Padova: domenica 13 dicembre un concerto per Papa Francesco nella Casa di reclusione Ristretti Orizzonti, 11 dicembre 2015 Il programma prevede alle 12, unitamente al mondo del volontariato e delle cooperative sociali e alle istituzioni cittadine, il collegamento con piazza San Pietro per l’Angelus del Papa, un’occasione anche per i detenuti del carcere padovano per sentirsi uniti alla Chiesa universale che dà inizio al Giubileo. Subito dopo, alle 12.15, i detenuti offriranno al Santo Padre un concerto realizzato dai Polli(ci)ni, l’orchestra di 80 ragazzi dai 9 ai 18 anni del Conservatorio Cesare Pollini di Padova. È un gesto al quale i carcerati tengono moltissimo, come ringraziamento a un Papa che (oramai s’è perso il conto dei suoi interventi) è diventato la loro voce in questi due anni di Magistero. E, non da ultimo, per quel gesto di rendere le porte delle celle altrettante "porte sante" in quest’anno giubilare. Al termine del concerto ogni detenuto farà un dono a un ragazzo dell’orchestra, come segno di vicinanza umana e di ringraziamento. La giornata, promossa dalla parrocchia del carcere e dal Consorzio Sociale Giotto, inizierà con la Santa Messa, che sarà celebrata nella cappella della casa di reclusione con inizio alle 10. L’evento si concluderà intorno alle 13.10. Ufficio stampa: Eugenio Andreatta 3299540695, eugenio.andreatta@gmail.com. Padova: "A tempo debito", all’Esperia il docu-film sulla vita alla Casa circondariale padova24ore.it, 11 dicembre 2015 Ritorna sullo schermo a Padova, dopo aver ottenuto premi in Italia e all’estero, il documentario "A Tempo Debito", di Christian Cinetto, realizzato nella casa circondariale di Padova. Venerdì 11 dicembre dalle 18.30, il cinema Esperia dedica infatti un momento prenatalizio speciale, con ingresso gratuito alle attività del pomeriggio e proiezione al prezzo speciale di 5 euro e 50, per porre l’attenzione su quei bambini "invisibili" che Telefono Azzurro sostiene con il progetto "Bambini e Carcere" e che sarà presentato proprio dalla sua responsabile Concetta Fragrasso. Dedicato ai figli dei detenuti, lo spettacolo "A mille ce n’è" nasce all’interno della Casa di Reclusione di Padova, dove ha debuttato lo scorso marzo in occasione della festa del papà, e segue due percorsi: il teatro e il canto a cura di Teatrocarcere Due Palazzi e dei Coristi per Caso di Padova. Lo spettacolo, con la regia di Maria Cinzia Zanellato e la direzione del coro di Chiara Pagnin, si snoda tra canti e fiabe alcuni dei quali creati o riadattati ad hoc. I brani presentati saranno supportati dal video di scena dei giovani artisti Fosco Ventura e Carmine Cinquegrana, con interventi di dialogo a cura delle persone detenute che usufruiscono del permesso premio. L’evento sarà preceduto dal video "Evasioni" di Gianni Ferraretto, selezionato a MedFilm Festival 2015, che testimonia dei momenti di backstage dello spettacolo. Intorno alle 20.00 ci sarà un incontro dialogo con il pubblico. E per finire, alle ore 21.00, la proiezione (biglietto unico 5 euro e 50) del pluripremiato documentario A tempo debito del regista padovano Christian Cinetto girato nella casa circondariale di Padova in un periodo di cinque mesi, durante i quali quattordici detenuti in attesa di giudizio hanno partecipato a un corso per realizzare un cortometraggio; si racconta il backstage del corto, dalla diffidenza inziale all’incredula soddisfazione del giorno in cui quel corto è stato mostrato ai suoi protagonisti. A tempo debito, come ricorda il regista, non è un film sulle risposte ma sulle domande. Smuove gli animi con una forza meravigliosa. Vuole in modo molto modesto raccontare il vero e ci riesce, fondendosi con la vita, in uno scambio di energie continuo tra lo schermo e gli spettatori. Fra i premi internazionali più importanti, quelli del festival del cinema italiano di Annecy e del festival di Madrid. Saranno presenti in sala il regista con alcuni detenuti-attori della Casa circondariale di Padova. Ascoltiamo la denuncia di un uomo colpevole di Roberto Saviano L’Espresso, 11 dicembre 2015 Rachid Assarag, marocchino condannato per stupro, ha le prove di aver subito violenze in carcere. Lo Stato di diritto vale anche per lui. "Male non fare, paura non avere". Non esiste proverbio più fuorviante di questo. Eppure non esiste summa migliore di come vorremmo fosse la vita: una corrispondenza lineare di cause ed effetti. E in questa visione inesistente, ma semplice e rassicurante, non accettiamo in cattedra maestri che non vestano i panni canonici del titolato a dare lezioni. Invece lezione è qualunque esperienza aggiunga elementi di conoscenza, e maestro chiunque sia latore di quel messaggio. Luigi Manconi, presidente della Commissione Diritti Umani del Senato, nei giorni scorsi ci ha raccontato la storia di un uomo che non accetteremmo mai di chiamare maestro. Ma è un uomo che ha creato una rottura, che ha trasmesso parole fuori dal carcere, dove lui è detenuto, frasi, teorie, affermazioni e prassi che invece sarebbero dovute rimanere lì, per non valicare mai quei con ni. Rachid Assarag è un uomo marocchino di 40 anni. Condannato per violenza sessuale alla pena di 9 anni e 4 mesi di reclusione, che sta scontando nelle carceri italiane. È stato trasferito molte volte e in diverse circostanze è riuscito a registrare sue conversazioni con rappresentanti della Polizia penitenziaria e a ottenere prova delle percosse e dei maltrattamenti subiti. On line è possibile ascoltare queste conversazioni. C’è chi le mette in dubbio per il tono pacifico. Come è possibile - dicono - che non ci sia concitazione quando si parla di percosse? Come è possibile - questo non lo dicono - che un brigadiere della Polizia penitenziaria dia tante spiegazioni a un detenuto? Eppure, metterle in discussione a priori è il servizio peggiore che si possa fare a un Paese che sconta tassi di criminalità altissimi, che ha un sistema giudiziario al collasso e quello carcerario praticamente fallito. Peraltro le registrazioni e, ancor più, quel racconto dei fatti è considerato credibile da due procure, quelle di Firenze e Parma, che hanno aperto fascicoli. Quindi Rachid Assarag, detenuto per violenza sessuale, è la persona grazie alla quale oggi sappiamo, dalla voce di un brigadiere di polizia penitenziaria, che nel carcere non si applica la Costituzione, che se la Costituzione ci fosse entrata, quel carcere (nel caso specifico quello di Prato) sarebbe chiuso da tempo. Che le percosse sono un canale di comunicazione con i detenuti i quali comprenderebbero solo con la violenza le regole da seguire. Che le carceri non rieducano, al più puniscono (male non fare, paura non avere), e comunque rendono peggiori. So che queste mie parole saranno poco frequentate, leggere di carceri piace davvero a pochi. So che chi le frequenterà, in larghissima percentuale, non sarà d’accordo con me. So che molti vorrebbero sentirsi dire nulla ti sarà fatto se non commetterai errori. Ma non me la sento di rassicurare. Fabio Anselmo, avvocato di Assarag, chiede attenzione alle condizioni di salute del suo assistito che sta portando avanti uno sciopero della fame per denunciare le violenze subite. Anselmo dice che stiamo assistendo alla "cronaca di una morte annunciata che equivale a dire che nel nostro Paese vige la pena di morte". Sono d’accordo con Anselmo e invito chi mi legge in questo momento a fare uno sforzo, so di chiederne uno significativo. Lo sforzo di pensare che un uomo che sta in carcere per violenza sessuale, un uomo marocchino - mi si perdonerà la precisazione, ma in questo triste momento è facile indulgere a sentimenti di razzismo - abbia diritto, nonostante la condanna e la detenzione, ma proprio in ragione della condanna e della detenzione, a una esecuzione della pena secondo Costituzione, finalizzata alla riabilitazione e al reinserimento nella società. Il carcere si può osservare da molte prospettive. Chi ci lavora dirà cose semplici e convincenti perché in larga parte vere: i detenuti hanno poche regole e non le rispettano. I detenuti dicono tutti di essere innocenti. Ma poi ci sono le statistiche, e quelle dobbiamo usare per capire la direzione da prendere. Il tasso di suicidi di detenuti e guardie penitenziarie è altissimo, tanto alto da farci comprendere che il carcere così come è non funziona per nessuno. Il tasso di recidiva per i detenuti che lavorano è bassissimo. Quindi in carcere i detenuti devono essere occupati. Cosa manca perché si possa prendere questa direzione? Risorse? No, manca una autentica cultura del diritto. Se l’avessimo, sapremmo che anche chi ha sbagliato ha qualcosa da dire. Se l’avessimo sapremmo ascoltare. Ministro Orlando "l’umanizzazione delle carceri deve essere la nuova sfida del futuro" Agi, 11 dicembre 2015 "No alla reclusione senza porte nè finestre. L’umanizzazione delle carceri deve essere la nuova sfida del futuro". Con queste parole il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha presenziato alla cerimonia di presentazione del calendario 2016 della Polizia penitenziaria dedicato alla memoria dei Caduti, un elenco di 78 nomi, compresi anche quelli non appartenenti al Corpo. "Il nostro obiettivo - ha ricordato il guardasigilli, sottolineando l’impegno nel processo di riforma nell’ordinamento penitenziario - è cambiare le condizioni complessive della detenzione. Gli agenti della polizia penitenziaria per primi meritano la mia fiducia e il mio apprezzamento. Eventuali attività ispettive non devono oscurare chi lavora quotidianamente con impegno e dedizione. Tutti sanno che non fanno mai notizia i casi sventati di autolesionismo o di suicidio in cella". Il ministro ha anche precisato che "il calo del numero dei detenuti, in linea con i posti disponibili, rappresenta certamente un passo avanti importante ma la riduzione delle presenze costituisce solo un punto di partenza. Ora occorre concentrare l’attenzione sulle condizioni di vita all’interno delle carceri, per quanto riguarda i detenuti e lo stesso personale di polizia, chiamato ad avviare i reclusi verso un percorso di recupero e riabilitazione, oltre ad esercitare controlli e vigilanza. Il lavoro dell’agente di Polizia penitenziaria - ha evidenziato Orlando - sta cambiando perché oltre ad assicurare la detenzione in condizioni di sicurezza prevede un ventaglio di competenze sempre più ampio". Cogliendo spunto dal Giubileo, Orlando ha così concluso: "La Misericordia, e lo dico da laico, è la condizione necessaria per recuperare la convivenza civile e rappresenta il modo di capire le ragioni dell’altro e i motivi dell’odio altrui". Consolo (Dap): radicalismo islamico nuova sfida "Le nostre radici devono essere chiare e ci devono dare la forza per affrontare le prossime difficili sfide, come la gestione della criminalità organizzata e il radicalismo islamico, sfide che richiedono assunzione di rischi, conoscenza, attenzione, impegno ed eroismo quotidiano". Lo ha detto il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, che ha presentato questa mattina il calendario 2016 dedicato alla memoria dei Caduti del Corpo. "Ricordare chi non c’è più ci rende più forti e più fiduciosi nell’affrontare le sfide future", ha detto Consolo. Nel corso della cerimonia sono state particolarmente toccanti le testimonianze di chi ha perso il proprio genitore nell’adempimento del proprio dovere. Tina Graziano, oggi madre di tre figli, aveva 6 anni ed era il suo primo giorno di scuola quando due malviventi in moto le trucidarono il padre, il brigadiere Antimo in servizio presso la Casa circondariale di Poggioreale, e Giuseppe Cinotti aveva appena 4 mesi quando le Brigate Rosse assassinarono il papà Raffaele che lavorava nel carcere di Rebibbia. "Un grazie a Orlando e al capo del Dap - ha detto Tina - perché gesti tangibili come il calendario o l’intitolazione delle carceri contribuisce a tenere vivo il ricordo di chi è morto servendo lo Stato, Stato che non ci ha mai abbandonato. Mio padre, uomo semplice che avrebbe voluto solo vedere crescere i propri figli, ha fatto la sua parte". Giuseppe, invece, per conoscere meglio il papà, ha voluto frequentare i colleghi che lavoravano con lui ed è entrato a far parte del Corpo della polizia penitenziaria: "Mio padre era pignolo e non scendeva a compromessi". Va in pensione Maisto, giudice da sempre impegnato per la difesa dei diritti in carcere Ansa, 11 dicembre 2015 Andrà in pensione fra pochi giorni Francesco Maisto, dal 2008 Presidente del tribunale di Sorveglianza di Bologna. Originario di Napoli, 69 anni, arrivò dalla Procura generale di Milano. Durante la sua presidenza in Emilia, l’ufficio ha vissuto trasformazioni e raggiunto punti di eccellenza, ha affrontato i tagli, ma soprattutto è stato "nell’occhio di un ciclone giudiziario", per dirla con il magistrato, che si è trovato a trattare alcuni dei più grossi procedimenti di Sorveglianza degli ultimi anni. Dalle istanze per la detenzione domiciliare, poi concessa, ad Anna Maria Franzoni, ai poliziotti condannati per l’uccisione di Federico Aldrovandi, a Calisto Tanzi e il crac Parmalat. "E forse non tutti ricordano che abbiamo scrutinato qui - dice Maisto all’Ansa - il primo collaboratore di giustizia delle Br" Di sua competenza sono stati anche i detenuti al 41 bis a Parma, come Bernando Provenzano, prima, e Totò Riina, poi. Tutto è stato affrontato, "senza ira e senza timore, con equilibrio". E anche quando nei casi ad alto impatto mediatico, "agli attacchi veniva voglia di rispondere", la scelta è stata quella di "parlare con i provvedimenti giudiziari", in larga maggioranza confermati dalla Cassazione. "L’unica volta che feci un comunicato - spiega - fu a fronte di un attacco per una decisione su una persona mafiosa, dove diedi conto del fatto che il Csm aveva tutelato l’immagine del tribunale e di un suo magistrato". In sette anni tanto è migliorato: "L’ufficio era in condizioni oscene. Vicolo Monticelli, l’aula in un garage e i detenuti per strada. Ora abbiamo un nuovo ufficio e nuovi locali". E un radicamento forte nel territorio, perché "il tribunale di Sorveglianza, a differenza di altri uffici, non può essere autoreferenziale. Abbiamo ricevuto tanto dalla Regione, dagli enti locali e dal volontariato, una risorsa che l’Emilia-Romagna non può perdere". Poi c’è stata la riduzione delle risorse: "In un anno abbiamo perso 14 unità in cancelleria, per un anno abbiamo avuto due magistrati in meno". Ma ciò nonostante "abbiamo aumentato la produttività". Molti i fronti di avanguardia. Il suo tribunale, ad esempio, è stato tra i primi a concedere risarcimenti ai detenuti per cui non era stato rispettato lo spazio minimo vitale. "L’ultima fatica", la chiusura dell’Opg di Reggio Emilia e l’apertura delle Rems, Bologna e Parma. Maisto, esperto di droga e criminologia clinica, è in magistratura dal 1974 ed è stato anche giudice istruttore a Napoli e per un decennio magistrato di sorveglianza a San Vittore, oltre che da sempre impegnato per la difesa dei diritti in carcere. Ha presieduto nei giorni scorsi la sua ultima udienza e saluterà l’ufficio prima di Natale. Lascia con una citazione evangelica, cui affida il proprio pensiero sull’amministrazione penitenziaria: "Non si può mettere vino nuovo in otri vecchi. Ogni tanto spira qualche idea nuova, qualche buon progetto. Ma mentalità e strutture, a mio avviso, restano vecchie". Quel braccialetto elettronico che non c’è di Luigi Ferrarella Sette - Corriere della Sera, 11 dicembre 2015 Esiste, ma non ne parla più nessuno: eppure il braccialetto elettronico da tre lustri veniva annunciato, da un governo sì e dall’altro pure, come panacea al sovraffollamento carcerario e garanzia di sicurezza per la collettività. Sta andando così? La partenza fu a rilento, dal 2001 soltanto 14 applicazioni fino a tutto il 2011. Un po’ poco per un investimento di 11 milioni di euro l’anno, non a caso tacciato allora dalla Corte dei Conti