: "È successo che il giudice del rinvio abbia ritenuto che gli fosse stato affidato un imputato che dalla posizione di accertato innocente fosse passato alla posizione di presunto colpevole e ha ritenuto che il suo compito fosse quello di ricercare gli indizi a carico. Un modo di procedere non corretto, anzi in alcuni casi inaccettabile". I punti da chiarire. Cedrangolo ha sottolineato come sia necessario fare chiarezza tra le due perizie contrapposte rispetto allo scivolamento del corpo della vittima sulle scale. Quanto alle impronte delle scarpe trovate sul luogo del delitto, il pg ha sottolineato che "ci sono voluti sette anni per individuare taglia e marca delle scarpe, Frau numero 42", e ha anche evidenziato che "se le scarpe dell’aggressore erano copiosamente imbrattate di sangue, perché le impronte sono state ritrovate sul tappetino del bagno, come mai non sono state evidenziate le impronte di uscita fino alla porta d’ingresso? Mistero". A suo avviso "questa è un’altra incongruenza che merita accertamento". Quanto alle impronte sul dispenser di sapone liquido in bagno, il Pg ha detto "che l’imputato frequentava la casa: ci mangiava, ci dormiva, ci faceva l’amore e da un punto di vista razionale non aveva alcun interesse a cancellare le sue impronte". Cedrangolo ha ancora sottolineato che "sono 24 le persone che si sono recate in quell’appartamento prima che vi accedessero i Ris per i rilievi", che "non si sono dimostrati affidabili per l’impossibilità di verificare l’essiccamento del sangue e per il massiccio inquinamento del luogo". "La verità è già emersa". "Non siamo qui a rappresentare nessun grido di dolore ma la convinzione granitica che la verità sia emersa". Lo ha detto nella sua arringa l’avvocato Francesco Compagna, che assieme a Gian Luigi Tizzoni rappresenta la famiglia di Chiara Poggi. "È vero - ha aggiunto Compagna - come dice il procuratore che scontiamo il peso di un processo mediatico. L’errore in cui si rischia di incorrere è farci un’idea esaminando gli atti maniera pregiudiziale". Le arringhe delle parti sono durante diverse ore, tanto a lungo da spingere il presidente Fumo a chiedere più sintesi per consentire ai giudici di "ritirarci in camera di consiglio con una capacità mentale congrua". "Stasi va assolto per non aver commesso il fatto". A proposito di Alberto Stasi "non possiamo parlare di non colpevolezza ma di presunzione di innocenza". Così Angelo Giarda, legale del giovane di Garlasco. Giarda nella sua arringa definisce una sentenza "fumosa", "sgangherata", "scritta in fretta" e "che fa acqua da tutte le parti", quella di appello bis con la quale il suo assistito è stato condannato a 16 anni di carcere. "L’indizio parte da un dato noto per arrivare a un dato ignoto - sottolinea Giarda - ma gli indizi su Stasi a che dato portano? Non c’è nessun indizio che porti al fatto storico dell’uccisione di Chiara Poggi. Stasi va assolto per non aver commesso il fatto". Al termine dell’udienza i giudici si sono riuniti in camera di consiglio. La sentenza è attesa per domani, sabato mattina. Prison Fellowship: un pranzo di Natale anche per i detenuti di Luca Marcolivio zenit.org, 12 dicembre 2015 Da 40 anni Prison Fellowship porta avanti la difficile opera di ridare un senso alle vite di ha compiuto reati o li ha subiti. Quest’anno è previsto un banchetto in cinque carceri italiane, con il contributo dei più rinomati chef. Riconciliare in qualche modo le vittime dei reati e i loro colpevoli, durante lo sconto della pena carceraria, e riparare le ferite nelle vite di entrambi. Prison Fellowship International è impegnato in questa difficile opera da una quarantina d’anni. Molto più recente è la diffusione del progetto anche in Italia, in cui il Rinnovamento nello Spirito Santo ha avuto un ruolo determinante. A colloquio con Zenit, Marcella Reni, presidente della sezione italiana di Prison Fellowship e responsabile dell’area carismatica del RnS, ha illustrato le attività dell’associazione, annunciando un’interessante attività natalizia. Dottoressa Reni, quali sono gli scopi e le modalità di azione di Prison Fellowship? "In Italia, Prison Fellowship arriva nel 2009 ma in America è attivo già dal 1976. È articolato in circa 125 associazioni nazionali federate, presenti in tutti e cinque i continenti. È un’associazione per i diritti dei detenuti e per la tutela delle loro condizioni carcerarie; al tempo stesso tutela anche i diritti delle vittime. Prison Fellowship è presente anche in nazioni come il Pakistan, l’Iran o la Cina, dove vige ancora la tortura, o in paesi del Sudamerica, dove le condizioni carcerarie sono pessime. In Italia, Prison Fellowship nasce con un progetto prioritario, il Progetto Sicomoro, che intende mettere a confronto detenuti e vittime indirette, ovvero vittime dei loro stessi reati ma da parte di altre persone. Il percorso del Progetto Sicomoro si svolge all’interno delle strutture carcerarie: siamo ormai arrivati a trattare moltissimi detenuti e vittime, con risultati eccellenti. Parliamo di una giustizia riparativa che definiamo "surrogata" (proprio perché non vi è una mediazione diretta tra vittima e detenuto), che porta però a risultati eccezionali nel trattamento del detenuto, il quale cambia vita e mentalità, riconosce ciò che ha fatto ed assume una consapevolezza nuova, con un desiderio di riparare, laddove è possibile, con le modalità più disparate: dal fare qualcosa per la vittima e per la società, allo scrivere semplicemente una richiesta di perdono, laddove il danno sia irreparabile. Il risultato eccezionale, però, è in particolare sulle vittime, che ritrovano serenità e, soprattutto - risultato che abbiamo constatato nel 100% dei casi - una nuova fiducia nell’essere umano in quanto tale, al di là del suo errore e prescindendo dal suo sbaglio. L’errore spesso è irreparabile ma l’uomo va avanti e la dignità umana rimane, così come rimane l’impronta di Dio nel cuore del detenuto". Lo scorso mese si è tenuta a Roma una conferenza sul progetto Building Bridges promossa da alcuni dei partner europei di Prison Fellowship International. Qual è il bilancio di questo evento? "Building bridges è un progetto europeo, costruito proprio sul Progetto Sicomoro. Vi hanno partecipato sette paesi europei, le università di Ulm e Manchester, un Centro di Ricerca viennese. Il Progetto è portato avanti in 14 sperimentazioni: tutte quante hanno prodotto gli stessi risultati di conversione e riparazione nelle vittime che, sono diventate - anche in Italia - persino volontari nella ricerca di nuove vittime, perché hanno compreso quanto sia fecondo questo percorso e quanto sia riparatore delle ferite, anche emotive e della memoria. Non è in gioco, infatti, soltanto la riparazione materiale ed economica ma anche la restaurazione psicologica, affettiva ed emotiva. Tutto questo è un risultato veramente positivo. La cosa che mi preme dire è che in Italia la giustizia riparativa viene studiata: stiamo ancora facendo accademia ed abbiamo delle interessantissime soluzioni di mediazione diretta tra veri colpevoli e vere vittime. Quello che ci proponiamo è un raggio più ampio, trattando con tutte le vittime possibili e di tutti i crimini possibili, utilizzando detenuti all’interno delle strutture carcerarie o anche ex detenuti all’esterno, in maniera che la riparazione raggiunga il maggior numero possibile sia di vittime, sia di detenuti, mettendo al centro la vittima, affinché questa non si senta ancor più vittimizzata ma diventi protagonista del processo riparativo". Lei è un esponente di spicco del Rinnovamento nello Spirito Santo italiano, per mezzo del cui carisma, gli autori e le vittime di molti reati hanno sperimentato la riconciliazione. Quanto è contato questo fattore nelle attività di Prison Fellowship? "Non è un caso che Prison Fellowship International si sia rivolta al Rinnovamento nello Spirito per generare Prison Fellowship Italia: questa sensibilità è già presente nei nostri volontari, i quali, nella fase iniziale ma, ancor più, nella fase a regime, vengono dal mondo del Rinnovamento nello Spirito. Gli extra sono le vittime o anche chi ha partecipato ad un progetto del Percorso Sicomoro. Io stessa, da direttore del RnS, sono diventata presidente di questa associazione, la quale nasce in America ad opera di un uomo, deceduto alcuni anni fa, che ho avuto la fortuna di conoscere: lui era Chuck Colson, braccio destro di Nixon ai tempo del Watergate. Colson pagò per quello scandalo, scontando tre anni di reclusione, durante i quali sperimentò la durezza delle condizioni carcerarie. Uscito dal carcere, disse: "con Gesù nel cuore, il carcere può avere ancora un aspetto umano". Il detenuto, quindi, può ancora conservare un barlume di dignità umana ma senza Gesù nel cuore, il carcere è un posto disumano. Al termine di questa profonda esperienza, che lo ha segnato per il resto della sua vita, Colson ha cambiato vita, ha venduto tutti i suoi beni e ha messo a disposizione il ricavato a questa associazione da lui fondata. Avendo contatti in tutto il mondo per il ruolo che ricopriva, Colson riuscì ad estendere molto rapidamente la sua attività a livello globale". Qual è il prossimo impegno di Prison Fellowship Italia? "Stiamo accedendo a un numero sempre maggiore di carceri, conoscendo sempre più detenuti, i quali rimangono tali, pur avendo noi dato loro speranza e una liberazione del cuore (la libertà non possiamo né dargliela, né fargliela sperare). Torneremo, quindi, nelle