Un altro suicidio in carcere: quattordici in tre mesi di Rita Bernardini Il Garantista, 8 aprile 2015 Giorno dopo giorno aumentano (purtroppo) le ragioni del mio sciopero della fame, giunto oggi al 34° giorno. Grazie alla rete di Ristretti Orizzonti sono venuta a conoscenza dell’ennesimo suicidio in carcere, il 14° dall’inizio dell’anno, avvenuto - come conferma il Dap - nel carcere di Piacenza. Una mattanza che non accenna a diminuire a causa delle condizioni inumane e degradanti di buona parte delle nostre prigioni. A questa tragedia umana, si aggiunge la notizia dello smantellamento dell’Alta Sicurezza del carcere "Due Palazzi" di Padova, uno dei pochi che funziona dal punto di vista del recupero sociale e civile dei detenuti. Lo smembramento dell’Alta Sicurezza significa che decine di detenuti che lavorano acquisendo una professionalità o che studiano con profitto (alcuni dei quali sono universitari), verranno presi come pacchi e condotti in altri istituti perdendo cosi ogni speranza di futuro reinserimento e/o di recupero. Dal Dap, che conforma la notizia, mi si dice che l’operazione sarà fatta con la massima attenzione, che molti detenuti verranno declassificati e che quindi rimarranno a Padova, che quelli che lavorano non saranno spostati e che, nel caso siano commessi errori, questi verranno successivamente rimediati. Fatto sta che c’è il forte rischio che il comma tre dell’articolo 27 della Costituzione - secondo il quale "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato" - divenga sempre più fantomatico, carta straccia nemmeno riciclabile che umilia lo Stato di diritto. Giustizia: leggi e leggine… ma i diritti mai di Michele Ainis Corriere della Sera, 8 aprile 2015 Tirata d'orecchie da parte della Corte di Strasburgo. Non è la prima volta, non sarà neppure l'ultima. Ormai abbiamo le orecchie rosse come chi soffra d'un febbrone permanente. In questo caso dipende dai fatti (o meglio dai misfatti) della Diaz: 63 feriti, 125 poliziotti sott'accusa. Significa che anche in Italia pratichiamo (di rado, e meno male) la tortura; però non c'è il reato, sicché l'Europa mette sott'accusa il nostro ordinamento. Ma per l'appunto l'accusato è recidivo e per una lunga serie di delitti. Qualche esempio, pescando un po' a casaccio. I nostri processi durano più di un'era geologica; dal 1999 la Corte europea dei diritti dell'uomo ci bastona, perfino con 24 sentenze di condanna pronunziate in un solo giorno (16 gennaio 2001). Nel febbraio 2012 la medesima Corte ci ha punito per i respingimenti in mare verso la Libia (15 mila euro a ciascuno dei 22 migranti che s'erano appellati). Nel gennaio 2014 ha stabilito il diritto d'attribuire ai figli il solo cognome della madre, formulando anche in quel caso l'esigenza di correggere la legislazione italiana. Nell'agosto 2000 fu la volta degli sfratti decretati e mai eseguiti: 69 milioni di vecchie lirette pagate dallo Stato italiano a un cittadino, che da 10 anni cercava invano di rimettere piede nel proprio appartamento. Un precedente poi bissato nel 2003, questa volta a beneficio di un'anziana signora in attesa da 14 anni. È tutto? No, è soltanto il frontespizio del librone dei nostri peccati. Nell'ottobre 2008 la Corte di Strasburgo verga l'ennesima sentenza di condanna: 80 mila euro a un padre accusato ingiustamente, cui per 10 anni le autorità italiane avevano impedito di rivedere la figlia. Nel novembre 2014 un'altra randellata, stavolta perché il nostro Paese non offre sufficienti garanzie per i rifugiati. Infine la celebre sentenza contro il sovraffollamento carcerario (gennaio 2013: 100 mila euro a sette detenuti stipati in celle con meno di 3 metri quadrati a testa), cui seguì l'altrettanto celebre messaggio di Napolitano al Parlamento. Senza dire degli interventi firmati da altri giudici europei: per esempio dalla Corte di giustizia, che nell'aprile 2011 bocciò sonoramente il reato di clandestinità, introdotto due anni prima nel "pacchetto sicurezza". O senza citare i moniti dettati dallo stesso Parlamento dell'Unione: nel luglio 2001 si pronunziò a favore del rientro dei Savoia, in nome della libertà di circolazione. Diciamolo: non va affatto