di "reiterata spesa antieconomica e inefficace", e stroncato dal lapidario giudizio dell’allora vicecapo della Polizia in Commissione Giustizia: "Se fossimo andati da Bulgari avremmo speso meno". Poi, però, a fine 2013 è stato imposto per legge che il braccialetto diventasse lo standard per gli arresti domiciliari, se mai con obbligo per il giudice di motivare in caso contrario la non indispensabilità. Ma, al solito, i nobili propositi si sono scontrati con la più prosaica telenovela legislativa-economica attorno a questi strumenti che in realtà sono cavigliere idrorepellenti, impermeabili, resistenti a 70 gradi di temperatura e a 40 chili di forza di strappo. Il vecchio e travagliato contratto del Ministero dell’Interno con Telecom, scaduto e in attesa eterna di riproposizione della gara, assicura infatti la fornitura di soli 2.000 braccialetti che, una volta esauriti, hanno prodotto in Italia tre alternative a macchia di leopardo. In alcuni uffici giudiziari, infatti, l’applicazione del braccialetto elettronico era stata di fatto momentaneamente sospesa, e dunque le persone poste ai domiciliari dai giudici non venivano più monitorate elettronicamente, ma solo (come prima) dagli estemporanei controlli delle oberate forze dell’ordine. In altri uffici i giudici avevano preso a negare gli arresti domiciliari in assenza di braccialetti disponibili, ma questo orientamento è stato bocciato dalla Cassazione, che ha ricordato come, se non esistono più esigenze cautelari per tenere in carcere una persona, non la si può lasciare in cella solo per una manchevolezza dello Stato. E allora nella maggior parte dei casi ci si è attrezzati pazientemente per una terza via, e cioè per il "riciclo", invece che dei regali di Natale, dei braccialetti a "numero chiuso": si aspetta che una persona finisca gli arresti domiciliari con il braccialetto, e si corre a prenotarlo (uno degli sempre stessi 2.000 dispositivi) per dirottarlo subito su altri in attesa. Si spiega così il fatto che in questo momento ci sia una lista d’attesa di circa 70 giorni per eseguire 507 ordinanze già firmate dai giudici. Dal 2014 sono state 6.483 le persone ammesse ai domiciliari con sorveglianza elettronica, e, pur nella ristrettezza dei soli 2.000 braccialetti disponibili, avrebbero potuto essere già di più se in 1.165 casi l’apparecchiatura non fosse stata impossibile da attivare per problemi del domicilio del detenuto. Ma nei dati nazionali emersi in un seminario della Camera Penale milanese colpisce l’assoluta eterogeneità geografica del ricorso alla sorveglianza elettronica, posto che Roma ha con 960 ordinanze il record assoluto, addirittura quasi doppio 0 triplo dei 422 e dei 359 casi rispettivamente di Napoli e Catania, con Milano curiosamente quasi fanalino di coda con soltanto 187 ordinanze di ammissione. Eppure le potenzialità dello strumento, molto più usato in tanti Paesi, si intuiscono già da un ultimo dato: con una durata media di 143 giorni di custodia cautelare vegliata dal braccialetto, sinora è come già si fossero risparmiati (agli arrestati, per i quali evidentemente non era necessaria la carcerazione, e allo Stato, che ha evitato i relativi costi di mantenimento della detenzione in cella e di pattugliamento fisico dei domiciliari) ben 1 milione e 131.000 giorni di carcere. La pensione dei magistrati e le leggi da non beffare di Sabino Cassese Corriere della Sera, 11 dicembre 2015 Il Consiglio di Stato ha fermato il pensionamento dei più alti magistrati ordinari, con una procedura sospensiva assimilabile a un’azione giudiziaria. Così, accogliendo il ricorso di un magistrato in età pensionabile, è andato contro la riduzione progressiva dell’età del ritiro dal lavoro che i magistrati, come categoria, avevano ottenuto. La vicenda solleva non pochi dubbi, anche perché rende evidente come la macchina dello Stato possa essere bloccata dal suo interno, a difesa di corporazioni. Inoltre il Consiglio superiore della magistratura dovrebbe preoccuparsi della funzionalità della giustizia e non aspettare anni, prima di fare le nomine per i posti che si liberano a causa dei pensionamenti, nell’attesa che le correnti si mettano d’accordo. Le leggi - e lo sanno bene i magistrati - vanno rispettate, non beffate. Dobbiamo quindi dare ragione a chi osserva: non è possibile che i giudici amministrativi decidano su tutto, dall’iscrizione a un asilo alla chiusura di un’ambasciata, e quindi propone di ridurne il raggio di azione (Matteo Renzi)? A chi suggerisce di sopprimerli, perché legano le gambe all’Italia (Romano Prodi)? A chi afferma che non si può morire di diritto amministrativo (Cottarelli)? A leggere il recente intervento del Consiglio di Stato, che ha fermato all’ultimo momento il pensionamento dei più alti magistrati ordinari, si sarebbe tentati di rispondere positivamente a queste domande. Ecco brevemente la vicenda. I magistrati andavano in pensione a 72 anni. Silvio Berlusconi portò l’età del pensionamento a 75. Questa è stata poi abbassata per diverse categorie di dipendenti pubblici, ma per i magistrati norme del 2014 e del 2015 hanno assicurato progressività, fino al dicembre 2016, nella riduzione da 75 a 70 dell’età del pensionamento. Nel giugno scorso il Consiglio superiore della magistratura e il ministro della giustizia comunicano a un magistrato che ha già largamente superato i 70 anni il collocamento in pensione dal primo gennaio 2016. Questi presenta a fine novembre un ricorso straordinario e il Consiglio di Stato all’inizio di dicembre sospende l’esecuzione del pensionamento, spiegando in modo molto sommario che il ricorrente aveva riposto un ragionevole affidamento a lavorare fino a 75 anni e che la funzionalità del suo ufficio potrebbe essere danneggiata dalla sua assenza. Si tenga conto che quasi un centinaio di persone si trovano nella stessa situazione, che la sospensiva è stata concessa in una procedura assimilabile a quelle giudiziarie e senza che si sia dato modo al Ministero della giustizia di intervenire nel contradittorio, e che gli organi giurisdizionali non ricorrono solitamente a provvedimenti cautelari in materia di pensionamenti. Gli interrogativi si affollano. Come può il Consiglio di Stato affermare che va tutelato un ragionevole affidamento, quando le leggi da applicare avevano assicurato proprio ai magistrati un notevole gradualismo, per assicurare la continuità delle funzioni? Come può il Consiglio di Stato ergersi a giudice della funzionalità degli uffici giudiziari, quando per questo compito ci sono il ministro della Giustizia e il Consiglio superiore della magistratura? Come può il guardiano delle leggi sollevarsi contro la legge, impedendone l’applicazione? Come può quella categoria di dipendenti pubblici, i magistrati, che aveva ottenuto - a differenza di altre categorie - una riduzione progressiva dell’età del pensionamento, opporsi a decisioni prese nel corso degli ultimi anni, dando così argomenti a chi ritiene l’Italia un Paese bloccato dal prevalere di corporazioni che si annidano proprio nella macchina dello Stato? Le lezioni che si traggono da questa vicenda sono: il diritto amministrativo e i giudici amministrativi sono importanti, quali garanti dei diritti dei cittadini, non come tutori improvvisati di aspettative di categoria; il Consiglio superiore della magistratura deve preoccuparsi della funzionalità della giustizia e non aspettare anni nel fare le nomine sui posti che si liberano per pensionamenti, nell’attesa che le correnti si mettano d’accordo; le leggi vanno rispettate, non beffate. I magistrati che non vanno in pensione pur di non perdere il potere di Claudio Cerasa Il Foglio, 11 dicembre 2015 Il Consiglio di stato ha sospeso "in via cautelare" il provvedimento di messa a riposo di cinque magistrati che avrebbero dovuto andare in pensione per il provvedimento adottato dal governo e poi già prorogato di un anno. Il tribunale di Monza ha assolto Filippo Penati "perché il fatto non sussiste" dalle accuse di concussione che erano state sostenute, con ampio codazzo mediatico, dalla procura. Qual è il nesso tra questi due casi? L’evidente squilibrio che si è determinato nel rapporto tra i poteri dello stato. Un promettente leader politico ha visto cancellata la sua prospettiva da un teorema indimostrato, dopo quattro anno di gogna mediatica, mentre anziani magistrati che non vogliono mollare il potere nonostante abbiano raggiunto i limiti di età previsti dalla legge mettono in una condizione di stallo il sistema di ricambio delle funzioni giudiziarie. Non si capisce in che cosa consista la "cautela" che permette di non applicare una legge in vigore solo perché non piace a qualche magistrato, così come non ha senso che il Consiglio di stato si ritenga autorizzato a decidere in merito, dato questo contestato persino dal Consiglio superiore della magistratura. Al di là delle sottigliezze e dei cavilli, però, quello che balza agli occhi è che i magistrati, o almeno alcuni di loro, si ritengono superiori alle leggi, e non accettano di essere dipendenti dello stato ai quali si applicano le norme comuni e non solo quelle a loro gradite. In un paese in cui ci sono molti lavoratori anziani che rincorrono un’età pensionabile che, di riforma in riforma, sembra non arrivare mai, i magistrati rappresentano un’eccezione per uno straordinario attaccamento al lavoro? A guardare ai dati desolanti della produttività della giustizia non si direbbe proprio. Quello a cui non intendono rinunciare è il potere che è connesso all’esercizio delle funzioni giudiziarie e la visibilità che deriva da un patologico sistema mediatico asservito alle procure o ad altri organismi giudiziari. Il principio dell’indipendenza della magistratura, che è racchiuso nella formula "i magistrati sono soggetti solo alla legge", dovrebbe essere sostituito da quello "sono soggetti solo alle leggi che convengono loro". Il governo pare deciso a reagire, opponendosi alla stravagante deliberazione del Consiglio di stato, e c’è da sperare che almeno questa volta non faccia alla fine marcia indietro, come quando prorogò di un anno l’applicazione dei termini di pensionamento. L’equilibrio dei poteri, già fortemente manomesso dall’esondazione delle procure politicizzate - come dimostra oggi il caso Penati dopo tanti altri - finirebbe del tutto stravolto se ai magistrati fosse consentito anche di rifiutare le leggi che li riguardano. Se lo facesse un cittadino comune, sarebbe condannato o almeno processato per anni, se lo fa un magistrato trova sempre una struttura giudiziaria che glielo consente. E questo sarebbe uno stato di diritto. Consulta, l’avvertimento del Colle di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 11 dicembre 2015 Il presidente della Repubblica sulla mancata elezione dei giudici costituzionali: incide sulla valutazione della capacità di funzionamento del parlamento. Lunedì 14 il trentesimo tentativo, Renzi insiste nel cercare una Corte "amica" e si rischia una nuova fumata nera. Gran parte del tempo concesso alla maggioranza perché riuscisse a trovare una soluzione alla mancata elezione dei giudici costituzionali, che si trascina da quasi 18 mesi, è trascorso invano; lunedì pomeriggio Camera e Senato tornano a votare in seduta comune e la prospettiva è quella di un ennesima fumata nera, la trentesima. A conferma del fatto che senza un cambio di strategia che comporti la rinuncia di Renzi a precostituirsi una Corte a misura delle sue riforme, per evitare rischi di sentenze contrarie soprattutto sulla nuova legge elettorale, il parlamento non troverà una via d’uscita. E dovrà affidarsi al semi-conclave deciso dai presidenti Grasso e Boldrini, che hanno annunciato la convocazione continua degli scrutini ogni sera alle 19 da martedì prossimo, se anche lunedì si finisse con un nulla di fatto. E non si tratta neanche della minaccia più grave, visto che il presidente della Repubblica, che il 20 ottobre aveva lanciato il suo ultimo appello pubblico alle camere perché eleggessero finalmente i tre giudici costituzionali che mancano, tacendo poi malgrado tre successive votazioni andate a vuoto (dal Quirinale erano filtrate sui giornali solo alcune banali indiscrezioni riguardo la delusione del capo dello stato), ieri è tornato a pronunciarsi sull’argomento. L’ha fatto nella coda di una lunga intervista al Messaggero. "Ogni passaggio a vuoto del parlamento incide negativamente sulla sua autorevolezza e sulla valutazione della sua capacità di funzionamento", ha detto Sergio Mattarella. Parole pesanti, visto che l’inerzia delle camere - soprattutto nell’applicazione di precisi obblighi costituzionali, com’è il caso dell’elezione dei giudici - è una delle poche cause di scioglimento che mettono d’accordo i costituzionalisti. Il potere di scioglimento com’è noto è proprio del capo dello stato. Naturalmente Mattarella non arriverà a questo, ma le sue parole indicano che ormai il problema dell’elezione dei giudici è diventato il più urgente dell’agenda politica. Anche perché è stato assai trascurato nei mesi scorsi da un presidente del Consiglio che immagina di poter fare come per le "sue" riforme, piegando alfine le resistenze, nonché dai presidenti delle camere che avrebbero potuto convocare le sedute comuni in anticipo rispetto alle scadenze (come avviene per i giudici indicati dal presidente della Repubblica, che vengono scelti in anticipo dal capo dello stato così da evitare buchi nel plenum della Corte). Forza Italia non ha ancora trovato un’alternativa al deputato Sisto (che giusto ieri in perfetta armonia con un collega Pd ha licenziato il testo base della legge sul conflitto di interessi). Il partito di Berlusconi può incaponirsi anche perché il Pd renziano non intende mollare il candidato Barbera, anche lui già bocciato in tre scrutini di seguito. L’unica novità dell’ultima votazione era stata la candidata dell’Ncd Nicotra, che però è stata subito gelata da un numero molto basso di consensi. Alla maggioranza renziana non basta allargare l’accordo a Forza Italia, nel voto segreto nessuna imposizione può passare su gruppi profondamente divisi. L’unica strada per il Pd è quella di coinvolgere Sinistra italiana e M5S. I grillini sembrano pronti a svoltare ancora e accettare Barbera, a patto però che Renzi rinunci all’asse con quel che resta di Forza Italia. Consulta, il dovere del presidente di Francesco Pallante Il Manifesto, 11 dicembre 2015 Superare lo stallo che sta imballando il parlamento sui giudici costituzionali non sembra difficile. Basterebbe abbandonare la logica - escludente - della conta all’ultimo numero e assumere la logica - includente - della ricerca del compromesso. Che questo cambio di atteggiamento non venga dal governo è scontato. Tutta l’esperienza renziana è apertamente connotata dal "muro contro muro". Forte di una maggioranza parlamentare tanto abnorme quanto incostituzionale (per meglio dire: abnorme proprio in quanto incostituzionale), Renzi ha sempre optato per la soluzione muscolare. Il caso più evidente - e drammatico - è quello della revisione costituzionale, imposta a colpi di maggioranza senza mai realmente aver ascoltato le proposte avanzate dalle opposizioni. Risultato: un testo inguardabile, pessimo nel contenuto e illeggibile nella formulazione, che produrrà risultati contrari a quelli auspicati dai suoi stessi promotori (su tutti: la moltiplicazione dei procedimenti legislativi in nome della semplificazione). Diversa dovrebbe essere la prospettiva da cui il presidente della Repubblica guarda all’impasse in cui è precipitato il parlamento. Forte della sua storia, della sua cultura, della sua stessa collocazione istituzionale, Mattarella è nella condizione di rimettere in circolazione l’idea che il confronto parlamentare non possa esaurirsi nel momento della decisione, ma debba far proprio, valorizzandolo opportunamente, lo strumento della discussione. In democrazia, la decisione