carceri con un altro progetto, quello di renderli felici, almeno un giorno l’anno. Lo scorso anno abbiamo sperimentato con successo il pranzo di Natale a Rebibbia, mentre quest’anno lo vogliamo portare in cinque carceri italiane, con uno chef di alta qualità e "stellato", perché il loro pranzo sia d’eccellenza, facendo loro sognare quello che nemmeno immaginano di poter avere. In molte di queste carceri entreranno a pranzare con loro anche i familiari (figli piccoli, mogli, compagne). Prepareremo questo pranzo, durante il quale ci allieteranno con la loro presenza, dei volontari - tra cui attori e comici - che si sono fatti coinvolgere con grande gioia e piacere. Offriremo questo pranzo per far "giubilare" i detenuti e le loro famiglie, proprio all’inizio dell’Anno Santo, mostrando loro un’opera di misericordia". Emilia Romagna: sovraffollamento carceri, i chiarimenti del Provveditorato Regionale ravennanotizie.it, 12 dicembre 2015 Il Provveditorato Regionale dell’Emilia Romagna sui dati relativi a Ravenna, Parma e Bologna: "Spazio a disposizione dei detenuti maggiore rispetto ai parametri minimi stabiliti dalla Corte Europea Diritti dell’Uomo". Sui dati pubblicati recentemente a proposito di picchi di sovraffollamento nelle carceri di Ravenna, Parma e Bologna, dati emersi dalla relazione sulla situazione penitenziaria in Emilia-Romagna illustrata dall’assessore regionale al Welfare Elisabetta Gualmini alle commissioni Politiche per la salute e politiche sociali e Parità e diritti delle persone, arriva oggi un chiarimento dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Provveditorato Regionale dell’Emilia Romagna, Ufficio dei Detenuti e del Trattamento. Per una "maggiormente corretta e completa informazione" in una nota stampa a firma Pietro Buffa, Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, si legge: "corre l’obbligo precisare che i presunti picchi di sovraffollamento registrati alla fine dell’anno 2014 ascritti agli Istituti Penitenziari di Parma, Ravenna e Bologna, invero non possono definirsi tali atteso che gli spazi posti a disposizione dei detenuti nelle camere di pernottamento di detti Istituti risultavano essere maggiori rispetto ai parametri minimi stabiliti dalla Corte Europea Diritti dell’Uomo, indicati in 3 mq pro-capite. Con ogni probabilità è stato indicato uno stato di sovraffollamento sulla base del numero delle camere di detenzione esistenti, aventi dimensione media di circa 9 mq escluso il bagno, le quali possono essere occupate, al massimo, da due ristretti". Parma: suicida detenuto di 49 anni, si è impiccato nel Centro Diagnostico Terapeutico La Repubblica, 12 dicembre 2015 A togliersi la vita Amedeo Rey, 49 anni compiuti lo scorso primo dicembre, che si è impiccato nel Centro Diagnostico Terapeutico. Nuovo caso di suicidio nel carcere di Parma. A togliersi la vita Amedeo Rey, 49 anni compiuti lo scorso primo dicembre, che si è impiccato nel Centro Diagnostico Terapeutico della struttura di via Burla. A darne notizia oggi Tv Parma. In carcere dal 2003, era stato condannato per l’assassino di Fabio De Pandi, il bambino di soli 11 anni ucciso da una pallottola vagante il 21 luglio del 1991 a Napoli nel Rione Traiano durante un conflitto a fuoco tra clan camorristici rivali, da una parte i Puccinelli, a cui apparteneva Rey, dall’altro i Perrella. Il caso di ieri segue di pochi giorni altre emergenze simili scattate nel carcere di Parma come lo scorso 6 novembre quando un detenuto di 23 anni aveva tentato di suicidarsi ingerendo una dose massiccia di farmaci o come a fine settembre quando un boss al 41bis aveva cercato di impiccarsi. Il Garante: servono misure prevenzione "Un detenuto si è tolto la vita ieri sera, impiccandosi. I cosiddetti eventi critici che nelle loro estreme forme sono rappresentate dal suicidio sono da considerarsi fenomeni purtroppo frequenti quanto inevitabili in un ambiente come quello penitenziario dove la privazione della libertà annichilisce l’essere umano ma sarebbe importante capire se nel nostro carcere sono adottate tutte le misure di vigilanza e allarme per prevenire i fenomeni suicidari". È il commento di Roberto Cavalieri, garante dei detenuti del Comune di Parma, alla notizia del nuovo episodio di suicidio avvenuti nel carcere di Parma. "Mi risulta - sottolinea il Garante - che l’Ausl di Parma non abbia ancora provveduto a sottoscrivere il protocollo anti-suicidario con la direzione del carcere. Mi auguro che questo drammatico episodio ponga fine a questa attesa". Cagliari: carcere di Uta, arrivano 200 capi della mafia nelle celle del 41 bis di Ignazia Melis castedduonline.it, 12 dicembre 2015 Nei nuovi complessi penitenziari di Sassari e Uta a breve verranno concentrati tutti i detenuti del 41 Bis, attualmente dislocati su tutto il territorio italiano. A confermarlo è stato il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. In una nota si spiega che "i provvedimenti di trasferimento di detenuti ex art. 41 bis nelle sezioni delle carceri di Sassari e Uta saranno adottati ai sensi delle "disposizioni in materia di sicurezza pubblica", varate con la legge 15 luglio 2009, n. 94 che dispone: "I detenuti sottoposti al regime speciale di detenzione devono essere ristretti all’interno di istituti a loro esclusivamente dedicati, collocati preferibilmente in aree insulari, ovvero comunque all’interno di sezioni speciali e logisticamente separate dal resto dell’istituto e custoditi da reparti specializzati della polizia penitenziaria". Il trasferimento avverrà non appena saranno ultimati i lavori della sezione 41 bis del carcere di Uta e l’attivazione del sistema di multivideo-conferenza nel carcere di Sassari. Le due sezioni hanno una ricettività di 92 posti ciascuna". L’ex governatore Pili, dopo avere denunciato per primo l’arrivo nelle carceri dell’isola di capimafia e altri detenuti ristretti nel regime di massima sicurezza, ha inviato una lettera al presidente della commissione antimafia, Rosy Bindi, per convocare la bicamerale e acquisire il parere della Regione. "La commissione antimafia", afferma Pili, "deve occuparsi immediatamente dello scellerato progetto del Dap di trasferire in Sardegna oltre 200 capimafia". Il parlamentare chiede che l’organismo bicamerale convochi al più presto il presidente della Sardegna, Francesco Pigliaru, "per acquisire il parere della Regione su questo demenziale progetto che rischia di attivare un processo di infiltrazione mafiosa senza precedenti in Sardegna". Genova: botte a un detenuto, l’inchiesta si allarga anche ai capi di Giuseppe Filetto La Repubblica, 12 dicembre 2015 Sei agenti di Polizia penitenziaria, compreso il comandante ed il suo vice, indagati per omissioni e favoreggiamento; più cinque medici. Secondo la Procura non avrebbero denunciato il pestaggio di un detenuto dentro il carcere di Marassi. Tutti, secondo la magistratura, avrebbero fatto finta di non sapere, compreso il comandante Massimo Di Bisceglie e in suo vice, Cristiano Laurenti. Anche se Di Bisceglie si dice totalmente estraneo e commenta con dispiacere: "Oltre ad essere amareggiato, perché so qual è il mio lavoro, questa vicenda mi fa anche male per il mio rapporto con la Procura". E però da due giorni il sostituto procuratore Giuseppe Longo ha concluso le indagini ed ha spedito gli avvisi. A Dario Pinchera, di 30 anni, si contestano i reati di lesioni: all’interno di un locale privo di telecamere di sorveglianza, avrebbe manganellato un recluso, Ferdinando B., di 36 anni. Di favoreggiamento, oltre il comandante e il vice, sono indagati pure gli agenti Giuseppe Ciuccio, Mario Cutrano, Patrizia Smiraldi, Giuseppe Trinchese e Maurizio Barile. Ferdinando B. avrebbe parlato del pestaggio con la psichiatra Silvia Oldrati, la quale a sua volta ne avrebbe riferito ai colleghi della Asl Tre, in servizio all’interno delle "Case Rosse". I medici, però, dopo un consulto tra loro, non avrebbero compilato un opportuno referto, tanto da essere indagati per omissioni. Tra loro figura Marilena Zaccardi, nota per essere stata processata per le torture a Bolzaneto. I reati per i fatti del G8 sono andati in prescrizione, ma la dottoressa è stata ritenuta responsabile in sede civile. Tornando a Marassi, gli altri medici indagati per il pestaggio sono: Ilias Zannis, Giuseppe Papatola, Silvano Bertirotti ed appunto la stessa Oldrati. Lei che il 14 aprile scorso, durante la visita alla quarta sezione del carcere, vede il detenuto (per reati di droga) tumefatto, lo medica e lo segnala "con lesioni sospette" al medico responsabile, Bertirotti. Che manda il carcerato al pronto soccorso del "San Martino". In ospedale vengono refertate contusioni al cranio, escoriazioni al volto, ematomi al dorso. Ferite compatibili con manganellate. In questa brutta vicenda c’è un altro retroscena: Pinchera, prima sospeso dal gip e poi per 12 mesi dall’Amministrazione Penitenziaria, otto anni fa era stato arrestato per una sparatoria e qualche anno prima, minorenne, indagato - e poi archiviato - per un lancio di sassi in autostrada che aveva provocato la morte di un automobilista. Per capire quanto accaduto a Marassi, occorre ricostruire quanto riportato nelle relazioni. Dopo il pestaggio, Pinchera avrebbe riferito a Di Bisceglie di essere stato aggredito dal detenuto, si sarebbe difeso, ci sarebbe stata una colluttazione; il recluso sarebbe scivolato ed avrebbe avuto la peggio. All’aggressione non avrebbe assistito nessuno. Novara: detenuti al lavoro gratis