bene. Le nostre orecchie rosse sono anche orecchie d'asino e per sovrapprezzo a bocciarci è un giudice straniero. Inoltre la bocciatura costa, in quattrini oltre che in reputazione. E le sentenze della Corte di Strasburgo sono direttamente vincolanti per gli Stati. Noi invece, per lo più, preferiamo svicolare. Oppure le traduciamo in chiacchiere di carta, usando la carta delle Gazzette ufficiali. Per esempio rispetto alla ragionevole durata dei processi: nel 1999 l'abbiamo iscritta nell'art. 111 della Costituzione, ma l'anno dopo il tempo medio dei giudizi penali è lievitato da 1.451 a 1.490 giorni. O altrimenti rispetto al sovraffollamento nelle carceri: una leggina addosso all'altra, però ospitiamo ancora 4.000 detenuti di troppo. E la tortura, che ci ha fatto guadagnare l'ultima medaglia? Nel 1955 abbiamo ratificato la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo (che ne prescrive il divieto), nel 1988 la Convenzione contro la tortura. Ma ogni ratifica rimane per aria, come un prosciutto appeso al soffitto. Papa Francesco ha introdotto nuove figure criminose per contrastare il genocidio e l'apartheid, noi ci teniamo sul groppone il codice Rocco del 1930, firmato dal Guardasigilli di Benito Mussolini. Intanto il reato di tortura giace da due anni in Parlamento e forse è pure meglio che riposi in pace. Venne già risvegliato il 22 aprile 2004, quando la Camera approvò un emendamento della Lega Nord. Con quali contenuti? Stabilendo che è vietato torturare per due volte, ma una volta sola no. Da qui la conclusione: diamoci una mossa. Il nostro ritardo sul fronte dei diritti non è certo colpa del governo in carica; prima di Renzi ritardava Letta, e Monti, e Berlusconi. Però l'esecutivo Renzi marcia con passo da bersagliere e tutti gli italiani dietro col fiatone. Ecco, se il bersaglio del bersagliere diventassero i diritti civili, saremmo tutti più contenti di sudare. Giustizia: ora ci vuole una legge che punisca la tortura di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 8 aprile 2015 Riferendosi all'aggressione della polizia contro i tanti che si erano rifugiati per la notte nella scuola Diaz, la Corte d'appello di Genova, nella sentenza che la Cassazione ha poi confermato, aveva parlato di "tradimento della fedeltà ai doveri assunti nei confronti della comunità civile" e di "enormità dei fatti che hanno portato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero". E tuttavia per le violenze nessuno è stato punito, poiché i reati si sono prescritti. Come era prevedibile è ora giunta la grave condanna della Corte europea dei diritti umani. La polizia alla scuola Diaz commise atti di tortura e lo Stato ha poi mancato al suo dovere di identificare e punire i responsabili. È la prima volta che l'Italia è condannata per tortura. Si tratta della più grave e umiliante delle condanne. All'epoca la reazione politica fu formale, di facciata. Il Parlamento svolse una rapida indagine conoscitiva, senza conseguenze. Per responsabilità dei governi che si sono succeduti dal 2001 a ora, la carriera di diversi responsabili della direzione delle operazioni non ha subito l'arresto che la gravità dei fatti e delle responsabilità avrebbe richiesto. La responsabilità dei dirigenti è stata ignorata e si è anzi assistito a incredibili promozioni. In proposito la Corte europea aveva chiesto informazioni sulle misure prese, ma dal governo non ha nemmeno ricevuto risposta. La Corte ha formalmente deplorato che "la polizia italiana abbia potuto impunemente rifiutare di fornire alle autorità competenti la cooperazione necessaria all'identificazione degli agenti da sottoporre all'indagine per gli atti di tortura". Mentre nessun rilievo è stato sollevato nei confronti dell'azione della magistratura, la Corte europea ha descritto la condotta di governi e polizia che hanno minimizzato e coperto le responsabilità per le torture. L'Italia tuttora si sottrae all'obbligo internazionale che essa ha assunto fin dal 1989 di punire la tortura per quello che essa è, uno dei più gravi delitti di cui l'autorità pubblica possa rendersi colpevole. Alle sollecitazioni del Comitato europeo contro la tortura" i governi