non può essere un valore in sé: altrimenti è sopraffazione. La decisione assume valore alla luce del percorso che la precede: è la sua capacità di farsi sintesi delle diverse prospettive in conflitto a renderla accettabile, anche agli occhi di chi la subisce. Il presidente della Repubblica è garante dell’unità nazionale, e come tale deve agire: a fronte di una maggioranza parlamentare che crea divisioni sempre più profonde (persino al proprio interno) è necessario che riscopra la funzione unificante della Costituzione, e se ne faccia promotore. A iniziare dalla questione, istituzionalmente delicatissima, della composizione della Consulta. D’altro canto, l’idea stessa di decidere la composizione della Corte costituzionale con l’intento di condizionarne le future sentenze è quanto di più lontano dallo spirito costituzionale ci possa essere. La Consulta è un classico contropotere, uno strumento di riequilibrio che l’epoca iper-maggioritaria, in cui stiamo vivendo, rende ancora più necessario. Per questo, i primi a sottrarsi al gioco perverso del governo dovrebbero essere i costituzionalisti, tanto più se dotati di profili scientifici di altissimo livello, come alcuni dei candidati in gioco. È giunto il momento di prendere di petto il germe decisionista che sempre più sta ammorbando il nostro sistema costituzionale. La democrazia non può ridursi a pratica che si consuma una volta ogni cinque anni, in occasione delle elezioni. La democrazia o è processo continuo o non è. Il rischio che diventi momento plebiscitario, a ratifica di decisioni già assunte da chi ha ricevuto l’investitura a Capo (per usare il lessico fascista rispolverato dall’Italicum), è già attuale. Senza contare, poi, che tra le più illustri vittime del decisionismo vi è - paradossalmente - la stessa capacità di decidere, come chiaramente dimostra l’attuale blocco sull’elezione dei tre giudici costituzionali. Ma, come potrebbe essere diversamente? Come ci si può illudere che una forza sociale minoritaria possa diventare forza politica efficace semplicemente drogandone a dismisura la rappresentanza parlamentare? Altro è introdurre dei correttivi, altro è l’artificialismo più sfrenato in cui siamo precipitati. Occorre riscoprire il realismo della politica. Se un corpo elettorale non esprime una maggioranza, nemmeno tendenziale, bisogna prenderne atto e ricercare un compromesso in parlamento. È così che si fa in tutte le democrazie: dal Regno Unito, alla Germania, alla Francia. Persino negli Stati Uniti, dove pure vige il presidenzialismo. Noi siamo passati da un eccesso all’altro: abbiamo avuto la forma di governo più includente; ora, con la revisione costituzionale e l’Italicum, andiamo verso la più escludente. Nella parabola svalutativa della parola "compromesso" - da sinonimo di "dialogo" a sinonimo di "tradimento": visione che oggi accomuna tutte le principali forze politiche - può essere letta la distanza che segna l’odierna idea di democrazia dall’idea contenuta nella Costituzione. Sarebbe ora che chi ha la responsabilità delle più alte cariche istituzionali rimetta in moto il pendolo: la vicenda dei giudici costituzionali è un’ottima occasione per sottolineare come, nella logica della Costituzione, decisioni di questo genere non possono che venire da un compromesso tra tutte le principali forze politiche presenti in parlamento. Renzi a giudizio all’Onu per diritti politici violati di Giampiero Calapà Il Fatto Quotidiano, 11 dicembre 2015 Alla sbarra a Ginevra perché l’Italia con la riforma Boschi boicotta i referendum. Le Nazioni Unite hanno accolto il ricorso presentato dai Radicali Staderini e De Lucia. La Presidenza del Consiglio di Matteo Renzi andrà a giudizio davanti al Comitato dei diritti umani dell’Onu a Ginevra per aver violato il diritto dei cittadini di partecipare alla vita politica e al governo del Paese col boicottaggio di referendum e di leggi di iniziativa popolare. "Un boicottaggio pluridecennale -per i Radicali italiani, promotori della denuncia alle Nazioni Unite - aggravato dalla riforma Boschi che modifica l’articolo 75 della Costituzione sul diritto al referendum in senso peggiorativo ". Infatti, la riforma Boschi aggrava gli effetti degli ostacoli all’esercizio del referendum: il quorum rimane al 50 per cento degli aventi diritto, ma si riduce al 50 dei votanti qualora si raccolgano 800 mila firme: "In questo modo -lamentano i Radicali - il referendum si trasforma in uno strumento a disposizione esclusivamente dei grandi partiti". L’Onu, dunque, porta l’Italia alla sbarra per la violazione degli articoli 2 e 25 del Patto internazionale dei diritti civili e politici, considerato il principale trattato al mondo sui diritti umani. "È uno dei primi casi sottoposti a una giurisdizione internazionale in tema di democrazia diretta e le conseguenze del Comitato dell’Onu potranno avere effetti anche su altri Paesi. Ed è la prima volta che l’Italia viene rinviata a giudizio dall’Onu per violazione del diritto a partecipare alla vita politica", spiega Mario Staderini che, con Michele De Lucia (segretario dei Radicali il primo e tesoriere il secondo dal 2009 al 2013), ha presentato il ricorso a Ginevra. Questa denuncia, appunto accolta dall’Onu con tanto di rinvio a giudizio dell’Italia, è stata scritta e sottoposta al vaglio delle Nazioni Unite, dalla Clinica dei diritti umani della Loyola Law School di Los Angeles, diretta da Cesare Romano, docente di diritto internazionale. Adesso Palazzo Chigi avrà sei mesi di tempo, quindi fino all’aprile 2016, per presentare le sue memorie difensive. La decisione di procedere con la denuncia all’Onu, spiegano Staderini e De Lucia, è stata presa dopo il caso dei referendum del 2013, mai arrivati alle urne: "In Italia le leggi e le procedure referendarie sono ingiustamente restrittive, arbitrarie e irragionevoli. Di fatto, impediscono l’effettivo esercizio del diritto a promuovere i referendum garantito dalla Costituzione". In che modo? Questi sono per i Radicali gli ostacoli sui quali deciderà l’Onu: "Solo tre mesi per la raccolta firme e solo in alcuni periodi dell’anno (considerato che le firme si raccolgono soprattutto nei fine settimana e per strada, le 500 mila firme in realtà vanno raccolte in dodici fine settimana, con una media di 42 mila firme a fine settimana); il quorum alto favorisce gli oppositori che sfruttano l’astensionismo; la raccolta firme solo cartacea; una procedura di autenticazione e certificazione delle firme complessa e discriminante; l’assenza di normative per garantire informazione e favorire donazioni". Nel 2013 in particolare i Radicali promossero dei referendum (su immigrazione, legalizzazione droghe, finanziamento dei partiti, abolizione otto per mille alla Chiesa, divorzio breve e giustizia). "Ma - spiegano oggi - la campagna si caratterizzò per una serie di violazioni da parte delle istituzioni italiane: a causa dell’assenza di autenticatori disponibili senza che il governo Letta prendesse provvedimenti, è stato quasi impossibile raccogliere le firme anche nelle grandi città. La Rai, radiotelevisione di Stato, non ha informato adeguatamente, su cosa, come, dove e quando firmare. Spesso nei Comuni è stato impossibile firmare d’estate, gli uffici erano nascosti, gli adempimenti svolti con lentezza. Il governo non rispose alle richieste di aiuto dei promotori dei referendum. E alla fine - conclude Staderini - furono raccolte e depositate in Cassazione 200 mila firme per ciascuno dei sei referendum, invece delle 500 mila richieste, ma la Corte non volle neppure valutare tutti gli ostacoli incontrati. Sabotando i referendum fallisce la democrazia, perché se impedisci ai cittadini di partecipare con la democrazia diretta, si convinceranno che anche quella rappresentativa non serve a nulla". Omicidio stradale con super-sanzioni di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 11 dicembre 2015 Approvato con polemiche. E col rischio di contenziosi o addirittura di incostituzionalità. Il nuovo reato di omicidio stradale, con pene-base da due a 12 anni e possibilità di arrivare a 18 nel caso delle peggiori aggravanti, ha passato ieri il vaglio del Senato con 149 sì e 91 no. Un risultato non esaltante visto che il Governo aveva posto la questione di fiducia e che, soprattutto, i dissensi non riguardavano tanto questioni politiche ma aspetti tecnici. In ogni caso, il testo andrà con tutta probabilità in vigore così com’è uscito dal Senato: resta un passaggio alla Camera che, vista la fiducia votata, si preannuncia come solo formale. E rapido: il presidente della commissione Trasporti di Montecitorio, Michele Pompeo Meta, si è impegnato a far sì che sia messo in calendario subito dopo la legge di stabilità. Dunque, l’entrata in vigore potrebbe avvenire già ai primi dell’anno prossimo. Tecnicamente, il nuovo sistema sanzionatorio riguarda tutti i casi di omicidio colposo e lesioni colpose nei quali il responsabile ha commesso infrazioni stradali. Ma la maggior parte di queste violazioni, pur confluendo nel nuovo reato, restano con lo stesso trattamento penale previsto dall’attuale reato di omicidio o lesioni colposi aggravati da infrazioni stradali: pena da due a sette anni. L’inasprimento riguarda una serie di violazioni che il legislatore, dopo discussioni contrastate, ha ritenuto gravi: non solo fattispecie riconosciute molto pericolose da tutti come ebbrezza media e grave (tasso alcolemico superiore a 0,8 grammi/litro) e alterazione da droghe, ma anche fattispecie spesso controverse come velocità "spropositata" (in città, il doppio del limite, purché si superino i 70 km/h; fuori città, eccessi di velocità per più di 50 km/h), passaggio col rosso, circolazione contromano, inversione di marcia in corrispondenza di curve, dossi o incroci, sorpasso con striscia continua o vicino alle strisce pedonali. Per questi casi, le pene-base sull’omicidio vanno da cinque a 10 anni; fanno eccezione ebbrezza grave (oltre 1,5 g/l), ebbrezza media (ma per i soli autisti professionisti) e droga, si va dagli otto ai 12 anni. Se ci sono più morti o si aggiunge almeno un ferito, si può arrivare fino a 18 anni. In caso di fuga dopo l’incidente, guida con patente revocata o sospesa e veicolo non assicurato, c’è un aumento di pena minimo di un terzo e massimo di due terzi e la condanna non può mai scendere sotto i cinque anni. Quando invece la responsabilità non è esclusiva dell’imputato (cioè se c’è concorso di colpa, non importa se della vittima o di terzi come altri guidatori, gestore della strada o costruttore del veicolo), la pena va ridotta fino al 50%. Si aggiungono anche sanzioni sulla patente, che può essere revocata anche per 15 o 30 anni. Nelle situazioni più gravi, l’arresto in flagranza diventa obbligatorio. I tempi di prescrizione raddoppiano e vengono meno alcuni paletti al prelievo di liquidi biologici per dimostrare la presenza di alcol o droga nell’organismo. Questa è solo la sintesi di un quadro complesso e variegato (si veda la scheda qui a destra), che rischia di essere modificato nel giro di uno o due anni dalla Consulta. Infatti, le sanzioni sono superiori a quelle previste dal Codice penale per i responsabili degli infortuni sul lavoro, una fattispecie di gravità che pare assimilabile a quella degli incidenti stradali. Ma le perplessità non finiscono qui: oltre ai rischi di alimentare pirateria e contenziosi (si veda Il Sole 24 Ore del 29 ottobre), nel dibattito al Senato sono emerse perplessità sulla questione di fiducia, sull’assenza di misure di prevenzione, sul mancato potenziamento dei controlli, sulla graduazione delle sanzioni e sull’eterogeneità delle violazioni scelte per configurare le ipotesi più gravi di reato. Critiche sintetizzate dalla vicepresidente del gruppo Misto, Maria Mussini, che sottolinea per esempio l’inclusione dell’ipotesi di veicolo non assicurato tra le aggravanti: una violazione che prescinde dal comportamento di guida del colpevole. Non ci furono tangenti, Filippo Penati assolto per il "Sistema Sesto" La Repubblica, 11 dicembre 2015 Il tribunale scagiona l’ex presidente Pd della Provincia di Milano Filippo Penati: "Il fatto non sussiste". Filippo Penati non è stato corrotto da Piero Di Caterina e non lo ha favorito con appalti e contratti per ricompensarlo dei soldi che l’imprenditore gli avrebbe "prestato" per oltre dieci anni. Il tribunale di Monza (presidente Giuseppe Airò) manda in frantumi l’inchiesta sul "Sistema Sesto", assolvendo tutti i dieci imputati, più la società Codelfa, "perché il fatto non sussiste". Assolto Penati, ex presidente della provincia di Milano ed ex braccio destro di Pierluigi Bersani al vertice del Pd. Assolti anche Renato Sarno, l’architetto considerato dall’accusa "l’uomo dei fondi neri" di Penati, che ha trascorso sei mesi in carcere; Bruno Binasco, ex manager di Gavio, che aveva firmato quella che per l’accusa era una finta compravendita che (su ordine di Penati) garantì due milioni di caparra a Di Caterina; Antonino Princiotta, ex segretario della Provincia di Milano; Norberto Moser, manager di Codelfa; Massimo Di Marco, ad di Serravalle; Gianlorenzo De Vincenzi, manager di Serravalle. Come aveva chiesto l’accusa, assolto il capo di gabinetto di Penati, Giordano Vimercati. No anche alla confisca di 14 milioni incassati da Codelfa. Assolti (ma, per la corruzione ad alcuni amministratori locali, solo per prescrizione) gli imprenditori Piero Di Caterina e Giuseppe Pasini, gli accusatori di Penati. Per i pm pesa la prescrizione sul processo sulle aree ex Falck, il filone di indagine principale, intervenuta per via della legge Severino. L’assoluzione di Penati e le condanne anticipate di Giangiacomo Schiavi Corriere della Sera, 11 dicembre 2015 Il caso Penati, assolto dai giudici del tribunale di Monza, dimostra una volta di più che non è un gioco di parole la frase che ripetiamo di continuo: la presunzione di innocenza vale fino in Cassazione. I verdetti anticipati che stravolgono il diritto e trasformano l’imputato in un sicuro colpevole prima ancora dell’inizio del processo si rivelano spesso ingiusti sul versante giuridico e su quello umano: la cultura delle prove e delle garanzie non viaggia alla stessa velocità della delegittimazione, che è immediata e inesorabile. E questo naturalmente vale per Penati come per tanti altri prima di lui. Per l’ ex sindaco di Sesto San Giovanni, ex presidente della Provincia di Milano, ex braccio destro del segretario Pd Pier Luigi Bersani, tutto sembrava già scritto quattro anni fa: corruzione, finanziamento illecito, concussione, pratiche oblique per rastrellare soldi per il partito e le campagne elettorali, mente ingegnosa del "sistema Sesto", il protocollo tangentizio per gli appalti, dalle aree Falck ai trasporti pubblici. Nel verdetto virtuale anticipato dalla pubblica piazza e dal suo stesso partito c’era scritto: colpevole. Il verdetto vero è stato invece un altro: assoluzione. Una sentenza si rispetta, anche quando restano interrogativi aperti su certe pratiche di presunto malaffare. La prescrizione e alcuni patteggiamenti non cancellano le ombre sulle aree Falck e Marelli, sulle quali resta ancora parecchio da capire. Ci sono fatti storici da spiegare, anche politicamente, e rimane il sospetto sull’utilizzo delle fondazioni come bancomat elettorali. C’era un tempo in cui Penati era al centro di un sistema di potere nel Pci-Pds-Ds e infine Pd: contava molto. Con l’inchiesta ha lasciato tutte le cariche, il partito l’ha sospeso e poi l’ha quasi cancellato. La sentenza chiude, a suo favore, un lungo e difficile capitolo. Impugnabilità del provvedimento impositivo di cauzione. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 11 dicembre 2015 Misure di prevenzione - Provvedimento impositivo di una cauzione - Rigetto della richiesta di rateizzazione - Inammissibilità del ricorso per cassazione. È inammissibile, in applicazione del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione, il ricorso per cassazione avverso il rigetto dell’istanza di revoca della cauzione, trattandosi di provvedimento non impugnabile autonomamente, ma solo insieme all’appello avverso l’applicazione della misura di prevenzione personale. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 2 ottobre 2015 n. 39855. Misure di prevenzione - Provvedimento impositivo di cauzione - Impugnabilità - Esclusione. Il provvedimento con il quale il giudice della prevenzione impone una cauzione non è impugnabile. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 30 gennaio 2013 n. 4834. Misure di prevenzione - Imposizione di una cauzione - Richiesta di rateizzazione - Rigetto - Ricorribilità per cassazione - Esclusione. Non è ricorribile per cassazione il provvedimento con cui il giudice della prevenzione rigetta la richiesta di rateizzazione della cauzione di cui all’articolo 3 bis L. n. 575 del 1965 poiché manca un’espressa previsione di legge. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 17 dicembre 2008 n. 46751. Misure di prevenzione - Provvedimento impositivo di cauzione - Impugnabilità - Esclusione - Ragioni. Il provvedimento con cui il giudice della prevenzione dispone una cauzione non è impugnabile, dal momento che la legge non prevede rispetto ad esso alcun mezzo di impugnazione. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 12 luglio 2007 n. 27603. Misure di prevenzione - Provvedimento con cui il giudice di appello conferma la cauzione disposta dal Tribunale - Impugnabilità con ricorso per cassazione - Esclusione. È inammissibile il ricorso per cassazione avverso il provvedimento con cui il giudice della prevenzione disponga una cauzione, considerato che - in virtù del principio di tassatività di cui all’articolo 568, comma primo, cod. proc. pen. - si tratta di provvedimento inoppugnabile, non essendo prevista dalla legge alcuna forma di gravame, come si desume anche dall’articolo 3 ter, comma secondo, della legge n. 575 del 1965, che, nell’indicare le pronunce adottabili dal Tribunale, a norma dei precedenti articoli 2 ter e 3 bis, soggette ad impugnazione, omette di menzionare quella in questione; né rilevano, a tal fine, gli articoli 111 Cost. e 568, comma secondo, cod. proc. pen., non trattandosi di provvedimenti attinenti alla libertà personale. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 23 ottobre 2006 n. 35363. Nuove contestazioni in udienza. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 11 dicembre 2015 Processo penale - Contestazione suppletiva in udienza - Fatto diverso - Diritto della costituita parte civile ad estendere la domanda. Nel caso di fatto diverso, a seguito di contestazione suppletiva effettuata dal P.M. in udienza, la parte civile già costituita non deve rinnovare la costituzione, ma può limitarsi a modificare nelle conclusioni la domanda già proposta sia con riferimento alla "causa petendi", che al "petitum". • Corte cassazione, sezione II, sentenza 9 marzo 2015 n. 9933. Processo penale - Istruzione dibattimentale - Nuove contestazioni - Fatto diverso - Modifica concernente la data del commesso reato - Rilevanza - Condizioni. La modifica in udienza del capo di imputazione, consistente nella diversa indicazione della data del commesso reato, non costituisce modifica dell’imputazione, rilevante ex articolo 516 cod. proc. pen., allorché non comporti alcuna significativa modifica della contestazione, la quale resti immutata nei suoi tratti essenziali, così da non incidere sulla possibilità di individuazione del fatto da parte dell’imputato e sul conseguente esercizio del diritto di difesa. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 28 gennaio 2015 n. 4175. Processo penale - Istruzione dibattimentale - Nuove contestazioni - Contestazione di una circostanza aggravante - Termine fino alla chiusura del dibattimento. Il termine entro il quale può essere effettuata la contestazione di una circostanza aggravante coincide con la chiusura del dibattimento. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 8 maggio 2014 n. 19008. Processo penale - Giudizio - Nuove contestazioni - Limiti temporali - Inesistenza - Ragioni - Fondamento. In tema di nuove contestazioni, va riconosciuto al P.M. il potere di procedere nel dibattimento alla modifica dell’imputazione o alla formulazione di nuove contestazioni senza specifici limiti temporali o di fonte, in quanto l’imputato ha facoltà di chiedere al giudice un termine per contrastare l’accusa, esercitando ogni prerogativa difensiva come la richiesta di nuove prove o il diritto ad essere rimesso in termini per chiedere riti alternativi o l’oblazione. • Corte di Cassazione, sezione VI, sentenza 6 maggio 2014 n. 18749. Giudizio - Istruzione dibattimentale - Nuove contestazioni - Modifica dell’imputazione prima della formale apertura del dibattimento - Legittimità. È legittima la modifica dell’imputazione da parte del P.M. prima della formale apertura del dibattimento, in quanto essa non deve necessariamente fondarsi sugli esiti dell’istruttoria dibattimentale. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 10 dicembre 2014 n. 51248. Processo penale - Istruzione dibattimentale - Nuove contestazioni - Contestazione in udienza di altro reato - Parte civile già costituita - Rinnovazione della costituzione per il nuovo reato (non necessaria) - Estensione nelle conclusioni della domanda già proposta. Nel caso in cui sia contestato in udienza un nuovo reato, la parte civile già costituita non deve rinnovare la costituzione in relazione a tale nuova contestazione, ben potendo limitarsi ad estendere nelle conclusioni la domanda già proposta sia con riferimento alla "causa petendi" che al "petitum". • Corte cassazione, sezione II, sentenza 10 novembre 2005 n. 40921. Processo penale - Istruzione dibattimentale - Nuove contestazioni - Parte civile già costituita - Estensione della costituzione alla nuova contestazione nell’ udienza - Omissione - Sentenza di condanna al risarcimento anche in relazione alla nuova contestazione - Nullità assoluta - Esclusione. Qualora il giudice pronunci sentenza di condanna al risarcimento dei danni in favore della parte civile, in relazione ad un reato contestato dal P.M. in via suppletiva, senza che la stessa parte civile abbia esteso alla nuova "causa petendi" il rapporto già costituito, la conseguente nullità, che non è di natura assoluta, non può essere dedotta dall’imputato per la prima volta in cassazione, dovendo essere dedotta o rilevata tempestivamente nel giudizio di merito. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 8 febbraio 2005 n. 4669. Brutti tempi per le Corti Costituzionali di Luigi Labruna Il Mattino, 11 dicembre 2015 Brutti tempi per le Corti. Il sistema di giustizia costituzionale contemplato da (quasi) tutti i Paesi è in vario modo in crisi. Gravissimo è quanto sta accadendo in Italia dove da mesi e mesi (anzi da anni) dura la vergognosa manfrina inscenata dai nostri parlamentari, incapaci di adempiere responsabilmente persino uno dei loro doveri più elementari. Quello di eleggere, alla scadenza dalla carica, i sostituti dei giudici costituzionali di loro spettanza e garantire così l’equilibrio delle componenti e la piena funzionalità della Corte senza coinvolgere nel discredito che purtroppo ormai colpisce la politica e i partiti anche una delle più alte istituzioni di garanzia del Paese e mettere a repentaglio pure così quell’ equilibrio tra i poteri voluto dai padri costituenti per salvaguardare la vita dello Stato di diritto, fondamento del vivere civile. Qualcosa di analogo, egualmente grottesca e inquietante, sta accadendo in Polonia, Paese che, nella coscienza di molti, risveglia ricordi di una stagione di illusioni ormai perdute e suscita (credo) in tutti forte solidarietà per la sua storia eroica e per il percorso accidentato compiuto per la riconquista di una compiuta democrazia. Anche lì il Tribunale costituzionale, le cui funzioni sostanzialmente sono non dissimili da quelle della nostra Corte, è composto da quindici giudici. Eletti però tutti, a differenza dei nostri, "individualmente" dal Sejm, la Dieta, per 9 anni. Anch’essi "nell’esercizio dell’ufficio sono sottoposti solo alla Costituzione". Quest’anno ne erano in scadenza cinque: due il 9 dicembre e tre il 6 novembre. Ma il 2015 è stato in Polonia anche l’anno delle elezioni politiche, svoltesi a ottobre. In vista di queste e temendo il ribaltone politico che poi effettivamente c’ è stato, il 25 giugno, il Parlamento in scadenza - tra le proteste di chi parlava già allora di flagrante violazione dell’ordine costituzionale - ha approvato una legge che, mutando la normativa vigente, stabiliva che le candidature per la nomina dei successori dei giudici "in scadenza entro la fine dell’anno" dovessero essere anticipate e presentate tutte "entro un mese dall’approvazione della legge" stessa. In tal modo, con un colpo di mano, i deputati uscenti (cioè la maggioranza poi sconfitta) hanno eletto qualche giorno prima della fine della legislatura tutti i cinque nuovi giudici. Anche i sostituti dei due in scadenza a dicembre (cosa che, come si è detto, prima delle apposite modificazioni alla legge non avrebbero potuto fare). Il presidente della Repubblica Duda invece di impugnare, come avrebbe potuto, dinanzi allo stesso Tribunale costituzionale la legge in base alla quale i cinque erano stati eletti, al fine di impedire loro di assumere la carica si è semplicemente rifiutato di riceverli e farli giurare. A giudizio di molti, egli avrebbe così a sua volta violato la Costituzione. Per di più senza raggiungere sul piano giuridico lo scopo, dato che questa richiede solo che per diventare giudici costituzionali occorre essere eletti dal Sejm e nulla più. È, invece, una legge a stabilire che il Presidente della Repubblica riceve il giuramento, senza tuttavia condizionare a ciò la loro entrata in carica. Tra i119 e il 20 novembre, con un blitz inusitato e violando prassi parlamentare e regolamento, il Sejm ha approvato una "novella" modificatrice della legge di giugno e ha stabilito che i giudici costituzionali che non prestano giuramento di rito entro 30 giorni dalla elezione decadono dalla carica. In tal modo è stato attribuito de facto al Capo dello Stato un diritto di veto potendo far perdere la carica ai giudici sgraditi semplicemente rifiutandosi di riceverli per un mese. Non solo. Sempre il 25 novembre, di notte, il Sejm ha approvato cinque risoluzioni con cui ha dichiarato invalide le elezioni dei cinque giudici effettuate dal precedente Parlamento. Il Comitato per le scienze giuridiche dell’Accademia polacca delle scienze ha immediatamente denunciato la violazione ("che potrebbe comportare un cambiamento del regime politico della Repubblica") del principio "della separazione costituzionale dei poteri", "baluardo insostituibile che garantisce una tutela dal governo autoritario". E ha espresso ferma condanna per il ricorso "a qualsiasi forma di utilizzazione e di abuso dei meccanismi democratici al fine di limitare la democrazia e lo Stato di diritto". Il Sejm non se ne è dato per inteso e il 2 dicembre ha eletto cinque nuovi giudici, quattro dei quali subito dopo, in piena notte, sono stati ricevuti dal presidente e hanno prestato giuramento. Il giorno dopo il Tribunale costituzionale, riunitosi d’urgenza, ha ritenuto incostituzionale la legge di giugno in base alla quale erano stati eletti i precedenti cinque componenti. L’elezione dei due sostituti di quelli in scadenza a dicembre sarebbe dunque invalida, mentre quella degli altri tre (peraltro anch’essi sostituiti dal nuovo parlamento per non aver potuto giurare) sarebbe valida. Il Tribunale ha inoltre affermato l’ obbligo costituzionale del Presidente di ricevere il giuramento dei giudici "immediatamente" dopo l’elezione. Giovedì sera Duda ha parlato al popolo spiegando solo che c’era stata una crisi e che lui era intervenuto per risolverla. La Corte si riunirà ancora il 12 dicembre prossimo. La saga continua. Il caos è completo. E i pericoli di una deriva autoritaria sono reali. Come qui da noi. Dove c’è solo da sperare che trovino finalmente ascolto le discrete sollecitazioni, sinora inefficaci, del presidente Mattarella alle forze politiche e ai parlamentari perché si decidano finalmente a svolgere responsabilmente il mandato di rappresentanti della Nazione e non di difensori di meschini interessi politici o personali. Visti i precedenti, c’è però poco da esser ottimisti. E se il presidente ricordasse a tutti che potrebbe far ricorso all’art. 88 della Costituzione e, sentiti i loro presidenti, sciogliere le Camere? 41bis: tortura o strumento punitivo utile? di Manuela Serra lacnews24.it, 11 dicembre 2015 Leoluca Bagarella, Piddu Madonia, Pasquale Zagaria, Domenico Gallico, Ciccio Pesce e Giuseppe Pelle sono nel nuovo carcere di Bancali, in Sardegna. Per loro una struttura ad hoc creata per far rispettare al massimo la pena del 41bis. Non è stato certo facile accedere al round finale: solo 90 dei 750 ce l’hanno fatta. Sono loro a detenere il titolo di "Mafiosi più pericolosi d’Italia", selezionati dai magistrati di tutte le direzioni distrettuali antimafia coordinati dal procuratore nazionale Franco Roberti e trasferiti nel nuovissimo carcere ‘Bacchiddù a pochi km da Sassari. Tra loro nomi prestigiosi, capi e sicari di Cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta: Leoluca Bagarella, (cognato di Totò Riina), Giuseppe Piddu Madonia, Filippo Guttadauro (fratello del boss di Bagheria), il camorrista Pasquale Zagaria, Francesco Schiavone, cugino omonimo di Sandokan, Salvatore Messina Denaro, Domenico Gallico. Fra i calabresi, tra gli altri, presenti Francesco "Ciccio" Pesce e Giuseppe Pelle. Questi per citarne qualcuno dei più ‘celebrì. Ognuno ha la sua indipendenza e dunque la sua camera: certo ha solo 12 metri per cercare di districarcisi all’interno, non ha la possibilità di avere contatti con altri reclusi o di comunicare con l’esterno, assisterà e interverrà ai processi solo in videoconferenza, ma questi sono solo particolari. Dimenticavamo, i detenuti hanno il divieto di cuocere cibi, per non considerare i mille ostacoli alla possibilità di studiare, leggere, informarsi, sostanziale assenza di attività ricreative, una sola ora al mese di colloqui con i familiari e dietro a un vetro divisore. E il percorso rieducativo? - Le persone trasferite erano detenute da molti anni in carcere e provenivano (teoricamente) da percorsi rieducativi finalizzati al futuro reinserimento nella vita sociale. Perché, ricordiamolo, il carcere per legge è finalizzato alla rieducazione, altrimenti è incostituzionale. E invece queste persone sono state sostanzialmente e coattivamente regredite attraverso una misura punitiva che comporta ulteriori e più stringenti afflizioni e limitazioni. Un cambiamento radicale, e non positivo per i detenuti che non l’hanno presa affatto bene: Bagarella quando si è accorto della natura del trasferimento ha cominciato a protestare, e non di certo in modo pacifico. E anche gli altri 89 hanno reagito con irritazione, trattando male gli agenti e il direttore del carcere, che è una donna, Patrizia Incollu sostenendo di essere vittime di un’ingiustizia. Dunque, alla luce dei fatti, il percorso rieducativo dove è finito? Francamente, ci viene difficile credere che tutte le restrizioni e tutti i divieti rispondano solo ad esigenze di prevenzione e di sicurezza. "L’isola dei reclusi" - Ad aprirci le porte del carcere "Bacchiddu" è un’inchiesta di Lirio Abbate pubblicata su "L’Espresso" qualche settimana fa. Si tratta di struttura in cemento armato costruita nelle campagne della frazione di Bancali a otto chilometri da Sassari, intitolata a un agente della polizia penitenziaria, Giovanni Bacchiddu, ucciso nel 1945 mentre tentava di fermare un’evasione. La struttura inaugurata due anni