per tenere in ordine la città di Monica Curino Corriere di Novara, 12 dicembre 2015 È stato rinnovato ieri mattina, venerdì 11 dicembre, con la firma di tutti gli Enti coinvolti, il protocollo d’intesa per l’impiego dei detenuti in lavori di pubblica utilità. Una convenzione che ha per obiettivo la realizzazione di percorsi di inclusione sociale dedicati al recupero del patrimonio ambientale, del decoro urbano, dell’edilizia sociale, con il coinvolgimento appunto di detenuti. A firmare il protocollo, Comune, Casa circondariale, Magistratura di sorveglianza, Ufficio esecuzioni penali esterne (Uepe), Assa e, per la prima volta, l’Atc, l’Agenzia territoriale per la casa del Piemonte Nord. Presenti per il Comune, il sindaco Andrea Ballarè e l’assessore alle Politiche sociali, Elia Impaloni, per il carcere la direttrice Rosalia Marino, per l’Atc, il direttore generale Nicola Serravalle, per l’Assa, il presidente Marcello Marzo, per la Magistratura di sorveglianza, Lina Di Domenico e per l’Uepe, Santina Gemelli. Una convenzione che ha caratteristiche di unicità in Italia, così come l’impegno intrapreso da molti anni dal carcere novarese con le locali istituzioni e con il Comune, in particolare lungo questa strada, quella del coinvolgimento dei detenuti in lavori socialmente utili e in altri progetti importanti anche al loro stesso reinserimento nella società. "Un protocollo - ha esordito Ballarè - che ha la durata di tre anni e che, pertanto, sarà in vigore sino al 2018. Oggi rinnoviamo quanto già promosso e realizzato da qualche anno, perché crediamo in questi progetti. Con questa nuova convenzione c’è una new entry, l’Atc appunto. Perché ora i detenuti potranno essere utilizzati anche per collaborare alla sistemazione di alcuni alloggi del Comune destinati all’edilizia sociale e che poi gestisce l’Atc, alloggi che necessitano, spesso, di interventi di manutenzione. Adesso potranno aiutarci anche i detenuti. Gli interventi saranno poi da stabilire. Gli alloggi saranno così rimessi a nuovo e potranno essere messi a disposizione di chi è senza casa". Varese: Università e carceri, un accordo per la formazione e la sicurezza varesenews.it, 12 dicembre 2015 L’Insubria e il Provveditorato generale dell’Amministrazione penitenziaria hanno sottoscritto un protocollo di collaborazione. L’ateneo fornirà percorsi di studio ma anche consulenze. Formazione, sicurezza ma anche rispetto dei diritti religiosi. Sono diversi i capitoli dell’accordo sottoscritto questa mattina, venerdì 11 dicembre, dal Rettore dell’Università dell’Insubria Alberto Coen Porisini e il Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria Aldo Fabozzi. L’intesa porterà l’ateneo a mettere a disposizione di detenuti, dipendenti e quanti si impegnano all’interno delle case circondariali, le proprie professionalità e competenze. Come? si parlerà di sicurezza negli ambienti lavorativi con il professor Fabio Conti che da anni si occupa di ingegneria della sicurezza, ma anche di giustizia ripartiva con la docente Grazia Mannozzi e di rispetto delle differenze religiose in carcere con la professoressa Ferrari che è anche garante della libertà di culto per la provincia di Lecco. Per il Provveditorato è una nuova convenzione che va ad aggiungersi ad altre avviate con diversi atenei della Lombardia. L’Insubria sarà coinvolta in percorsi che verranno avviati nelle carceri di Varese, Busto Arsizio, Como, Lecco e Sondrio. Per i detenuti ci sarà la doppia opzione: corso sulla sicurezza se stanno svolgendo un lavoro all’interno della struttura ma anche percorsi formativi universitari per arrivare alla laurea. Scopo, infatti, è quello di dare la possibilità ai detenuti ristretti negli istituti individuati e ai soggetti in esecuzione penale esterna del relativo territorio di iscriversi ai Corsi di Laurea dell’Università degli Studi dell’Insubria, mediante procedure amministrative che tengano conto dello stato di privazione della libertà sia per lo svolgimento degli esami che per la gestione dei rapporti con segreterie didattiche e amministrative, e anche attraverso l’esonero totale delle tasse universitarie, nell’obiettivo primario del reinserimento. Sotto il profilo della formazione, la convenzione consente di dare avvio a percorsi formativi alla giustizia riparativa e alla mediazione, secondo quanto richiede la Direttiva 2012/29/UE, dedicata alla istituzione di norme minime a tutela e protezione delle vittime di reato. Per lavorare in modo riparativo, e promuovere la mediazione reo-vittima (ma anche la gestione dei conflitti che possono sorgere all’interno dell’istituzione carceraria, tra detenuti) occorre infatti una adeguata opera di sensibilizzazione alla giustizia riparativa di tutti coloro che a vario titolo sono chiamati a lavorare nel settore dell’esecuzione penale; ciò è emerso altresì dai lavori degli Stati Generali sull’esecuzione penale voluti dal Ministro della Giustizia On. Andrea Orlando, gruppo di lavoro a cui partecipa la Professoressa Grazia Mannozzi, Docente di Diritto Penale dell’Università degli Studi dell’Insubria, che si occuperà di questi aspetti della convenzione. L’accordo coinvolge, oltre alla facoltà di Ingegneria per il Lavoro e per l’Ambiente con il Dipartimento di Scienze Teoriche e Applicate, per l’aspetto relativo alla sicurezza del lavoro, anche il Dipartimento di Diritto, Economia e Culture, per quello legato alla giustizia riparativa e alla mediazione delle diversità culturali e religiose. Catania: le borse "Made in Prison" nelle boutique tolte alla mafia Corriere della Sera, 12 dicembre 2015 L’ex direttrice artistica accessori nel gruppo di famiglia promuove un’altra iniziativa sociale, per il recupero delle detenute nel carcere di Catania. Dopo il disastro dei beni sequestrati ai boss, dopo l’allegra gestione dell’impero "Bagagli" (marchio siciliano di borse e valigie) con una catena di negozi strappati alla mafia, ma a rischio fallimento, nelle eleganti boutique Bagagli del centro di Palermo arriva Ilaria Venturini Fendi, una delle eredi della famosa casa di moda, per risollevare l’economia e l’immagine offuscata da una disastrosa amministrazione giudiziaria. Per farlo, alla vigilia di Natale, arriva esponendo in vetrina le borse confezionate dalle detenute del carcere di Catania nel quadro di un progetto di recupero chiamato non a caso "Made in Prison", pezzo forte del marchio di design sostenibile "Carmina Campus". Riscatto e speranza. Eccessi di produzione, fondi di magazzino, materiali già esistenti ma con piccoli difetti, scarti industriali sono la materia prima per oggetti in cui si condensa la speranza di un riscatto. Double face. In carcere e fuori. Anche in questi punti vendita che una sorta di cricca di giudici e amministratori dall’estate scorsa sotto inchiesta avrebbe tentato di usare per assunzioni clientelari e arricchimenti personali. Una brutta storia con cinque magistrati indagati dai colleghi di Caltanissetta e allontanati da Palermo. Nuova vita. Si cambia rotta e Ilaria Venturini Fendi accoglie il caloroso invito del nuovo amministratore giudiziario, l’avvocato palermitano Antonio Coppola, succeduto al figlio di uno dei cinque magistrati coinvolti, di dare spazio alle borse create dalle detenute. "Solo il 10 per cento delle detenute impegnate in queste esperienze di lavoro torna a delinquere", spiega Caterina Micolano, portavoce di "Sociallymadeinitaly", artefice delle iniziative che consente alle donne dietro le sbarre di costruire un’alternativa alle loro vite. Dopo l’Africa. Per Ilaria Venturini Fendi è la seconda volta che ricomincia dal sociale, dopo il primo totale cambio di stile di vita. A lungo nell’azienda di famiglia come direttore creativo degli accessori, lasciato il gruppo, è diventata imprenditrice di un’azienda agricola biologica alle porte di Roma. Prima l’Africa. Con "Carmina Campus" a lungo impegnata in Camerun con l’International Trade Centre (Itc), un’agenzia congiunta delle Nazioni Unite e dell’Organizzazione mondiale del commercio, per una linea interamente prodotta con materiali reperiti localmente. Poi il ritorno a casa. Nelle carceri. Per un progetto di training e lavoro in alcuni penitenziari. Impegno monitorato dal ministero della Giustizia, attuato con un pool di cooperative sociali collettivamente riunite sotto "Sociallymadeinitaly". E nel marzo 2015 hanno potuto presentare la prima collezione di borse frutto di questa collaborazione certificata dal Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria con marchio dal nome eloquente: "Sigillo". Vetrine illuminate. Di questo si parla al convegno di Villa Bordonaro, sabato 12 dicembre, con Ilaria Venturini Fendi a contatto con il pubblico, nella boutique di via XX Settembre 54, una delle vetrine sulle quali Cosa nostra aveva steso la sua rete, senza immaginare che un giorno a confezionare le borse sarebbero state le detenute che a quel mondo si stanno ribellando. Un modo per chiedere una mano alla Palermo perbene. Anche per non spegnere le luci di quelle vetrine, come si augurano i nuovi magistrati della ricostruita sezione Misure di prevenzione. Dimostrando che senza la mafia e senza intrallazzi è meglio. Firenze: dall’Associazione Pantagruel tante iniziative per aiutare i detenuti a reinserirsi di Annamaria Piccinini stamptoscana.it, 12 dicembre 2015 "Associazione Pantagruel per i diritti dei detenuti Onlus". Strano nome per un’associazione di volontari impegnati con i carcerati. Ricordando Rabelais sembrerebbe