italiani hanno sempre risposto che in realtà il codice penale punisce le percosse, le lesioni, le ingiurie, le violenze nei confronti degli arrestati. Vero e falso al tempo stesso. Ed anche una bugia dalle gambe corte, cui governi seri non dovrebbero ricorrere. Perché si tratta di reati puniti lievemente, che si prescrivono facilmente, cosicché la loro punizione è finta (come anche questa volta è accaduto). E la Corte europea non ha creduto all'inganno. Progetti di legge si sono susseguiti. Ancor ora il Parlamento non ne ha approvato alcuno. Ha avuto corso la tesi che offenda le forze di polizia anche solo ipotizzare che esse possano rendersene responsabili. E invece dopo i giudici italiani, ora anche l'Europa dei diritti umani attesta che la tortura esiste e ordina all'Italia di contrastarla e punirla, invece di tollerarla. Giustizia: Corte Strasburgo condanna l'Italia per tortura alla Scuola Diaz (G8 Genova) Corriere della Sera, 8 aprile 2015 La Corte europea dei diritti umani: "Tenuto conto di gravità fatti la risposta delle autorità italiane è stata inadeguata". "Polizia non collaborò per identificare gli agenti". Quanto compiuto dalle forze dell'ordine italiane nell'irruzione alla Diaz il 21 luglio 2001 "deve essere qualificato come tortura". Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti umani che ha condannato l'Italia non solo per quanto fatto ad uno dei manifestanti, ma anche perché non ha una legislazione adeguata a punire il reato di tortura. In particolare è stato violato l'articolo 3 su "divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti". Il dispositivo è impietoso: "Tenuto conto della gravità dei fatti avvenuti alla Diaz la risposta delle autorità italiane è stata inadeguata". E ancora: "La polizia italiana ha potuto impunemente rifiutare alle autorità competenti la necessaria collaborazione per identificare gli agenti che potevano essere implicati negli atti di tortura". Nella sentenza pubblicata dal tribunale di Strasburgo, si condanna l'Italia per i maltrattamenti subiti dal ricorrente, il manifestante veneto Arnaldo Cestaro. Vicentino, nato nel 1939, si trovava all'interno della scuola al momento dell'irruzione delle forze dell'ordine. All'epoca dei fatti l'uomo aveva 62 anni: fu picchiato più volte, e in seguito al pestaggio riportò fratture multiple. L'Italia, ha stabilito la Corte, "dovrà versare a Cestaro un risarcimento di 45 mila euro". La sentenza crea un precedente per altri ricorsi pendenti a Strasburgo in relazione ai pestaggi della polizia alla Diaz e nella caserma di Bolzaneto. Cestaro la notte del raid si trovava nella scuola per dormire la notte. A un tratto sente un rumore infernale e pochi istanti dopo la porta di ingresso viene sfondata. Subito pensa ad un attacco dei black bloc ma si rende conto che invece è la polizia, responsabile di una spedizione punitiva violentissima. Cestaro cerca di difendersi dai manganelli, grida che è un anziano, una persona pacifica. È lui l'uomo con i capelli bianchi citato dal vice questore Michelangelo Fournier nella deposizione davanti ai giudici, durante il processo per i fatti della Diaz. Fournier definì quell'irruzione una "macelleria messicana" e raccontò ai magistrati di aver urlato "basta!" ai poliziotti che stavano picchiando un uomo anziano. Durante l'irruzione alla Diaz furono fermati 93 attivisti e furono portati in ospedale 61 feriti, dei quali 3 in prognosi riservata e uno in coma. Finirono sotto accusa 125 poliziotti, compresi dirigenti e capisquadra. "La Corte - si legge nel documento pubblicato sul sito della Corte di Strasburgo - ha riscontrato una violazione dell'articolo 3 della Convenzione, a causa dei maltrattamenti subiti da Cestaro e di una legislazione penale inadeguata per quanto riguarda sanzioni contro gli atti di tortura e misure dissuasive che prevengano la loro reiterazione". "Dopo aver sottolineato il carattere strutturale del problema - si legge ancora nel dispositivo che suona pesantissimo - la Corte ricorda che, per quanto riguarda le misure per rimediare, gli obblighi positivi che spettano allo Stato italiano in merito all'articolo 3, possono comporre un quadro giuridico