Una figlia che conosce le sofferenze dei trasferimenti da carcere a carcere di Suela M. Ristretti Orizzonti, 9 aprile 2015 A proposito della chiusura della Sezione di Alta Sicurezza nella Casa di Reclusione di Padova. "Mentre coloro che davano l'ordine di trasferire mio padre dormivano sonni tranquilli con i loro figli nelle rispettive camerette, io ero nei treni per viaggiare tutta la notte con chiunque si sedesse di fianco a me ed a mia mamma, ma nessuno si preoccupava del fatto che poteva accaderci di tutto, tanto io ero la figlia di un delinquente". Ho più volte parlato dei vari trasferimenti di mio padre, è stato trasferito nelle città più lontane e impensabili rispetto a dove vivo io (Alessandria). É stato a Larino, Sulmona, Napoli, Cuneo, Vasto e altre città. Veniva gettato dove capitava, proprio come si getta un sasso nel mare, non preoccupandosi di dove cadrà. Io ero una bambina e mia mamma una giovane donna, che ad ogni lettera ci preoccupavamo di leggere l'indirizzo per la paura che fosse stato trasferito di nuovo, e ci sarebbe toccato allora andare più lontano, in un posto che non conoscevamo, ci toccava "abituarci" ad un nuovo carcere, a nuovi agenti, ad un nuovo trattamento che poteva facilmente essere peggiore. Era una tortura, tutto il processo in sé, e tutte le infinite volte che sono stata perquisita io, da agenti diversi. Il procedimento, i passaggi per accedere ai colloqui e le sale dei colloqui non sono uguali in tutte le carceri. Una volta, ad esempio, in un carcere mi hanno fatto togliere la cintura e avevo 8 anni, mi sono sentita umiliata e ho domandato per quale ragione non potevo tenermi la cintura, sentendomi rispondere che "qui funziona cosi". In alcune carceri anche la sala colloqui si presentava diversa, con un muro divisorio, la sala trascurata, sporca, rovinata, mentre in altre ho scoperto l'esistenza dei tavolini. Per mia mamma, quando mio papà veniva trasferito, era una tragedia, era preoccupatissima di come stava, come si sentisse e di cosa ne sarebbe stato di lui. Lui entrava in un carcere in cui non conosceva nessuno, dove avrebbe dovuto iniziare tutto da capo, veniva messo a dura prova per l'ennesima volta, non sapevamo come avrebbe reagito, stava male, lo vedevamo, anche se diceva che andava tutto bene. Mentre coloro che davano l'ordine di trasferirlo dormivano sonni tranquilli con i loro figli nelle rispettive camerette, io ero nei treni per viaggiare tutta la notte con chiunque si sedesse di fianco a me ed a mia mamma, nessuno si preoccupava del fatto che poteva accaderci di tutto, questo non era un problema, tanto io ero la figlia di un delinquente, non importava. Occuparsi del carcere come lavoro non è facile, questo è un lavoro difficile, ma l'unico modo per riuscire a farlo bene è essere umani, pensare come ti sentiresti se capitasse a te, se i tuoi figli, tua moglie dovessero viaggiare al freddo, di notte, con la paura, correndo anche dei rischi. Quando ho saputo della chiusura dell'Alta Sicurezza del carcere di Padova, mi è venuta l'ansia per i detenuti che verranno gettati chissà dove, chissà con chi, e per i loro figli e le loro mogli. Ma nessuno si preoccupa di loro? Ma nessuno vuole sapere qualcosa di un figlio che vedrà più raramente il padre, che lo vedrà soffrire ancora di più e che lui stesso soffrirà più di quanto già non faccia? Parliamo di figli che sono in una situazione ancora più difficile rispetto alla mia, in quanto loro non avranno mai loro padre a casa, non cresceranno con lui, ma la loro crescita, il racconto delle loro vite avverrà sempre all'interno di quelle mura, di quelle sale fredde. Penso che per chiunque sia già difficile questa situazione, perché rompere questo "equilibrio", distruggere quel loro piccolo mondo che si sono creati? A nessuno passa per la mente che trasferendo, facendo di queste persone ciò che si vuole, li portate anche a gesti estremi, dato l'elevato numero di suicidi nelle carceri? Io ricordo tutte le carceri in cui è stato mio papà, ricordo i viaggi che facevo per andare a trovarlo e le sofferenze che provavamo. Ricordo che viaggiavamo tutta la notte, arrivavamo nelle stazioni circa alle 06.00/7.00 del mattino, con il buio e il freddo d'inverno, e appena scendevamo dal treno dovevamo allontanarci il prima possibile dal binario e uscire fuori perché era pericoloso stare li, e ancora oggi continuo a pensarlo e ogni volta che devo prendere il treno anche per andare a trovare parenti e amiche mi sento male, riaffiorano in me tutti i ricordi, la stanchezza di quei viaggi, e quanto ci costava, perché per andare a trovare mio papà mi sarei dovuta privare di molte altre cose, e una di queste era mia mamma che doveva lavorare sempre e io ero costretta a stare, dopo scuola, tutto il giorno in casa da sola, anche di domenica, mentre le mie amichette erano al parco o a casa con i loro genitori. Una volta uscite fuori dalla stazione dovevamo informarci su come raggiungere il carcere, e la gente iniziava a guardarci in modo strano appena chiedevamo ciò, ma tanto eravamo abituate, non era la prima volta! ciò non significa però che non fosse molto triste. L'unico modo, il più delle volte, era il taxi molto costoso, dato che le carceri come ben sappiamo sono situate sempre fuori città, come per dirci: noi, persone per bene, la spazzatura non la vogliamo. Una volta raggiunto il carcere, con 8 ore di viaggio alle spalle con altre 8 ore che ci aspettavano, facevamo 2 ore di colloquio (perché noi non andavamo tutte le settimane, ma molto più raramente). Tutti questi trasferimenti, tutti questi carceri, hanno reso la vita difficile non solo a me, ma anche a mia mamma. Non abbiamo potuto condurre una vita normale, abbiamo sempre nascosto questa "doppia vita" per la vergogna. Giustizia: Opg… dalla legge ai fatti intervista a Francesco Maisto (Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Bologna) www.pensiero.it, 9 aprile 2015 La data del 31 marzo 2015 ha segnato la chiusura definitiva gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg) luoghi "indegni per un paese civile" e la conseguente entrata in funzione delle Residenze per l'Esecuzione della Misura di Sicurezza (Rems). Siamo arrivati pronti a questo "passaggio" storico? "Nonostante la buona volontà, la passione civile e la tensione legalitaria di una minoranza del Paese, inteso come l'insieme di istituzioni centrali, regionali, psichiatriche, giudiziarie e del volontariato, non siamo arrivati pronti al "passaggio" a causa di potenti forze conservatrici e regressive che hanno cercato mille artifici talora per bloccare la riforma, ritardando l'apprestamento delle alternative o invocando la riforma dei codici (come una palingenesi) in verità non necessaria per la chiusura degli Opg. Queste posizioni conservatrici hanno fino ad oggi puntato alle proroghe, come per i sette anni passati". C'è chi sostiene che manchi una precisa regolamentazione di attuazione della riforma. Un timore che condivide? "La Legge 81 del 2014 indica e dispone quanto è necessario per chiudere gli Opg, sia deistituzionalizzando gli internati con programmi individualizzati di inserimento sociale, sia abrogando gli "ergastoli bianchi", sia prevedendo strutture residenziali alternative. Bisogna fare un piccolo sforzo interpretativo di armonizzazione di questa legge con la legislazione vigente. Certo si poteva fare meglio e di più ma, di fronte all'inerzia, la nuova legge si imponeva. E comunque, si può sempre procedere all'emanazione della normazione secondaria. In Emilia-Romagna abbiamo istituito da due anni un tavolo periodico interistituzionale e interprofessionale di programmazione e di formazione per la chiusura dell'Opg e, più in generale, sul "trattamento" degli autori di reato infermi di mente a partire dal momento dell'arresto". Come si sta muovendo la magistratura ordinaria e la magistratura di sorveglianza per l'applicazione della legge? Quali le maggiori criticità? "Domanda imbarazzante se si pensa che alla magistratura non è stato comunicato nemmeno il testo dell'Accordo Stato-Regioni per l'attuazione della legge. Manca un coinvolgimento della magistratura, ad eccezione di qualche tribunale di sorveglianza come quello di Bologna, dove siamo impegnati spontaneamente da due anni per l'attuazione della riforma. La formazione dei magistrati è carente per mezzi e contenuti, connotata com'è talora, da pregiudizi ideologici di parte dei formatori, tanto giuristi che psichiatri. Una conferma è data dall'aumento delle applicazioni provvisorie degli internamenti in Opg, nello spazio di questo ultimo anno. Sotto altro profilo, le maggiori criticità riguardano la collocazione dei soggetti in applicazione provvisoria e dei soggetti in sospensione di esecuzione della pena per infermità sopravvenuta". Ad oggi solo poche le Regioni pronte alla chiusura degli Opg che hanno approntato tutte le nuove misure che prevedono l'esclusiva gestione sanitaria all'interno delle Rems, delegando alle forze dell'ordine soltanto l'attività perimetrale di sicurezza e di vigilanza esterna. Che rischio corrono le Regioni impreparate al passaggio? Dove saranno collocati provvisoriamente gli internati "in sospeso" perché in esubero rispetto alla disponibilità effettiva di posti nelle Rems pronte ad aprire? "Fin dalla cosiddetta "Legge Marino" (Legge del 17 febbraio 2012, N. 9; NdR), è stata prevista la nomina del Commissario (in sostituzione) per inerzia delle Regioni, ma fino ad ora nessun Commissario è stato nominato, nonostante la gran maggioranza delle inottemperanze. La seconda domanda richiede due risposte. Alla collocazione degli internati attualmente in Opg, e non "rilevati" dalle Regioni di origine, presumo che provvederà l'Amministrazione penitenziaria. Non comprendo i cosiddetti "esuberi" in un ordinamento centrato sul rispetto della persona umana. Non dovrebbero verificarsi criticità se si attivasse una gestione sistemica e complessiva ai vari livelli istituzionali. Questa riforma può avere piena attuazione solo se, ferma restando la sensibilità della società e del volontariato, si appresta una regia tra quattro livelli istituzionali: Ministero di Giustizia (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria), Ministero degli Interni, Ordine Giudiziario e Regioni. Insomma un organismo diverso e non competitivo rispetto al Comitato Stato-Regioni". Considera che sia stato predisposto quanto necessario per la presa in cura degli internati dimessi per decorrenza dei termini della misura di sicurezza? "Non credo che sia stato predisposto o programmato quanto necessario, soprattutto per la formazione alla collaborazione tra magistrati e operatori dei Servizi di salute mentale. La stessa magistratura di sorveglianza offre una giurisprudenza eterogenea, divisa tra la posizione della dimissione "sic et simpliciter" per decorrenza dei termini (falsamente garantista) e la tesi della cessazione della misura di sicurezza detentiva con contestuale applicazione della cosiddetta libertà vigilata terapeutica. Noi a Bologna abbiamo sostenuto la seconda tesi". Come accennava prima, con la Legge 81 è stato fatto un importante passo avanti per il superamento degli "ergastoli bianchi". Possiamo dire di aver raggiunto una maggiore tutela dei diritti delle persone affette da vizio totale di mente e sottoposte a misure di sicurezza perché socialmente pericolose? "Con la Legge 81 gli "ergastoli bianchi" sono abrogati ex lege. Certamente la riforma rappresenta un passaggio epocale anche perché la collocazione in strutture sanitarie o alternative meglio si presta per la tutela dei diritti, per esempio, con i nuovi rimedi giurisdizionali previsti dall'art. 35 bis della legge penitenziaria, oppure, in tema di Tso, di alleanza terapeutica, di eliminazione delle negatività tipiche delle istituzioni totali". Lo psichiatra Massimo Biondi ha commentato che "oltre che in ambito medico anche in quello giuridico è stato segnalato come non siano chiare procedure, linee guida di intervento in casi critici, confini e competenze di intervento tra ambito sanitario e ambito giudiziario e non siano definiti in modo completo disposti e competenze attuative". Cosa ne pensa? "Quando si innova, si sperimenta in modo responsabile, nonostante la mancanza di linee guida. È probabile che il prof. Biondi faccia riferimento ad un contesto che mette a dura prova la sua indiscussa professionalità. Ogni vero movimento deistituzionalizzante, come quello in atto, di superamento degli Opg, come quello di chiusura dei manicomi civili trova piena attuazione col tempo e richiede sperimentazioni e acquisizioni progressive. Del resto, quella dei rapporti tra psichiatria, psicologia e diritto e, in particolare, tra figure professionali eterogenee di tradizione autoreferenziale, è una questione secolare sempre destinata a mutamenti, conflitti e segnata comunque da relazioni dialettiche". Nonostante la chiusura definitiva degli Opg rimane ancora aperto il dibattito sull'incostituzionalità delle procedure per accedere a queste strutture e sulla necessità di superare il Codice Rocco della legislazione fascista del 1930. Gli Opg e ora le Rems si muovono inevitabilmente tra due polarità: la cura e la tutela dell'infermo, da una parte, e il contenimento della sua pericolosità sociale, dall'altra parte. Siamo pronti a modificare il codice penale? "Non vedo questioni di costituzionalità della riforma, tranne quella, francamente superabile, sollevata dal Tribunale di Sorveglianza di Messina (ordinanza del 16 luglio 2014, n. 247, che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale in merito ai nuovi criteri di accertamento della pericolosità sociale del seminfermo di mente; ndr). Che si debba modificare il codice penale sono convinto, e il testo elaborato dalla Commissione Pisapia sembra aver riscosso vasti consensi, ma se il novello legislatore è addirittura intervenuto a modificare parti del codice penale, senza tuttavia le interpolazioni in sedes materiae, significa che non si è pronti alla riforma del codice penale". Per concludere, ci dobbiamo aspettare un futuro incerto? "Il futuro è sempre incerto, e non solo in questo mondo vitale. Si tratta invece di avere la capacità di analizzare e governare il rischio. Senza rischio non c'è movimento e innovazione". Giustizia: "in Italia c'è la tortura", l'Europa ci condanna di Piero Sansonetti Il Garantista, 9 aprile 2015 Una sentenza che brucia forte. Ieri la Corte Europea dei diritti umani ha condannato l'Italia per il reato di tortura condotta dallo Stato. Il riferimento è ai fatti di Genova del 2001, ma la condanna è molto più vasta. Dice che abbiamo leggi medievali, che vanno cambiate ma nessuno si decide a cambiarle, ed è sulla base di quelle leggi che non è stato possibile punire i responsabili del massacro di Genova, e -sempre sulla base di quelle leggi - la polizia ha la possibilità di tornare a torturare, e in effetti ci sono stati dopo Genova - Cucchi, Aldovrandi, Bianzino, Uva, Bifolco - molti casi noti di tortura e chissà quanti restati segreti. La sentenza della Corte Europea getta un ombra di vergogna sul nostro paese. E soprattutto sui giorni infernali del luglio 2001 a Genova. La polizia e i carabinieri si scatenarono, uccisero un ragazzo, ne ferirono centinaia, la maggior parte giovanissimi, inermi, pacifici. La città per tre giorni fu in mano a un terrore poliziesco che fu definito (da un poliziotto pentito) "macelleria messicana, e dal moderato leader dei ds, massimo D'Alema "notte cilena". Sembrava di stare in America latina. Nessuna istituzione reagiva, nessun partito, nessuno cercava di fermare la furia di Stato. È stata la pagina più nera scritta dal governo Berlusconi nei circa dieci anni nei quali è stato al potere (alternandosi con Prodi). La sinistra non glielo ha mai rinfacciato, perché non gli sembrava così grave. La sinistra, in questi vent'anni, si è occupata molto di più delle avventure amorose di Berlusconi. E, in buona fede, ha creduto che a rovinare l'immagine dell'Italia sia stata Ruby, e non la ferocia dei poliziotti della mattanza di Genova. Del resto la sinistra - il partito dei Ds, più precisamente - si schierò contro il movimento no-global in quelle giornate, e addirittura, dopo l'uccisione da parte dei carabinieri di Carlo Giuliani - 23 anni, abbattuto a revolverate - ritirò l'adesione al corteo del giorno dopo. Fu un corteo oceanico: giovani, sindacalisti della Fiom, moltissimi cattolici, preti suore: ma la Cgil e i Ds non c'erano e il segretario dei Ds (che era Fassino) se la prendeva coi black block, non con la polizia. E neppure se la prendeva col vicepresidente del Consiglio, Gianfranco Fini, ex- fascista, che in quei giorni ebbe un rigurgito della sua vecchia ideologia e si piazzò in caserma, a Genova, a guidare personalmente la polizia scatenata. Non è stato mai chiaro del tutto chi e perché volle quella vergogna poliziesca. La polizia stessa, i carabinieri, gli ex-fascisti di Fini, Berlusconi in persona, l'America che partecipava al G8 col suo presidente Bush? Mistero. Certo è che i tempi erano molto aspri in Italia. Qualche mese prima, in marzo, quando il governo Berlusconi ancora non c'era e al governo c'era l'Ulivo di Prodi e il ministero dell'Interno era Enzo Bianco, della Margherita, a Napoli era successo qualcosa di molto simile a quello che poi successe a Genova. I no-global furono chiusi in piazza Plebiscito, fu resa loro impossibile la fuga, e poi furono bastonati per ore. Molti furono portati poi in caserma e bastonati ancora, torturati come a Genova. Genova provocò un sussulto, in Italia, che durò più o meno un mese. In Parlamento la sinistra si arrabbiò un po'. Poi finì tutto: il movimento no-global, che era un movimento politico, di alternativa, fu sostituito dai