piuttosto un’associazione di mangiatori e buontemponi. Ma forse una logica c’è: molti di quei carcerati gradirebbero essere tanti Pantagruel, ma se lo sognano: affamati di cibo e soprattutto di giustizia. Chissà se Giuliano Capecchi, il fondatore di questa associazione nel 1986, che le ha dato il nome, aveva pensato proprio a questo. Ma fuor di metafora e nella concretezza di una storia che ha ormai 30 anni, L’Associazione Pantagruel continua ad agire con il suo attuale presidente, Salvatore Tassinari, e con un numero ormai ragguardevole di volontari, per dar vita a iniziative che mirano, pur con grandi difficoltà e spesso contrastate dallo staff carcerario, a sollevare, anche se di poco, la condizione dei reclusi. I volontari seguono corsi di preparazione che durano alcuni mesi, con lezioni di esperti di diritto penitenziario e colloqui con volontari di maggiore esperienza che permettono loro di conoscere le regole del carcere e i comportamenti da tenere. Attraverso i colloqui con detenuti che li richiedono (cui i volontari accedono gradatamente perché si tratta di un’esperienza complessa che richiede, nel volontario, molto equilibrio e maturità) è possibile dare alcune risposte concrete ai loro bisogni. Per es. l’Associazione dedica una somma notevole ogni anno per l’acquisto di occhiali da vista. Uno dei problemi più gravi legati alla reclusione è, infatti, la perdita della vista, dovuta allo spazio limitato e sempre uguale che riduce il campo visivo, alle sbarre che tagliano la luce sempre nello stesso modo, alla luce artificiale accesa giorno e notte. La giornaliera presenza dei volontari rende possibile anche una maggiore informazione sui servizi sanitari accessibili in carcere, sui quali, per quanto insufficienti, i detenuti non vengono informati . I detenuti\e extra comunitari, assai numerosi, che non hanno una famiglia vicina, ricevono, oltre all’aiuto linguistico, piccoli contributi per l’acquisto di generi di prima necessità, quali francobolli, biancheria o saponette. Oltre a queste iniziative, per così dire, di routine, l’Associazione ha messo in piedi due attività davvero particolari e importanti che coinvolgono il carcere femminile: "Educare con gli asini" e "La poesia delle bambole". Nel primo caso si tratta di un progetto che vede due asinelli inseriti nello spazio verde del carcere, recintato con un box prefabbricato ,dove alcune detenute (di solito 3), guidate da persone esperte, imparano a curare gli animali , a nutrirli, ad affezionarsi a loro e quindi a sviluppare o ri-sviluppare una certa affettività. Le carcerate, se hanno con sé bambini, possono coinvolgere anche loro e i familiari che vengono a trovarle nello spazio dell’asineria, rendendo l’atmosfera degli incontri meno pesante che nel chiuso del carcere. Le detenute che svolgono il lavoro di nursery con le asinelle ricevono un piccolo contributo attraverso i fondi dell’Otto per Mille della "Tavola Valdese", cioè della Chiesa Valdese. Nel caso poi che le recluse usufruiscano di un regime carcerario meno ristretto possono anche avere l’occasione di uscite all’esterno per incontri in altre asinerie (per esempio presso l’asineria di Calenzano), o di avere possibilità di lavoro una volta raggiunto lo stato di semilibertà o di fine pena. In tal modo si realizzano i due scopi principali: quello del lavoro e della rieducazione all’interno del carcere ; e quello di dare gli strumenti per una attività una volta fuori da quelle mura. Nel secondo caso, "La poesia delle bambole" si tratta di un progetto assai articolato che contiene finalità terapeutiche ed educative notevolissime, oltre ad utilità di carattere pratico. Fare una bambola stimola la creatività, la manualità e l’affettività spesso rimasta repressa in vicende difficili della vita. L’iniziativa prende avvio nel 2001 con operatori , tutti volontari , che cominciano ad insegnare a fare le bambole ad un piccolo gruppo di detenute, secondo il metodo steineriano. Al momento l’attività coinvolge circa 20 persone a Sollicciano, più 4 donne che partecipano ad un laboratorio fuori del carcere, attualmente in un bilocale in via di Mezzo 39/r, beneficiando di misure di detenzione alternativa sotto la tutela dei servizi sociali. Le bambole sono fatte con materiali naturali, secondo regole precise di confezione con l’idea, appunto steineriana, che servano agli scopi terapeutici di chi le fa, ma anche di chi le riceve; quindi con molte finalità positive. L’attività è sostenuta economicamente da Banking Foudations, dalla "Tavola Valdese" della Chiesa Valdese e da contributi di singoli cittadini. Ma se queste sono le informazioni, altra cosa è visitare e vivere il laboratorio di via di Mezzo. Lì, con la maestra-volontaria Adrienne, tutto si svolge in armonia , in una atmosfera pacata, piena di oggetti tradizionali e familiari : stoffe e lane di colori vivaci, uncinetti, aghi e ditali come nei tempi passati, con musiche e canzoni piacevoli . La strada stessa, nel popolare rione di Sant’Ambrogio, ancora abbastanza abitata dai vecchi residenti, è poco trafficata (Il che, dal punto di vista commerciale, è uno svantaggio perché le bambole dovrebbero essere vendute per sostenere l’impresa). Comunque la vetrina di bambole e pupazzi lavorati a mano (a maglia o cucito) di grande vivacità e sapienza artigianale , non può non attrarre . Venderanno anche, si chiede il passante incuriosito, che pensa a un laboratorio. Spinge la porta e vede alcune persone al lavoro. Ma la sua sorpresa diventa grande quando apprende dalla signora Adrienne, cortese ma spiccia, che qui si fa tutto con l’Associazione Pantagruel, per sostenere i carcerati di Sollicciano, in particolare la sezione femminile. Peccato che da via di Mezzo passino poche persone: le bambole e gli altri oggetti sono adatti a grandi e piccini, a prezzi imbattibili. In questo periodo natalizio il Presepio e l’albero di Natale sono di un’eleganza che è raro vedere, dovuta a materiali originali e alla sapiente confezione artigianale. Nuoro: il Garante Oppo "il nostro sistema carcerario è carente di mediazione culturale" La Nuova Sardegna, 12 dicembre 2015 "Sapere che nella favolistica cinese "il cuore è buono e le cattive intenzioni albergano nel cervello", forse mi ha aiutato a capire come quell’uomo, alto non più di un metro e cinquanta e con gli occhi a mandorla, abbia scelto di uccidere la moglie tagliandole la testa". Gianfranco Oppo, garante dei detenuti, parla dell’unico cinese recluso a Badu e Carros. "Durante il suo racconto - spiega Oppo - c’è un suono che mi ha colpito ed è tornato più volte: guì, guì. Chiara Sini, che ha fatto da interprete volontariamente, mi ha spiegato che significa demone, fantasma. La stessa parola è stata ripetuta con concitazione anche il giorno in cui ha tentato di suicidarsi infierendo con la testa contro un termosifone". Il detenuto cinese, infatti, finito in cella per l’omicidio (commesso a Orosei) di sua moglie, ha tentato di farla finita una volta per sempre. Solo l’intervento degli agenti di polizia penitenziaria gli ha evitato la morte. "Non so se i demoni e i fantasmi - continua Gianfranco Oppo - fossero gli stessi che portarono Nikolaj di Dostoevskij ad impiccarsi per rimorso: poco importa. Come garante dei detenuti mi piacerebbe sapere, quando finalmente si celebrerà il processo, se quello stato allucinatorio durante l’atto delittuoso, possa essere attribuito ad un condizionamento culturale o piuttosto possa essere stato un episodio psicotico acuto e quindi entrare in qualche modo nelle vicende processuali". "Ma soprattutto, e lo dico da ignorante del diritto: sarà il nostro "minuto cinese" aiutato nell’esprimere nel suo racconto tutte le sfumature linguistiche e quei contorni, connotazioni e denotazioni culturali del reato che eventualmente contribuiranno a determinare in peggio o in meglio la sua pena? E nel momento istruttorio sarà nominato un traduttore visto che Chiara è intervenuta solo perché io personalmente l’ho sollecitata? Una cosa è certa: fino ad adesso niente sembra essersi mosso a suo favore, anzi nel caso del nostro cittadino cinese tutto sembra ancora più difficile. Ho notato infatti come non mai, incomprensione, distanza culturale, abbandono fisico (porta la stessa tuta da ginnastica da mesi). Come in un gioco simmetrico - sottolinea Oppo - sembra che chi lo avvicina risponda alla chiusura della comunità cinese con altrettanta indifferenza. Il signor "nessuno" patisce le carenze del sistema carcere: non gode infatti di mediazione culturale, non ha un interprete a disposizione. La Cina sarà anche vicina: la sua economia, la sua produttività i suoi potenziali di mercato ci entusiasmano... un po’ meno sappiamo della sua cultura e delle persone che la vivificano. Pensate: nessuno di quelli che lo hanno incontrato sa distinguere tra il suo nome ed il suo cognome; spesso gli viene attribuito quello della moglie defunta. Come non condividere allora il progetto della "mia interprete" sperando che serva ad aprire uno spiraglio in più per l’integrazione e la comprensione per chi viene da fuori, in questo momento in cui lo straniero "ha la coda"". Sanremo (Im): il sindaco Biancheri al carcere di Valle Armea per il concerto di Natale sanremonews.it, 12 dicembre 2015 Oggi pomeriggio i rappresentanti dell’amministrazione comunale hanno voluto presenziare ad un concerto di musica a tema sacro eseguito da alcuni detenuti con l’ausilio dei volontari del gruppo Abba. Visita del sindaco Alberto Biancheri