appropriato, anche attraverso disposizioni penali efficaci". Nota Giunta e Osservatorio Carcere Ucpi L'Unione Camere Penali Italiane con il proprio Osservatorio Carcere, dinanzi all'ennesima condanna dell'Italia da parte della Corte Europea per i diritti dell'uomo di Strasburgo, per non avere ancora inserito nel proprio ordinamento il reato di tortura, invita il Parlamento ad intervenire con la massima urgenza. Non è tollerabile in un Paese civile che una riforma che coinvolge la libertà, la dignità e l'incolumità dell'individuo possa essere in discussione da due anni. Approvata dal Senato poco più di un anno fa, il 5 marzo 2014, dopo una discussione durata 8 mesi, ora è in seconda lettura alla Camera dove il 23 marzo scorso è approdata in Aula per la discussione generale. L'esame dovrebbe riprendere in settimana, ma il testo, già modificato dalla Commissione Giustizia di Montecitorio, dovrà tornare al Senato. Il provvedimento della Corte Europea, che condanna anche l'Italia per quanto compiuto dalle Forze dell'Ordine italiane nell'irruzione alla Diaz il 21 luglio 2001, condotta qualificata come tortura, deve costituire per tutti gli schieramenti politici monito per procedere finalmente alla rapida e definitiva approvazione del disegno di Legge che dovrebbe prevedere la condotta delittuosa come reato proprio, commesso cioè da chi istituzionalmente ha l'obbligo di custodire l'incolumità e la dignità della persona che si trovi ad essere privata della libertà. Manconi: ora si metterà in moto chi ostacola legge per reato tortura "Quanti avvertivano lo scandalo della mancata introduzione di una fattispecie penale che definisca e sanzioni la tortura, a distanza di 24 anni dalla Convenzione delle Nazioni Unite, già si erano dati da fare. Ma permane una sorta di resistenza sorda che porta a sottovalutare gravemente questa esigenza o a deformarla pesantemente nel momento in cui deve tradursi in una forma di reato. Temo che ora si metteranno nuovamente in moto le forze che hanno ostacolato finora l'approvazione della legge". Il senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione parlamentare per la tutela dei Diritti Umani, commenta così all'Adnkronos la pronuncia della Corte europea dei Diritti dell'Uomo, che ha stabilito che i maltrattamenti subiti dalle persone presenti nella scuola Diaz di Genova da parte delle forze dell'ordine devono essere qualificati come tortura. "La Convenzione delle Nazioni Unite e i codici penali di gran parte dei Paesi Europei prevedono questo come un reato proprio, ovvero in capo ai pubblici ufficiali e a quanti esercitano pubbliche funzioni. Questo - ricorda Manconi - era il disegno di legge da me presentato al Senato e lì approvato poi in maniera assai differente. Ora alla Camera si rischiano altre modifiche, che come minimo prolungano l'iter perché l'articolato dovrà tornare al Senato e queste modifiche rischiano di essere peggiorative. Si tenga conto - conclude Manconi - che in più di una circostanza, in modo preciso e puntuale, per una vicenda di maltrattamenti a danno di detenuti del carcere di Asti la corte aveva lamentato l'assenza nel nostro codice di questa fattispecie penale". Bernardini: Basta macelleria del diritto. Proseguo sciopero della fame Dichiarazione di Rita Bernardini, Segretaria di Radicali Italiani in merito alla sentenza della Corte dei Diritti umani di Strasburgo relativa ai fatti accaduti durante il G8 di Genova del 2001: "Ancora una volta, e questa volta all'unanimità, i giudici della Corte di Strasburgo hanno affermato che la Repubblica italiana ha violato l'articolo 3 della convenzione sui diritti dell'uomo che sancisce che: "Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti". Lo stesso articolo per cui l'Italia era stata condannata nel gennaio del 2013 con la sentenza pilota Torreggiani". "Non solo la Corte di Strasburgo ha stabilito che quanto accaduto nella caserma Diaz di Genova deve essere considerato "tortura", ma nella sentenza i giudici sono andati oltre sostenendo che se i responsabili non sono mai stati puniti è a causa dell'inadeguatezza delle leggi italiane che, quindi, devono essere cambiate". "Secondo la Corte, la mancata