Girotondi, un movimento molto vasto, in mano alla magistratura e ai giornali (soprattutto Repubblica). Il movimento dei girotondi spazzò via i temi politici posti dai no-global e concentrò l'attenzione dell'opposizione sulle questioni giudiziarie di Berlusconi. Nessuno chiese le dimissioni di Berlusconi per la mattanza di Genova - né tantomeno di Fini - ma per il Lodo Alfano… La Corte Europea, con una quindicina d'anni di ritardo, si è pronunciata. E lo ha fatto sulla base di un ricorso presentato da un singolo cittadino, Arnaldo Cestaro, che all'epoca aveva 62 anni e oggi ne ha 76. Cestaro, quella notte del 22 luglio, stava dormendo tranquillo all'interno della scuola Diaz - chiusa per le vacanze estive - che era stata concessa all'organizzazione del contro-G8 per ospitare i "forestieri". Il contro-G8 era stato convocato da un gran numero di movimenti no global, pacifisti, sindacali e cattolici, per contestare la riunione del G8 (cioè dei capi di Stato delle grandi potenze) che si teneva, appunto a Genova, e che doveva stabilire come i giganti del mercato privato avrebbero dovuto guidare e incanalare la "globalizzazione". Il contro-G8 durò una settimana, ma raggiunse il suo momento più forte negli ultimi tre giorni, quando tenne tre grandi manifestazioni. Cestaro - dicevamo - quella sera dormiva tranquillo, anche perché ormai le manifestazioni erano finite, erano state oceaniche, e nonostante le defezioni dei partiti di sinistra e le provocazioni della polizia, avevano avuto un clamoroso successo anche internazionale. Tutti i giornali del mondo ne parlavano. La mattina dopo era prevista la smobilitazione. Ma Cestaro, nel cuore della notte, venne svegliato all'improvviso dai rumori di gente che cercava di sfondare la porta. Lui pensò ai black block che rompevano le palle. Invece la porta venne giù ed entrarono centinaia di poliziotti scatenati, e armati fino ai denti, che iniziarono a massacrare a bastonate chiunque trovavano nelle aule. A lui gli ruppero subito un braccio, poi una gamba, poi lo colpirono in testa, e lui sentiva le urla dei ragazzini, affogati dal sangue, che chiamavano la mamma, in italiano, in inglese, in danese. Durò almeno un ‘ora e mezzo. A nessuno da fuori fu permesso di intervenire. Poi trascinarono i prigionieri per strada, chi in ambulanza chi sul cellulare. E chi era in grado di camminare fu portato in questura o a Bolzaneto. Alla caserma degli orrori. E li le torture proseguirono, furono atroci, lunghissime, aiutate anche da medici vigliacchi. Fu l'orgia del sadismo di stato. Quasi nessuno ha pagato. Le vittime, invece, non sono mai riuscite a liberarsi da quell'incubo, hanno avuto, quasi tutte, danni permanenti, fisici o psichici. La sentenza della Corte Europea adesso ci impone di approvare la legge che istituisce il reato di tortura. Però, oltre alle forze di polizia, ci sono parecchie altre forze, anche in Parlamento, che sono contrarie. Il reato di tortura, tra le migliaia di reati che ogni giorno politici e magistrati riescono a inventarsi, è uno dei pochissimi che limita il potere dello Stato e non i diritti dei cittadini. Dve essere questo il motivo per il quale sarà molto difficile farlo approvare. P.S. Cestaro ha ottenuto un risarcimento di 45 mila euro. Non è un granché: gli hanno rovinato la vecchiaia e lo pagano con una cifra modesta. Ora però è possibile che centinaia di altre vittime delle torture di Genova presentino il ricorso. E sicuramente vinceranno. Speriamo. Chi non è stato a Genova in quei giorni non può nemmeno immaginarsi cosa successe. Chi c'è stato non si è mai dimenticato di quel clima di follia. A ripensarci viene in mente che magari non è vero che le cose, in Italia, vadano sempre peggio. Oggi, probabilmente, una mostruosità come Genova non si potrebbe più ripetere. La polizia di oggi non è quella di quel luglio. Meno male, no? Giustizia: la "responsabilità" delle torture non ha bisogno di aggettivi di Gianluigi Pellegrino La Repubblica, 9 aprile 2015 Quale onta peggiore per uno Stato della condanna per aver torturato suoi cittadini? E cos'altro deve accadere per affermare un elementare principio di responsabilità? Quale azienda, quale gruppo sociale lascerebbe ai suoi vertici chi era alla guida del corpo che ha scritto una pagina così vergognosa da procurare la più infamanti delle censure? Per questo il j'accuse di Matteo Orfini verso De Gennaro non dovrebbe destare scalpore. Essendo se mai il minimo sindacale già all'indomani dei terribili fatti di Genova, e tanto più oggi dopo la vergogna nazionale subita con la condanna della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo. Non si tratta qui di responsabilità penale, visto che De Gennaro è stato assolto con l'applicazione degli strumenti a disposizione dei giudici. Si tratta, ben più semplicemente, di responsabilità senza aggettivi. Se guido un corpo dello Stato che può essere anche il più meritevole, e se pure io stesso fossi il più medagliato dei funzionari, e quel corpo si rende attore di una così grave nefandezza, non ci sono alternative, la mia responsabilità deve essere pubblicamente riconosciuta al di fuori e a prescindere da ogni profilo civilistico, penalistico o contabile. Responsabilità, appunto, senza aggettivi. È una regola che dovrebbe valere per tutti. Non solo: la Corte di Strasburgo ha messo all'indice anche l'inqualificabile condotta successiva della polizia, di autentico ostruzionismo nella individuazione delle responsabilità dei "torturatori". I giudici europei hanno infatti censurato come la mancata identificazione degli autori dei pestaggi sia derivata dalla "mancanza di cooperazione della polizia", essendo costretta la Corte ad aggiungere il suo autentico stupore "che la polizia italiana abbia potuto rifiutarsi impunemente di apportare alle autorità competenti la cooperazione necessaria all'identificazione degli agenti suscettibili di essere implicati negli atti di tortura". Anche di questa clamorosa omissione di collaborazione con lo stesso Stato che la polizia rappresenta, è possibile che nessuno debba pagare? Matteo Renzi dice che la risposta sarà l'approvazione della legge sul reato di tortura. Ma si tratta di risposta a metà perché abbandona del tutto il campo del principio di responsabilità che Stato e Governo dovrebbero mettere al primo posto, per non perdere ogni credibilità nei confronti dei cittadini. Peraltro anche la legge, dopo inaccettabile ritardo, rischia di nascere claudicante con il testo uscito dalla commissione della Camera che appare confondere quello approvato dal Senato, allungando peraltro i tempi del varo definitivo. Già a Palazzo Madama infatti si trovò un punto di equilibrio tra la iniziale proposta di Luigi Manconi, che voleva una fattispecie dedicata esclusivamente all'abuso di violenza delle forze dell'ordine, e le esigenze manifestate dai sindacati di polizia di evitare una sommaria criminalizzazione. Ora però la commissione di Montecitorio chiede all'Aula di condizionare l'accertamento del reato ad una indagine sulle finalità della "tortura" (per estorcere dichiarazioni ovvero per irrogare una impropria punizione), con il rischio paradossale di lasciare fuori la peggiore delle ipotesi che è quella dell'accanimento sadico fine a se stesso, della violenza puramente bestiale. Esattamente come quella avvenuta a Genova. Rischiamo quindi dopo il danno, la beffa di varare una legge che avrebbe difficoltà a punire proprio vicende come quella sanzionate da Strasburgo. Dipende tutto dal Pd che alla Camera può molto semplicemente approvare il testo così come uscito dal Senato, dando almeno una delle risposte che non solo l'Europa ma una elementare coscienza civica ci impone. È lecito attendersi qui da Renzi una determinazione almeno analoga a quella che manifesta sul ben più controverso Italicum. È il minimo che possiamo pretendere dallo Stato dopo che si è troppo a lungo aspettato, troppo a lungo negato. Affidandoci ancora una volta solo alla supplenza della magistratura peraltro privata di strumenti e ostacolata nei suoi accertamenti, come Strasburgo ha dovuto infine censurare. E pure sarebbe bastato, davanti alla clamorosa evidenza dei fatti, dire "lo Stato chiede scusa ai suoi cittadini, rimuove e non promuove chi aveva posti di responsabilità". Ed essere per una volta conseguenti. Sarebbe stata a ben vedere anche la migliore autentica difesa dello Stato e della sua Polizia. Giustizia: per l'Europa è tortura anche il carcere duro… ma il 41-bis in Italia non si tocca di Filippo Facci Libero, 9 aprile 2015 La Corte che ci ha condannato per i fatti di Genova aveva censurato il 41 bis. E molti tribunali Usa avevano fatto lo stesso. Se fosse introdotto il reato di tortura allora dovremmo abrogare anche il 41 bis, il cosiddetto carcere duro: come la mettiamo? Il paradosso è decisamente sfuggito all'ampio fronte che ieri ha plaudito alla decisione della Corte Europea di condannare l'Italia per il reato appunto di tortura, che da noi non esiste: ed è interessante che trattasi dello stesso fronte che considera il 41-bis come un moloch sacro e intoccabile, anzi, vorrebbe estenderne l'applicazione. Tocca citare il solito Fatto Quotidiano (che ieri ha ufficialmente scoperto la Corte Europea per i diritti umani) ma anche il Corriere della Sera e nondimeno ampi settori del Pd, tutta gente che invoca una legge che sembra eternamente pronta, sempre in dirittura d'arrivo: ma di cui, di fatto, si parla e basta dal 1984, anno in cui l'Italia firmò la convenzione Onu contro la tortura. E quel che non si ricorda - dicevamo - è che la stessa Corte Europea ha condannato lo Stato italiano per il regime del 41-bis: il 16 gennaio 2008 fu deliberato che quel regime violava due articoli della Convenzione, al punto che l'avvocato del ricorrente dichiarò che "il 41-bis è una Guantánamo italiana". Ma non c'è solo la Corte Europea. Più di un giudice statunitense, negli anni passati, condannò il carcere duro all'italiana come un regime di detenzione al quale la giustizia americana non voleva prestare il fianco. Uno dei casi più noti risale all'11 settembre 2007, quando un magistrato di Los Angeles negò l'estradizione in Italia del narcotrafficante Rosario Gambino -che aveva già scontato 22 anni - perché a suo dire il 41-bis aveva caratteristiche "che costituiscono una forma di tortura" e violavano la convenzione delle Nazioni Unite in materia: le stesse motivazioni della Corte Europea. Ma le fonti sono anche altre: basta rileggere i rilievi del Dipartimento di Stato americano sul rispetto dei diritti umani nel nostro Paese, quelli di Amnesty International, così pure i rapporti degli ispettori europei che visitarono il nostro sistema penitenziario: nel 1995 il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt) disse che il 41-bis italiano era risultato il più duro tra tutti quelli esaminati dagli ispettori: la delegazione parlò di trattamenti inumani e degradanti che potevano tradursi in alterazioni delle facoltà sociali e mentali, spesso irreversibili. Ultime ma non ultime, ci sono le denunce solitarie e puntuali di Amnesty Italia e di Nessuno tocchi Caino. Risale a meno di due settimane fa, poi, la denuncia del senatore Giuseppe De Cristofaro di Sinistra Ecologia e Libertà: "Se la ratio del 41-bis resta quella di costringere al pentimento, allora è una tortura". Insomma: questa celebrazione selettiva delle sentenze della Corte Europea - soprattutto da parte del fronte forcaiolo - può diventare imbarazzante, perché è la stessa Corte che ci ha condannato non solo per il 41-bis (tortura anche quella) ma anche per durata eccessiva dei procedimenti e per il sovraffollamento carcerario. Da non confondere con la Corte di giustizia europea, quella che nel novembre 2011 ha detto che dovevamo aggiornare la norma sulla responsabilità civile dei giudici. Morale: è un attimo santificare le cortei e trovarle, subito dopo, tremendamente impiccione. Giustizia: reato di tortura esteso alla custodia cautelare, altrimenti è solo contro la polizia di Claudio Cerasa Il Foglio, 9 aprile 2015 La tortura è un'infamia, ed è inconcepibile che venga commessa in un paese civile, che peraltro è la patria di Cesare Beccaria. In particolare è intollerabile che esponenti del potere pubblico, abusando delle loro funzioni si accaniscano su persone in condizioni di prigionia o comunque non in grado di difendersi. Purtroppo, però, da Tangentopoli in poi, si è consentito, con interpretazioni capziose del codice penale, di usare la detenzione preventiva come strumento per ottenere confessioni o delazioni, e questa è la più grave forma di tortura, quella che per prima dovrebbe essere proibita da una legge ben fatta, proprio perché l'uso della tortura, della privazione indebita della libertà personale per costringere gli inquisiti a rinunciare all'elementare diritto alla difesa, un uso ormai diffuso da parte di certe procure, rappresenta una forma di legalizzazione della tortura. Se è giusto punire poliziotti o agenti di custodia che abusano del loro potere, è ancora più urgente riportare la magistratura al rispetto reale dei diritti degli inquisiti, ormai violati sistematicamente. Però, nella discussione che è stata innestata dalla condanna comminata dalla Corte europea all'Italia in relazione ai misfatti della caserma Diaz, questo aspetto basilare è stato completamente trascurato. La sudditanza della grande stampa e della politica allo strapotere giudiziario si esprime anche in questo, nel rifiuto ad affrontare una prassi di estorsione di confessioni attraverso l'indebita privazione della libertà personale, solo perché non si può mettere in discussione l'abuso sistematico di potere esercitato da settori specifici della magistratura. Invece di opporsi a una legge sulla tortura perché potrebbe essere utilizzata per mettere sotto accusa le forze dell'ordine (che quando sbagliano debbono pagare come chiunque) sarebbe forse meglio che i garantisti si battessero per dare una definizione del reato di tortura che comprenda l'uso improprio della carcerazione preventiva, che secondo la legge in vigore dovrebbe essere un atto eccezionale giustificato solo nei casi di rischio di fuga, di reiterazione del reato o di compromissione delle prove, casi che debbono essere provati, non solo ipotizzati. A queste condizioni un provvedimento legislativo ampio e legato alla realtà effettiva dell'uso di forme di coercizione verso i carcerati, compresa quella esercitata dai magistrati che estendono indebitamente l'area della custodia cautelare per premere sugli inquisiti, sarebbe un passo avanti verso una compiuta civiltà giuridica. Altrimenti far volare gli stracci, magari rievocando antiche pulsioni sessantottesche contro la "polizia fascista", diventa una comoda e ingiusta scappatoia per creare nuovi capri espiatori. Giustizia: dalla Convenzione Onu anti-tortura per Italia 87 disegni di legge e nessun reato di Carmine Gazzanni www.linkiesta.it, 9 aprile 2015 La Convenzione delle Nazioni unite risale al 1984 ed è stata ratificata dal nostro Paese nel 1988. La storia dell'introduzione del reato di tortura nell'ordinamento italiano. Ora non ci sono più dubbi: il blitz della polizia alla scuola Diaz la notte del 21 luglio 2001, durante il G8 di Genova, "deve essere qualificato come tortura". A stabilirlo è stata la Corte europea dei diritti umani che ha accolto il ricorso presentato da Arnaldo Cestaro, 62enne all'epoca del pestaggio, che gli costò fratture a braccia, gambe e costole, tanto che il referto dei medici genovesi sottolineò "l'indebolimento permanente dell'organo della prensione e della deambulazione". A distanza di 14 anni da quelle violenze, la Corte ha stabilito che lo Stato italiano dovrà risarcire Cestaro con 45mila euro per danni morali. Ma nella sentenza c'è anche altro. I giudici di Strasburgo hanno condannato l'Italia non solo per quanto commesso nei confronti del manifestante, ma anche perché nella legislazione del nostro Paese manca il reato di tortura. Un grave vulnus, se si considera che la stessa Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali prevede, all'articolo 3, che "nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti". Esattamente quanto capitato alla scuola Diaz. Trent'anni di vuoto Ed ecco che allora si riaccendono i fari, inevitabilmente, sulla mancanza nell'ordinamento penale italiano del reato di tortura. Un vuoto che grida vendetta. Non fosse altro che la Convenzione delle Nazioni unite a riguardo risale al 1984 ed è stata ratificata dal nostro Paese quattro anni dopo, nel 1988. Fa niente se all'articolo 2 della Convenzione si legga che "ogni Stato parte adotta misure legislative, amministrative, giudiziarie e altre misure efficaci per impedire che atti di tortura siano commessi in qualsiasi territorio sottoposto alla sua giurisdizione". Fa niente, ancora, se sono passati ormai quasi trent'anni da quell'atto senza che nulla sia assolutamente cambiato: il reato di tortura continua a essere un miraggio. A fare il punto sul ritardo del nostro Paese, d'altronde, è stato poco tempo fa lo stesso Centro studi della Camera che annovera, in un dossier, tutti gli atti internazionali - oltre a quello Onu - che si sono occupati della questione. Tutti trattati che stabiliscono, nero su bianco, un punto: nessuno può essere sottoposto a tortura o a trattamenti inumani. Tra gli altri, parliamo della Convenzione di Ginevra del 1949 sul trattamento dei prigionieri di guerra, della già ricordata Convenzione europea dei diritti dell'uomo del 1950 (ratificata nel 1955), della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 1966 (ratificata dal nostro Paese nel 1977), della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea del 2000. E l'Italia? Negligenza e corporativismo contro