insieme all’assessore Costanza Pireri al carcere di Sanremo. Oggi pomeriggio i rappresentanti dell’amministrazione comunale hanno voluto presenziare ad un concerto di musica a tema sacro eseguito da alcuni detenuti con l’ausilio dei volontari del gruppo Abba. L’iniziativa musicale dal titolo "Il Signore rialza chiunque è caduto", è durata circa un’ora con canti e letture bibliche ed a tema sacro. Il primo cittadino accompagnato dal direttore del carcere Giuseppe Frontirrè ha incontrato i detenuti ma anche gli agenti della Polizia Penitenziaria in forze alla casa circondariale di valle Armea. È stato un momento di raccoglimento e partecipazione. Il sindaco Biancheri ha detto di aver voluto partecipare a questa iniziativa come primo impegno esterno nelle strutture della zona. Parole positive sono state spese anche dal direttore del carcere che ha ringraziato i volontari per l’impegno profuso dimostrando anche apprezzamento per la presenza dell’Amministrazione Comunale. Parma: Sinappe; agenti di Polizia penitenziaria in stato di agitazione Il Mattino di Parma, 12 dicembre 2015 Lo annuncia il segretario regionale del Sinappe, Gianluca Giliberti, che punta l’indice contro l’amministrazione degli istituti penitenziari. Non solo problemi legati alla sicurezza degli agenti, alcuni dei quali costretti a farsi medicare con prognosi anche superiori ai 15 giorni, ma anche tutta una serie di rivendicazioni sindacali rimaste lettera morta. In particolare Giliberi denuncia il "mancato rispetto di quanto disposto dalla commissione arbitrale regionale in tema di mobilità interna, che fa dell’istituto ducale l’unico in regione a sottrarsi alle procedure d’interpello per l’accesso a tutti i posti di servizio; movimentazione temporanea di numerose unità di polizia penitenziaria da e per uffici e/o servizi, a cui si dovrebbe accedere, viceversa, attraverso regolare procedura d’interpello; mancata adozione dei principi di equità e rotazione nella valutazione delle istanze di congedo ordinario nel cosiddetto piano ferie natalizio; estremo disagio del personale in servizio, dovuto all’assenza o al non corretto funzionamento dei sistemi di riscaldamento nei turni notturni, segnalato in apposite note sindacali indirizzate alla direzione degli istituti penitenziari di Parma". Un lungo elenco di rivendicazioni che non può certo prescindere dal tema del giorno, ovvero la sicurezza in carcere per i detenuti e per gli operatori della polizia penitenziaria. Il sindacato Sinappe denuncia infatti "un’allarmante recrudescenza delle aggressioni subite dal personale di polizia penitenziaria in servizio nei reparti detentivi, che hanno causato infortuni di una certa gravità, meritevoli di prognosi anche pari op superiore ai 15 giorni". Inevitabile, dunque, secondo il sindacato di categoria, la dichiarazione dello stato d’agitazione. Il segretario regionale Gianluca Giliberti si è quindi rivolto al provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria per trovare una soluzione alle problematiche che arrivano dalle carceri di Parma. Cagliari: progetto "Una vela per amico", giovani ex detenuti in mare con Andrea Mura cagliaripad.it, 12 dicembre 2015 È la tappa del progetto "Una vela per amico" dedicato al reintegro socio-lavorativo di ragazzi colpiti da provvedimento penale. L’iniziativa partirà lunedì prossimo dalla Sezione Velica della Marina. In mare insieme allo skipper Andrea Mura per la "rotta della legalità", tappa del progetto "Una vela per amico" dedicato al reintegro socio/lavorativo di ragazzi colpiti da provvedimento penale. L’iniziativa, in collaborazione del Dipartimento di Giustizia Minorile per la Sardegna e la Polizia di Stato, partirà lunedì prossimo dalla Sezione Velica della Marina Militare del Porto di Cagliari. Si tratta di un giro a vela della Sardegna in senso antiorario: prima Cagliari, Villasimius, Costa Smeralda, Alghero, Carloforte e di nuovo il capoluogo. Mura sarà a bordo per la prima tappa del giro (Cagliari-Villasimius) e poi in altre occasioni come tutor ed esempio per i ragazzi coinvolti nel progetto. I ragazzi coinvolti nel progetto potranno partecipare a vere e proprie regate veliche (anche agonistiche) e acquisiranno nozioni pratiche e teoriche sulla navigazione a vela. Assimileranno nozioni di nautica, potranno fare escursionismo e vivere da protagonisti i mari e le coste della Sardegna. Un bagaglio di esperienze e conoscenze che potrà tornare utile per un eventuale inserimento lavorativo nel mondo della nautica da diporto. Pavia: due detenuti progettano la fuga dal carcere, ma la polizia li scopre Ansa, 12 dicembre 2015 Avevano progettato una fuga dal carcere di Torre del Gallo di Pavia, che prevedeva un trasferimento in auto fino a Livorno, ma il tentativo di Elia Del Grande, 40 anni, e Fatos Hjseni, albanese di 33 anni, è stato sventato grazie all’intervento della Polizia. Nella notte tra il 7 e l’8 dicembre, agenti della Digos di Pavia hanno notato in una Piazza di San Genesio (Pavia), Comune a pochi chilometri dal capoluogo, una auto presa a noleggio con un conducente a bordo. L’auto è rimasta nella piazza del paese per circa un’ora, dalle 4 alle 5 del mattino, e poi è ripartita. Insospettiti, i poliziotti hanno contattato il titolare dell’autonoleggio, che ha spiegato loro di aver ricevuto telefonicamente la richiesta di noleggio dell’auto pagata in anticipo con bonifico da una donna. Le indagini hanno appurato che la donna era in contatto con i due detenuti che avevano progettato la fuga dal carcere di Pavia. Elia del Grande, detenuto dal 1998 per aver ucciso a fucilate il padre, la madre e un fratello per questioni economiche, è stato trovato in possesso nella sua cella di un telefono cellulare, alcuni seghetti e di una corda rudimentale con annesso un gancio per tentare l’evasione. Anche l’albanese Fatos Hjseni è stato trovato in possesso di un telefonino. La polizia ha poi scoperto che il tentativo di fuga dal carcere, inizialmente previsto per la notte tra il 7 e l’8 dicembre, era stato rinviato alla notte successiva. Entrambi i detenuti sono stati denunciati per tentata fuga. Cinema: intervista a Cosimo Rega, attore detenuto di Giancarlo Capozzoli (Regista teatrale e scrittore) huffingtonpost.it, 12 dicembre 2015 Cosimo Rega si sta laureando in Lettere e Filosofia presso L’Università Roma Tre, con una tesi sul teatro di Eduardo. Da tre anni è in articolo 21. L’appuntamento è nell’ufficio accettazione della facoltà di Giurisprudenza di Roma Tre. Mi apre la porta con il sorriso sincero e la stretta di mano forte che avevo incontrato un paio di anni fa, ad una messa in scena teatrale con i detenuti di Rebibbia, lui portato a modello di quel recupero sociale e culturale che il teatro in carcere, e la cultura in generale, dovrebbero operare in vista di quella rieducazione a cui tende o dovrebbe tendere l’istituzione penitenziaria. Lui è Cosimo Rega, attore detenuto del film dei fratelli Taviani, Cesare deve morire, vincitore qualche anno fa dell’Orso d’oro al festival del cinema di Berlino. Cosimo Rega ex camorrista, ergastolano, ora in art. 21 può rappresentare davvero quel ripensamento del proprio passato e del proprio io malvivente che il carcere, nella sua altrimenti inutilità, dovrebbe favorire. "Ho turni diversi. Dalle sette alle quattordici, e rientro a Rebibbia alle sedici. Oppure dalle quattordici alle ventuno, e rientro alle ventitré. Devo seguire sempre un percorso obbligato.. Ma almeno sto fuori.. Sono tre anni che usufruisco dell’art. 21". Cosimo, la tua storia e ciò che ti ha fatto per così dire, ripensare davvero al tuo essere precedente, sono in qualche modo un caso emblematico di ciò che dovrebbe sempre accadere a chi purtroppo subisce la reclusione. "Guarda.. Il carcere è un luogo senza senso.. È una macchina perfetta per creare futuri criminali, per farti commettere altri reati una volta fuori, voglio dire". In che senso? "Dopo venti anni di carcere durante i quali hai dovuto gestire la tua fisicità, reprimere la tua sessualità, una volta fuori, ti assicuro, non sei una persona equilibrata. E se non hai gli strumenti giusti per gestirti è facile che covi dentro una rabbia troppo grande per resistere dal commettere altri reati". Parli di strumenti. Che intendi? "L’arte, la cultura, lo studio sono gli unici strumenti possibili contro la delinquenza. Sono strumenti fondamentali per immaginare altre possibilità, altri orizzonti". Tu ti riferisci in particolare al teatro... "Sì certo. Il teatro ti dà effettivamente la possibilità di una riflessione su di te anche tramite la identificazione con i diversi personaggi che mettiamo in scena... Opera un vero cambiamento dell’uomo". Spiegati meglio "L’arte in generale e il teatro hanno anche il compito di far prendere consapevolezza di cosa è il bene e di cosa è il male. Ti assicuro che un ragazzo che si avvicina al male non ha gli strumenti per comprendere ciò che fa". Stai parlando di te ragazzo? "Sì certo. È la storia di molti, purtroppo. Almeno per quella che è l’esperienza che sto facendo io". Dimmi, le tue condizioni di partenza quali erano? "Vengo da un paese piccolo, di provincia. La mia era una famiglia umile. Mio padre operaio, mia madre stava a casa. Non c’erano molti soldi, ed eravamo otto fratelli. Questo non mi giustifica, non del tutto, però. I miei fratelli sono tutti onesti". Cos’è secondo te, secondo la tua esperienza personale, ciò che "distrae dall’essere", per dirla con la filosofia, ciò che svia un ragazzo