fa pensata e realizzata per applicare la legge sui boss detenuti sottoposti al 41 bis, il duro regime riservato ai più pericolosi criminali mafiosi viene definita la "condanna delle condanne", l’incubo di ‘ndranghetisti e camorristi. Qualche mese fa il capo dei Casalesi, Michele Zagaria, detenuto nel penitenziario di Opera, ammesso davanti ai giudici del tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha raccontato in un video collegamento di vivere in "una situazione disumana" al 41bis. Ragionamento che non si discosta molta dal parere del senatore Luigi Manconi da sempre impegnato sul fronte della tutela dei detenuti che all’Espresso così parla: "La verità è che il 41 bis non dovrebbe costituire un regime crudelmente afflittivo, ma perseguire uno scopo strumentale: impedire la relazione tra il detenuto e l’organizzazione criminale. Si pensa, invece, che tanto più alto è il profilo delinquenziale del detenuto, maggiore deve essere la durezza della pena. Tutte le misure finalizzate a impedire quel collegamento con l’esterno sono legittime, ma non quelle che rendono più intollerabile la pena. Per quale motivo, ad esempio, viene ridotto il numero di quaderni acquistabili o viene impedito di dipingere nella propria cella? E perché mai ?i dieci minuti di incontro col figlio minore vengono sottratti all’ora mensile di colloquio con i familiari? Queste sono misure inutilmente persecutorie". Non la pensa allo stesso modo il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri: "È senza dubbio una svolta per contrastare la criminalità: isolare e rendere inoffensivi ?i leader dei clan è stato un punto di svolta. Come le grandi organizzazioni finanziarie anche la cosca può funzionare con una cabina di regia distante dal luogo dove avvengono le "produzioni" criminali. Dunque un capo anche dalla cella può gestire grandi interessi: stabilire alleanze, dichiarare guerre, selezionare obiettivi da colpire. È questo flusso ?di comando che va interrotto. Poi vi è una ragione simbolica: rendere il boss incapace ?di governare, disorienta gli accoliti rimasti in libertà". "Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona": così recita la Costituzione. Invece a Bancali tutto il mondo dei detenuti finisce tra poche decine di metri, e chissà se mai ne inizierà uno nuovo. Emilia Romagna: 123 le donne in carcere, 44 straniere. Una ricerca racconta la loro vita di Andrea Mari Dire, 11 dicembre 2015 La vita delle donne detenute "non è un argomento che suscita particolare attenzione neppure tra gli addetti ai lavori". Proprio per questo motivo oggi, in occasione della Giornata mondiale dei diritti dell’uomo, la Garante regionale delle persone private della libertà dell’Emilia-Romagna, Desi Bruno, e la presidente della commissione Parità e diritti delle persone dell’Assemblea legislativa, Roberta Mori, sono state alla casa circondariale di Forlì per presentare i risultati della ricerca "Detenzione al femminile - Ricerca sulla condizione detentiva della donne nelle carceri di Piacenza, Modena, Bologna e Forlì", promossa dall’ufficio della Garante e realizzata dall’associazione di volontariato "Con…tatto". "Le recluse sono sempre state poche, meno del 5% della intera popolazione ristretta, e la loro esiguità numerica non le ha costrette a quel trattamento inumano e degradante costituito dalla mancanza dello spazio minimo vitale" commenta Bruno, aggiungendo che però "sono ingombranti, anche se la reclusione delle donne non ha autonomia organizzativa, e vive spesso di quanto accade nel carcere maschile, dal quale riceve briciole, in termini di risorse". Dal canto suo, Mori sottolinea che proprio per l’esiguità del loro numero "le esigenze e i bisogni che possono esprimere le donne detenute, ma anche le operatrici delle carceri, sono importanti per capire e approfondire la loro relazione con il carcere e la vita al suo interno, perché poi tutto si riflette anche sulla vita che sarà all’infuori del carcere". Per questo la consigliera regionale auspica che "una ricerca approfondita su questo tema ci dia spunti utili alla prevenzione e al contrasto dei reati". Nel dettaglio, in Emilia-Romagna le donne in carcere, al 2 dicembre, erano 123, di cui 44 straniere, in prevalenza provenienti dall’Est Europa. Sono cinque gli istituti che ospitano sezioni dedicate all’espiazione di pena per le donne: Piacenza, Modena Sant’Anna, Bologna, Forlì e Reggio Emilia. Nel 2014 si è registrato un parto in carcere, mentre erano 10 le detenute madri: ben tre di queste hanno scelto di non vedere i figli, o "perché il contatto è breve e il distacco è fonte di sofferenza" o per "non farli entrare in contatto con l’istituzione penitenziaria". Oggetto della ricerca, che Bruno e Mori hanno presentato insieme alla direttrice del carcere di Forlì Palma Mercurio, e a esponenti nel mondo dell’associazionismo, tra cui l’autrice Lisa Di Paolo, è la condizione di detenzione delle donne negli istituti dell’Emilia-Romagna, per "conoscere le modalità di organizzazione delle sezioni femminili, le attività, il rapporto con gli operatori, le opportunità di incontro con i familiari e figli, e le difficoltà di convivenza". Si vogliono rilevare "sia le variabili di tipo oggettivo (numero di detenute, nazionalità, tipologia di reato) che soggettivo (modalità di adattamento, sostegno e attività dedicate)", perché "nella progettualità per un carcere diverso si deve partire dall’uso del tempo della pena in funzione di costruzione di opportunità", sostiene Bruno. E si potrebbe partire proprio "dalle donne detenute, riconoscendo loro una diversa capacità di relazione e di cura". La soggettività delle recluse, conclude la Garante, "è un’opportunità da cogliere, e non da accantonare, e questa ricerca vuole essere un piccolo, ma significativo, contributo". Veneto: l’ingiunzione alla Regione "accolga i 15 detenuti veneti malati di mente" di Filippo Tosatto Il Mattino di Padova, 11 dicembre 2015 Ultimatum della magistratura alla Regione: i 15 veneti psicolabili autori di gravi crimini e tuttora detenuti all’Opg di Reggio Emilia (ospedale psichiatrico giudiziario abrogato per legge, al pari di tutti gli altri, dal 31 marzo scorso) devono essere accolti in una "residenza di esecuzione delle misure di sicurezza" (Rems) nel territorio di provenienza e il trasferimento deve avvenire immediatamente. L’iniziativa è del tribunale di sorveglianza di Bologna che, accogliendo il ricorso di alcuni reclusi, ha stabilito che "che l’attuale internamento sta avvenendo in violazione di legge, con pregiudizio grave e attuale dei diritti degli internati che hanno il pieno diritto di esecuzione delle misure di sicurezza operata esclusivamente mediante il ricovero delle Rems". La circostanza, alla luce del ritardo dell’amministrazione di Palazzo Balbi - che il governatore Luca Zaia e l’assessore Luca Coletto attribuiscono ai mancati finanziamenti governativi, rivendicato il pieno rispetto dei tempi progettuali - costringe ad agire in fretta: oggi il capo dell’avvocatura regionale, Ezio Zanon, sarà a Bologna per assicurare il giudice che il problema sarà presto risolto. "Per 5 di loro sono già avviate le procedure per il trasferimento in Veneto", informa una nota della Regione "gli altri 10 potranno essere ospitati nella Rems provvisoria individuata e in corso di realizzazione all’ex ospedale Stellini di Nogara, nel Veronese, che sarà disponibile entro la prima metà di gennaio. I lavori avrebbero dovuto concludersi ad aprile 2016 ma, in considerazione dell’ingiunzione della magistratura, la Giunta ha autorizzato il direttore generale dell’Ulss 21, competente per territorio, a procedere con lavori di somma urgenza".; "Qualora la magistratura reggiana non ritenesse sufficiente questa tempistica", è l’impegno "i dieci malati saranno trasferiti in idonee strutture psichiatriche nella rete veneta". La questione, tuttavia, presenta ulteriori problemi, a cominciare dalla sicurezza. Finora gli internati nei padiglioni di Reggio Emilia (per i quali il Veneto sborsava 250 euro cadauno al giorno) sono stati vigilati da agenti della polizia penitenziaria, una misura necessaria trattandosi di soggetti disturbati condannati in via definitiva per reati violenti (a volte estremamente gravi), giudicati socialmente pericolosi per sé stessi e per gli altri. Ora però il giudice di sorveglianza ha stabilito l’allontanamento delle guardie, in esecuzione della nuova normativa che prevede una gestione delle misure detentive "a carattere esclusivamente sanitario"; ciò a fronte di un generico impegno alla "sorveglianza esterna" da parte delle prefetture promesso dal ministero della Giustizia, che ha difeso il valore civile del provvedimento. Un viatico non del tutto rassicurante che ha già spinto vari osservatori - magistrati, psichiatri, giuristi - a suggerire una correzione in corsa della riforma. Toscana: il Garante "attuare misure di ridimensionamento della detenzione femminile" gonews.it, 11 dicembre 2015 Tre giorni di lavoro sulla riforma carceraria e le conseguenze della condanna della Corte europea dei diritti umani. È cominciato questo pomeriggio a Firenze, nella sede del Consiglio regionale, e proseguirà nella giornate di domani, venerdì 11 e sabato 12, il convegno "La riforma penitenziaria del 1975. Un bilancio disincantato dopo la condanna della Corte europea dei Diritti umani". "Si parte dal contributo di Firenze alla riforma e con la presentazione di una antologia di scritti di uno dei principali attori di questa riforma: Alessandro Margara - dice Franco Corleone, garante regionale dei detenuti -. Un volume fondamentale, se si vuole capire l’origine della riforma con la capacità di guardare al futuro. Pensieri attualissimi per chi intenda ragionare di carcere, di pena". La raccolta di scritti di Margara, "La giustizia e il senso di umanità", antologia su carcere, Opg, droghe e magistratura di sorveglianza, ha dato modo di affrontare questioni attuali. "Un confronto tra i grandi principi della riforma, che in parte non è stata attuata, in parte non è più adeguata a dare risposte al mondo carcerario come si presenta oggi - spiega Corleone -, e le emergenze della quotidianità. Anche in Toscana, dove, è notizia di questi giorni, alcune detenute sono state morsicate dai topi, e ci sono i topi nel carcere di Prato e in quello di Porto Azzurro. Nel carcere di San Gimignano scarseggia l’acqua potabile. Cosa ha a che fare tutto questo con la pena?". Quotidianità e orizzonti alti: "Grandi contraddizioni che vanno affrontate, se vogliamo che la parola riforma abbia un senso. Si dovrebbero attuare misure di ridimensionamento se non di abolizione della detenzione femminile in carcere. Per farlo, bisogna eliminare leggi criminogene come quella sulle droghe. E poi l’abolizione dell’ergastolo". Il convengo, voluto dal coordinamento magistrati di sorveglianza, è stato realizzato a cura del Garante diritti detenuti Regione Toscana, della Fondazione Giovanni Michelucci, del dipartimento di scienze giuridiche dell’Università degli Studi di Firenze e delle associazioni L’Altro diritto e La Società della Ragione. "Domani (dalle 9 nell’Auditorium di palazzo Panciatichi, per tutta la giornata, ndr) parleremo di ospedali psichiatrici giudiziari", ancora drammaticamente aperti e in attesa che le Regioni diano forma, nella maggior parte dei casi, alle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Tra gli interventi, Giovanni Maria Flick, già presidente della Corte Costituzionale. Le conclusioni saranno affidate al sottosegretario di Stato al ministero della salute, Vito De Filippo. Sicilia: "non danneggiò un dirigente", inchiesta archiviata per l’ex Garante dei detenuti di Riccardo Lo Verso livesicilia.it, 11 dicembre 2015 L’indagine partiva da un esposto presentato da un dirigente dell’ufficio regionale che faceva capo al garante dei detenuti. Archiviata l’inchiesta a carico dell’ex garante dei detenuti Salvo Fleres. L’indagine partiva da un esposto presentato da Lino Buscemi, ex dirigente dell’ufficio regionale che faceva capo a Fleres. Secondo l’ipotesi archiviata, l’indagato avrebbe commesso un abuso d’ufficio sia istituendo dei nuovi uffici "al solo fine di danneggiare" il lavoro di Buscemi, sia decidendo di risolvere in anticipo il contratto dello stesso dirigente. "Risulta che Fleres prima di adottare i provvedimenti abbia richiesto parere sul modo di procedere e sulla sua competenza - si legge nel decreto di archiviazione - sia al Dipartimento regionale della Funzione pubblica e del Personale, sia all’Avvocatura dello Stato". Ed ancora: in ogni caso sarebbe difficile sostenere che Fleres abbia "intenzionalmente agito al solo fine di arrecare un danno ingiusto a Buscemi". Da qui l’archiviazione richiesta dal legale di Fleres, l’avvocato Emilio Chiarenza, che non ha alcuna influenza, però, sulla causa promossa da Buscemi davanti al giudice del lavoro. Anche Buscemi era finito sotto inchiesta per una storia di mancata vigilanza sui dipendenti dell’ufficio indagati per assenteismo. L’inchiesta, che nasceva da un esposto di Fleres, è stata archiviata solo per il dirigente. Così come archiviate sono state anche altre otto indagini nate sempre dalle denunce di Fleres contro Buscemi. Cagliari: Caligaris (Sdr); troppa burocrazia blocca istanze in Tribunale di sorveglianza Ristretti Orizzonti, 11 dicembre 2015 "L’aggravio delle procedure burocratiche sta impedendo ai Magistrati del Tribunale di Sorveglianza di Cagliari di dare risposte rapide alle istanze dei detenuti, peraltro in costante crescita. Solo così si può spiegare l’attesa addirittura di alcuni mesi per conoscere l’esito di una Camera di consiglio o di un permesso premio. In questo modo il sovraffollamento detentivo rischia di crescere a dismisura insieme al disorientamento di chi attende con ansia una risposta". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", avendo appreso che, "soprattutto negli ultimi mesi, l’attesa per ottenere una risposta ha raggiunto in alcuni casi i 90 giorni". "Con tre Magistrati, il Tribunale di Sorveglianza di Cagliari - sottolinea Caligaris - deve occuparsi dei detenuti di Cagliari-Uta, Oristano-Massama e Lanusei nonché di Isili e Is Arenas. Ciò significa circa 700/800 cittadini privati della libertà con problematiche personali e familiari significative che richiedono una particolare cura. Spetta infatti al Magistrato di Sorveglianza non solo concedere permessi o ammettere al lavoro esterno o assumere una decisione sulla liberazione anticipata, ma anche approvare il programma di trattamento rieducativo individualizzato che l’amministrazione penitenziaria deve predisporre per ciascun detenuto". "La mole di lavoro - evidenzia la presidente di Sdr - contrasta con il numero insufficiente di Magistrati che è rimasto invariato praticamente da 15 anni, mentre sono raddoppiati progressivamente i compiti del Tribunale. Basti pensare che le norme per ridurre la presenza di detenuti nelle carceri a vantaggio degli arresti domiciliari o dell’uso del braccialetto elettronico richiedono una tale serie di indagini e verifiche da rendere quasi nullo il beneficio. Inoltre nel frattempo sono state quasi del tutto cancellate le visite negli Istituti Penitenziari nonché i colloqui con i detenuti, nonostante la legge ne stabilisca l’obbligatorietà. "Resta però il problema più grave quello di risposte meditate ma in tempi definiti. Non si possono accettare scadenze che superino in casi particolari quindici giorni perché altrimenti si corre il rischio di mandare in tilt l’intero sistema soprattutto in presenza di detenuti tossicodipendenti e con problematiche sanitarie oppure quando il cittadino privato della libertà ha dimostrato di partecipare attivamente al programma di riabilitazione. Insomma occorre rafforzare il Tribunale di Sorveglianza - conclude Caligaris - ma anche garantire maggiore efficienza". Palermo: arrivano le pupe del carcere Pagliarelli, così le detenute diventano artigiane Corriere del Mezzogiorno, 11 dicembre 2015 Il progetto verrà presentato sabato 12 dicembre nel Salone oratorio del Ss. Rosario in Santa Cita. Bambole di pezza realizzate dalle detenute del carcere Pagliarelli, prodotte artigianalmente e tutte diverse tra loro. Ogni "pupa" avrà un suo cartellino con il logo, la data di nascita, il nome che ogni donna le darà, e nonché un piccolo ma significativo messaggio che rappresenta le donne detenute, la loro storia, la loro sofferenza ma anche la voglia di riscattarsi e di cambiare. Nel laboratorio già lavorano, da novembre, 15 detenute e altrettante ne entreranno a far parte da gennaio, selezionate tenendo conto del gradimento, della motivazione all’apprendimento, di abilità specifiche. Il progetto "Le pupe del Pagliarelli", di Antonella Macaluso, Giuseppina Genzone e della coop Pulcherrima Res, verrà presentato sabato 12 dicembre alle ore 11 presso il salone oratorio del Ss. Rosario in Santa Cita nell’ambito dell’evento "Santa Lucia - la notte della luce". La fabbricazione della bambola corrisponde simbolicamente ad un percorso, che ogni donna detenuta compie acquisendo consapevolezza di sé, delle proprie risorse personali e del ruolo che potrà esercitare nella società, come attrice del cambiamento e dell’assunzione di responsabilità in un mondo che dovrà essere migliore. Il progetto prevede la possibilità di esporre e vendere i manufatti inserendosi all’ interno di mostre organizzate nel territorio, cui potrebbero partecipare alcune detenute, in rappresentanza del gruppo di lavoro. Fossano (Cn): carcere di Santa Caterina "aperto", un successo oltre le aspettative targatocn.it, 11 dicembre 2015 Martedì 8 dicembre ha visto la nascita di una "piazza dell’integrazione". Tre mostre fotografiche, un mercatino di prodotti rigorosamente made in jail, un bar gestito da agenti di polizia penitenziaria, un documentario, due concerti, la presentazione del movimento fotografico fossanese, quattordici detenuti che per dieci ore hanno lavorato senza sbarre, ma soprattutto centinaia di fossanesi che hanno trascorso la giornata nel cortile del carcere eleggendolo a nuova piazza cittadina, ecco gli ingredienti di una scommessa vinta. "Sono molto, molto contento - ha detto il direttore del carcere Domenico Arena - la risposta della città è stata oltremodo positiva e non solo nei momenti di intrattenimento. Alla proiezione del documentario "Recidiva zero" c’era la sala piena e molte erano le persone in piedi. Abbiamo fatto un lavoro lungo e faticoso con un grande sostegno da parte dell’amministrazione comunale. I detenuti erano entusiasti per essersi trovati a lavorare per i fossanesi e anche il personale del carcere, che si è sobbarcato orari estesi ma ha avuto l’occasione di accogliere i concittadini all’interno di una struttura che normalmente è chiusa. Domenica erano presenti 14 detenuti che hanno potuto interagire liberamente con i cittadini. Non è stata solo un’esperienza lavorativa, ma l’occasione di un incontro diretto, senza filtri - ha detto il sindaco Davide Sordella - Un grande segnale di apertura e di fiducia da parte dell’istituzione che sta lavorando verso una sperimentazione unica nel suo genere" Ma quali sono stati i dettagli di questa giornata? La mostra Face to Face: nata da un progetto del fotografo Davide Dutto che ha collocato nelle vecchie celle dei ritratti di detenuti con l’obiettivo di portare le persone a riflettere sull’impossibilità di "leggere" la vita di una persona da uno sguardo. Mostra nella mostra quella delle foto segnaletiche scattate ai visitatori che si sono prestati. Centinaia di persone hanno accettato di essere fotografate e simbolicamente schedate da Davide Dutto, Attilio Mancino e Mauro Bellavia. La mostra 12045 Fossano: in questo caso a mettersi in gioco sono gli studenti del corso di fotografia organizzato dal movimento fotografico fossanese tenuto da Davide Dutto, Virginia Chiodi Latini e Claudio Bonanno. Fossano vista attraverso gli obiettivi di persone diverse che ne hanno colto sfumature diverse, tutte ugualmente intense. La mostra del circolo fotografico fossanese e la presentazione delle attività per l’anno 2016. Scatti selezionati tra quelli effettuati dai membri del movimento nel corso delle varie iniziative dell’anno trascorso. Sono stati inoltre presentati i montaggi video del contest estate, di un percorso fotografico in Turchia di Chiara Armando e di un reportage di Mauro Bellavia: input che dicono a chiare lettere che il movimento è presente ed è una realtà che regalerà sorprese. Il mercatino: nonostante il freddo pungente e la nebbia fittissima centinaia di persone si sono riversate nel cortile del Santa Caterina ad acquistare i prodotti realizzati da una serie di cooperative che operano all’interno di strutture detentive: vini, borse, miele, tutto rigorosamente "made in jail". Il documentario: gremita la sala conferenze con decine di persone in piedi per la proiezione di "Recidiva Zero" il documentario di Carlo Turco e Bruno Vallepiana. Un momento di riflessione che il pubblico ha dimostrato di apprezzare quanto l’intrattenimento. L’Arrigo Boito: alle 10 l’apertura dei cancelli è stata annunciata dalla banda cittadina sancendo la solennità del momento. Il duo di chitarre della Fondazione Fossano Musica: come l’Arrigo Boito anche la Fondazione ha accettato con entusiasmo di il Natale di Barabba e porterà buona musica per allietare il pubblico durante il passeggio anche nel corso dei prossimi appuntamenti. Il bar: recentemente rinnovato lo spaccio del carcere è stato aperto al pubblico: dietro il bancone il caldo sorriso di agenti e detenuti in un ruolo completamente diverso da quello al quale si è abituati. Buona la prima, quindi per il cortile di Barabba che ha vinto la sfida trasformandosi in piazza. Si replica domenica 13 e domenica 20 con nuovi concerti, videoproiezioni e poesie. Roma: Final Conference del progetto Rehab sull’educazione sanitaria nelle carceri Askanews, 11 dicembre 2015 Promuovere un ambiente carcerario più sicuro e riabilitativo, attraverso una migliore comunicazione tra detenuti e personale penitenziario e di efficaci programmi formativi mirati all’educazione alla salute. È il Progetto multilaterale Rehab - REmoving prison HeAlth Barriers (Rimuovere le Barriere Sanitarie in Carcere) del quale si tiene domani a Roma la Final Conference presso l’Istituto Superiore di Studi Penitenziari a Casal del Marmo. Il progetto, della durata di due anni, volto a migliorare la qualità di vita in ambito detentivo e ridurre i comportamenti recidivi attraverso corsi di formazione multidisciplinari e moduli formativi complementari -finanziato dal programma europeo LLP (Grundtvig) della Commissione Europea. Coordinato dall’Università della Tuscia, ha coinvolto un partenariato internazionale composto da società scientifiche di salute penitenziaria quali la Simspe-Onlus (Italia), la Sesp (Spagna), l’Università di Birmingham Bcu (Regno Unito). Ed il gruppo di studio e ricerca sulla Salute Penitenziaria Gertox (Francia) - ha permesso il raggiungimento di risultati concreti in tre carceri europee rispettivamente Viterbo, Madrid ed Ocaña, dove si è svolta un’attività formativa sperimentale a favore di detenuti e personale penitenziario. Gruppi selezionati di operatori penitenziari e detenuti sono entrati in contatto tra loro all’interno del percorso formativo, che ha previsto l’utilizzo di tecniche quali: il coaching, i sensitivity groups ed il tutoring. Oggi, in Europa oltre 2 milioni di persone sono in stato di detenzione. Aumentano i disturbi fisici e psicologici e l’esclusione sociale, emerge la disparità di salute tra le persone recluse e la popolazione fuori, crescono le malattie epidemiche, e si registrano livelli sempre più alti di abuso di sostanze stupefacenti, così come casi sempre più frequenti di stress lavoro correlato tra il personale carcerario. Di qui l’innovativa proposta di Rehab con la creazione di moduli di apprendimento rivolti in parallelo sia ai detenuti che al personale carcerario, al fine di ridurre i rischi per la salute pubblica dovuti alla custodia correzionale. Simspe, Sesp e Gertox: le tre società di Medicina Penitenziaria rispettivamente italiana, spagnola e francese, riferimenti nazionali in materia di assistenza medica e sanitaria in carcere, sono impegnate nella progettazione metodologica e dell’esecuzione sul campo dei principi stabiliti dall’idea progettuale. Forlì: in Fiera il convegno "Restiamo Umani… io uomo, io detenuto, io libero" forlitoday.it, 11 dicembre 2015 Oggi alle 17.00 presso la Sala Europa della Fiera di Forlì (Via Punta di Ferro, 2 - Forlì), si terrà convegno sui temi della libertà e della pena. Ascoltando la voce di coloro che quotidianamente vivono a stretto contatto con persone in esecuzione penale, percorriamo la strada che racconti l’Uomo, il Detenuto e il Cittadino: la Persona in fasi diverse della vita. L’evento, introdotto dall’Assessore alle Politiche Sociali Raoul Mosconi, vedrà intervenire il Direttore della Casa Circondariale di Forlì dr.ssa Palma Mercurio, un avvocato, un imprenditore ed un operatore di Polizia penitenziaria che ogni giorno si rapportano con persone in esecuzione di pena. Il convegno - organizzato dalle Associazioni Centro di Solidarietà, Con…tatto, Caritas, Comunità Papa Giovanni XXIII e San Vincenzo Cesena - anticipa il concerto del Maestro Riccardo Muti previsto per le ore 21.00 presso il PalaCredito di Romagna in occasione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e in Memoria di Don Dario Ciani, per lungo tempo cappellano della Casa Circondariale di Forlì. Milano: tutti al ristorante InGalera a provare il brivido, il rapinatore ora fa il pasticcere di Claudia Zanella La Repubblica, 11 dicembre 2015 Non c’è posto fino a Natale nel ristorante stellato all’interno del carcere di Bollate. Tutto prenotato. In quasi due mesi, centinaia di persone hanno trascorso il loro anniversario o una cena tra amici "InGalera". Per festeggiare Natale, la richiesta è cresciuta. Alcune aziende hanno addirittura deciso di riservare tutto il locale. L’esperimento di Silvia Polleri, presidente della cooperativa Abc - che lunedì, accompagnata da tre detenuti, è stata premiata con un Ambrogino d’oro - ha riscosso un grande successo anche su Trip Advisor. I clienti non arrivano solo da Milano, fa sapere Polleri, ma per provare il brivido di entrare in carcere a mangiare, serviti da detenuti, arriva gente anche anche da Piemonte, Liguria ed Emilia-Romagna. "Sono soddisfatti e anche curiosi. Si complimentano per i piatti e fanno diverse domande sui detenuti che lavorano in sala e in cucina e su come funziona InGalera". Bisogna prenotare, ma non è necessario presentare un documento e lasciare i cellulari all’entrata. Il ristorante si trova, infatti, all’esterno dell’area di carcerazione. Ad accogliere i clienti sono i ragazzi dell’istituto alberghiero Paolo Frisi, che hanno deciso di svolgere il tirocinio a Bollate. L’unico problema è che, spiega Polleri, "con Expo è cambiata la viabilità. Sono spariti alcuni cartelli che portavano al carcere lasciando posto a quelli dell’Esposizione universale. Cercando "via Cristina Belgioioso 120" su Google, invece, ci si trova in mezzo al Decumano". In Galera è l’ultimo dei progetti attivati nella casa di detenzione, che hanno lo scopo di formare, rieducare e aiutare i detenuti a reinserirsi nella società. "Per come è andata in questi due mesi - dice Massimo Parisi, direttore del carcere - è un esperimento fortemente riuscito, sotto ogni punto di vista: dall’ottima qualità del cibo, al riscontro di pubblico, al servizio di formazione e avviamento al lavoro dei detenuti, che servirà per un loro reinserimento sociale". Questo è il caso di Graziano, che da rapinatore è diventato pasticcere. Lavora per Abc catering e a volte anche nel ristorante In-Galera. In primavera uscirà dal carcere. Vorrebbe rimanere a lavorare a Bollate, ma abita a Brescia. "Ha promesso di smettere "con le rapinette"", racconta Silvia Polleri. Tornerà dalla sua famiglia, con cui ha ricucito i rapporti dopo aver deciso di cambiare vita. Per ora fa il pasticcere per Abc e "le sue lingue di gatto sono diventate famose". Livorno: "Liberi Dentro", una giornata con la squadra di detenuti allenati da Stringara di Guido Barucco gianlucadimarzio.com, 11 dicembre 2015 Si chiama Liberi Dentro, ci vuole poco tempo a capire il perché. Basta guardare col cuore oltre l’insegna all’ingresso, "Casa Circondariale di Livorno", per realizzare d’un tratto che la vita può continuare anche oltre quelle sbarre. Un calcio ai pensieri, per sentirsi liberi davvero. Un campo in erba sintetica, un pallone e la magia dello sport più amato al mondo si realizza anche qui. Dove non si guarda con gli occhi, dove la vittoria - vera - è esserci. Una squadra di 34 detenuti del padiglione di massima sicurezza del carcere toscano, allenati da Paolo Stringara, ex giocatore di Bologna ed Inter e allenatore sempre a cavallo fra B e C. Uomo vero, lo si capisce subito. Diretto, sincero, onesto: si ha subito la sensazione che, senza la sua personalità, forse tutto sarebbe stato più difficile. "Non siamo qui a giudicarvi, c’è già chi lo ha fatto: io vi darò rispetto, spero che voi me lo diate. La nostra vittoria è essere qui, su un campo da calcio con un pallone e degli avversari" ha detto col suo staff (numerosissimo, composto prevalentemente da allenatori del livornese) alla prima di campionato ai suoi calciatori. Perché per Paolo Stringara i detenuti che allena due volte a settimane sono questo, giocatori. Così si è guadagnato il loro rispetto, "trattandoli come una squadra di professionisti". Corrono, sudano, fanno tattica. Si divertono, sorrisi e battute nella partitella finale che nessuno vuole perdere. L’idea di formare la squadra e farla partecipare al campionato di calcio a 8 dell’Uisp di Livorno è stata proprio di Paolo Stringara, sposata subito con entusiasmo dall’Aiac livornese del Presidente Pino Burroni e dalla direttrice dell’istituto, la dott.ssa Santina Savoca. Un po’ meno, inizialmente, dalle altre squadre. Normale essere timorosi, sentimento che anche chi scrive provava fino a pochi secondi prima di entrare dentro quelle sbarre fuori dalle quali molti di loro non andranno più. Paolo ha voluto partecipare all’incontro con quelli che sarebbero diventati i suoi avversari: "Sarà la partita che ricorderete per sempre", come per lui lo è stata quella al carcere di Bologna da giocatore rossoblù, probabilmente la molla emotiva per promuovere un progetto così. È servito poco per capire che sarebbe stato davvero così. Applausi scroscianti da parte dei detenuti all’ingresso in campo, gli sguardi degli altri che osservano dalle finestre oltre le grate, gli abbracci a fine partita. Un bagaglio di emozioni che vale più delle tre sconfitte e della vittoria con cui è iniziato il campionato. Dei 34 detenuti che ascoltano Stringara colpisce la disciplina, l’ordine, il rispetto dell’allenatore. Ma anche i sorrisi e la voglia di scherzare, toccanti come le motivazioni di ciascuno di loro. C’è chi vuole lanciare un messaggio ai figli, chi qui dentro si è pure laureato per cambiare se stesso e gli altri, chi, grazie alla buona condotta in questa iniziativa, aspetta un permesso premio per abbracciare la famiglia. Hanno sbagliato, lo sanno. E stanno pagando con la reclusione o con l’ergastolo, però sanno che così - dando un calcio a quel pallone - possono sentirsi davvero recuperati in qualche modo. C’è chi uscirà fra venti anni, chi non vedrà più il sole oltre quelle sbarre. Per due ore a loro non importa, "Liberi Dentro è un modo per evadere mentalmente, per sentirsi liberi davvero", confessa uno di loro. Aspettano la formazione per concentrarsi, la chiedono il mercoledì a quattro giorni dalla partita. È forse l’unico pensiero che gli è rimasto, insieme