l'introduzione del reato Per capire cosa si sia fatto nel frattempo in Italia, basti scorrere la marea di leggi presentate negli ultimi anni e nelle ultime legislature. Tutte, manco a dirlo, puntualmente bloccate. Il primo tentativo risale addirittura al 1989. Da allora, secondo quanto risulta consultando la banca dati del Senato, sono stati presentati 87 disegni di legge. Ma, per la stragrande maggioranza di questi, l'esame non è mai nemmeno cominciato. E ancora: molti ddl sono stati soltanto annunciati, alcuni si sono arenati in commissione, altri approvati solo in prima battuta a Montecitorio o a Palazzo Madama per poi morire in silenzio. Sui motivi di tale ostruzionismo Patrizio Gonnella, presidente di "Antigone", una delle associazioni più attive per l'introduzione del reato di tortura, ha le idee chiare. "Questa è una domanda che ci facciamo tutti", dice. "È possibile attribuire, a mio modo di vedere, tale stallo a più responsabilità: per tanto tempo c'è innanzitutto stata una forte pressione, a volte esplicita a volte implicita, delle corporazioni delle forze dell'ordine". Spesso, continua Gonnella, "si è mal interpretato lo spirito stesso della legge ed è passata l'idea, infondata, che si volesse criminalizzare la polizia, cosa ovviamente falsa". Negli ultimi anni, però, a detta del presidente di "Antigone", il corporativismo ha lasciato posto alla negligenza politica: "Non c'è stata una sola forza politica che ha fatto della questione una battaglia propria e sentita. Spesso, poi, nel dibattito parlamentare, la discussione è stata frenata da politici vicini alle forze dell'ordine o alla magistratura. È capitato ultimamente anche con Di Pietro che con l'Idv ha bocciato anche la proposta d'inchiesta parlamentare sui fatti di Genova e sulla Diaz". Ed è capitato, andando a ritroso, "anche con i Ds". Il riferimento è al 2006, anno in cui si è arrivati ad un passo dall'approvazione del reato di tortura: la Camera approvò in prima lettura un ddl ma al Senato, proprio per le reticenze di alcuni parlamentari Ds, la già risicata maggioranza non aveva i numeri per l'approvazione e la norma, alla fine, naufragò. Nel corso degli anni, dunque, si è creato "un circolo vizioso per il quale le forze politiche hanno fatto cose che nemmeno le corporazioni delle forze di polizia chiedevano più". Finalmente una legge. Monca Ora, però, pare che siamo vicini a una reale introduzione del reato di tortura. Peccato però che, come spesso accade, non è tutto oro quello che luccica. A cominciare dai tempi. Il disegno di legge in questione è stato presentato dal senatore Felice Casson (Pd) il 2 aprile 2013, per poi essere annunciato in seduta il giorno dopo. Da allora è passato quasi un anno prima che si arrivasse ad una sua approvazione a Palazzo Madama (5 marzo 2014). Dopodiché altro stand-by: per circa un anno del ddl non si è saputo praticamente nulla. E così solo dopo un altro anno ancora, il 23 marzo di quest'anno, è stato annunciato l'inizio dei lavori in aula a Montecitorio. Ma non è finita qui. Accanto alla tempistica, come sottolineato ieri anche da Amnesty International, altri dubbi nascono entrando nel merito del testo che, infatti, "presenta delle incongruenze con quanto prescritto dalla Convenzione Onu". A cominciare dal fatto che il ddl introduce sì il reato di tortura ma lo fa restare un reato comune (imputabile dunque a tutti e non ai soli pubblici ufficiali): ogni cittadino, dunque, potrebbe rischiare una condanna per tortura che andrà dai 4 ai 10 anni. E le forze dell'ordine? Per loro pene ridotte se confrontate con quelle di altri Paesi d'Europa: si andrà dai 5 ai 12 anni, mentre in altri Paesi come il Regno Unito si può rischiare anche l'ergastolo. Finita qui? Certo che no. Rispetto alla prima versione è stato anche cancellato un passaggio dell'articolo 5 che avrebbe previsto l'istituzione di un fondo per le vittime di tortura. Come dire: davanti alla spending review, non c'è diritto che tenga. Il reato c'è ma non (per ora) non si vede In effetti, conclude Patrizio Gonnella, "l'optimum sarebbe stato tradurre l'articolo della Convenzione dell'84 dall'inglese all'italiano. Tre minuti di lavoro ed era perfetto". Le associazioni, però, sono convinte che, nonostante tutto, bisogna andare avanti con il testo in discussione, anche perché "il rischio è che se cercassimo la perfezione, daremmo argomenti a chi vuole invece frenare tutto. Oggi è essenziale approvare il miglior testo possibile. Se per ora il miglior testo è questo, va ugualmente bene purché si avvicini alla Convenzione Onu e purché consenta ai giudici di sanzionare comportamenti come quelli della Diaz". Già, perché quello della scuola genovese non è l'unico caso, sebbene il più emblematico. Basti pensare al poco conosciuto caso del carcere di Asti dove, ugualmente, è pendente un ricorso a Strasburgo per le violenze (documentate) dei poliziotti penitenziari sui detenuti. Nessuno dei pubblici ufficiali è stato però condannato. Nelle motivazioni della sentenza il giudice spiega chiaramente le ragioni dell'assoluzione: semplicemente perché il reato di tortura in Italia non esiste. Ancora per poco, si spera. Giustizia: Unione Europea, il reato di tortura manca solo in Italia e in Germania di Matteo Bartocci Il Manifesto, 9 aprile 2015 Da oggi l'aula della Camera discute (finalmente) dell'introduzione del reato di tortura nel codice penale. La proposta di legge prevede pene pesanti: la reclusione va da 4 a 10 anni; se poi a torturare è un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio la pena è aggravata da 5 a 12 anni. L'istigazione alla tortura specifica vale solo per pubblici ufficiali e incaricati di pubblico servizio. Si raddoppiano i termini di prescrizione; se prima non interviene il processo il reato si estinguerà in 20 anni. Non si potrà godere di alcuna immunità diplomatica. In più è previsto il divieto assoluto di espulsione o respingimento verso paesi che praticano la tortura e qualsiasi dichiarazione o informazione estorta sotto tortura non sarà utilizzabile in un processo; varranno, però, come prova contro gli imputati di tortura. Ma cosa accade negli altri Paesi europei? Quasi tutti gli stati più importanti, ad eccezione della Germania e dell'Italia, hanno introdotto da tempo forme legislative specifiche contro il reato di tortura. Francia In Francia il reato di "tortura o atti di barbarie" è disciplinato dal codice penale. La pena minima è fino a 15 anni senza possibilità di godere di benefici come la sospensione o il frazionamento. La reclusione può arrivare fino 20 anni se commessa su un minore o un disabile fisico o psichico e fino a 30 se il reato è commesso da un genitore, o in maniera abituale nei confronti di una persona vulnerabile per età, malattia o infermità. In caso di morte è previsto l'ergastolo. Regno Unito Nel Regno Unito, il Criminal Justice Act del 1988 prevede una pena pari all'ergastolo per chi commette il reato di tortura definito come "il pubblico ufficiale" che nell'esercizio delle sue funzioni "pone in essere azioni tali da procurare ad altri sofferenza fisica o psicologica". Spagna In Spagna il codice penale modula le pene in base all'autore del reato. In via generale la pena va da 6 mesi a due anni. Se a commettere il reato di tortura è un funzionario pubblico la detenzione va da 2 a 6 anni per i fatti gravi e da uno a 3 per fatti meno gravi. In ogni caso è prevista l'inabilitazione assoluta da 8 a 12 anni. Giustizia: Cucchi, Aldrovandi e gli altri… la nuova norma sulla tortura se ne frega di Paola Zanca Il Fatto Quotidiano, 9 aprile 2015 Oggi alla Camera il voto sulla legge per il reato di tortura M5S, familiari delle vittime e associazioni denunciano: "così com'è non serve a nulla, sarà impossibile trovare le prove". L'avvocato Fabio Anselmo scuote la testa piuttosto nervoso: "Oh, io ho la tessera del Pd eh... sia chiaro! Ma questa volta hanno ragione!". Il soggetto sottinteso sono i parlamentari del Movimento Cinque Stelle. Davanti a lui - diventato il legale "ufficiale" dei morti di Stato - hanno appena annunciato che oggi, se non verrà accolto nessuno dei loro emendamenti, voteranno contro il disegno di legge per l'introduzione del reato di tortura. Il consueto ragionamento sui grillini che troppo vogliono e nulla stringono questa volta vacilla, e l'avvocato Anselmo vuole dire proprio questo quando tira in ballo la sua tessera del Pd. Dice Anselmo che approvare quel testo così com'è sarebbe solo concedere "un alibi" al Paese: "Di fronte a un'altra Diaz potrà dire: ‘io la legge l'ho fatta, punire il reato è compito dei magistratì. Ma se una legge sulla tortura consente che escano dalle maglie casi come quello di Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi o Francesco Mastrogiovanni, allora è meglio non averla. Ho paura che questa legge serva solo a levare l'Italia dall'imbarazzo". Ebbene sì, se anche la legge che aspettiamo da 27 anni venisse approvata oggi dalla Camera sull'onda della condanna della Corte di Strasburgo, l'ipotesi di tortura non sarebbe stata contemplata nemmeno in casi eclatanti come quelli elencati dall'avvocato Anselmo. Né per gli occhi pesti del romano Cucchi, né per le 54 ferite inferte su Aldrovandi in una strada di Ferrara, né per le 90 ore che Mastrogiovanni ha trascorso legato a un letto in un centro di salute mentale a Vallo della Lucania. La ragione sta nella serie di "incisi superflui e pericolosi" che sono stati introdotti nel testo di legge (e che per questo motivo dovrà tornare al Senato): avverbi, frasi e specifiche che trasformano l'accertamento del reato in una missione quasi impossibile. Li hanno illustrati ieri i deputati M5S Vittorio Ferraresi e Giulia Sarti, accompagnati appunto dall'avvocato Anselmo, dai famigliari delle vittime e dai rappresentanti di Amnesty International e di Antigone. Prima di tutto c'è la parola "intenzionalmente". In pratica, non basta dimostrare che un soggetto ha, attraverso la violenza o la minaccia, inflitto "acute sofferenze fisiche o psichiche" allo scopo di punire, ottenere informazioni, vincere una resistenza. No, bisogna anche provare che nel farlo, il torturatore, ha sentito un "compiacimento personale". Dice Anselmo: "Presuppone il sadismo. Ma come lo dimostriamo?". Poi c'è la questione della prescrizione. Gli agenti dell'irruzione alla Diaz li ha salvati quella. E forse, sarebbe il caso che su temi così delicati, il reato fosse a lunga conservazione. Succede in molti dei Paesi che, come noi, hanno ratificato la convenzione Onu del ‘84 che vieta la tortura: hanno istituito un reato "proprio", circoscritto ai pubblici ufficiali (noi no) e lo hanno qualificato come un reato di "lesa umanità" imprescrittibile (noi no). Raccontava ieri Antonio Marchesi, portavoce di Amnesty, che il nostro ordinamento in materia, per esempio, è molto più arretrato rispetto a quello dell'Argentina: così, non abbiamo concesso l'estradizione di alcuni torturatori del regime perché da noi quei reati non erano puniti (e in ogni caso sarebbero stati prescritti). Marchesi è dell'idea che il testo all'esame della Camera sia "tutt'altro che perfetto" ma teme che uno stop sarebbe un'occasione persa: "Non è detto - ricorda - che il tempo che rimane da qui a fine legislatura sia sufficiente a fare una legge migliore". Un po' la stessa tesi di Luigi Manconi, senatore Pd e presidente dell'associazione A Buon Diritto: "Una legge mediocre è meglio che nessuna legge". Tra gli altri punti che i Cinque Stelle mettono all'indice c'è il fatto che il reato è contemplato solo nell'esercizio delle funzioni (loro chiedono che venga ampliato anche al di fuori). E poi la spiegazione secondo cui "la sofferenza" provata dalla vittima deve essere "ulteriore" rispetto a quella che proverebbe con le "legittime misure privative o limitative di diritti". Si tratta di ipotesi già contemplate dal codice penale: "Più paletti metti, più specificazioni fai - conclude l'avvocato Anselmo - più sarà faticoso accertare il reato". I Cinque Stelle sono fiduciosi che un compromesso si troverà. Ma l'Ncd di Alfano pare irremovibile. Renzi, provocato sul suo no comment alla sentenza di Strasburgo, ha risposto all'ex disobbediente Luca Casarini: "Quello che dobbiamo dire lo dobbiamo dire in Parlamento con il reato di tortura". Cosa ci sia scritto dentro è un di più. Giustizia: cinismo, giochi di potere, ipocrisia e piccole viltà dopo la condanna sul G8 di Piero Sansonetti Il Garantista, 9 aprile 2015 Ai due Matteo (Orimi e Renzi), della mattanza di Genova 2001 e della decisione della Corte Europea di condannare la polizia italiana per aver torturato ragazzi inermi, non gliene frega un fico secco. I due Matteo sono esattamente due esponenti della generazione che poco meno di 15 anni fa diede vita al movimento no-global, cioè all'ultimo episodio di ribellione di massa contro il liberismo e probabilmente all'ultima prova di "esistenza in vita" della sinistra (non solo in Italia). I due Matteo - mentre i loro coetanei urlavano a Genova (e poi a Porto Alegre, a Barcellona, a Goteborg e altrove) contro lo strapotere del mercato, e chiedevano giustizia sociale, e si battevano contro la guerra, e poi subivano la ferocia sadica di alcuni reparti della polizia italiana - se ne stavano chiusi negli uffici dei loro partiti, a fare i giovani burocrati e a pensare alla carriera. Ci pensarono bene, alla carriera, dicono i fatti. Scoprire nel 2015 che Gianni De Gennaro nel 2001 era il capo della polizia italiana è una cosa davvero paradossale. Da ridere. O anche da piangere ovviamente. A seconda che si consideri il cinismo l'anima della commedia o della tragedia. De Gennaro non ha subito nessuna condanna per la mattanza di Genova, né dai tribunali italiani né da quelli internazionali. Questo non vuol dire che non abbia una responsabilità politica oggettiva: era il capo della polizia e l'immagine della polizia uscì distrutta dalla vicenda genovese e dal modo nel quale essa rimbalzò sulla stampa di tutto il mondo. Uscì distrutto anche il rapporto di fiducia tra polizia e popolo. E il prestigio internazionale dell'Italia subì un colpo micidiale. E dunque sarebbe stato logico presentare il conto a De Gennaro. Ma nessuno glielo presentò: né la destra né la sinistra. Perché? Forse per la semplice ragione che allora Gianni De Gennaro era uno uomo molto potente, e la politica italiana (come del resto il giornalismo) non abbonda di cuor di leone. La politica italiana ( e anche il giornalismo) azzanna la vittima solo quando è sicura che sia già sconfitta. Oggi De Gennaro non è certo l'uomo potente del primo decennio del duemila, e allora la politica pensa che sia attaccabile. E siccome De Gennaro è considerato un uomo di D'Alema e di Letta, i due Matteo lo vogliono far fuori. Non certo perché gli batta il cuore di dolore per le randellate prese dai ragazzi di Genova, o per le torture a Bolzaneto: semplicemente perché vogliono mettere un uomo loro a Finmecccanica. È questo che davvero indigna. L'uso strumentale di una battaglia ideale per accaparrarsi una poltroncina e per chiudere una vendetta. Finché la politica sarà questo, dopo aver perso tutti i suoi contenuti di pensiero e di strategia, finché sarà solo un gioco di società per accaparratori di potere, è impensabile che l'Italia esca dalla crisi. La crisi morale - parola abbastanza insensata ma abusatissima da anni - non è qualche tangente - che sempre c'è stata e sempre ci sarà - ma è la fine delle idealità e la vittoria dei pescecani, la fine della lotta delle idee sostituita dalla lotta degli sgabelli (beh, quello di Finmeccanica non è proprio uno sgabello). Ai due Matteo non è mai importato nulla del reato di tortura che dovrebbe esistere nel nostro codice dagli anni ottanta (quando loro erano ragazzini) e ancora non esiste. Conoscete qualche iniziativa dei Matteo per accelerare l'iter? O sapete di qualche grido di indignazione perché nelle carceri italiane, dove si vive come in un pollaio, la tortura, quotidiana, continua, è la norma? O vi risulta che si siano pronunciati contro il carcere preventivo usato - abitualmente - per cercare di ottenere confessioni o pentimenti, che è una pratica assolutamente simile alla tortura? No, non avete sentito grida dei due Matteo, né vi risultano loro iniziative. Vogliono la testa di De Gennaro, e basta. È spaventoso il grado di ipocrisia che guida la nostra classe dirigente. È vero che la politica - e il giornalismo - hanno sempre convissuto con un certo grado di ipocrisia. Ma una cosa è usare l'ipocrisia come strumento, una cosa diversa è farne un valore. E sulla sentenza della Corte Europea su Genova 2001 lo scatenamento dell'ipocrisia è stato impressionante. Anche su un fronte opposto a quello dei Matteo. Ieri, per esempio, il Fatto quotidiano ha aperto il giornale con un bel titolo a tutta pagina: "La tortura è reato. In Europa". Con una polemica aperta contro il fatto che in Italia con è reato. Applausi al titolo. Poi, però, sommessamente, una domanda: ma il partito dei Pm (al quale, con una modesta approssimazione, associamo il Fatto) ha mai fatto qualcosa per chiedere che fosse introdotto nei codici il reato di tortura? Non mi pare. Ha chiesto il reato di auto-riciclaggio, l'aumento delle pene per le tangenti, ha chiesto il falso in bilancio, l'omicidio stradale, l'aumento delle prescrizioni. Ha chiesto più intercettazioni, ha chiesto l'abolizione del secondo grado di giudizio. E della tortura quando ha parlato? Mai. E II "Fatto" quando si è preoccupato della tortura? E la politica giudiziaria, in Italia, è stata imposta dal partito dei Pm e dai suoi giornali, o no? PS. Gianni de Gennaro è una figura molto complessa. È stato un poliziotto eccezionale, forse il più bravo poliziotto del dopoguerra. Insieme al suo