e lo porta ad incontrare la criminalità? "Distrae dall’essere. Si vede che hai studiato. Anche se magari vuol dire altro il senso è proprio questo. Distrae dall’essere per la voglia di apparire. Vuoi sembrare qualcuno. Vuoi essere ammirato dagli altri. E allora desideri il vestito bello, l’orologio costoso. Ma resti un barattolo vuoto". Questo non ti giustifica comunque... "No, le colpe sono personali, nostre... Non siamo stati capaci di gestire il male che è dentro di noi. Non sono un vittimista. Ho lavorato e sto lavorando molto su me stesso per capire chi ero davvero". Come ti sei avvicinato alla criminalità? "Da giovanissimo. In momento di fragilità. Tu sei del Sud come me e sai bene che la criminalità ha fatto formazione mentre lo Stato stava a guardare da un’altra parte. Dove non c’è cultura, Stato, istituzioni, la criminalità ha gioco facile". La criminalità ha fatto ciò che avrebbe dovuto fare lo Stato, dici? "Guarda... Ho incontrato un giovane al carcere minorile. Guadagnava più di mille e cinquecento euro al mese. Ma non aveva coscienza di sé e dei reati che aveva commesso". Il teatro è uno degli strumenti per "prendere coscienza" quindi? "Fare teatro in carcere non è semplice. Deve avere come fine, il recupero del detenuto. Deve portare ad una crescita, ad un arricchimento reale. Altrimenti non ha senso". Che vuoi dire? "Il rischio è che se non lo riempi di contenuti un detenuto attore resta un detenuto: il barattolo vuoto che ti dicevo prima". Tu stai continuando con il teatro, anche dopo il film. Sei andato in scena con uno spettacolo della Sensi, tratto dalla tua autobiografia "Sumino ò falco", al Teatro Vascello, qui a Roma. Come hai iniziato? "Nel 2000, "Natale in casa Cupiello", di Eduardo. Non lo posso dimenticare. Era il primo spettacolo nostro. Nostro dei detenuti. E nostro al plurale perché, anche se io facevo il coordinatore ed ero un po’ il responsabile, in realtà ognuno di noi si sentiva responsabile del proprio ruolo e della messa in scena. È stata una prima esperienza speciale, anche se facevamo le prove in uno spazio piccolissimo, tre metri per cinque circa, all’aperto, sotto il sole di luglio... Ma piacque molto e così dopo ci diedero un camerone al chiuso, un po’ più grande". Dopo questo? "Isabella Quarantotti De Filippo e Luca vennero a sapere di questo detenuto napoletano che metteva in scena Eduardo, "Napoli milionaria". Eduardo era sempre stato sensibile alle questioni sociali di Napoli e non solo. Comunque, vennero a vedere lo spettacolo, piacque e mi chiesero di mettere in scena "La tempesta" di Shakespeare tradotta da Eduardo. Per me fu onore. Devo molto all’incontro con queste due persone meravigliose". Raccontami come è nata questa prima esperienza. "Con un educatore, intanto. Mi ricordo che andammo in scena con uno spettacolo al Teatro Argentina di Roma. All’Alta sicurezza dove ero recluso c’erano poche attività, ed io dovevo dare un senso alle mie giornate. Non andavo a scuola e non facevo niente. Tutto è nato dal circolo Arci che avevamo aperto all’interno. Credimi. Dal circolo alla compagnia teatrale è stato un vero passaggio epocale: un vero ripensamento del concetto stesso di pena". In che senso? "Il teatro ti dà l’opportunità di studiare. Per dirla con un po’di retorica: servire le tavole del palcoscenico, non servirtene". Dici studiare. C’è un libro che per te rappresenta più di altri questa svolta? "Io avevo bisogno di riacchiapparmi. Riprendere il mio essere: "La fine è il mio inizio", di Terzani. Lui racconta la sua storia come un ripensamento stesso della sua vita. Io avevo bisogno di rivedermi come camorrista prima, per entrare in un nuovo mondo". Questa è stata la svolta quindi e poi il teatro ha fatto il resto. "Io passavo le giornate a parlare del passato e del futuro, di niente quindi. Mancava il presente. Si vegetava da vivi. I teatro è entrato così tanto nella nostra quotidianità che ha preso parola anche nelle battute quotidiane tra di noi. Ha messo in discussione le dinamiche interne, nostre. Quando ci sono stati dei problemi io mi sono sempre battuto affinché non fosse disperso quanto di buono si stava creando". Della esperienza del film, invece, che diresti in una battuta? "Il film ha creato un vuoto di sistema. Durante le riprese non c’erano più ruoli. Non potevi distinguere più gli assistenti dagli operatori e dai detenuti". L’immigrazione e il peso dell’Italia in Europa di Sergio Romano Corriere della Sera, 12 dicembre 2015 Nella politica internazionale il nostro Paese ha caratteristiche che non possono essere ignorate dal resto dell’Europa. La Commissione europea ha le sue competenze e i suoi comprensibili tic nervosi. Deve evitare di essere considerata parziale e incline a chiudere un occhio, soprattutto quando un caso concerne i partner maggiori, e non ha dimenticato che cosa accadde quando Francia e Germania furono autorizzate a violare il patto di Stabilità. Non esercita la sorveglianza sulle piccole banche, riservata alle banche centrali nazionali, ma è certamente competente quando esiste il rischio che un salvataggio si trasformi in un aiuto di Stato. Non è tutto. L’Italia non sta rispettando gli impegni assunti sul livello del proprio deficit e il suo presidente del Consiglio ha annunciato le nuove spese per la sicurezza con dichiarazioni che a Bruxelles, probabilmente, non sono piaciute. Anche sul problema dell’immigrazione vi sono stati momenti in cui l’Italia è stata accusata di eludere le norme sulla registrazione dei profughi e le regole dell’accordo di Dublino. E generalmente, infine, è uno dei Paesi che più frequentemente è stato denunciato per essersi sottratto agli obblighi comunitari. Qualcuno potrebbe osservare che vi sono altri fronti, come quello medio-orientale, in cui l’Italia è considerata oggi carente e poco affidabile. È possibile che alcuni Paesi lo pensino. Ma il suo peso in Europa e la sua disciplina comunitaria vengono misurati e pesati su due diverse bilance. Nella politica internazionale l’Italia ha caratteristiche che non possono essere ignorate. È al centro di un mare che è diventato la frontiera più calda e insicura dell’Europa. È il primo dei due valichi utilizzati da coloro che fuggono dalle grandi aree della crisi: Siria, Iraq e Afghanistan. Anche i critici di Mare Nostrum non possono negare che in quella occasione l’Italia, pressoché sola, ha dato una buona prova di solidarietà umana e di capacità organizzative. Non prende parte alle operazioni siriane, ma quale Paese della grande coalizione diretta da Washington può essere certo di avere imboccato la strada migliore? Non ha mai perso di vista il problema libico ed è probabilmente il Paese che lo conosce meglio ed è il più adatto ad avere un ruolo operativo quando vi saranno le condizioni per un intervento autorizzato dall’Onu. Ha conservato buoni rapporti con la Russia, un partner di cui tutti, prima o dopo, capiranno di avere bisogno. E ha una buona rete di relazioni mediterranee. Anche la Commissione di Bruxelles, quando occorrerà prendere decisioni sui problemi che rientrano fra le sue competenze, dovrà tenerne conto. Dopo le dichiarazioni di principio sulla questione delle banche e del deficit comincerà la ricerca delle soluzioni. L’accoglienza riservata dalla Commissione alla proposta del ministro italiano della Economia (un arbitrato della Consob per valutare quali perdite subite dai risparmiatori delle 4 banche possano essere risarcite grazie a un fondo di solidarietà) sembrano suggerire che quel momento non è lontano. La pena di morte non ci renderà più sicuri di Luigi Iorio (Forum Nazionale Giovani) L’Opinione, 12 dicembre 2015 "La pena di morte non ci renderà più sicuri", era lo slogan di una nota campagna di Amnesty International. Nulla di più preciso. La genesi della pena capitale ha radici antiche. Dal codice di Hammurabi agli antichi egizi, dalla sontuosa Grecia di Platone all’Inghilterra del Bloody Code ("Codice Sanguinario"), fino ad arrivare ai giorni nostri. Un principio di abolizionismo si ebbe successivamente nell’epoca del dispotismo illuminato di volteriana memoria. Nel Settecento, infatti con il progressivo rafforzarsi degli Stati nazionali la pena di morte perde la sua utilità. L’idea era semplice: se lo Stato era in condizione di controllare efficacemente il territorio e la popolazione, allora poteva punire il criminale, il quale, sapendo che violando l’ordine pubblico sarebbe stato punito, non avrebbe più infranto la legge. A tal proposito Cesare Beccaria sosteneva che occorrevano pene miti, ma applicate senz’alcuna riserva: la tesi era che anche se la pena fosse stata minima doveva esserci certezza che il reo avrebbe dovuto scontarla. La pena di morte perde, quindi, utilità proprio perché lo Stato è forte e capace di punire i criminali. L’idea di Beccaria di sostituire la pena capitale con la reclusione fu accolta dal granduca di Toscana Pietro Leopoldo che nel 1786 passò alla storia come primo sovrano in Europa ad abolire la pena di morte. In Italia la pena di morte fu abolita nel 1889 mantenendola esclusivamente nel codice militare e in quelli coloniali. Il ministro di Grazia e Giustizia (dicitura dell’epoca) era Zanardelli. Ma arriviamo ai giorni nostri. I Paesi nei quali vige fattivamente la pena di morte sono cinquantotto. I Paesi abolizionisti de facto sono trentacinque (di pochi giorni fa è la notizia che anche il Parlamento della Mongolia l’ha abolita). Nel loro ordinamento giuridico mantengono in vigore la pena