al grande amore di molti di loro: il Napoli. Hanno fatto richiesta alla Direttrice per potere avere Sky e seguire una squadra che finalmente può sognare lo scudetto, intanto aspettano la sera per guardare i gol di Higuain ed Insigne, ragazzo che qua dentro è un idolo davvero e che Stringara aveva allenato alla Cavese, un incredibile segno del destino. Le due ore in compagnia di Paolo e dei suoi calciatori volano via, senza telefono e senza pensieri. Per due ore, qua dentro, siamo liberi tutti. Ci ringraziano, come se avessimo portato loro la speranza. Un cerchio magico alla fine, tutti intorno abbracciati. "Per Liberi Dentro, hip hip hurrà!": un calcio ai pensieri, la magia dello sport che porta la vita anche qui dentro. Perché il mondo non rimane chiuso fuori, davanti a quell’insegna che porterò nel cuore per sempre. Come i loro sguardi. Perché gli italiani non si sentono in guerra di Giuseppe De Rita Corriere della Sera, 11 dicembre 2015 Nonostante l’attuale congiuntura il nostro Paese ha difficoltà a percepire il proprio ruolo bellico. Ci sono ragioni storiche ma conta anche il tasso di soggettività che disperde ogni evento in una miriade di posizioni. "Siamo in guerra". "Chi, io?". Se qualcuno volesse capire come l’italiano medio viva l’attuale drammatica congiuntura internazionale troverebbe la risposta più confacente proprio in quell’interrogativo, che ben riassume una radicata estraneità alle tensioni belliche. C’è tutto l’italiano d’oggi, antico e postmoderno insieme, in quel dichiarare "non mi compete". C’è la quasi ingenua ammissione di non essere adeguatamente pugnace; c’è l’antica prudenza di star lontano, se possibile, dalla linea del fuoco; c’è la sottintesa cinica propensione al "se posso, svicolo"; c’è l’abitudine ad allontanare l’angoscia e il ricatto di chi fa dell’angoscia un’arma di guerra; c’è l’implicito trincerarsi nella quotidianità e nella costanza degli stili di vita; c’è la constatazione che è quasi impossibile decifrare e capire la complessità di quel che sta avvenendo; c’è la resistenza a farsi trascinare dalle altrui pulsioni (tutti ricordano che facemmo male a seguire Bush in Iraq e Sarkozy in Libia); e c’è in fondo un antico fatalismo verso gli eventi che non si possono dominare, magari con la riscoperta di un po’ di impaurita devozione creaturale (quante preghiere e quanti ex voto hanno costellato la nostra vita collettiva, dal 1940 al 1945!). Essere o non essere una nazione solida e determinata. Questo è sempre stato il nostro dilemma, cui si può attribuire la frequente non eroica resistenza al "prendere armi contro un mare di guai e, combattendo, por fine ad essi ". Oggi quella resistenza ritorna, mettendo in ombra e forse sottovalutando guai che per alcuni sono inseriti in un epocale scontro di civiltà, così violento da chiamare a una mobilitazione di massa, al limite anche bellica. Ma non opera soltanto la tradizione storica sotto tale resistenza; opera anche, e forse specialmente, la specifica evoluzione strutturale degli ultimi settant’anni, durante i quali, complici silenziosi la pace e la democrazia, siamo diventati una società ad alta, anzi altissima soggettività, dove ogni problematica viene ricondotta all’io individuale (mia è l’azienda, mio è il tempo, mio è il lavoro, mio il figlio, mio il corpo, mia addirittura la morte) in una grande frammentazione molecolare dei sentimenti e anche degli interessi. E a tale coazione egocentrica non può sfuggire un evento come la guerra (è difficile pensare un italiano che dica "la mia guerra"). Se si pone attenzione a ciò, si capiscono facilmente le difficoltà che incontra la politica, stretta fra quella necessità di un collettivo noi (la nazione, l’Europa, l’Occidente) che è indispensabile per gestire i conflitti internazionali e la necessità di un consenso interno tutto condizionato dall’imperante soggettività dell’ "io che c’entro?". Stretta, in altre parole, fra le spinte a schierarsi con alleati vecchi o nuovi e la vocazione a navigare prudentemente nei flutti degli avvenimenti. Dio non voglia che arrivi il momento in cui dovremo schierarci; e più ancora che ci si schieri con l’avventatezza dell’ultimo momento. Di solito non ci riesce bene. Migranti, l’Ue accusa l’Italia "solo un terzo è in regola" di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 11 dicembre 2015 Bruxelles apre la procedura di infrazione contro l’Italia. Renzi: Europa assente. "Malgrado gli sforzi compiuti dall’Italia per ampliare la capacità di rilevamento delle impronte digitali di cittadini di paesi terzi o apolidi, le statistiche continuano a mostrare ampie discrepanze nei dati trasmessi al sistema centrale dell’Eurodac". È duro l’atto di accusa della Commissione europea che apre la procedura d’infrazione contro il nostro Paese in materia di immigrazione. Anche perché evidenzia l’elargizione di fondi decisa proprio per sostenere l’Italia in un momento di emergenza e questo fa presumere, qualora si arrivasse davanti alla Corte, che la sanzione potrebbe essere molto alta. Non a caso il presidente del Consiglio Matteo Renzi attacca: "L’Europa non sta facendo tutto quello che deve. Noi avvieremo 5 hotspot, ma non è partita la relocation come vorremmo. Noi possiamo fare anche senza l’Europa, è l’Europa che non può fare senza se stessa, e non basta lavarsi la coscienza dando soldi a qualche Paese". Alta tensione che potrebbe raggiungere livelli di scontro se è vero, come anticipa il Financial Times, che la stessa Commissione ha già messo a punto un piano per l’istituzione di una polizia di frontiera europea anche senza l’accordo degli Stati. Sarebbe il tentativo di salvare un trattato di Schengen ormai saltato visto il ripristino dei controlli deciso dopo le stragi di Parigi. Registrati solo un terzo. Scrive la commissione: "Dal 20 luglio 2015, quando è entrato in applicazione il regolamento Eurodac, fino alla fine di novembre 2015, i dati relativi agli arrivi irregolari mostrano che 65.050 cittadini di paesi terzi sono giunti via mare e le statistiche dell’Eurodac mostrano che sono state rilevate le impronte digitali di soli 29.176 cittadini di paesi terzi. Considerando anche i dati aggregati dal 1° gennaio al 30 novembre 2015, i dati di Frontex, confermati dalle autorità italiane, mostrano che l’Italia ha accolto 144.186 arrivi irregolari di cittadini di paesi terzi, ma le statistiche di Eurodac indicano che, nello stesso lasso di tempo, solo 50.822 cittadini di paesi terzi sono stati sottoposti al rilevamento delle impronte digitali". Si tratta di cifre che i vertici del Viminale - il direttore del dipartimento Immigrazione Mario Morcone e il capo della polizia Alessandro Pansa - hanno già contestato con una relazione trasmessa il 4 dicembre scorso nella quale si sottolinea come in realtà "51.599 stranieri sono stati foto-segnalati per ingresso illegale e 63.080 per la richiesta di asilo". Una spiegazione che evidentemente non è apparsa sufficiente. Già elargiti 530 milioni. Nel dossier si fanno i conti degli stanziamenti concessi all’Italia, evidentemente per evidenziare come i soldi non siano stati spesi bene. E infatti si sottolinea come il nostro Paese "dispone di 530 milioni di euro, sostegno finanziario che consentirà di aumentare le proprie capacità in aree quali i centri di accoglienza, le decisioni in materia di asilo, l’integrazione, i rimpatri, incluso in materia di centri di trattenimento e detenzione, controllo e sorveglianza dei confini e lotta alla criminalità coinvolta nel contrabbando e traffico di esseri umani. In aggiunta, 13,7 milioni di euro sono stati accordati nell’ambito di due misure di carattere emergenziale per la capacità di accoglienza e per l’accoglienza di minori non accompagnati, e 5,5 milioni di euro sono stati accordati per sostenere gli sforzi dell’Italia in materia di servizi di interpretariato e di assistenza medica durante le operazioni di ricerca e soccorso". Il piano di "relocation". La Commissione ricorda anche di aver "proposto due meccanismi di ricollocazione di emergenza a favore dell’Italia e della Grecia, grazie ai quali sarebbero ricollocati in tutto 39.600 richiedenti protezione internazionale dall’Italia in altri Stati membri". È uno dei punti sui quali l’Italia batterà nelle controdeduzioni proprio per dimostrare che gli accordi non sono stati rispettati. Nonostante le promesse sono infatti poco più di 200 i migranti trasferiti in altri Paesi e questo basta a dimostrare che in realtà il progetto di cooperazione è ormai fallito. Commenta il vicepresidente del Parlamento europeo David Sassoli: "La Commissione colpisce l’Italia e offre sponda a quanti in questi anni chiedevano respingimenti e chiusure delle frontiere in un momento in cui il vento nazionalista torna a soffiare con prepotenza". Unione europea: via libera alla schedatura di passeggeri e voli di Carlo Lania Il Manifesto, 11 dicembre 2015 Istituito ieri il Pnr, il registro dei passeggeri aerei. I dati relativi a nomi, tratte percorse, agenzie di viaggio e carte di credito utilizzate, saranno conservati in un database per 5 anni. A un mese di distanza dagli attentati di Parigi l’Europa si prepara a varare in nome della sicurezza un nuovo giro di vite schedando i passeggeri in arrivo e in partenza dai suoi confini. La commissione Affari interni ha approvato ieri l’istituzione del Pnr, il registro dei passeggeri aerei. In teoria a partire dai primi mesi del prossimo anno, dopo che il provvedimento sarà stato votato in via definitiva dalla Plenaria all’inizio di gennaio e poi dal consiglio dei ministri dell’Ue, i dati relativi a nomi, tratte percorse, agenzie di viaggio e carte di credito utilizzate, saranno conservati in un database europeo per cinque anni (i primi sei mesi in chiaro) e consultabili da speciali Unità di informazioni passeggeri. È da dopo gli attentati alle torri gemelle di New York che in Europa si discute sulla possibilità di creare un registro con i dati dei passeggeri, ipotesi sempre respinta per motivi legati alla privacy. Il Pnr (Passenger name record) prevede che per ogni viaggio proveniente dai paesi terzi o in partenza dall’Ue verso paesi terzi, si proceda a un immagazzinamento dei dati del passeggero. Allo stesso tempo il sistema procederà automaticamente a verificare che non esitano segnalazioni relative a reati gravi (dal sequestro al riciclaggio al traffico di organi e di armi, riciclaggio, contraffazione di documenti e corruzione tra gli altri) o terrorismo legate al nome del passeggero in esame. In caso di esito positivo del riscontro si procede con un controllo manuale da parte di un operatore che avverte le autorità di polizia. "Il Pnr da solo non risolverà tutti i nostri problemi di sicurezza, ma rappresenta un primo passo positivo verso la creazione di un’azione investigativa e di intelligence comune europea", ha spiegato il presidente del gruppo S&D Gianni Pittella. In realtà, per quanto atteso e sostenuto dall’Unione europea, il Pnr rischia di essere utile solo a metà. Il sistema infatti prevede il controllo sui nomi di quanti arrivano o partono dall’Ue, e per quanto utile per individuare e segnalare la presenza di eventuali foreign fighters, potrebbe non risultare efficace nel contrasto al terrorismo interno. Proprio gli attentati di Parigi del 13 novembre scorso, infatti, dimostrano come eventuali pericoli arrivino soprattutto dall’interno della stessa Ue, e come a un terrorista sia sufficiente prendere un treno o noleggiare una macchina per spostarsi in Europa senza correre il rischio di essere identificato. Una possibilità che lascia perplesse molte fonti europee sulla reale efficacia del provvedimento adottato ieri. "Anche i terroristi sanno come funzionerà il Pnr e si comporteranno di conseguenza", spiega un funzionario del parlamento di Strasburgo. A rendere infine più incerto il tutto c’è poi il fatto, non secondario, che perché il sistema diventi definitivamente operativo occorre prima che i parlamenti nazionali recepiscano le nuove direttive, cosa per la quale hanno due anni di tempo. È di ieri, poi, un documento di raccomandazioni inviato alla Commissione dall’Authority europea a protezione della privacy e della sicurezza dei dati, (European Data Protection Supervisor), proprio a proposito dell’implementazione della Pnr. Il Garante europeo invita alla "prudenza" prima di dare il via alla prima schedatura indiscriminata di massa dei cittadini europei con il sistema Pnr, ricordando che la Corte di giustizia dell’Ue è già intervenuta di recente in Irlanda, dove ha invalidato una legge sulla conservazione dei dati in modo non mirato, non limitato cioè a categorie sospette per qualche motivo specifico. Scrive l’Authority: "La lotta contro il crimine e il terrorismo sono chiaramente obiettivi legittimi, ma tutte le misure devono rispettare lo stato di diritto", e insiste che le misure di legge devono sottostare in ogni caso al principio di proporzionalità: come dire che non possiamo essere tutti quanti ugualmente perseguibili a prescindere dai comportamenti individuali. La Nato ritorna alla carica in Libia, mentre Renzi prepara la sua "linea" di Giuseppe Acconcia Il Manifesto, 11 dicembre 2015 Il premier spera che alla conferenza di domenica 13 nella capitale possa avviarsi un tavolo di trattativa simile a quello di Vienna sulla crisi siriana. Siamo alla vigilia della conferenza di Roma di domenica 13 dicembre sulla Libia. Se il premier Matteo Renzi sta puntando tutto su questo incontro per giustificare il suo inattivismo in Medio oriente, poche sono le speranze che i due parlamenti di Tripoli e Tobruk arrivino ad un’intesa per la formazione di un governo di unità nazionale. E se sulla Siria il lavoro di Staffan De Mistura, come inviato Onu, sta assumendo sempre di più un ruolo chiave per i complicati equilibri interni, in Libia si fatica a trovare anche soltanto un interlocutore valido che gestisca questa fase caotica che spacca il paese in tre macro-regioni: Tripolitania, Cirenaica e Fezzan. Renzi ha auspicato che si apra a Roma un tavolo simile a quello che vede sedere i principali attori regionali a Vienna per discutere della crisi siriana. Eppure queste parole sembrano davvero prive di logica. Il governo italiano ha fin qui sbagliato la sua strategia nel conflitto libico. Continua a riconoscere un ruolo al debolissimo parlamentino di Tobruk che nel paese conta niente. Ha sostenuto la finta mediazione dell’inviato Onu, Bernardino León, che poi si è dimostrato il primo amico dei sauditi accettando 50 mila euro mensili dagli Emirati arabi uniti, che appoggiano Tobruk e l’operazione Dignità dell’ex generale, Khalifa Haftar. Infine, Renzi continua a sostenere il modello del presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi che fa il bello e cattivo tempo in Libia. Non deve stupire nessuno rilevare che la nomina del Cairo a guida della Commissione per l’anti-terrorismo Onu è arrivata all’indomani di un colloquio tra il premier italiano e il presidente egiziano su un rafforzamento delle manovre di Intelligence contro il terrorismo estremista dello Stato islamico. Ma Renzi finge di dimenticare che Haftar e Sisi sono i primi a manipolare l’arma del terrorismo per giustificare colpi di stato, repressione interna e questo fin qui non ha fatto altro che produrre più terrorismo. A rincorrere le vacue speranze di Renzi sulla mediazione italiana in Libia ci ha pensato ieri il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ha definito "opportuna" la conferenza di Roma sulla Libia. "Sappiamo che la soluzione è nelle mani dei libici. Una volta che si sia formato un governo libico di unità nazionale, la comunità internazionale avrà il dovere di aiutarlo e l’Italia sarà la prima ad essere disponibile", ha assicurato. Su questo punto Mattarella sembra echeggiare le parole del Segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, che nei giorni scorsi si era detto pronto ad "aiutare