amico Falcone ha inferto dei colpi micidiali alla mafia (lui e Falcone sono gli unici ad avere davvero colpito al cuore la mafia). Poi ha fatto molte altre cose che non so giudicare (tra le quali il capo dei servizi segreti) e sicuramente ha svolto malissimo il ruolo di capo della polizia perché, da sola, la macchia di Genova è indelebile (anche se ha avuto il merito di allevare una nidiata di allievi, come manganelli e Pansa, che si sono dimostrati ottimi successori). Personalmente, da giornalista, quando scrivevo sull'Unità e su Liberazione ho chiesto mote volte le dimissioni di De Gennaro. Chiederle oggi, però, francamente, mi pare una cosa un po' ridicola e un po' vigliacca. Giustizia: promossi o riciclati come manager, le carriere miracolose dei poliziotti di Genova di Marco Preve La Repubblica, 9 aprile 2015 Banche, squadre di calcio, aziende di Stato. In attesa di indossare di nuovo la divisa. Ricche consulenze per i big rimasti (temporaneamente) fuori dal corpo, e neppure un giorno di sospensione per i capisquadra che guidarono gli agenti torturatori. Con i protagonisti di una delle pagine più nere della democrazia italiana, in fondo, la sorte non è stata così maligna. Ed è anche questo aspetto, quello di un'impunità quasi totale, che ha influito non poco nel giudizio con cui la Corte Europea dei Diritti Umani ha condannato l'Italia per le torture avvenute all'interno della scuola Diaz al G8 genovese del 2001. La Corte di Strasburgo ha sottolineato che di fronte al semplice sospetto di gravi abusi commessi da appartenenti alle forze dell'ordine la Convenzione dei Diritti dell'uomo prevede l'allontanamento degli stessi dalle posizioni che occupano già nella fase d'indagine. Invece per la Diaz è accaduto l'esatto contrario, molti di loro sono stati promossi questori, capi di dipartimento, prefetti, e da indagati e condannati hanno raggiunto livelli apicali. Quelli che hanno dovuto lasciare la divisa sono quasi tutti "caduti in piedi" e gli altri rappresentano ancora lo Stato nelle strade e nelle piazze d'Italia. Quando nel luglio 2012 la Cassazione conferma le pesanti condanne di appello per falso (le uniche che si sono salvate dalla prescrizione a differenza delle lesioni gravi) Franco Gratteri è il capo della Direzione centrale anticrimine, Gilberto Caldarozzi, capo dello Servizio centrale operativo, Giovanni Luperi, capo del dipartimento analisi dell'Aisi, l'ex Sisde, Filippo Ferri, il più giovane, figlio dell'ex ministro e fratello del sottosegretario alla giustizia, guida la squadra mobile di Firenze. L'interdizione dai pubblici uffici obbliga il ministero ad espellerli. Non restano a spasso per molto. Ferri diventa responsabile della sicurezza del Milan e per alcuni mesi è l'angelo custode di Mario Balotelli. Gilberto Caldarozzi lavora prima per le banche e poi viene chiamato come consulente della sicurezza a Finmeccanica dal suo vecchio capo, Gianni De Gennaro. Indiscrezioni raccontano che anche Franco Gratteri abbia avuto rapporti con il colosso di Stato ma dall'ufficio stampa dicono che non risulta. A Gratteri, nel 2013 il ministero pagava ancora un appartamento di servizio nel centro di Roma, ufficialmente per motivi di sicurezza. Tra gli altri funzionari di vertice che si sono riciclati come consulenti c'è anche Salvatore Gava ex dirigente di squadra mobile che oggi lavora per Unicredit. Attività manageriale starebbe svolgendo anche un altro condannato per la Diaz, quel Fabio Ciccimarra che è stato condannato in appello (prescritto in Cassazione) per sequestro di persona per i fatti del G7 di Napoli alla Caserma Raniero, sempre nel 2001. Ciccimarra da indagato in due processi e già con condanne in primo grado era un funzionario in carriera fino al 2012, quando il definitivo per la Diaz lo colse capo della squadra mobile all'Aquila. Vincenzo Canterini, il capo del reparto mobile di Roma dopo il 2001 ha avuto prestigiosi incarichi nelle ambasciate europee e una volta in pensione si è dedicato anche a rievocare, a modo suo, la vicenda Diaz in un libro. Il suo vice Michelangelo Fournier, il funzionario che interruppe i pestaggi al grido di "basta basta", che al processo parlò di "macelleria messicana", ma che non fu mai in grado di individuare neppure un responsabile delle brutalità tra i suoi uomini, oggi è sempre in servizio e ricopre anche un ruolo sindacale. Se, per questioni anagrafiche, i cinque anni di interdizione dai pubblici uffici mettono fuori gioco Gratteri e Luperi (anche se non sono vietate consulenze con i servizi segreti), per i più giovani non è escluso, ed è anzi previsto, un ritorno in divisa una volta scontato il periodo. Nessun esponente di governo ha infatti mai specificato che non saranno riammessi. Potrebbero indossarla ancor prima due funzionari responsabili di condotte minori nella vicenda Diaz. Uno di loro è quel Pietro Troiani che diede ordine al suo autista di trasferire dal blindato al cortile della scuola Diaz il sacchetto con le molotov poi addebitate ingiustamente ai manifestanti. L'aver beneficato dell'affidamento ai servizi sociali per i pochi mesi da scontare non coperti dall'indulto consente infatti di ottenere la cancellazione dell'interdizione. Grazie alla prescrizione per le lesioni gravi non hanno invece subito nessuna interdizione i capisquadra condannati: Fabrizio Basili, Ciro Tucci, Carlo Lucaroni, Emiliano Zaccaria, Angelo Cenni, Fabrizio Ledoti, Pietro Stranieri. Hanno continuato a fare il loro lavoro. Addirittura il governo italiano, come si legge nella sentenza della Corte europea, non ha mai voluto informare i giudici di Strasburgo circa le sanzioni disciplinari adottate. E lo stesso sta facendo il ministro Angelino Alfano da due anni esatti. Nel maggio del 2013 i parlamentari di Sel presentarono un'interrogazione al Viminale per sapere quali misure disciplinari fossero state prese nei confronti dei condannati per la Diaz. La risposta deve ancora arrivare. Giustizia: il solletico alla corruzione, tra demagogia e ricette mancate di Massimo Villone Il Manifesto, 9 aprile 2015 Corruzione o confusione? L'onda maleodorante lambisce palazzo Chigi e il Pd di governo, ed è debole rispondere che si tratta del partito di ieri. Il rapporto 2014 della Guardia di Finanza fotografa un paese gravemente malato: solo per i reati contro la pubblica amministrazione 3.700 presunti responsabili e miliardi di euro bruciati. Si scatenano analisi, suggerimenti e proposte. E tuttavia un passo avanti, uno indietro, uno di lato. Prescrizione lunga sì, ma non troppo, e men che mai scelte drastiche come escluderla dopo la condanna di primo grado. Legge Severino sì, forse, magari con limature. Soprattutto su incandidabilità, ineleggibilità e partecipazione a organi di governo andiamoci piano. Privacy sì, anche i politici hanno diritto, forse un po' meno degli altri, ma è una questione di civiltà. Anche se per la sicurezza peschiamo con lo strascico nei computer di sessanta milioni di italiani. Intercettazioni sì, ma non esageriamo. E soprattutto evitiamo con ragionati bavagli che se ne parli sui media. Con buona pace dell'opinione pubblica, della responsabilità politica e del controllo sociale, pilastri della democrazia. Quanto ai magistrati, è avviata la normalizzazione con le norme sulla responsabilità. Lo voleva l'Europa? Falso. Al più, chiedeva la responsabilità dello stato, non quella civile del singolo magistrato. In ogni caso, indaghiamo partendo dalle cooperative. Poi mettiamo sotto torchio le fondazioni. E i politici che frequentano abitualmente Confindustria? Fanno cultura? Nelle platee di Cernobbio e Ambrosetti nessuno avrà mai dato o ricevuto mazzette, case, viaggi all'estero, regali, consulenze, occasioni professionali, o avrà mai saputo, taciuto, tollerato? E perché cooperative e fondazioni? La corruzione le ha come forme giuridiche favorite? Le società per azioni non ci interessano? E le associazioni non profit che gestiscono col sostegno pubblico servizi di rilievo sociale? Fingiamo di non vederne la frequente strumentalità verso il consenso per questo o quel politico? Non a caso fioriscono nel governo locale. Una cosa è esternalizzare la manutenzione delle fotocopiatrici e dei computer. Ben altra esternalizzare l'assistenza agli anziani o ai disabili, magari a cooperative di ex-disoccupati o ex-detenuti. O ancor più privatizzare l'acqua. Allora facciamo gestire gli appalti da soggetti indipendenti doc, scegliendone i componenti per sorteggio. Ma come definiamo la platea dei sorteggiandi? E chi custodisce i custodi? Poi, basta chiedere agli universitari per sapere che il sorteggio non cancella nepotismi e clientele, ma li rende al più erratici e casuali. A chi vuole fare impresa vera un consiglio: lasciate perdere, datevi al lotto e al gratta e vinci. Ma alla fine è il denaro che corteggia la politica o la politica che corteggia il denaro? Una demagogia pusillanime ha cancellato il finanziamento pubblico. Una campagna elettorale anche banale arriva a sei cifre. I partiti hanno le casse vuote, mentre la preferenza unica esaspera la competizione al loro interno. Tutti contro tutti, e le primarie raddoppiano i costi. Attrarre contributi è per i candidati vitale, e non si chiedono ai poveracci. Combattere la corruzione richiede una strategia globale e coerente, volta a prevenire e ostacolare l'attività criminosa giorno per giorno, in ogni luogo in cui si gestisce la cosa pubblica. Riforme costituzionali ed elettorali che favoriscano la rappresentatività e le new entries, e tendano a ripristinare gli strumenti della responsabilità politica e istituzionale. Questo si ottiene abbattendo le soglie, riducendo al minimo gli incentivi maggioritari, evitando l'ipertrofia degli esecutivi a danno delle assemblee elettive. Riforme che contengano i costi della politica, ad esempio scegliendo il collegio piuttosto che il voto di lista e preferenza, e parallelamente ripristinando un finanziamento pubblico ragionevole, rigoroso, a prova di imbroglio. Una legge sui partiti che garantisca la democrazia interna e i diritti degli iscritti, rendendo al soggetto politico la capacità di reggere responsabilità pubbliche, e superando il populismo demagogico delle primarie aperte. E ancora riforme della pubblica amministrazione, che riportino all'interno dell'organizzazione pubblica un sapere tecnico che eviti al massimo il ricorso a competenze esterne nella forma di consulenze, organismi tecnici, nuclei di valutazione o altro. Riforma del rapporto tra politici e dirigenti, che temperi la sudditanza del dirigente verso il politico cui deve la propria nomina o la permanenza nell'incarico. Ripristino di forme essenziali di controllo di legittimità degli atti. Piena visibilità, escludendo garanzie di privacy, per le responsabilità penali, civili, amministrative, contabili di chi opera nel pubblico o a contatto del pubblico. Alla fine, e solo alla fine, sanzioni penali incisive per corrotti e corruttori. Poco o nulla del genere è nei propositi del governo, che anzi va in senso largamente opposto. La vastità del compito esalta la mancanza di un disegno. Ma esalta anche la pochezza delle risposte degli oppositori. La classe dirigente rottamata e in via di estinzione ha commesso un errore decisivo con le primarie aperte, consegnando il partito e il paese a Renzi. Ma è stato solo l'ultimo di una lunga serie di errori dovuti in buona misura alla accettazione subalterna di una cattiva cultura politica e istituzionale, estranea alla tradizione della sinistra. Un punto rimane. Di certo Renzi e i suoi hanno rottamato il vecchio. Per quel che fanno, non costruiranno il nuovo. Se avremo fortuna, saranno solo un transitorio. Giustizia: Gdf; irregolare un appalto su tre, nel 2014 scoperti 8mila evasori totali di Enrico Bronzo Il Sole 24 Ore, 9 aprile 2015 Tra frodi ai finanziamenti pubblici e sprechi nella pubblica amministrazione, lo Stato ha subito un danno di 4,1 miliardi nel 2014. Il dato è contenuto nel Rapporto annuale della Guardia di finanza, pubblicato oggi e disponibile sul sito del corpo, dal quale emerge che sono oltre 3.700 le persone denunciate per reati contro la Pubblica amministrazione. Per quanto riguarda le frodi ai finanziamenti pubblici, gli uomini delle Fiamme gialle hanno scoperto contributi illecitamente percepiti per quasi 1,3 miliardi: 666 milioni provenivano dai fondi dell'Unione europea e 618 da fondi nazionali. Inoltre, sono state accertate frodi per 113 milioni alla spesa previdenziale e per 141 milioni alla spesa sanitaria. I danni alle casse dello Stato dovuti invece agli sprechi nella pubblica amministrazione ammontano a 2,6 miliardi. Complessivamente sono state denunciate 18 mila persone di cui 3.745 per reati contro la Pa. Di queste ultime, 229 sono state arrestate. A seguito delle indagini, gli uomini della Guardia di finanza hanno recuperato e sequestrato 161 milioni dalle frodi all'Ue, 164 dalle truffe ai fondi statali, 121 dai reati contro la pubblica amministrazione e 13 dalle truffe al sistema previdenziale. Appalti pubblici per 1,8 miliardi, più di un terzo di quelli controllati e monitorati, sono stati assegnati illecitamente nel 2014. La Guardia di finanza ha effettuato verifiche su 220 appalti, per un valore complessivo di 4,6 miliardi. Complessivamente sono state denunciate 933 persone, di cui 44 arrestate. I controlli degli uomini delle Fiamme gialle hanno riguardato appalti pubblici per complessivi 4 miliardi e 630 milioni e dalle indagini è emerso che ben più di un terzo dell'importo, vale a dire un miliardo e 793 milioni, è stato assegnato in maniera irregolare. Su questo fronte, sottolinea la Gdf, l'azione del corpo si è mossa secondo due direttrici: una, "in chiave preventiva, attraverso lo sviluppo di costanti sinergie con l'Autorità nazionale anticorruzione", l'altra, "ai fini repressivi, per contrastare la diffusione dell'illegalità nella pubblica amministrazione". Sono quasi 8mila gli evasori totali, soggetti completamente sconosciuti al Fisco, scoperti dalla Guardia di finanza nel 2014, mentre è di un miliardo e duecento milioni il valore dei beni sequestrati per reati tributari. Complessivamente, sono 17.802 i reati tributari scoperti e 13.062 i soggetti denunciati, di cui 146 arrestati. Nell'ambito della lotta all'evasione fiscale e al sommerso, gli uomini delle Fiamme gialle hanno anche scoperto 11.936 lavoratori in nero e 13.369 lavoratori irregolari. 5.082 sono invece i datori di lavoro scoperti e denunciati, che utilizzavano manodopera irregolare o in nero. Nel corso del 2014 la Gdf ha sottratto alla criminalità organizzata beni per quasi 4 miliardi: 3,3 miliardi è infatti il valore dei beni sequestrati e 733 milioni è quello dei beni confiscati. Oltre cinquemila gli accertamenti patrimoniali svolti l'anno scorso. Oltre 290 milioni di prodotti, tra falsi e non in regola con la normativa comunitaria, sono stati sequestrati dalle Fiamme Gialle nel 2014, per un valore quantificato attorno ai 2,9 miliardi. Dei prodotti, 42 milioni erano contraffatti e 247 non rispondenti alle norme di sicurezza. 1.400 sono invece le tonnellate di cibi sequestrati nell'ambito dei controlli sulle frodi nel comparto alimentare. Giustizia: un altro manager interrogato 5 ore, ecco i legami tra Cpl Concordia e Pd di Fulvio Bufi e Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 9 aprile 2015 Il responsabile commerciale Verrini rivela i nomi di politici e amministratori. Ha chiesto di essere interrogato e per oltre cinque ore ha risposto alle domande dei pubblici ministeri. Nell'inchiesta sugli appalti truccati della "Cpl Concordia", c'è un altro manager che decide di collaborare. È Nicola Verrini, responsabile commerciale ed ex componente del consiglio di amministrazione, e le sue dichiarazioni sembrano aprire scenari inediti, visto che affronta i rapporti con la politica e in particolare il legame tra il presidente Roberto Casari e il Partito democratico. Non è l'unica novità. Gli accertamenti di queste ore riguardano anche la provenienza di una busta con migliaia di euro in contanti trovata a casa dello stesso Casari con una scritta a matita: "Baffo". Accade tutto martedì mattina, subito dopo le vacanze pasquali. Mentre i carabinieri del Noe sono impegnati a verificare le dichiarazioni di Francesco Simone, il responsabile delle relazioni istituzionali della cooperativa modenese che ha ricostruito i retroscena di appalti e nomine degli ultimi anni, i difensori di Verrini - gli avvocati Massimo e Michele Jasonni - contattano i magistrati. Di fronte al giudice il manager si era avvalso della facoltà di non rispondere. "Era sotto choc per l'arresto - chiariscono i legali - ma dopo qualche giorno abbiamo concordato sull'opportunità di incontrare i magistrati". Detto fatto. I sostituti procuratori Henry John Woodcock e Celeste Carrano entrano nel carcere di Poggioreale alle 15 di due giorni fa, escono quando è ormai tarda sera. Verrini ha certamente un ruolo chiave all'interno della "Cpl" perché è il responsabile commerciale ma soprattutto perché, come spiega il difensore, "è entrato come tecnico di cantiere e poi ha fatto carriera fino a diventare responsabile commerciale per l'area del Tirreno e membro del consiglio di amministrazione". Circa un anno fa arriva la svolta, alcuni manager vengono convocati come indagati, scoprono che l'inchiesta riguarda alcune commesse ottenute in Campania e in particolare la metanizzazione di Ischia. "Verrini - ricorda l'avvocato Jasonni - si è dimesso dal consiglio di amministrazione e ha chiesto di essere spostato in un'altra zona commerciale per non continuare ad avere interessi professionali nell'area oggetto dell'inchiesta della Procura di Napoli". La decisione non lo salva comunque dall'arresto. Il giudice lo accusa di