di morte, ma le esecuzioni non hanno luogo da almeno dieci anni, oppure in molti Paese sono state introdotte delle moratorie sulle esecuzioni. In ultimo ci sono i Paesi abolizionisti per reati comuni, sono quei paesi, sette nello specifico che hanno abolito la pena di morte per i reati comuni, ma la mantengono per casi eccezionali. Le vittime della pena di morte nel mondo ogni anno sono all’incirca quattromila. Solo in Cina sono avvenute ben settemila esecuzioni capitali tra il 2011 e il 2013, (dai dati della Ong "Nessuno tocchi Caino", anche se potrebbero essere molte di più, poiché molte esecuzioni avvengono in segreto). Altri paesi sanguinari sono l’Iran, l’Iraq e l’Arabia Saudita. Le esecuzioni sono riprese spesso come reazione impulsiva all’aumento dei reati: omicidi particolarmente efferati o semplicemente per un rigurgito storico e culturale. Ma molti studi hanno evidenziato che nei Paesi dove è in vigore la pena di morte la criminalità non diminuisce. Ecco perché non è un deterrente. Ad esempio in Canada, il numero degli omicidi è diminuito dopo il 1976, anno dell’abolizione della pena di morte. Le vittime del crimine meritano giustizia, ma la pena di morte non è la risposta. Veleno, sedia elettrica, lapidazioni, fucilazioni oltre a ledere la dignità e violare i diritti umani non sono certamente la risposta adeguata. Ovvero l’idea della sanzione come vendetta che utilizza la pena per affrontare le contraddizioni della vita sociale è una atrocità. Il mondo, le società moderne ed evolute hanno bisogno di esempi di giustizia giusta. Molto impegno e attivismo servono ancora per sensibilizzare l’opinione pubblica di tutto il mondo, cominciando dal nostro Paese. Ben venga quindi l’iniziativa dell’Associazione ‘Nessuno tocchi Cainò che svolgerà il suo Sesto Congresso a Milano il 18 e il 19 Dicembre nella Casa di Reclusione di Opera. Il Congresso si terrà proprio nei giorni del secondo anniversario del successo all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite sulla Moratoria Universale delle esecuzioni capitali e avrà all’ordine del giorno il rilancio della campagna per la Moratoria. Alla luce di tutto ciò, il Gruppo carceri e diritti umani del Forum Nazionale Giovani, che parteciperà con una propria delegazione al Congresso, si propone l’obiettivo di collaborare, per quanto possibile, al fianco dell’Associazione "Nessuno Tocchi Caino" per l’organizzazione di eventi pubblici perché sia accolta l’indicazione dell’Onu per l’abolizione della pena di morte e continuerà inoltre a elaborare in proprio idee e proposte per trovare soluzioni e risposte al sovraffollamento carcerario individuando precise indicazioni di riforma. Profughi: così negli hotspot si violano gravemente i loro diritti stranieriinitalia.it, 12 dicembre 2015 Detenuti senza convalida di un giudice e ostacolati nell’accesso alla protezione internazionale. La denuncia di Oxfam, Asgi e a Buon Diritto. Interrogazione parlamentare di Manconi sul Psa di Pozzallo. Privazione della libertà personale dei migranti sbarcati, cui viene impedito di uscire dal Centro di Accoglienza senza nessun intervento da parte di un giudice, come imporrebbe la legge. Interviste sommarie per distinguere tra richiedenti protezione internazionale e migranti economici, effettuate dalle forze di polizia a persone ancora sotto shock a causa del lungo viaggio e dei pericoli affrontati. Nessuna informazione circa la possibilità di richiedere protezione internazionale, diritto previsto dalla normativa per chi arriva sulle nostre coste spesso sfuggendo a situazioni di conflitti e violenza. Sono le irregolarità denunciate da Oxfam, Asgi e A Buon Diritto in merito agli "hotspot", strutture e procedure per l’identificazione dei migranti che - sottolineano in una nota le organizzazioni - non sono attualmente previste dalla normativa comunitaria, pur essendo state annunciate lo scorso maggio dall’Agenda europea sull’immigrazione. In collaborazione con le tre associazioni, ieri il senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione diritti umani del Senato, ha presentato un’interrogazione parlamentare su quanto sta avvenendo all’interno del Centro di Primo Soccorso e Accoglienza (Cpsa) di Pozzallo (Ragusa), recentemente identificato come uno dei nuovi "hotspots". Diverse associazioni che lavorano sul territorio, nonché un recente report di Medici Senza Frontiere (Msf), hanno denunciato come ai migranti non siano fornite le informazioni necessarie per poter avanzare richiesta di protezione internazionale e sia impedito di uscire dalla struttura. "Molte delle associazioni che lavorano in Sicilia come partner di Oxfam hanno denunciato che i migranti vengono di fatto detenuti in strutture dove, in assenza di ordinanza di un giudice, non potrebbero essere trattenuti per più di 48 ore", sostiene Elisa Bacciotti, direttrice del dipartimento Campagne di Oxfam Italia. "Nessuna informazione viene fornita rispetto alla possibilità di chiedere protezione internazionale nel nostro paese, come invece esplicitamente previsto dalla normativa europea - continua Bacciotti. Il diritto di asilo in questo modo viene completamente calpestato". "La nuova procedura hotspots, che prevede il rafforzamento delle operazioni di identificazione e registrazione dei migranti tramite l’affiancamento di funzionari dell’Unione Europea accanto alle nostre forze di polizia, di fatto lede il diritto di chiedere protezione internazionale, non è prevista dalle norme comunitarie ed è certamente contraria a quelle nazionali" afferma Lorenzo Trucco, presidente dell’Asgi. "Ormai sono centinaia i casi di cosiddetti "respingimenti differiti": persone sbarcate sulle coste siciliane, spesso ancora traumatizzate dal viaggio e da quanto vissuto in Libia, sottoposte a sommarie interviste di cui non comprendono la finalità e infine oggetto di un decreto di espulsione senza che la loro situazione individuale venga minimante presa in considerazione. Abbiamo già inviato una lettera al Ministero dell’Interno, - continua Trucco - avanzando le nostre richieste per la tutela dei migranti arrivati sulle nostre coste. Dopo il report di Msf, questa interrogazione ci sembra un atto dovuto". Frontex va in pensione, Bruxelles vara la nuova guardia di frontiera europea di Carlo Lania Il Manifesto, 12 dicembre 2015 Europa. Verrà presentata martedì a Strasburgo dalla Commissione. Dopo dieci anni di servizio Frontex, l’agenzia europea per il controllo delle frontiere, si prepara ad andare in pensione per lasciare il posto a una nuova Agenzia europea di guardie di frontiera e di guardia costiera. A volerlo è la commissione europea che martedì prossimo presenterà l’iniziativa a Strasburgo. "È una mossa coraggiosa perché l’accordo di Schengen non sia messo in discussione", ha spiegato ieri la portavoce della commissione, Margaritis Schinas. Il nuovo corpo, che sarà alimentato da guardie di frontiera provenienti dagli stati membri, è pensato per intervenire nelle emergenze, in tutti quei casi in cui le forze di polizia di un paese non siano in grado di far fronte ad arrivi in massa di migranti ai propri confini. Non potrà però agire autonomamente, ma solo su richiesta del Paese interessato. L’idea di una guardia di frontiera e guardia costiera europea è nata a settembre, nel corso di uno dei tanti vertici sulla crisi dei migranti e quando centinaia di migliaia di profughi già da mesi marciavano sulla rotta balcanica diretti principalmente in Germania e Svezia. L’iniziativa è parte del piano pensato dall’Ue, che conta di realizzarlo nel giro di un anno e di cui fanno parte anche i finanziamenti alla Siria e alla Turchia (già stanziati) e la revisione del regolamento di Dublino. Ma soprattutto rientra nella politica scelta da Bruxelles di rafforzare al massimo i confini esterni dell’Unione (arrivando perfino a esternalizzarli come succederà in seguito all’accordo siglato con Ankara), riuscendo così a garantire la sopravvivenza della libera circolazione attraverso quelli interni. Resta da vedere quali saranno i compiti della nuova Frontex. Probabilmente quello di raccogliere in mare i migranti portandoli in salvo direttamente negli hotspot che in via di realizzazione in Italia e Grecia, dove personale di Frontex e dell’Easo, Ufficio europeo per il diritto di asilo, già operano per identificare quanti sbarcano dividendoli tra richiedenti asilo e migrati economici. Ipotesi avvalorata anche da quanto affermato ieri da Dimitris Avramopoulos: "Creiamo un’agenzia di polizia e di guardia costiera europea comune per difendere le frontiere e offrire allo stesso tempo sostegno ai migranti - ha spiegato il commissario Ue all’Immigrazione intervenendo alla Conferenza sul Mediterraneo in corso a Roma -, con un mandato di ricerca e salvataggio e collegati agli hotspot da gestire come punti di ingresso, in modo tale che nessuno entri senza rispettare le nostre leggi e le nostre norme". Una risposta alle pressioni di quei paesi, che - a partire dal gruppo di Visegrad ma non solo - innalzano muri e ripristinano i controlli alle frontiere pur di fermare i migranti, mettendo così a rischio la stessa sopravvivenza di Schengen. Riusciranno le nuove guardie di frontiera a contenere il malumore dello schieramento di tutti quei paesi restii a investire soldi e mezzi per i migranti? Difficile dirlo, anche perché la sicurezza dei confini fa parte di quelle materie di esclusiva competenza degli Stati molti del quali, se non proprio tutti, non gradirebbero eventuali interferenze da parte di Bruxelles. Proprio per questo ieri fonti diplomatiche europee ventilavano l’ipotesi, a quanti pare voluta soprattutto da Germania e Francia, di poter "imporre" l’invio delle guardie di frontiera "anche ai paesi riluttanti". Intanto si è avuta notizia dell’ennesimo esempio delle conseguenze provocate dall’accordo siglato con Ankara. 