la Libia". Peccato che la Nato e l’assenza dell’Italia siano i primi responsabili della distruzione del paese in seguito agli attacchi del marzo 2011 che hanno azzerato le fragili istituzionali statali. Addirittura la Nato si era proposta come improbabile garante di un accordo-bis tra le fazioni libiche che superasse lo stallo che negli ultimi mesi si è registrato sulla bozza finale, annunciata da León, ma mai approvata in via ufficiale dai due parlamenti. Sul governo di unità nazionale in Libia, ha puntato anche il Segretario generale della Lega Araba, Nabil al-Arabi, che ha fatto leva sulla necessità di "un processo di riconciliazione nazionale". E secondo al-Arabi, bisogna fare in fretta perché lo Stato islamico (Is) si è avvicinato alle città libiche. Il riferimento è al rafforzamento dei jihadisti nelle città di Sirte, Derna e Ajdabia delle ultime settimane. Secondo alcune fonti, i raid russi su Raqqa avrebbero spinto miliziani jihadisti di stanza in Siria verso la Libia. Questo ha aperto un secondo fronte con raid francesi e statunitensi che hanno colpito le città libiche negli ultimi giorni. Addirittura, alcuni media libici hanno sparso la voce, in seguito smentita, che il sedicente leader del Califfato, Abu Bakr al-Baghdadi, si sia rifugiato nelle ultime ore a Sirte. Secondo questi media, Baghdadi si troverebbe in un enorme bunker sotterraneo che era stato fatto costruire nella sua città natale dal colonnello Muammar Gheddafi. È chiaro che lo scontro si fa ormai a colpi di propaganda. Il ministro dell’Informazione di Tobruk, Omar al-Gwairi, è stato duramente attaccato per le sue critiche alla società civile libica tanto da innescare le immediate scuse del parlamento di Tobruk. I politici della Cirenaica, da una parte, vogliono essere rappresentati, come gli eredi della mai avviata transizione democratica nel paese, dall’altra, come i restauratori del vecchio regime di Gheddafi. Invece Tripoli, per legittimarsi agli occhi della comunità internazionale, ha puntato tutto sul contenimento dei flussi migratori. Fin qui questo ha solo spinto i migranti verso l’Egitto. Le forze di sicurezza egiziane hanno arrestato 94 egiziani e tre sudanesi che cercavano di entrare illegalmente in Libia mentre hanno arrestato oltre 600 migranti nel Sinai. Tahar Ben Jelloun: "copiare Guantánamo? addio alla patria dei diritti" intervista di Paolo Levi Secolo XIX, 11 dicembre 2015 "Guantánamo è una catastrofe, la Francia non segua l’esempio o sarà la fine della patria dei diritti umani". In questi giorni Tahar Ben Jelloun è a casa sua in Marocco. Tra gli intellettuali maghrebini più ascoltati in Europa lo scrittore e poeta di 71 anni è ancora sconvolto per gli attentati di Parigi. Le parole di Ben Jelloun arrivano nemmeno 24 dopo che è emerso che il deputato dell’opposizione, Laurent Wauquiez (Les Républicains) chiede il carcere preventivo, sulla base di semplici indizi e senza ricorso alla giustizia ordinaria, per gli individui etichettati con la "scheda S", quella che indica gli individui "radicalizzati" in odore di jihad ma senza che siano stati condannati. Una proposta che il governo socialista di Hollande ha girato al Consiglio di Stato affinché ne esamini la legittimità. Alcuni denunciano la prospettiva di una "Guantánamo alla francese". Lei che dice? "Penso che in questo caso gli Stati Uniti non possano essere un modello per la Francia e per il suo antica tradizione legata ai diritti umani. Guantánamo è una catastrofe, dentro non ci sono soltanto terroristi, ma probabilmente anche tanti innocenti. E soprattutto non ha impedito nuovi attentati. E una prigione illegale che persino Obama non riesce a far chiudere. Parigi non segua l’esempio o sarà la fine della Patria dei Diritti". Però adesso all’Assemblée nationale tutti sono concordi nel dire che bisogna sacrificare una dose di libertà per più sicurezza. Marine Le Pen vola nei sondaggi. La destra moderata e il partito socialista le corrono dietro... "Quando vieni colpito da attentati come quelli del 13 novembre l’istinto iniziale è reagire con forza, vigore e violenza. È comprensibile. Però alla fine sono giustizia e diritto a dover primeggiare sulla nostra rabbia. Qualunque sia il sospetto, la democrazia non può invadere una casa o arrestare colui che la polizia sospetta di passare all’azione". Come fare allora a combattere i terroristi del Califfato? "È una lotta lunga e difficilissima. I raid aerei sulle loro postazioni non bastano, loro sono in mezzo a noi, lo abbiamo visto a Parigi, a Tunisi, in California. Bombardare noi stessi? Impossibile. Combattiamo ad armi impari. È una guerra di un nuovo genere che l’Europa non può combattere senza rinunciare ai propri valori. Ripeto: la democrazia è il nostro bene più prezioso ma non è equipaggiata per lottare contro questo tipo di terrorismo". VatiLeaks 2, il processo può attendere di Lirio Abbate L’Espresso, 11 dicembre 2015 Rinviate a data da destinarsi le udienze del dibattimento contro i due giornalisti, il monsignore e Francesca Chaouqui. Niente tempi rapidi a causa del clamore mediatico. E alla ripresa sarà sfilata di testimoni eccellenti. Solo in rarissimi casi i giudici di un tribunale italiano hanno rinviato l’udienza "a data da destinarsi". E la giustizia italiana non è certo da prendere come esempio per la velocità dei procedimenti. In Vaticano alla terza udienza del processo su VatiLeaks 2 per l’utilizzo di documenti riservati, dopo che la Corte ha ammesso dodici testimoni proposti dalle difese, tutto inizia a bloccarsi e a complicarsi. E i tempi si allungano. Il dibattimento si ferma fino a quando il tribunale della Città del Vaticano non deciderà quando tornare in aula. Intanto il processo è in stand-by. E questa pausa si potrebbe allungare fino all’inizio del prossimo anno. O riprendere quando le acque, agitate mediaticamente attorno a questo processo che vede imputate cinque persone, fra cui due giornalisti, Emiliano Fittipaldi e Gianluigi Nuzzi, si saranno calmate. È possibile che le titubanze e le contraddizioni dei giudici emerse in queste prime tre udienze possano essere state provocate dall’effetto mediatico, un particolare sottovalutato dalle autorità politiche e giudiziarie dello Stato pontificio. Da quando l’informazione internazionale ha puntato i riflettori su questo processo, togliendolo dall’angolo buio in cui le autorità vaticane volevano spingerlo per sottrarlo alla comunicazione pubblica, quello che doveva essere un procedimento rapido e immediato, da chiudere prima dell’apertura della porta santa, sembra invece aver cambiato rotta e programma, come se le autorità papaline ne avessero perso il controllo. L’informazione sta cercando di rendere trasparente questo dibattimento, che continua ad essere vietato a tutto il pubblico. Tutto ciò conferma la forza della comunicazione, capace di superare ogni barriera nei Paesi occidentali, rendendo più chiaro ogni particolare, ogni evento. A quaranta giorni dall’arresto di monsignor Lucio Angel Vallejo Balda, spagnolo, 54 anni, già segretario della prefettura degli Affari economici e della Commissione di studio sulle attività economiche e amministrative della Santa Sede (Cosea), istituita dal Papa nel luglio 2013 e successivamente sciolta dopo il compimento del suo mandato, il Vaticano appare sempre in fibrillazione. Vallejo Balda è ancora detenuto in una cella della gendarmeria, dove trascorrerà anche il Natale. Mentre la lobbista italiana Francesca Immacolata Chaouqui, 33 anni, già componente della Cosea, dove era stata assunta proprio su segnalazione di Vallejo Balda, imperversa sugli schermi televisivi e rilascia interviste, anche ai giornali, dove si possono cogliere messaggi o frecciatine. Adesso nel processo lei entra a gamba tesa chiedendo e ottenendo di chiamare a deporre personalità come il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, l’altro porporato Santos Abril y Castelló, arciprete di Santa Maria Maggiore e presidente della Commissione di vigilanza dello Ior, l’elemosiniere pontificio monsignor Konrad Krajewski. Testimoni importanti che hanno portato il promotore di giustizia Gian Pietro Milano e il presidente Dalla Torre ad evidenziare che i testi chiamati a deporre riferiscano solo su fatti specifici attinenti alla causa e non dare generiche valutazioni sulle persone. La difesa della lobbista ha motivato la citazione del cardinale Abril per mostrare che "l’agire della Chaouqui era nell’interesse del Santo Padre", quella del cardinale Parolin "perché può riferire sui rapporti lavorativi intercorrenti tra Vallejo e Chaouqui". Già subito dopo la notizia dell’accoglimento da parte della Corte di questa testimonianza, dal Vaticano è stato fatto filtrare che il segretario di Stato non ha mai avuto contatti con la Chaouqui, facendo notare, tra l’altro, che la Commissione Cosea è stata costituita nel luglio 2013 mentre lui era ancora nunzio in Venezuela, e al suo arrivo in Vaticano l’alto prelato si è piuttosto adoperato perché venisse sciolta, com’è avvenuto nel maggio 2014. La deposizione di Krajewski è stata motivata dalla difesa della lobbista perché "questa donna è stata dipinta come un "mostro" e invece lui può descrivere la reale persona, dedita a tante opere di bene e di carità". La Corte ha pure accolto la richiesta, sempre della Chaouqui, di effettuare una perizia informatica sulle conversazioni whatsapp, sms e email tra Vallejo e la lobbista, perché secondo la difesa della donna gli atti risulterebbero mancanti di alcuni messaggi. E così sarà fatta una perizia d’ufficio. Solo dopo si fisserà la data della ripresa del dibattimento. C’è da aspettarsi che altre conversazioni private possano saltar fuori. Saranno sentiti anche l’ex direttore del "Corriere della Sera", Paolo Mieli, e il giornalista Paolo Mondani, richiesti da Nuzzi. Spunta anche, tra i testi citati in aula, il nome di Mario Benotti, ex capo segreteria del Sottosegretario agli Affari europei Sandro Gozi, indagato con la Chaouqui e il marito Corrado Lanino nell’inchiesta della procura di Terni ora confluita a Roma, la cui deposizione nel processo vaticano è stata chiesta dalla difesa di monsignor Lucio Vallejo Balda. La Corte presieduta da Giuseppe Dalla Torre, tra le altre cose, ha respinto le due eccezioni difensive della Chaouqui: quella che contestava la competenza giurisdizionale del Tribunale vaticano, essendo i presunti reati commessi in territorio italiano. Per la difesa, in Italia sono avvenuti sia l’accesso ai documenti tramite password elettronica sia, secondo l’atto d’accusa, il passaggio di carte "brevi manu". Personalità di rilievo siederanno dunque davanti ai giudici per rispondere alle domande di accusa e difesa ed entrare così, ancor di più, nei segreti del Vaticano, svelando retroscena e intrecci lobbistici. In tutto questo monsignor Vallejo non domanda di essere scarcerato, sorride agli altri imputati e sostiene di non stare bene, tanto da aver chiesto alla Corte una "perizia psicologica", finalizzata a verificare il suo stato di labilità e di infuenzabilità. I giudici l’hanno respinta, in quanto "non ammissibile" perché questo esame non è previsto dall’ordinamento. Ha ammesso invece l’acquisizione agli atti di una perizia psichiatrica a cui si era sottoposto lo stesso prelato, il cui referto è attualmente conservato nel suo appartamento. Uno dei nodi principali nell’udienza è stato comunque quello dell’ammissione dei testimoni. Fittipaldi è stato l’unico a non aver citato testimoni: ha chiesto solo l’acquisizione di tre articoli de "l’Espresso" dell’estate 2014 per dimostrare che le sue inchieste sono precedenti al contestato passaggio di documenti riservati, e quindi la sua estraneità ai fatti. Medio Oriente: scambio di prigionieri tra Egitto e Israele Nova, 11 dicembre 2015 Le autorità israeliane e quelle egiziane hanno raggiunto l’accordo per uno scambio di prigionieri. Lo riferisce la televisione di stato egiziana. Il Cairo libererà Ouda Tarabin, da 15 anni detenuto nelle carceri egiziane con l’accusa di spionaggio a vantaggio di Israele. Non è ancora stata resa nota l’identità dei due cittadini egiziani che saranno rilasciati nei prossimi giorni dalle autorità di Tel Aviv. Tarabin, che si era trasferito dall’Egitto a Rahat quando aveva 10 anni, è stato arrestato dopo aver attraversato illegalmente il confine con l’Egitto ed è stato condannato a 15 anni di carcere con l’accusa di spionaggio. Sia Israele che la famiglia di Tarabin hanno sempre respinto le accuse. Nel 2012 i due paesi avevano iniziato a discutere un possibile scambio di prigionieri ma fino ad oggi le trattative per liberare Tarabin non erano mai giunte a buon fine. Nel maggio del 2014 Tarabin scrisse una lettera al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, affinché si adoperasse in prima persona per ottenere la sua liberazione. "Il governo mi ha dimenticato in una prigione egiziana, dove sono detenuto senza motivo. Se fossi stato ebreo o druso, avresti combattuto per me. Purtroppo nè voi nè il vostro governo vi preoccupate di me perché sono arabo", ha scritto nella lettera Tarabin, denunciando maltrattamenti e mancato rispetto dei suoi diritti. Egitto: quattro agenti di polizia a processo per torture contro cittadini arrestati Nova, 11 dicembre 2015 Il procuratore generale egiziano, Nabil Saddeq, ha rinviato a giudizio quattro poliziotti accusati di aver torturato fino a provocarne la morte un cittadino precedentemente arrestato. Lo riferiscono i media egiziani. Due settimane fa i quattro poliziotti operanti alla stazione di polizia di Luxor hanno arrestato Talaet al Rashidy che poi è morto, secondo la famiglia dell’uomo a causa delle torture subite. L’uomo era stato arrestato perché trovato in possesso di "tramadol" classificato come droga dalle autorità locali. La famiglia dell’uomo ha anche pubblicato le foto del corpo del defunto che presenterebbe segni di torture e lividi. Il rapporto della polizia legale ha confermato le torture sull’uomo e la sua morte in seguito a queste e spiega che "Rashidy ha ricevuto un colpo al collo e alla schiena che ha prodotto una discontinuità nelle vertebre portandolo alla morte". Secondo le testimonianze gli agenti di polizia del commissariato di Luxor almeno cinque poliziotti sarebbe coinvolti nella morte di Rashidy. Su molti media egiziani la vicenda è stata paragonata a quella di Khaled Saed, anche lui torturato e ucciso dagli agenti di polizia nel 2010, episodio questo che ha condizionato la rivolta del 2011 contro "la violenza della polizia". Egitto: agente di polizia condannato a 5 anni per aver torturato a morte un detenuto Nova, 11 dicembre 2015 Un tribunale penale provinciale a Beheira, nella regione del Delta del Nilo in Egitto, ha condannato un agente di polizia a cinque anni di carcere per aver torturato a morte un uomo fermato dagli agenti e trattenuto presso la stazione di polizia di Rashid. La notizia è stata diffusa dai media statali. Il tribunale ha assolto dalle accuse altri due agenti di polizia. Il caso si è aperto quando alla Direzione di sicurezza di Beheira è stata notificata in maggio la morte di al Sayed Kasbery, per un forte calo della pressione sanguigna mentre era in custodia dentro la stazione di polizia, trattenuto con l’accusa di detenzione illecita di arma da fuoco. La famiglia dell’uomo, di 32 anni, si era radunata davanti alla stazione di polizia di Rashid, accusando un ufficiale di polizia e due persone informate dei fatti per l’aggressione e la morte dell’uomo. Dopo aver interrogato otto componenti della famiglia di Kasbery, è stato deciso di sottoporre i poliziotti a processo penale per aver torturato a morte l’uomo. Almeno altri due casi di sospette morti in carcere sono state svelate nel corso delle ultime due settimane, spingendo il presidente egiziano Abdul Fatah al Sisi a programmare una visita alla Scuola di polizia per sollecitare i cadetti a trattare bene i cittadini.