aver partecipato a quell'associazione per delinquere, creata insieme agli altri responsabili della "Cpl", che versava tangenti a politici e pubblici amministratori per aggiudicarsi i lavori. Di fronte ai pubblici ministeri Verrini non lo nega. Racconta dettagli, circostanze. Poi fa i nomi degli interlocutori che hanno consentito alla cooperativa di seguire una corsia privilegiata nelle gare. E approfondisce quei legami che Casari ha con numerosi esponenti del Pd. Anche Simone sta parlando dei rapporti con i politici, ricostruendo i retroscena delle trattative che lui stesso ha seguito personalmente per ottenere l'assegnazione degli appalti. I magistrati hanno disposto immediate verifiche su quanto messo a verbale da entrambi. I due sono sempre stati in costante contatto, confrontandosi praticamente su ogni mossa. Sono proprio loro che l'11 marzo del 2014 - ignari di essere intercettati - discutono sull'opportunità di finanziare la Fondazione Italiani Europei di Massimo D'Alema, colloquio ritenuto dal giudice "di estremo rilievo per il modo in cui gli stessi distinguono i politici e le istituzioni loro referenti operando una netta ma significativa distinzione tra quelli che al momento debito si sporcano le mani ("mettono le mani nella merda") e quelli che non lo fanno". Lunedì, quando i carabinieri sono entrati nelle case degli indagati per eseguire gli arresti, hanno perquisito gli appartamenti e da Casari hanno trovato la busta con 16 mila euro in contanti. "Sono i soldi che tengo a disposizione per le esigenze della famiglia, se dovesse accadermi qualcosa", ha spiegato. E sulla scritta ha aggiunto: "Si riferisce a me che ho i baffi". Lettere: la vera origine della gogna, i processi come strumenti di moralizzazione pubblica di Giovanni Fiandaca (Ordinario di diritto penale dell'Università di Palermo) Il Foglio, 9 aprile 2015 Contro le vestali delle Procure. Perché i magistrati utilizzano i processi come strumenti di moralizzazione pubblica e censura individuale. Ecco come funziona il "mascariamento". Qual è l'oggetto, qual è lo scopo del procedimento penale? Interrogativi come questi, a prima vista retorici od oziosi, tendono ciclicamente a riproporsi anche fuori della cerchia degli addetti ai lavori. Come nel caso recente ed eclatante di Massimo D'Alema, potenzialmente discreditato - pur non essendo indagato - dalla divulgazione di intercettazioni disposte nell'inchiesta sulle presunte tangenti ad Ischia. Offeso da questa diffusione pubblica di conversazioni prive di rilievo penale, l'ex premier ha subito reagito obiettando che "i magistrati devono accertare fatti e reati, senza attribuirsi funzioni politiche o pubblicistiche di alcun genere" (cfr. l'intervista al Corriere della Sera del 1° aprile 2015). Com'è risaputo, questo tipo di obiezione, tutt'altro che nuova, solleva un problema reale. Se i fatti in questione non sono in se stessi penalmente rilevanti, e neppure hanno valenza probatoria rispetto a reati commessi da altri, perché inserirli nelle ordinanze di custodia cautelare con l'effetto di renderli pubblici? Una spiegazione verosimile, maliziosa fino a un certo punto, è questa: si tratterebbe comunque di notizie di pubblico interesse, con conseguente diritto dei cittadini a esserne informati, o perché gettano ombre etico-politiche sui relativi protagonisti, oppure perché servono in ogni caso a ricostruire il complessivo contesto, la rete di relazioni in cui i comportamenti criminosi si ambientano. Ecco che, in questo modo, il procedimento penale avrebbe come obiettivo anche quello di illuminare la pubblica opinione sia sulla moralità del ceto dirigente, sia sulle cordate politico-affaristiche che alimentano il sistema della corruzione: e la magistratura di conseguenza si ergerebbe a istituzione che, per un verso, esercita - per dirla con Alessandro Pizzorno - un "controllo della virtù" sugli esponenti delle classi superiori; e che, per altro verso, assolve funzioni pedagogico-orientative a beneficio del popolo. Di questa tendenza a svolgere compiti che trascendono la repressione penale in senso stretto, sono del resto sintomatici l'approccio mentale e lo stesso linguaggio adottati in non pochi provvedimenti giudiziari: da cui si trae l'impressione che l'imputazione penale, debordando dalla contestazione di singoli e specifici illeciti, miri appunto a convogliare giudizi di disvalore di portata più ampia. Sembra, così, assistersi a una sorta di riscrittura giudiziaria della grammatica e della sintassi delle figure legali di reato: nel senso che queste figure vengono dalla magistratura d'accusa riconcettualizzate mediante una loro trasposizione dal codice penale in codici differenti, strutturati cioè secondo paradigmi eticopolitici e/o socio-criminologici. In poche parole: il reato - per dir così - si politicizza, eticizza o sociologizza. Gli esempi abbondano e c'è solo l'imbarazzo della scelta. Vediamone qualcuno. Nelle indagini e nei processi ad esempio per reati di criminalità organizzata o contro la pubblica amministrazione, le procure sono solite ricostruire grandi scenari in cui ad assumere la posizione di principale indagato o imputato è un sistema mafioso o un sistema corruttivo, valutati nella loro sostanza criminologica prima ancora che alla stregua di puntuali figure criminose. Così di recente, nell'ambito delle accennate indagini sulla coop Cpl Concordia, i pubblici ministeri napoletani stigmatizzano l'esistenza di "un assetto associativo e di una complessa rete di relazioni interpersonali con esponenti di rilievo del mondo imprenditoriale/ politico", che verrebbero sfruttati "d'intesa con i vertici della predetta società, anche attraverso il voto politico di scambio, come strumento attraverso il quale perseguire ingiusti profitti (…) e più in generale l'assegnazione di appalti attraverso un articolato sistema corruttivo(…)" (citazione tratta dal Corriere della sera del 2 aprile 2015). E, sempre nel contesto delle medesime indagini, i pm altresì ipotizzano "una sistematica e inquietante ingerenza" di un alto ufficiale della Finanza "in scelte e vicende istituzionali ai più alti livelli": a dispetto dell'allarmata preoccupazione che traspare da questa prosa giudiziaria, il presunto coinvolgimento sistemico dell'ufficiale in questione sembra tuttavia sfuggire alla presa dei guanti di legno del codice penale (il fascicolo, trasferito per competenza a Roma, sarebbe in corso di archiviazione: cfr. Repubblica del 3 aprile). Ancora una volta, al di là della diretta rilevanza penale, premono dunque il disvelamento della pericolosa rete di relazioni e il conseguente "mascariamento" mediatico dei personaggi coinvolti! A ben guardare, questa enfasi giudiziaria posta sul Sistema lascia trasparire tre cose. Primo: l'approccio dei magistrati d'accusa muove da una precomprensione, cioè dall'idea pregiudiziale del carattere sistemico della criminalità politico-amministrativa. Secondo: il fondamento giustificativo della colpevolezza poggia, più che su questo o quel reato specifico, sul fatto - assai riprovevole in sé - di entrare a far parte di sistemi del malaffare (anzi, che questa partecipazione eticamente censurabile poi assuma o meno rilevanza criminosa sul piano giuridico-formale, può apparire persino secondario!). Terzo: in coerenza con siffatte premesse pregiudiziali, la missione della giustizia penale finisce col consiste non soltanto nel reprimere singoli reati, bensì - prima ancora - nello svelare e combattere mali sociali sistemicamente diffusi. Non mancano, invero, casi in cui il fondamento etico-politico del rimprovero giudiziario risalta con particolare evidenza. Così, in un procedimento per concorso esterno in associazione mafiosa a carico di un noto uomo politico siciliano (l'ex presidente della Regione Salvatore Cuffaro, infine prosciolto però da una simile imputazione), il pm ha stigmatizzato il disvalore della condotta contestata in questi termini: "Il tradimento di Cuffaro, uomo delle istituzioni, è di una gravità inaudita" (cfr. Giornale di Sicilia del 31 maggio 2012). È appena il caso di rilevare che, argomentandosi in tal modo, l'addebito di concorso esterno riveste di panni giuridici una censura pregiudizialmente basata su parametri di giudizio morali e politici. Quanto ciò è compatibile con i principi di fondo di un diritto penale liberale, ispirato da un lato alla tendenziale separazione tra politica, etica e diritto e, dall'altro, basato (in teoria) sul disvalore del "fatto" più che sulla riprovevolezza soggettiva dell'autore? Fino a che punto la teoria fa i conti con la realtà? Per quanto sorretta da nobili preoccupazioni garantiste, la tesi che il giudice debba concentrarsi sui fatti (e non sulla personalità o sul ruolo dell'autore) si scontra, in effetti, con quella che potremmo definire una irresistibile vocazione intrinseca del processo penale: vocazione ben messa allo scoperto, in letteratura, ad esempio da Milan Kundera. Commentando Il processo di Kafka, Kundera infatti scrive con angoscia: "Il processo celebrato dal tribunale è sempre assoluto; cioè non riguarda un atto isolato (furto, frode, violenza carnale) ma l'intera personalità dell'accusato". Come dar torto allo scrittore praghese, se consideriamo non il processo ideale caro ai teorici liberali ma il processo concreto nelle aule di tribunale? Ma, se è vero che il processo è totalizzante perché tende sempre a giudicare anche la persona dell'autore, l'imperativo deontologico da trarne non potrebbe che essere questo: il magistrato dovrebbe, a maggior ragione, guardarsi dalla tentazione di utilizzare il processo come strumento di censura individuale e di moralizzazione pubblica. A voler assecondare questa tentazione si finisce, infatti, con l'incrementare oltre misura la già naturale vocazione del giudizio penale a veicolare condanne morali che coinvolgono l'intera personalità degli imputati: con un accresciuto effetto di torsione moralistica, in chiave illiberale, dell'esercizio della giurisdizione. A questo punto, la morale da trarre è forse intuibile. Oggetto e scopi del procedimento penale dipendono, oltre che dalle norme scritte, dallo spirito del tempo e dal modello di magistrato con connessa cultura di ruolo predominanti di volta in volta (ma, in qualche misura, dipendono anche da quello che il singolo magistrato ha nella testa, nel cuore e persino nella pancia). Prenderne atto, può risultare poco tranquillizzante; ma può indurre ad aprire un dibattito pubblico sulla magistratura penale oggi, non ignaro della realtà effettuale e, dunque, non asservito in partenza ai contrapposti ideologismi. Lettere: senza pentiti nessun risultato antimafia di Marco Giusti Libertà Sicilia, 9 aprile 2015 Il fenomeno del pentitismo è di costante attualità. Un fenomeno che presenta un andamento piuttosto regolare anche se i media a volte hanno la capacità di sollecitare picchi di interesse riferiti a particolari casi e a personaggi divenuti famosi. Siamo il più grande produttore al mondo di "collaboratori di giustizia", per la presenza di fenomeni di criminalità organizzata endemici nel meridione, come la mafia, la camorra, la ‘ndrangheta, sacra corona unita e via dicendo. Il fenomeno e riconducibile al momento storico in cui grandi boss hanno cominciato a "parlare" del proprio mondo malavitoso, forse per la loro stessa intolleranza ad una criminalità senza limiti, come i più noti, Buscetta e Contorno. Lo Stato e la magistratura misero in campo una serie di deliberazioni per tentare di sfondare il mondo impenetrabile delle cosche mafiose e similari, oltre alla necessità di proteggere i pentiti da punizioni e ritorsioni da parte di boss e nemici hanno portato alla prima legge di disciplina del sistema di protezione: legge 82 del 15 marzo 1991, che ha convertito con modifiche il DL. 8 del 15 gennaio 1991. Il fenomeno quindi è regolamentato con benefici carcerari, sconti di pena, carceri ad hoc, nuova identità per i pentiti, aiuti economici e altro, ma si rivelano taluni buchi normativi, dovuti evidentemente alla prima emergenza, e gradualmente sanati dalle leggi di modifica: legge 13 febbraio 2001 n.45. Lo Stato e magistratura fin dall'inizio incoraggiano il fenomeno ma non ci sono i fondi neri come ritenuto indebitamente da qualcuno, anzi sul fenomeno c'è una puntuale relazione semestrale al Parlamento da parte degli uffici ministeriali interessati: la Direzione centrale polizia Criminale. Gli organi del sistema di protezione: in primis l'Autorità Giudiziaria, che propone il sistema di protezione per i collaboratori e decide se il soggetto e a rischio e se e quali familiari hanno bisogno di protezione. L'organo politico, ossia la Commissione mista insediata presso il Ministero dell'Interno e presieduta dal Sottosegretario con delega alla polizia, che decide sulla ammissione della proposta. Il Servizio Centrale di Protezione del Ministero Interno è l'organo esecutivo, presieduto da un Questore o da un Generale dei Carabinieri in alternanza triennale, controllato da governo e forze politiche, che si occupa di dare attuazione all'intero programma di protezione. Procedura: Può nascere con l'arresto di un criminale. È il caso dei fratelli Brusca, ed è l'ipotesi più comune che decide di parlare oppure può nascere con una collaborazione spontanea indipendentemente da un arresto. L'Autorità Giudiziaria fa la proposta di "protezione" al fine di avere notizie utili, la Commissione decide sulla ammissione e gli uffici ministeriali competenti mettono in atto il programma di protezione. Il Servizio Centrale di Protezione provvede all'attuazione degli speciali programmi di protezione e di assistenza, ivi compresa la promozione delle misure di reinserimento nel contesto sociale e lavorativo dei collaboratori di giustizia e degli altri soggetti ammessi al programma, formulati dalla Commissione Centrale di cui all'art. 10 del D.L. 15.1.91 n. 8. Provvede inoltre all'attuazione delle misure adottate, in casi di particolare urgenza, dal Capo della Polizia, Direttore Generale della Pubblica Sicurezza, a norma dell'art. 11 della legge n°82/91. A tal fine mantiene i rapporti con le Autorità Giudiziarie e di Pubblica Sicurezza, nazionali ed estere, nonché con i competenti organi dell'Amministrazione Penitenziaria e con tutte le altre Amministrazioni centrali e periferiche eventualmente interessate. Attraverso i 14 Nuclei Operativi, con competenza regionale o interregionale, cura la diretta attuazione delle misure di assistenza economica contemplate nel programma e garantisce il necessario supporto. Con "l'intervista" il personale ministeriale prende conoscenza diretta dall'imputato della sua intera esistenza, della sua personalità, della disponibilità a collaborare. Differente è lo status del testimone di giustizia, Legge 45 del 2001, ossia di colui che ha assistito ad un evento delittuoso o ne è rimasto coinvolto ed ha pari bisogno di protezione. I numeri: attualmente in Italia ci sono oltre 900 collaboratori di giustizia, più 5000 familiari; 70 testimoni di giustizia più 200 familiari. Il criminale non collabora quasi mai per motivi morali, sempre per e solo per i vantaggi connessi alla protezione, soprattutto in presenza di figli minori. Il collaboratore di giustizia può avere permessi premio dal Giudice di Sorveglianza e può perfino essere messo in liberta dopo aver scontato una certa misura della pena, come previsto per legge. Il pentitismo e il collaborazionismo hanno permesso l'arresto di pericolosi boss come Toto Riina, ma il problema della gestione di circa seimila persone esiste. La domanda è se la legge ed il sistema di protezione funzionano. Il fatto che la legge originaria sia ancora vigente e che sia poi stata modificata in vari punti lascia pensare di si. La prima fase della protezione è il trasferimento (di solito di notte e dal sud al centro-nord) del personaggio "pentito" e dei suoi familiari, che viene allontanato dalla sua zona di origine e residenza (i familiari possono decidere di non seguire il pentito). La seconda fase e il trapianto del nucleo familiare in una nuova realtà sociale dove sorgono, soprattutto per i minori, problemi di lingua (spesso parlano in dialetto), di rapporti umani, di amicizie, di parenti abbandonati (Sindrome da sradicamento). I benefici possono riguardare il lavoro, la scuola, l'arredamento e tutto il necessario per una vita decente, a cui si aggiungono benefici carcerari se il collaboratore deve scontare una pena. Per un inserimento morbido dei pentiti nelle nuove realtà si preferisce la tecnica della mimetizzazione (il cosiddetto lasciarli stare) per non dare visibilità al "trapianto sociale". Il problema più grande e la mentalità dei pentiti (non sono abituati a pagare le bollette, hanno comportamenti "strani": qualcuno si è perfino cementato in giardino, altri stendono i panni nell'androne del palazzo). Il contributo mensile ai pentiti, che si aggiunge alla disponibilità di un appartamento dignitoso, e parametrato al nucleo familiare, all' indice Istat sul costo della vita, alla misura degli assegni sociali. La "collaborazione si fonda su un contratto che viene stipulato tra lo Stato ed il collaboratore di giustizia. Le lamentele di qualche pentito (Memorabile il caso di un incatenato di fronte alla questura Genova) trova fondamento in pretese eccessive (una villa anziché un appartamento) e non concordate nel contratto. Se il pentito continua e delinquere e inadempiente dal punto di vista contrattuale. Il programma di protezione contiene tutti gli elementi necessari a proteggere il collaboratore, con la correlata gestione del nucleo familiare, che la legge tende sempre a salvaguardare, in vista di una evoluzione dello stesso grazie all'inserimento in un ambito sociale più civile. Documenti di