600 migranti sono stati fermati negli ultimi due giorni dalla polizia lungo le coste egee della Turchia mentre cercavano di imbarcarsi diretti verso le isole greche. Undici i presunti scafisti arrestati. Da quando l’accordo è diventato operativo, una settimana fa, sono almeno tremila le persone fermate dalla Turchia mentre cercavano di raggiungere l’Europa. Yemen: Amnesty accusa "bombe saudite contro le scuole" di Chiara Cruciati Il Manifesto, 12 dicembre 2015 Secondo l’organizzazione internazionale, 6.550 bambini hanno abbandonato gli studi a causa dei raid, 1.8 milioni in totale quelli che non frequentano più. "Washington e Londra complici, vendono le armi al Golfo". Non solo ospedali: nel mirino dei sauditi ci sono anche le scuole yemenite. La dura accusa alla coalizione anti-Houthi arriva dall’ultimo rapporto di Amnesty International, "I nostri bambini sono bombardati": almeno cinque raid tra agosto e ottobre hanno avuto come target delle scuole a Sanàa, Hajjah e Hodeidah. Hanno ucciso 5 civili, ne hanno feriti 14 e hanno costretto 6.550 bambini ad abbandonare gli studi. Sono 1,8 milioni (il 34% del totale) i minori che non vanno a scuola da marzo, quando iniziò l’operazione "Tempesta Decisiva": da allora mille istituti sono stati distrutti o danneggiati. Una strategia precisa e non meri errori, dettata da un terrorismo di Stato che colpisce ospedali, non distingue tra combattenti e civili e distrugge le infrastrutture basilari, rendendo impossibile la consegna degli aiuti. Ma Amnesty va oltre: se la responsabilità diretta è imputabile ai sauditi, quella indiretta è occidentale. Compagnie statunitensi e britanniche sono complici dei massacri perché riforniscono gli arsenali del Golfo delle armi usate in Yemen. Il Ministero della Difesa di Londra risponde laconico: "Abbiamo ricevuto assicurazioni che l’Arabia saudita rispetta il diritto internazionale". Alla guerra che ha già ucciso 6mila persone tenta di trovare una fine l’Onu, presa dal salvaguardare il negoziato che comincerà la prossima settimana a Ginevra tra governo e Houthi. Il timore di un ritiro del fronte anti-sciita è palese, visti i precedenti boicottaggi. L’obiettivo principale, dicono le Nazioni Unite, è una tregua umanitaria che permetta di portare aiuti alla popolazione. Il cessate il fuoco di sette giorni, secondo le parti, dovrebbe cominciare il 15 dicembre. Argentina: più istruzione in carcere, meno delitti in futuro di Maribè Ruscica agensir.it, 12 dicembre 2015 Un’inchiesta della Facoltà di diritto dell’Università di Buenos Aires e del Servizio penitenziario rivela che l’85% dei detenuti che studia non torna in carcere. Un dato significativo per i processi di risocializzazione della popolazione carceraria. Attualmente studia soltanto la metà dei detenuti. Si spera che il nuovo governo possa fare di più In concomitanza con il passaggio delle consegne tra il governo uscente e quello nuovo di Mauricio Macri, un’inchiesta della Facoltà di diritto dell’Università di Buenos Aires e del Servizio penitenziario rivela che l’85% dei detenuti che studiano non torna in carcere. Questa consapevolezza dovrebbe spianare la strada a una politica di Stato in grado di sostenere l’istruzione universitaria nelle carceri e consentire l’effettivo accesso all’istruzione elementare e media per un numero sempre maggiore di detenuti. Secondo quanto emerge dal Rapporto, reso noto dal quotidiano "Clarin", il tasso di recidività dei detenuti che studiano in prigione è inferiore di quasi tre volte rispetto a quello dei detenuti che non studiano (15% contro 40%). Il che vuol dire che la grande maggioranza non torna a delinquere. L’Università introduce in carcere una logica diversa e i suoi effetti superano qualsiasi proposta "risocializzante". Così vengono descritti nel servizio di "Clarín" i benefici del programma d’istruzione universitaria "Uba XXII" che ha compiuto 30 anni in Argentina e che rappresenta un’iniziativa "d’avanguardia" anche a livello internazionale. Si parla di 3.000 alunni e di 500 laureati e si indicano le Facoltà di diritto, sociologia e economia come quelle con il maggiore numero d’iscritti. "Non è la punizione che trasforma il comportamento umano ma l’istruzione. L’università aiuta a ricostruire l’umanità che il carcere distrugge" afferma uno studente, detenuto nel carcere di "Villa Devoto", intervistato dal giornalista Alfredo Dillon nel servizio pubblicato da "Clarin". Il problema è che i detenuti in grado di accedere all’istruzione universitaria rappresentano ancora una minoranza di appena il 2% perché il 91% della popolazione carceraria non ha finito la scuola media. La legge 26.695 che è in vigore dal 2011 e obbliga lo Stato a garantire che i detenuti concludano la scuola in carcere, non sembra di facile applicazione: di certo c’è che attualmente studia soltanto la metà dei detenuti. Va detto che in Argentina le questioni che riguardano la situazione dei carcerati sono sempre complesse perché vengono a contatto modi di pensare diversi e perché l’efficacia di qualsiasi misura dipende, in definitiva, dalla gestione del Servizio penitenziario. Non passano inosservate le preoccupazioni che in questo senso ha espresso Papa Francesco, ma a causa della crescente insicurezza non pochi sembrano attirati dal discorso sulla "mano dura contro la delinquenza". Infatti, il richiamo sindacale dei detenuti che hanno chiesto la garanzia dello Stato per uno stipendio minimo in cambio del lavoro in carcere - rifiutato lo scorso mese dalla Corte Suprema di Giustizia per "mancanza di rappresentazione sindacale" dell’associazione che esigeva il "salario" - ha innescato proteste di molti settori. Nessuno discute, invece, il dovere legale dello Stato di garantire l’istruzione dei detenuti, destinata a offrire uno spazio di libertà - almeno di pensiero - a chi deve scontare una pena in prigione. È stata la Chiesa argentina a ricordare - nel documento "No al narcotraffico, sì alla vita piena" diffuso nei giorni scorsi - il dramma che rappresenta oggi "la piaga della droga" per molti giovani argentini indotti alla criminalità. "Esiste una grande distanza tra il grado di responsabilità del narcotrafficante e quello del ragazzo povero utilizzato per spacciare la droga. Dobbiamo prenderci cura di questi giovani spacciatori affinché non si scarichi su di loro tutto il rigore della pena", hanno avvertito i vescovi, conoscitori dei tempi difficili che dovrà attraversare l’Argentina se davvero vuole voltare pagina e lottare contro la droga, senza criminalizzare i poveri. Congo: Human Rights Watch chiede al governo di liberare tutti i detenuti politici Nova, 12 dicembre 2015 L’organizzazione internazionale Human Rights Watch (Hrw) ha chiesto al governo della Repubblica democratica del Congo di liberare tutti i detenuti politici, arrestati per le proprie opinioni o per aver manifestato pacificamente. Lo riferisce l’emittente francese "Rfi". "Siamo molto preoccupati per la repressione politica crescente nei confronti degli attivisti dei diritti umani, ma anche dei dirigenti e dei membri dell’opposizione politica", ha affermato Ida Sawyer di Hrw. "È una tendenza - ha aggiunto - che abbiamo osservato negli ultimi mesi, in particolare nei confronti delle personalità che si esprimono pubblicamente contro la proposta di modifica della Costituzione o della legge elettorale o contro il rinvio delle elezioni presidenziali oltre il 2016, misure che dovrebbero consentire al presidente Joseph Kabila di prolungare il proprio mandato". Niger: il governo consegnerà alla Nigeria 500 prigionieri di Boko Haram Nova, 12 dicembre 2015 Il governo del Niger si è impegnato a consegnare alla Nigeria più di 500 combattenti del gruppo terroristico Boko Haram detenuti nella capitale Niamey e nelle aree circostanti. Lo riporta l’agenzia di stampa cinese "Xinhua". I militanti islamisti sono stati arrestati su suolo nigerino a seguito delle operazioni militari condotte dalle Forze di difesa e sicurezza (Fds) e da militari ciadiani dopo gli attentati nelle località di Bosso e Diffa, al confine con la Nigeria, lo scorso febbraio. Nel corso delle operazioni, le Fds hanno annunciato di avere ucciso circa mille miliziani islamisti e di avere fatto altrettanti prigionieri. L’annuncio segue un incontro tra il presidente nigerino, Mahamadou Issoufou, e l’ambasciatore della Nigeria a Niamey, Elhaj Aliyu Sokoto. La regione di Diffa, al confine con la Nigeria, è particolarmente esposta agli attacchi terroristici del gruppo Boko Haram. L’ultimo in ordine di tempo si è verificato all’inizio del mese di dicembre, quando quattro persone sono state uccise e altre due sono rimaste ferite dopo un attacco a un villaggio nei pressi della città di Diffa. Alla fine di ottobre il governo del Niger ha chiesto all’Assemblea nazionale di prorogare lo stato di emergenza proclamato per la regione alcuni giorni prima. Secondo dati pubblicati dalle Nazioni Unite, la regione di Diffa è stata teatro di almeno 57 attacchi dal mese di febbraio. Nell’area hanno trovato rifugio circa 150 mila persone fuggite dalle violenze di Boko Haram nel nord est della Nigeria.