copertura: sono necessari per creare una nuova identità del pentito (c'è un regolamento specifico in tale materia). Se la nuova identità è bruciata, ossia svelata, si crea un' altra identità, si va in un altro luogo, in un'altra casa. Viene in pratica creata un'altra esistenza (dalle vaccinazioni, alle scuole fino agli eventi più recenti); nei casi estremi sembra che si ricorra anche a un mutamento chirurgico della faccia. Quanto dura. La collaborazione dura finché c'è una fattiva collaborazione e fino a che esista un rischio per il pentito (decide al riguardo l'Autorità Giudiziaria). A fine protezione, al fine di un reinserimento sociale e nell'intento di evitare che il soggetto torni a delinquere, viene a questo corrisposta una somma di denaro, previa presentazione di un progetto di reinserimento. Ma ora il taglio alla spese messo in atto dal governo centrale rischia di far naufragare tutti i risultati ottenuti contro la lotta alla mafia. Senza i collaboratori di giustizia non ci sarebbero stati i colpi mortali alle mafie. Lettere: questo non è uno Stato di diritto, ecco il festival degli errori di Mafia Capitale di Salvatore Buzzi Il Foglio, 9 aprile 2015 "Siamo stati tutti condannati a mezzo stampa, con evidenti violazioni dei diritti, senza che nessuno intervenga per fermare un massacro mediatico". Domani arriva la Cassazione. Domani, venerdì 10 aprile, la Cassazione si esprimerà rispetto ai ricorsi presentati contro la decisione del tribunale del Riesame di confermare la detenzione dei principali indagati nell'inchiesta romana portata avanti dalla procura di Roma e conosciuta come "Mafia Capitale". Lo scorso 3 dicembre 2014 uno degli arrestati è stato Salvatore Buzzi, ex presidente della coop "29 giugno", accusato di associazione per delinquere di stampo mafioso. Buzzi ha respinto tutte le accuse. Questa la lettera in cui spiega le sue ragioni inviata qualche giorno fa alla redazione Foglio. Egregio dottor Ferrara, sono Salvatore Buzzi, l'ex presidente della Coop 29 giugno, attualmente detenuto a Nuoro a seguito dell'inchiesta sulla c.d. "Mafia Capitale" e già da tempo avevo pensato di scriverle per i suoi interventi garantisti in merito alla mia vicenda. Qualche giorno fa è passato il cappellano per dirmi che a "Radio anch'io" avevano fatto la solita trasmissione becera su questa inchiesta, presentando un libro scritto da due giornalisti (non mi ha saputo dire i nomi) sui quattro Re di Roma e mi ha anche detto che la trasmissione l'ha contattata per un commento e che lei s'è infuriato di intervenire essendo in disaccordo con l'impostazione. È una cosa che le fa onore. Noi siamo stati tutti condannati a mezzo stampa, con evidentissime violazioni dei nostri diritti, senza che nessuno intervenisse per fermare un massacro mediatico senza precedenti. L'inchiesta è colma di errori, lacune e imprecisioni e del tutto priva di riscontri: siamo alle solite, prima ti arrestano poi cercano le prove. Hanno criminalizzato del tutto gratuitamente la cooperativa "29 giugno" ove al 2 dicembre lavoravano con grande soddisfazione 1.254 persone, una cooperativa di inserimento lavorativo, con oltre 300 tra detenuti ed ex detenuti impiegati, molti anche per gravi reati. Una cooperativa fiore all'occhiello, altamente patrimonializzata, ove tutti i soci avevano contratti integrativi e ristorno degli utili. E tutto il gruppo dirigente, tutti ovviamente arrestati per mafia, che non si è mai appropriato di nulla, ma ha vissuto solo di stipendio; al contrario di quel che diceva Rino Formica, "convento ricco e frati poveri". Sarebbe bastato ai pm fare una verifica patrimoniale. Il nostro gruppo cooperativo vale circa 20 milioni di euro. E della grande corruzione che ha fatto tremare il comune di Roma, se la si esamina compiutamente, non rimangono che poche cose che sarà mia cura chiarire al momento opportuno. Pensi, sono stato accusato di aver corrotto dirigenti di Ama per vincere una gara di un impianto da 16 milioni di euro e non hanno verificato che a tale gara ero unico concorrente! Mi accusano di aver lucrato sui poveri nomadi quando in realtà ho realizzato in project financing, con il permesso del comune di Roma e della prefettura di Roma, un campo nomadi con 60 casette complete di servizi e depuratori a un costo di 2 milioni con pagamento in 24 mesi e con un tempo di realizzazione di 45 giorni con il coinvolgimento preventivo della comunità rom. Per fare un confronto, il campo nomadi La Barbuta, di poco più grande, è costato 9 milioni di euro e ci sono voluti 2 anni di lavoro. Qui mi accusano di aver turbato la gara e non hanno fatto riscontri, non c'è stata gara, ma project financing. Mi accusano di lavorare sui servizi agli immigrati, ma siamo pagati come tutti gli altri enti gestori e mai abbiamo ricevuto penali o sanzioni da alcuno, anzi i nostri centri di accoglienza hanno sempre avuto ottime valutazioni dai committenti. Mi accusano di aver corrotto Luca Odevaine, ma quando ha collaborato con noi come consulente, non ricopriva alcun incarico ufficiale in nessuna amministrazione che potesse indirizzare i flussi migratori, se non quello di essere il rappresentante delle province italiane al tavolo di coordinamento del ministero dell'Interno. Un incarico onorifico e di nessun potere, ma ovviamente anche qui non c'è stato riscontro. Carminati invece lo conosco da oltre 30 anni, l'ho rivisto casualmente nel 2012 e ha collaborato con la cooperativa, diventandone anche socio, per la ricerca di opportunità imprenditoriali del tutto legali: non c'è mai, dico mai, nessun episodio di violenza o di minaccia con alcuno. Noi della "29 giugno" conoscevamo soltanto Carminati e le altre persone arrestate, al di là di alcuni imprenditori che hanno collaborato del tutto legalmente con noi, non le conosciamo e anche questo è documentato. Cosa dirle di più? Potrei scrivere un libro su questa inchiesta, un festival degli orrori, più che errori. E per ritornare a Carminati, io l'ho frequentato che era una persona libera, con il passaporto, senza alcun problema; un ex detenuto che ha commesso tre rapine nel 1981 (preistoria) e il furto al caveau del Palazzo di giustizia nel 1999: solo questo c'è nel suo certificato penale che ho potuto vedere allegato agli atti. Lui è famoso per i casi nei quali è stato assolto in via definitiva (omicidio Pecorelli e Banda della Magliana) e sui quali c'è stata molta letteratura: prima il libro "Romanzo criminale", poi il film, poi la serie tv e ora il nuovo libro, sempre di De Cataldo, con però l'aiuto di Bonini, "Suburra", dal quale stanno facendo un film. E poi gli articoli dell'Espresso e di Repubblica sui quattro Re di Roma, una cosa che non esiste nemmeno lontanamente ma che questa inchiesta sta rafforzando. Potrei dire che chi beneficia di questa inchiesta sono sicuramente l'editore e il produttore del libro e ora il film "Suburra" e ovviamente gli autori. Tutta la mia legittima attività politica di lobbying denigrata nell'ordinanza di arresto, con sapienti aggettivi dispregiativi sparsi qua e là (nell'ordinanza): noi viviamo in uno stato di diritto e non in uno stato etico e la politica dovrebbe difendersi da queste invasioni di campo della magistratura e non assistere silente, poiché indebolita e delegittimata. Ho chiesto ufficialmente al presidente della commissione Antimafia, onorevole Rosy Bindi, di essere ascoltato in audizione: ho chiesto di essere sentito in quanto ha già ascoltato il procuratore Giuseppe Pignatone e il sindaco Ignazio Marino, vediamo cosa deciderà. Mi scuso per la grafia, spero si capisca tutto. Abruzzo: viaggio nelle carceri, troppi detenuti e tanti problemi… il 41 bis fa discutere di Filippo Tronca www.abruzzoweb.it, 9 aprile 2015 Carceri abruzzesi sovraffollate in media del 30 per cento, e per di più con gravi crisi di organico. Lodevoli le esperienze di rieducazione attraverso percorsi lavorativi, ma pochi fondi a disposizione. Condizione di vita particolarmente dure nel supercarcere dell'Aquila, dove i detenuti per mafia e terrorismo scontano la pena in regime di 41 bis. Questa la situazione negli otto carceri abruzzesi, quelli Avezzano, Chieti, L'Aquila, Lanciano, Pescara, Sulmona, Teramo e Vasto, monitorata dall'associazione Antigone, che dal 1998 è autorizzata dal ministero della Giustizia a visitare tutti i 205 istituti di pena italiani. Ad accompagnare AbruzzoWeb in questo primo viaggio nella condizione carceraria nella nostra regione è l'avvocato Salvatore Braghini, che di Antigone Abruzzo è il presidente, e che in queste settimane, assieme ad quattro persone, sta entrando visitando nuovamente le prigioni abruzzesi per aggiornare i dati datati in alcuni casi di due anni. Il sovraffollamento Si comincia dalla piaga che fa dell'Italia una delle pecore nere in Europa, quello del sovraffollamento. A fronte di una capienza complessiva di 1.533 detenuti, nelle 8 case circondariali abruzzesi ve ne sono oggi 1.935, con un'eccedenza di 402 persone. Situazione più grave nel carcere di Sulmona, dove sono previsti 270 posti, ma oggi sono presenti 479 detenuti. Il sovraffollamento di Sulmona è dovuto anche al fatto che è un carcere di massima sicurezza, che non ha goduto del pronunciamento della Corte costituzionale che nel 2013 ha distinto tra droghe leggere droghe pesanti e questo ha consentito per molti detenuti l'uscita anticipata, a cui si è aggiunta la possibilità di trascorrere agli arresti domiciliari il resto della pena. Si sta troppo stretti anche a Teramo, dove ci 393 detenuti contro i 229 previsti. Meno drammatico, almeno rispetto alla media italiana, il sovraffollamento a Pescara, 282 detenuti per 271 posti, Lanciano, 273 detenuti per 196 posti, Chieti, 111 detenuti per 83 posti, e Avezzano, 71 dentuti per 51 posti. Fanno eccezione L'Aquila dove c'è posto libero: 138 detenuti con 191 posti disponibili, e Vasto 170 detenuti con 204 posti. I dati va precisato sono i più aggiornati tra quelli omogenei, relativi a metà 2014, numeri che sono suscettibili di variazioni anche mese per mese. Ma quelli qui forniti rendono comunque l'idea delle proporzioni. "Se si fa eccezione per Sulmona - commenta Braghini. Il sovraffollamento non è drammatico come in altre regioni, ma raggiunge comunque un tasso del 30 per cento, con picchi nella città peligna e Teramo, ed è aggravato dalla contemporanea mancanza di personale, di agenti di polizia penitenziaria, essendo stato bloccato il turn over. Chi va in pensione non viene, cioè, sostituito. E questo crea problemi a tutte le case circondariali abruzzesi, e si ripercuote sulla qualità della vita sia del personale sia dei detenuti". Basti il caso di Sulmona: a fronte di un organico previsto di 329 unità, la Polizia penitenziaria che presta servizio è inferiore di quasi 100 unità. Altrove la situazione è analoga. Suicidi in cella Negli ultimi due anni nelle otto carceri abruzzesi si sono registrati otto di casi di suicidio, 31 episodi di tentato suicidio e 118 di autolesionismo. In questo triste fenomeno a primeggiare è stato il carcere di massima sicurezza di Sulmona. Ma Braghini tiene a precisare che "a Sulmona i detenuti sono molto più numerosi, e con pene più pesanti alle spalle, e questo incide automaticamente sul tasso di suicidi e autolesionismo rispetto ad alt a prescindere dalle condizioni carcerarie, che non sono peggiori che altrove". Carcere e lavoro Altra problematica che viene segnalata da Antigone, in base ai dati raccolti, riguarda i percorsi lavorativi, adottati un po' da tutte le carceri, buona pratica che non hanno risorse e spazi adeguati. Il carcere di Vasto, per esempio, nel 2013 è diventato Casa di Lavoro, e vi vengono trasferiti tutti gli internati soggetti alla misura di sicurezza detentiva ristretti a Sulmona. Ma c'è il problema degli spazi. "Per sopperire alla mancanza di spazi - spiega il presidente di Antigone - per le lavorazioni il magazzino dell'istituto dovrebbe venire ristrutturato e destinato a ospitare una sartoria in grado di occupare fino a 40 internati. Ma nuovo spazio non entrerà in funzione verosimilmente prima del 2016". Interessante esperienza di rieducazione tramite lavoro viene sperimentata a Pescara, con la formula della cooperativa che ha come soci anche detenuti ed ex detenuti. Tra le varie attività c'è la dematerializzazione dei documenti della pubblica amministrazione, la pubblicazione di riviste, la produzione di dolci tipici. I detenuti ottengono anche qualifiche lavorative, spendibili nel mercato. Il carcere è riuscito a stabilire una proficua collaborazione con la Caritas di Pescara per il reinserimento degli ex detenuti. A Sulmona i detenuti producono aglio rosso, sono impiegati in lavori artigianali come falegnameria, calzoleria, sartoria. La falegnameria produce tavolini, sgabelli e armadietti non solo per l'istituto di Sulmona ma anche per altri istituti penitenziari. Nella calzoleria si producono scarpe e scarponcini per i detenuti. Vi lavorano in media 30 detenuti, così come nella sartoria. La sartoria produce camici e tute da lavoro, nonché costumi per la Giostra Cavalleresca. Ma a Vasto, Sulmona Pescara, come nelle altre carceri, senza risorse economiche, sarà impossibile garantire la retribuzione minima ai detenuti e a rendere possibili i percorsi di reinserimento, in un quadro generale di mancanza di risorse. "Le attività lavorative - lancia l'allarme Braghini - rischiano di chiudere perché non ci sono più fondi provenienti dall'amministrazione per retribuire i lavoratori. Così nel carcere non ci sarà più lavoro, che è l'attività' più importante per il trattamento di risocializzazione". L'Aquila, la durezza del 41 bis Gli osservatori di Antigone non hanno infine accesso al super carcere dove si sconta il 41 bis, il carcere duro previsto per reati di mafia e terrorismo. A riportare la sinistra luce sulla condizione di vita al supercarcere dell'Aquila stato il duplice tentato suicidio di Francesco Schiavone, cugino dell'omonimo e più noto esponente della camorra conosciuto come "Sandokan". Prima ha tentato di farla finita impiccandosi con una corda al collo e una busta di plastica in testa, la seconda volta tagliandosi le vene dei polsi. Nell'ottobre 2009 si era suicidata la brigatista rossa Diana Blefari. Il garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni parla a proposito del supercarcere dell'Aquila di "condizioni di vita disumana". Come denuncia in durissimo articolo il quotidiano Il Garantista, nella sezione femminile aquilana, le nove detenute vivono in celle di due metri quadri per due, e trascorrono l'ora d'aria in un cortile di tre metri per tre e solo con un'altra persona. Possono avere massimo due libri al mese. "Non potendo Antigone avere accesso diretto al supercarcere dell'Aquila - lancia l'appello Braghini - chiedo ai deputati e consiglieri regionali che hanno titolo ad entrarci di verificare e rappresentare all'opinione pubblica le condizioni di vita dei detenuti". Una cosa è certa, per Antigone, "all'Aquila le celle non sono a norma europea, inferiori ai 3 metri per 3. E allora prima di adeguare gli spazi, andrebbero da subito aumentate le ore d'aria, con spazi comuni in ambienti più salubri, per evitare che le persone recluse insistano un tempo eccessivo e continuato in spazi ridottissimi. Il carcere non può diventare una tortura, un essere umano non può essere seppellito vivo, a prescindere dal reato che ha commesso". Muri abbattuti e buone pratiche Ci sono anche cose positive, da raccontare a proposito di carceri abruzzesi, che vanno verso lo standard europeo della detenzione. A Teramo, che è anche carcere femminile, ci si è dotati di un "Giardino degli affetti", per consentire l'intimità affettiva per donne che hanno figli sotto i 3 anni, di una struttura esterna con giochi per bambini in cui la famiglia si può riunire. Ad Avezzano il problema è la forte presenza di immigrati, entrano ed escono perché le pene sono basse, per furto spaccio, c'è un forte turn over. Il carcere è stato ristrutturato, ma non ci sono sale per le attività comuni, si sperimenta il carcere aperto, ovvero le porte delle celle restano aperte, e i carcerati possono muoversi liberamente nella loro ala, vengono richiuse solo nelle ore serali e notturne. "Una soluzione che abbassa molto il livello di tensione e autolesionismo - spiega Braghini - che i carceri andrebbe estesa anche in altri carceri abruzzesi". "Altra novità - conclude Braghini - è che in tutti le carceri abruzzesi è stato rimosso il muro divisorio tra i visitatori e i detenuti, ed è ora possibile una comunicazione più diretta e fisica, dopo gli opportuni controlli che vengono effettuati ai visitatori". Marche: il Rapporto del Garante, a Pesaro la maglia nera per il sovraffollamento di Adriano Di Blasi www.ifg.uniurb.it, 9 aprile 2015 Tutte le carceri delle Marche si stanno lentamente svuotando anche se Villa Fastiggi, a Pesaro, è indietro rispetto alle altre. Secondo il nuovo rapporto dell'Autorità regionale per la garanzia dei diritti dei detenuti, le sette case circondariali presenti sul nostro territorio stanno continuando il percorso di "alleggerimento", in linea con la strategia nazionale. La maglia nera va al carcere di Pesaro che mostra sì un calo di presenze rispetto al 2013, passando da un eccesso del 75% ad uno del 58%, ma che continua ancora ad avere molti più detenuti rispetto ai posti regolarmente disponibili (237 contro 150). Situazione migliore per il penitenziario di Fossombrone, il secondo migliore delle Marche, dove i posti occupati sono 148 su 201 totali. Dati incoraggianti anche per gli altri penitenziari della regione. Montacuto, una delle due carceri di Ancona, segna 191 presenze sui 174 posti disponibili mentre Barcaglione, la seconda, ha 72 occupanti su 100. L'indice di affollamento cala anche ad Ascoli Piceno (da 20,5% del 2013 al 14,4% del 2014) e a Camerino (da 48,6% a 19,5%). Bene anche Fermo che taglia l'indice dal 71% al 26% con 53 posti occupati su 42. Un problema, quello del sovraffollamento delle carceri, per cui si sono impegnati anche l'attuale presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il suo predecessore Giorgio Napolitano e che è stato affrontato dal governo di Enrico Letta con il decreto svuota carceri del 2014. Anche grazie a questo provvedimento, secondo i dati del Garante, la media nazionale di presenze si è abbassata passando da un -4,8% del 2013 ad un -14,3% del 2014 pari a 53.623 detenuti in tutta Italia. "Un segnale importante - si legge nel rapporto - specie se si tiene conto che la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (08/01/2013) condannava lo Stato italiano per la riconosciuta incompatibilità dell'attuale sistema carcerario, per trattamenti inumani e degradanti". Secondo l'autorità dei diritti dei detenuti però, il sovraffollamento è solo uno dei difetti del nostro sistema carcerario. Un altro problema, evidenziato nel rapporto, è la mancanza di personale nei vari istituti. A Pesaro, per esempio, il personale, composto da commissari, ispettori, sovraintendenti e agenti/assistenti, conta 172 unità contro le 192 previste. Questa mancanza si riflette sia sulla sicurezza del carcere sia sul controllo e la tutela dei detenuti. Spesso infatti sono proprio gli agenti ad evitare che i carcerati tentino il suicidio (28 i casi sventati dai Baschi Azzurri nel 2014). Anche a Fossombrone si contano una ventina di dipendenti in meno (105 contro i 125 previsti). "In futuro - si legge ancora nel rapporto - la situazione rischia di aggravarsi considerato che l'età media del personale attualmente in servizio è molto elevata". Guardando invece ai dati positivi dell'indagine, le carceri delle Marche possono contare su un buon sistema sanitario con grande collaborazione tra l'ufficio del Garante e i responsabili medici. Alto anche il numero di progetti legati alle "misure trattamentali", ovvero le attività che sostituiscono il lavoro nei penitenziari (ad esempio arte, cura del fisico, istruzione). Diciotto quelli del carcere di Pesaro, per i quali la Regione ha stanziato quasi 120mila euro. Nove quelli di Fossombrone con circa 45mila euro investiti. Reggio Emilia: a una settimana dalla "chiusura" dell'Opg nessun internato è ancora uscito Il Resto del Carlino, 9 aprile 2015 È già passala una settimana dalla "chiusura" ufficiale dell'Opg ma nessun internato ne è ancora uscito come vorrebbe la nuova legge che prevede lo smantellamento degli ospedali psichiatrici giudiziari e l'attivazione delle Rems (residenze per l'esecuzione delle misure cautelari). Secondo notizie ufficiose erano stati programmati i primi due trasferimenti di uomini dall'Opg di Reggio alla Rems di Bologna, ma sarebbero rinviati per farvi prima accedere due donne ricoverate all'Opg di Castiglione delle Stiviere. I circa settanta internati all'Opg reggiano sono ancora tutti qui. Secondo i programmi dieci dovranno andare a Mezzani (Parma) e 14 a Bologna, essendo questi 24 residenti nella nostra regione. I rimanenti sono destinati alle Rems di altre regioni, lontanissime dall'essersi attrezzate. A Mezzani - il comune parmense aldilà dell'Enza, al confine con Brescello - pare vi siano lavori in corso quindi non si possono trasferire i dieci internati. Pare pero che tra i circa settanta é via Settembrini ve ne siano alcuni che preferirebbero rimanere all'Opg. Tempo addietro - solo per fare un esempio - un internato dichiarato guarito e non più pericoloso socialmente, quindi pronto a tornare libero e coi familiari disposti ad accoglierlo, aveva chiesto di poter restare all'Opg. Sul "quando" dei trasferimenti dall'Opg di Reggio alle Rems, il consigliere regionale Tommaso Foti di Fratelli d'Italia ha rivolto un'interrogazione alla giunta. Il segretario provinciale Sappe Michele Malorni, conferma: a tutt'oggi, neppure un tra ferimento. E l'avvocato Domenico Noris Bacchi, presidente della Camera penale reggiana, dal suo osservatorio non registra ancora segnalazioni di anomalie dall'Opg. Macomer (Nu): il ministero non dà risposte sull'uso alternativo del carcere dismesso di Tito Giuseppe Tola La Nuova Sardegna, 9 aprile 2015 La casa circondariale di Macomer è stata cancellata dagli elenchi del ministero della Giustizia assieme a quella di Iglesias. Di fatto il carcere di Macomer non c'è più, anche se rimane la struttura che pone ora un problema di utilizzo. Il Comune, che nell'ultima riunione del Consiglio ha approvato un ordine del giorno col quale ne chiede il mantenimento, ha delle proposte per impiegate il complesso, che sono sempre e comunque legate a un uso di tipo penitenziario, ma finora mancano risposte da parte del ministero di Grazia e Giustizia e del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, che non si sa fino a qual punto siano interessati ai progetti del Comune. Dal 31 marzo, in ogni caso, per il ministero in Sardegna non ci sono più 12 carceri ma dieci. Quella di Macomer e Iglesias sono state cancellate. Il dato è stato reso noto nei giorni scorsi da Maria Grazia Caligaris che fa riferimento ai dati sulla capienza regolamentare e la presenza dei detenuti diffusi dal Dap aggiornati al 31 marzo. "Sembrano, quindi, del tutto tramontate - sottolinea la presidente dell'associazione Sdr, le speranze degli amministratori locali che avevano assunto iniziative per mantenere in piedi i due istituti. Lo svuotamento degli edifici, con il trasferimento degli agenti e degli educatori, sancirà la chiusura definitiva delle case circondariali, rendendo necessario un progetto per evitarne il degrado". Caligaris rimarca ancora che, nonostante la scomparsa delle due carceri e la riduzione dei posti letto, passati dai 2.774 di febbraio ai 2.671 di marzo, il numero dei detenuti negli istituti sardi è in aumento e da 1.834 sono passati a 1.849. L'ordine del giorno del Coniglio comunale ipotizza e chiede il mantenimento della struttura, ma i programmi di Ministero e Dap sono di segno diverso. Restano a questo punto le proposte alternative alle quali sta lavorando l'amministrazione comunale. Il comune avanza due diverse proposte, ma lavora anche su una terza. La prima riguarda il recupero e il reinserimento dei detenuti con tossicodipendenze, l'altra i detenuti a fine pena che potrebbero finire di espiarla a Macomer. Salerno: protesta dei detenuti "la corrispondenza arriva con 20 giorni di ritardo" di Gaetano De Stefano La Città di Salerno, 9 aprile 2015 Salerno. Storie di disservizi postali. Storie comuni un po' ovunque, in ogni zona della città, con lettere, raccomandate e bollette che arrivano puntualmente in ritardo, scatenando l'ira dell'utenza. Il malfunzionamento del recapito, però, diventa questione di vita o di "morte" civile se i destinatari sono i detenuti della Casa circondariale di Fuorni. Perché nel penitenziario l'assenza di posta s'amplifica come in una sorta di cassa di risonanza, in quanto per i "carcerati" la corrispondenza è vita, rappresenta quel filo sottile che li unisce ai loro familiari e alla società civile. Leggere una lettera è come respirare a pieni polmoni una boccata d'ossigeno, rappresenta un tuffo, seppur virtuale e di pochi minuti, nella libertà. E nei ricordi, rincorrendo la speranza di riabbracciare un giorno i propri cari e di condurre, un domani, una vita normale, al di fuori da quelle sbarre. Ma a Fuorni questo diritto sembra essere diventato un optional. Perché una missiva, per giungere a destinazione e per fare solo pochi chilometri, impiega quasi un mese. Un'eternità se si pensa ai moderni e immediati mezzi di comunicazione, come email o sms, che però, non sono nella disponibilità del detenuto. Che non può far altro che scrivere nella maniera tradizionale e attendere la risposta. Così ogni giorno ci si nutre di speranza, facendo gli scongiuri che sia quello "buono", che finalmente gli addetti alla consegna portino la corrispondenza che s'attende da tempo. Ma, purtroppo, non è così. Pertanto un gruppo di reclusi ha deciso di segnalare il cattivo funzionamento del recapito pure nel penitenziario cittadino. E, ironia della sorte, presa carta e penna ha scritto per denunciare l'assurda situazione che rischia di aggravare ancora di più la loro condizione, privandoli di un loro diritto. "Ci sono - scrivono i cinque detenuti, tutti residenti nell'hinterland salernitano - ritardi abissali nella consegna della posta, a causa del cattivo funzionamento dei centri di smistamento di Poste italiane". "Purtroppo noi - aggiungono - non sappiamo a chi rivolgerci, essendo reclusi. Però per noi la corrispondenza ha un valore fondamentale, è uno spiraglio di vita familiare, di libertà. È insomma un sollievo giornaliero". Da qualche tempo, tuttavia, il conforto che prima era giornaliero sembra essere diventato mensile. Perché oramai è questo il tempo medio con il quale arriva la posta a ciascun detenuto, come evidenziano i firmatari della missiva. "Al di là della nostra colpevolezza o della nostra innocenza - sottolineano - ricevere notizie dall'esterno, dalle nostre famiglie, è un diritto sancito anche dall'ordinamento giuridico". Perciò chiedono di far sentire la loro voce. "È vero - concludono - che siamo cittadini di serie B. Ma anche a noi tocca ricevere la posta. Perché in carcere la posta è vita e libertà". A sostegno delle rivendicazioni del gruppo di detenuti interviene Donato Salzano, segretario dell'associazione radicale "Maurizio Provenza", da sempre impegnato a far valere i diritti dei detenuti. "Questa situazione è assurda - chiosa - in quanto alla pena, già di per sé pesante, s'aggiunge un'ulteriore sanzione. Voglio ricordare come i cittadini detenuti abbiano gli stessi diritti di chiunque altro. E chi non fa bene il proprio lavoro aggrava la loro pena". Perciò Salzano lancia un appello alla direzione provinciale di Poste italiane: "Ci sono persone - evidenzia - che devono fare il loro lavoro, ma non lo fanno". A testimoniare la valenza sociale del ricevere la posta per i reclusi è pure il cappellano del carcere, don Rosario Petrone. "La corrispondenza è di vitale importanza per i detenuti - spiega - perché permette di stare in contatto con i propri affetti e riesce a far sì che vengano fuori i loro sentimenti migliori. Sappiamo che la posta è stata sostituita dai nuovi mezzi di comunicazione, che però non sono fruibili in carcere. Perciò questo mezzo, seppur oramai sorpassato, resta l'unico a disposizione della popolazione carceraria. E spero che al più presto vengano risolti i disservizi, in modo che la corrispondenza arrivi nuovamente puntuale". Verona: rivolta in carcere, insorgono i Sindacati "la situazione a Montorio è a rischio" www.veronasera.it, 9 aprile 2015 In una nota diffusa agli organi di stampa Nicola Budano, segretario provinciale Uil-Pa Penitenziari, commenta l'episodio che ieri mattina si è verificato nella casa circondariale veronese. Dopo la rivolta scoppiata ieri nel carcere di Montorio, il sindacato della Polizia Penitenziaria Uil richiama l'attenzione su una situazione sempre più complicata, denunciando anche episodi antecedenti a quelli del 7 aprile. Nel mirino del segretario provinciale Nicola Budano, finisco anche i recenti provvedimenti attuati in materia di carceri, visti come incompleti e pertanto dannosi per i lavoratori. Ecco la nota diffusa agli organi di stampa: "Nella tarda mattina di martedì, alle 12.30 circa un detenuto di origine magrebina per ragioni apparentemente futili, ha appiccato il fuoco a 2 materassi presenti all'interno della propria cella, provocando la propagazione di un fumo tossico all'interno della sezione e gettando nel panico sia il personale che i detenuti. A quanto pare - dichiara Nicola Budano segretario provinciale Uil-Pa Penitenziari - le ragioni che hanno spinto il detenuto a compiere l'insano gesto sono da attribuirsi ad una protesta nei confronti della Direzione "colpevole" di avergli rifiutato la possibilità di cambiare sezione. Da rilevare che a quell'ora i detenuti erano tutti chiusi all'interno delle loro celle e di conseguenza le operazioni di evacuazione sono state particolarmente difficili. I detenuti sono stati fatti confluire all'interno dei cortili passaggio, all'aria aperta, per evitare situazioni ben più gravi. Durante le fasi dell'intervento, comunque - aggiunge Budano - le conseguenze peggiori le hanno riportate 12 poliziotti penitenziari che a causa dell'inalazione dei fumi sono stati inviati presso i vari pronto soccorso della Città e 7 di loro hanno dovuto ricorrere alla camera iperbarica per le cure del caso. Non bastasse tutto questo c'è da porre in evidenza che nel corso della mattinata un'altro agente di Polizia Penitenziaria è dovuta ricorrere a cure mediche perché vittima di un aggressione da parte di un altro detenuto magrebino che lo ha colpito con una macchinetta del caffè. Per concludere sabato 4 aprile l'ennesimo episodio di violenza ha avuto quali protagonisti due agenti di Polizia Penitenziaria che, sempre per futili motivi, sono stati minacciati con lame rudimentali ricavate da lamette da barba in quanto colpevoli di aver relazionato precedenti loro scorretti comportamenti. Pur senza voler alimentare inutili allarmismi - prosegue il sindacalista della UIL - non possiamo esimerci dal porre in evidenza che la situazione all'interno di Montorio è a rischio per chi lavora nei reparti detentivi. Le aggressioni, le violenze, i comportamenti scorretti, gli atti di sopraffazione sono sempre più frequenti e agevolati - secondo la Uil, dall'avvio del c.d. "regime aperto" che consente ai detenuti una maggiore libertà di movimento all'interno delle sezioni. Un regime detentivo innovativo che però presuppone due elementi imprescindibili quali la premialità dei comportamenti e il rigido rispetto delle regole di civile convivenza. Il problema però è che la stragrande maggioranza dei detenuti presenti nei reparti a "regime aperto" è di nazionalità extra comunitaria, quasi sempre senza una famiglia e/o riferimenti esterni e questo, evidentemente, fa venir meno l'interesse a mantenere comportamenti corretti. Non aiutano nemmeno le disposizioni di servizio interne troppo spesso inadeguate e inattuali al punto da vanificare l'attività del personale. Tornando all'episodio di ieri - conclude Budano - non possiamo esimerci dal rilevare l'assenza di dispositivi di protezione individuale e l'assenza di un piano di evacuazione che, evidentemente, nel documento di valutazione dei rischi (decreto legislativo 81/2008) non sono stati contemplati. Nelle operazioni sono intervenute anche 2 equipaggi dei vigili del fuoco e 4 autoambulanze. Nel primo pomeriggio è intervenuto anche il Provveditore Regionale dell'amministrazione penitenziaria, Dr. Enrico Sbriglia, che ha potuto rendersi conto personalmente della situazione. L'auspicio è quello che una volta valutate le responsabilità siano adottati provvedimenti esemplari nei confronti dei soggetti coinvolti". D'Arienzo interroga il Ministro della Giustizia Sui fatti avvenuti l'altro ieri nell'istituto penitenziario veronese di Montorio, dove due detenuti hanno inscenato una rivolta dando alle fiamme i materassi della loro cella, provocando un incendio con tanto di fumo che ha portato all'ospedale, intossicati, 11 guardie penitenziarie e 2 carcerati, Vincenzo D'Arienzo, deputato Pd, ha presentato oggi un'interrogazione al Ministro della Giustizia, Andrea Orlando. "Considero grave quanto accaduto nella struttura carceraria di Montorio - dichiara D'Arienzo - ed in particolare che siano stati in pericolo gli agenti della Polizia Penitenziaria. L'intossicazione da fumo di dodici agenti penitenziari mi preoccupa. Spero siano state attivate tutte le precauzioni nel corso dell'intervento per tutelare la salute degli agenti. Diversamente, penso proprio che il problema sia più grande di quanto conosciamo ad oggi". "Dai comunicati stampa emergono altri episodi che si sono verificati recentemente e tutti caratterizzati da gravi minacce verso il personale di vigilanza, oltre alla denuncia del mancato intervento della dirigenza della struttura in un particolare momento di tensione - continua l'onorevole -. Spero che non sia confermato, sarebbe grave. Come pure sarebbe grave se corrispondesse al vero che vi fossero dei problemi ai dispositivi antincendio, allarme e idranti, e ostacoli al reperimento di mascherine antifumo. Ritengo prioritario garantire la sicurezza del personale in servizio". "Ho segnalato al ministro Orlando i fatti per favorire un confronto positivo volto da un lato a soddisfare le richieste del personale, dall'altro a superare le difficoltà che sono state pubblicamente manifestate e che, a quanto pare, creano una condizione lavorativa non ottimale - conclude D'Arienzo. Conosco la sensibilità del ministro sul tema delle carceri, non ho dubbi che agirà per il meglio". Rieti: Fns-Cisl; a Pasqua il tentato suicidio di un detenuto e l'aggressione a un agente Adnkronos, 9 aprile 2015 La Fns-Cisl del Lazio denuncia un tentativo di suicidio avvenuto nei giorni di Pasqua nel carcere di Rieti da parte di un detenuto tunisino che, grazie all'intervento del personale di Polizia Penitenziaria, ha evitato il peggio. La Fns Cisl segnala, inoltre, che all'interno dell'istituto penitenziario di Rieti sono presenti 239 detenuti, dei quali 164 sono stranieri. Un altro fatto ancora più grave è stata l'aggressione, avvenuta nella giornata di Pasqua presso l'Istituto di Velletri nella sezione isolamento dove, un detenuto magrebino, ha aggredito un assistente capo della Polizia Penitenziaria, 49enne, che ha riportato un trauma alla mano sinistra guaribile in 23 giorni. Si legge in una nota della Federazione Nazionale Sicurezza del Lazio. "Occorre intervenire, quindi, al fine di evitare episodi del genere, aggressioni al personale e tentativi di suicidio da parte dei detenuti, aumentando sia il numero degli agenti ma anche quello del personale medico ed infermieristico. Occorre, comunque, allo stesso tempo inasprire le pene detentive per detenuti resosi responsabili di aggressione a danno del personale di Polizia Penitenziaria - dichiara la Fns Cisl Lazio, che aggiunge - "Anche il dato in aumento dei detenuti nelle 14 carceri del Lazio dimostra che qualcosa non funziona, basti pensare che la legge svuota carceri non ha dato i risultati sperati, eccetto i primi 7 mesi dove il sovraffollamento delle carceri lentamente diminuiva. Come si ricorderà sono state inserite importanti novità quali braccialetti elettronici, l'affido in prova, la detenzione domiciliare al fine di evitare la detenzione in carcere. I dati che fornisce il Dap - Dipartimento Amministrazione Penitenziaria - dimostrano come continuano ad aumentare i detenuti nelle carceri del Lazio, al 31 marzo 2015, si rappresenta che i reclusi presenti nei 14 istituti della Regione Lazio risultano essere 5.816, 702 in più rispetto ai 5.114 posti disponibili, rispetto al 31 dicembre 2014 si registra in tre mesi un più 216 detenuti considerato che i detenuti erano 5.600. "Quello che preoccupa - sottolinea la federazione - è che se non viene ridotto il sovraffollamento nelle carceri difficilmente si potrà migliorare sia le condizione detentiva dei detenuti ma, anche, quella lavorativa del personale ed evitare eventi critici quali aggressione al personale e tentativi di suicidio dei detenuti stessi. La Fns Cisl Lazio non resterà ferma segnalando agli uffici competenti, come sempre ha fatto, i rischi che corre il personale che lavora in condizioni a dir poco sicuro". Roma: detenuti digitalizzeranno archivio del Csm, progetto approvato da Cassa ammende Ansa, 9 aprile 2015 Ha ricevuto il via libera dalla Cassa delle ammende il progetto di digitalizzazione dell'archivio del Csm che prevede che ad occuparsene saranno sette detenuti del carcere romano di Rebibbia. Lo fa sapere il Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) del Ministero della Giustizia, che in una nota ricorda che cinque detenuti saranno impiegati nei lavori di digitalizzazione di circa 900mila pagine e due invece nelle attività di facchinaggio. Il progetto durerà sei mesi. L'attività sarà svolta nel laboratorio informatico del carcere romano già utilizzato in passato per un analogo progetto relativo alla digitalizzazione dei documenti del Tribunale di Sorveglianza di Roma. L'importo complessivo dell'iniziativa, pari a 43.130,00 euro, "è quasi interamente a carico del Csm", e servirà a finanziare la formazione, il pagamento delle mercedi e l'acquisto di 5 scanner. Cassa Ammende sostiene la spesa di 780,00 euro per l'acquisto di carburante e materiale di cancelleria. Il progetto di digitalizzazione è il frutto dell'intesa istituzionale tra il Consiglio Superiore della Magistratura e il Capo del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria. La fase di realizzazione è affidata alla Direzione della Casa Circondariale di Rebibbia Nuovo Complesso. Favara (Pd): progetto digitalizzazione archivio Csm di gran valore "Trovo molto interessante e positivo il progetto di digitalizzazione degli atti del Consiglio Superiore della Magistratura che vedrà impegnati sette detenuti del carcere di Rebibbia. Attività - come queste che occupano in modo costruttivo il tempo delle persone detenute in carcere - sono di altissimo valore. Compito delle Istituzioni è trasmettere la cultura della legalità senza mai perdere di vista che il fine della pena - come prevede la Costituzione italiana - deve tendere alla rieducazione del condannato. Attraverso programmi specifici in grado di fornire nuove conoscenze ai detenuti, possiamo riuscire a restituire dignità ai cittadini che si trovano negli Istituti penitenziari ma anche a dare un segnale di civiltà alla nostra comunità". Lo dichiara in una nota Baldassare Favara, consigliere del Pd e Presidente della Commissione Sicurezza e Lotta alla Criminalità al Consiglio regionale del Lazio. Droghe: come ridurre i danni del proibizionismo di Luigi Manconi (Senatore Pd) Il Manifesto, 9 aprile 2015 La saggia ragionevolezza di un provvedimento di "rideterminazione" delle pene inflitte in base a quanto previsto da una legge (la Fini-Giovanardi) dichiarata incostituzionale, è più che mai urgente. A riproporlo con forza, è stata nei giorni scorsi l'infaticabile Rita Bernardini che ha potuto toccare con mano, nel corso delle sue assidue visite in carcere, quanto siano tutt'ora attivi (perversamente attivi) gli effetti di una norma ormai illegittima. Già un anno fa ho presentato un disegno di legge, frutto del lavoro di Luigi Saraceni, Stefano Anastasia e Franco Corleone, che - come tanti altri provvedimenti pacificamente indispensabili e perfino "semplici"- non riesce a muovere un solo passo nelle aule di Camera e Senato. Non chiamiamolo "indultino", per carità, perché potrebbe turbare qualche anima timorata e perché, soprattutto, richiederebbe il consenso dei due terzi dei parlamentari, ma provvediamo a metterlo al centro dell'agenda politica. O, almeno, al centro dell'iniziativa dell'intergruppo per la legalizzazione della cannabis, promosso da Benedetto della Vedova. Le adesioni sono state numerose e, tuttavia, ancora lontane dal rappresentare una garanzia già acquisita per l'approvazione di una normativa che vada in quella direzione. Dunque, il lavoro resta ancora tutto da fare. Ma intanto, e questo è un dato nuovo e assai significativo, c'è una volontà ampia e condivisa a proposito delle scadenze da costruire e degli obiettivi da raggiungere. In ogni caso, la finalità ultima dell'intergruppo - una normativa compiutamente antiproibizionista - non deve farci dimenticare altri urgenti e circoscritti obiettivi di breve e medio periodo. Provo a elencarli. 1) Innanzitutto l'obiettivo già citato. Nel giugno scorso il ministro Orlando affermava che i detenuti in esecuzione di pene costituzionalmente illegittime fossero circa tremila. Da allora ad oggi, molti di loro - ci auguriamo - potrebbero aver finito di scontare la propria pena. Tuttavia temiamo che altri (centinaia? migliaia?) siano ancora in carcere, e questo è inaccettabile in uno stato di diritto minimamente decoroso. Non è possibile affidare la soluzione di questo problema all'iniziativa individuale dei singoli condannati, molto spesso privi di adeguate informazioni e assistenza legale; o a quella dei garanti territoriali e dell'associazionismo. Nel caso in cui le procure della Repubblica non ritengano di dover intervenire d'ufficio, spetta al parlamento e al governo sanare questa situazione disponendo per legge una riduzione di pena proporzionale alla riduzione dei parametri edittali determinata dalla dichiarazione di incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi. E sarebbe già molto importante avere una risposta precisa sul numero degli attuali "illegittimi" reclusi. 2) Nel 2016 l'Assemblea generale dell'Onu sottoporrà a discussione e a verifica il sistema delle proibizioni contenute nelle Convenzioni internazionali. È importante che l'Italia arrivi a quell'appuntamento non impreparata e con proposte capaci di stare alla pari con le esperienze più avanzate nello scenario mondiale. Anche in vista di questo appuntamento così rilevante, si dovrà lavorare perché venga fissata finalmente la Conferenza nazionale sulle dipendenze, che - a termini di legge - si sarebbe dovuta svolgere già tre anni fa. Quella è la sede più adatta per affrontare tutte le tematiche più importanti ma, per arrivarci in maniera seria e attrezzata, l'intergruppo antiproibizionista potrebbe intervenire intorno ad alcune questioni preliminari. 3) Nelle more della legalizzazione della cannabis, egualmente urgente è la sua compiuta ed effettiva disponibilità per fini terapeutici. Com'è noto, dal 2007 una norma consente l'uso in terapia del Thc, ma ancora oggi i pazienti che riescono ad accedervi sono pochi (circa 60 nel 2014). Per questa ragione occorre adottare delle misure in grado di semplificare la prescrizione di questi medicinali (equiparandoli, ad esempio agli oppiacei utilizzati per la terapia del dolore) e nello stesso tempo occorre fornire al personale sanitario un'adeguata formazione nel merito. E ancora: è stata avviata presso lo stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze la prima sperimentazione per la coltivazione di cannabis. Certamente un passo in avanti, ma occorre vigilare affinché il progetto pilota presto si concretizzi in una reale distribuzione sull'intero territorio nazionale del farmaco in questione. Più in generale, le previsioni sanzionatorie, penali e amministrative, andrebbero riviste in senso liberale e garantista, attraverso una più puntuale definizione delle fattispecie penali, la riparametrazione dei limiti di pena alla reale offensività delle condotte e il superamento di sanzioni amministrative invalidanti per il mero consumo di sostanze. É proprio questo il caso che richiede l'elaborazione comune di un apposito disegno di legge. Come ognuno può vedere, si tratta di una serie di obiettivi "moderatissimi" e, tuttavia, capaci - se raggiunti - di "ridurre i danni" del proibizionismo. Stati Uniti: condannati all'ergastolo per droga, Obama dà l'indulto a 22 detenuti di Damiano Aliprandi Il Garantista, 9 aprile 2015 Il presidente degli Stati Uniti proclama un vero e proprio indulto nei confronti di alcuni reclusi, tra i quali degli ergastolani. "Avete dimostrato di essere in grado di imporre una svolta alla vostra vita!", così scrive il presidente Obama dopo aver ridotto le pene a ben 22 detenuti condannati per reati di droga. I detenuti, alcuni dei quali avrebbero dovuto scontare l'ergastolo, saranno rilasciati il prossimo 28 luglio. "Hanno già trascorso diversi anni in carcere, e in alcuni casi anche più di un decennio - ha spiegato il consigliere della Casa Bianca Neil Eggleston - più a lungo di diversi detenuti condannati con il sistema giudiziario odierno per lo stesso crimine". Rispetto alla presidenza di George W. Bush, che aveva ordinato 11 provvedimenti di condono, Obama ne ha emessi 43, ovvero il triplo. Obama si è da tempo dimostrato sensibile soprattutto nei confronti della detenzione legata alla droga. In un'intervista rilasciata un mese fa al cofondatore di Vice News, il presidente degli Usa, ha detto che le droghe sono sicuramente un problema, ma tenere in prigione una persona per 20 anni è inutile e con ricadute economiche e sociali. "Credo che il tema della legalizzazione della marijuana debba venire dopo temi più importanti come i cambiamenti climatici, la situazione economica, il lavoro, la guerra e la pace nel mondo. Soprattutto per quanto riguarda i più giovani - ha spiegato Obama durante l'intervista - ma credo, tuttavia, che questo tema possa rientrare all'ultimo posto di questa lista di priorità". Il focus del presidente nordamericano si è poi concentrato sulle ricadute negative dell'attuale orientamento normativo americano per coloro che vengono arrestati e condannati per uso e possesso di cannabis: "Sono convinto che si debba separare l'aspetto relativo alla criminalizzazione dell'utilizzo della marijuana da quello relativo all'incoraggiamento del suo utilizzo. È fuor di dubbio che il nostro sistema giuridico sia attualmente concentrato sul diminuire il numero di reati passivi legati a questo tema, comportando nell'applicazione pratica gravi problemi soprattutto per specifiche comunità del paese, come quella di colore". Poi Obama ha proseguito spiegando l'ingiustizia delle condanne da parte dei Tribunali e ha accennato alla legalizzazione delle droghe: "L'orientamento giuridico attuale ha comportato che molte persone sono state espulse dal mercato del lavoro interno, proprio perché hanno la fedina penale sporca. Questa situazione sta generando sia un costo sociale elevato per le sproporzionate sentenze di condanna in carcere, sia per le conseguenze successive alla detenzione. Molti Stati hanno compreso che questo è un problema da risolvere. A livello nazionale potremmo fare qualche significativo passo in avanti sul piano della legalizzazione delle droghe, se un numero sufficiente di Stati si muovesse in questa direzione. Mettendo così il Congresso nella posizione di prevedere un nuovo dibattito sulla marijuana". Obama poi conclude l'intervista con un discorso simile a quello portato avanti dai Radicali italiani: "La cosa che mi da fiducia, in questo momento, è vedere che il tema della depenalizzazione delle droghe leggere non è toccato unicamente dai democratici, ma recentemente anche da esponenti dell'ala più conservatrice del partito repubblicano. Questi ultimi hanno capito che non ha più senso mantenere tale status quo. Credo che ci sia una preoccupazione legittima e condivisa relativa agli effetti sulla nostra società, in particolar modo delle parti più deboli di essa, derivanti dall'utilizzo delle sostanze stupefacenti. In generale l'utilizzo delle droghe, legali ed illegali, rappresenta un problema della nostra società. Ma incarcerare qualcuno per vent'anni per un reato di questo tipo non è probabilmente la migliore strategia da adottare. E questo è un problema che deve essere affrontato da tutta la nostra comunità". Depenalizzazione, condoni, riduzione delle pene, legalizzazione delle droghe leggere. Il Partito Democratico americano sta dimostrando coraggio, invece il suo omonimo che è al comando del governo italiano ancora latita. Stati Uniti: l'appello di Elton John "più protezione per i detenuti trans" Ansa, 9 aprile 2015 La popstar ha rivolto un appello ad un penitenziario della Georgia dopo le violenze subite da una detenuta rinchiusa in un carcere maschile. Elton John scende in campo a sostegno dei detenuti trans. La popstar, spalleggiata anche dal frontman dei R.E.M. Michael Stipe, ha rivolto un appello ad un penitenziario della Georgia dopo le violenze subite da una detenuta rinchiusa in un carcere maschile. L'appello è venuto in seguito ad una presa di posizione del Dipartimento di Giustizia americano che si è schierato a favore di una ex detenuta, Ashley Diamond, la quale a sua volta aveva denunciato lo stato della Georgia per averle negato la terapia ormonale. La donna ha affermato che il suo corpo è cambiato in modo drastico perché ha dovuto interrompere la terapia a cui si sottoponeva da 17 anni. Ha inoltre denunciato di essere stata violentata almeno sette volte nei suoi tre anni in carcere oltre ad essere trasferita da una prigione all'altra senza tener conto della sua sicurezza. "È incostituzionale - hanno detto i due artisti riferendosi al trattamento ricevuto in prigione - ma se da una parte plaudiamo al dipartimento di Giustizia per aver sostenuto Ashley Diamond e la comunità dei trans, dall'altra chiediamo che si faccia di più per mettere fine alla cultura della violenza e alla discriminazione intorno all'identità di genere e espressione". Marocco: società civile contro il nuovo Codice penale "è antiquato resta la pena di morte" Ansa, 9 aprile 2015 L'hanno messo in Rete il primo di aprile, sul sito del Ministero della Giustizia. L'anteprima del progetto di riforma del codice penale marocchino non era però uno scherzo. E un'onda di protesta si è sollevata man mano dalla società civile. Perché se da una parte si introducono misure penalizzanti per le aggressioni sessuali, e misure alternative per alleggerire le carceri, dall'altra non è cambiato proprio nulla in materia di libertà civili e individuali. Mangiare in pubblico durante il Ramadan, il mese del digiuno islamico, continua a essere un reato penale, punito con il carcere, così come il proselitismo verso altre religioni e le relazioni sessuali al di fuori del matrimonio (per questo reato non è stata nemmeno ridotta la pena). C'è una pagina di Facebook dedicata al tema, un hashtag in francese e in arabo e persino una petizione a raccogliere le proteste. Quasi 8mila i like per dire che il nuovo codice è "passatista" e che "non tiene conto dell'evoluzione della società". Alcuni reati sono stati attenuati, altri, come per esempio lo stato di ebbrezza in pubblico che attualmente prevede un ammenda da 150 a 500 Dirham (da 15 a 50 euro circa) raddoppiabili in caso di eccessiva molestia, ora con il nuovo testo potrebbe prevedere tra i 2 mila e i 10 mila Dirham (da 200 a 1.000 euro circa). Tacciato di eccessiva approssimazione, persino secondo i giuristi di fama è un codice che lascia troppi spazi all'interpretazione. Al centro della riforma l'articolo 503 sulle aggressioni sessuali. Quella che doveva essere un'apertura alla modernità si è invece rivelata tutt'altro. Considera colpevole "chiunque aggredisca un altro in luogo pubblico, con comportamenti, parole e gesti di natura sessuale, a scopo sessuale". Ma è qui che insorgono i giuristi: "È un articolo inapplicabile", sostengono. Come farà una donna, per esempio, a denunciare uno sconosciuto che l'ha aggredita per strada? Tra gli articoli più discussi anche il 420 che non è stato cancellato. Riguarda il "delitto d'onore o passionale". Nel caso si sorprenda il partner con altri, se lo si aggredisce, magari uccidendolo, è prevista una attenuante per "colpi inferti senza intenzione di uccidere, anche se hanno causato la morte". Su tutto poi aleggia lo spettro della pena di morte. Ridotti a 11 i reati che la prevedono, resta il dubbio della compatibilità con la Costituzione del 2011 che garantisce il diritto alla vita, oltre che con le convenzioni internazionali sui diritti siglate dal Marocco.