identificazione degli autori materiali dei maltrattamenti dipende in parte ‘dalla difficoltà oggettiva della procura a procedere a identificazioni certe, ma al tempo stesso dalla mancanza di cooperazione da parte della polizià. Nella sentenza si legge inoltre che la mancanza di determinati reati non permette allo Stato di prevenire efficacemente il ripetersi di possibili violenze da parte delle forze dell'ordine". Come Radicali, nella scorsa legislatura, avevamo presentato delle proposte di legge per l'identificazione delle forze dell'ordine e, naturalmente, anche per l'introduzione del reato di tortura nel codice penale. Un'introduzione che osservi il dettato della Convenzione delle Nazioni unite sulla tortura del 1984 ratificata dall'Italia nell'88 e non il compromesso al ribasso adottato dal Senato che de-tipicizza il reato e arriva a imporre l'ergastolo se la tortura provoca la morte del torturato. Invito i componenti della commissione Giustizia della Camera, oltre che naturalmente il ministro Orlando, a leggere con attenzione le motivazioni della sentenza della Corte europea dei diritti umani sia per quanto riguarda la codifica del reato di tortura, tipico delle forze dell'ordine, sia, più in generale, per il modo con cui il nostro paese viola la propria legalità costituzionale e i propri obblighi internazionali. Per denunciare tutto ciò, e accompagnarlo con proposte concrete di riforma, continuo con il mio sciopero della fame al quale da oggi si unisce anche Marco Pannella con uno sciopero anche della sete. Giustizia: la Corte di Strasburgo "la tortura in Italia è un problema strutturale" di Katia Bonchi Il Manifesto, 8 aprile 2015 Diritti umani. La Corte di Strasburgo condanna l'Italia per le violenze della Diaz. Censure pesanti contro stato e polizia: manca il reato specifico e l'identificativo degli agenti, le istituzioni coprirono i violenti. Il blitz alla Diaz durante il G8 di Genova deve essere qualificato come "tortura", alla polizia è stato consentito di non collaborare alle indagini e la reazione dello Stato italiano non è stata efficace violando l'articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Lo ha stabilito la Corte europea di Strasburgo (Cedu) che ha accolto il ricorso di Arnaldo Cestaro, uno dei 92 manifestanti, picchiati e ingiustamente arrestati la notte del 21 luglio 2001. Cestaro, all'epoca 62 enne, uscì dalla scuola con fratture a braccia, gambe e costole che hanno richiesto numerosi interventi negli anni successivi. Una sentenza che pesa come un macigno per un Paese le cui istituzioni hanno minimizzato fino all'ultimo quanto accadde in quella che, grazie alle parole di uno dei poliziotti intervenuti, è nota come la "macelleria messicana". La sentenza, decisa all'unanimità, per la prima volta condanna l'Italia per violenze qualificabili come tortura, escludendo che i fatti possano essere considerati solo come "trattamenti inumani e degradanti" e sottolineando la gravità delle sofferenze inflitte e la volontarietà deliberata di infliggerle. La Corte respinge anche la difesa del governo italiano secondo cui gli agenti intervenuti quella notte erano sottoposti a una particolare tensione: "La tensione - scrivono i giudici - non dipese tanto da ragioni oggettive quanto dalla decisione di procedere ad arresti con finalità mediatiche utilizzando modalità operative che non garantivano la tutela dei diritti umani". La Cedu entra poi nel cuore del problema: la reazione (o non reazione) dello Stato italiano a ciò che avvenne. "Gli esecutori materiali dell'aggressione non sono mai stati identificati e sono rimasti, molto semplicemente, impuniti" e la principale responsabilità di ciò è addebitabile alla "mancata collaborazione della polizia alle indagini". Ma la Corte va anche oltre e lamenta che "alla polizia italiana è stato consentito di rifiutare impunemente di collaborare con le autorità competenti nell'identificazione degli agenti implicati negli atti di tortura". I giudici ricordano che gli agenti devono portare un "numero di matricola che ne consenta l'identificazione". Per quanto riguarda le condanne "nessuno è stato sanzionato per le lesioni personali" a causa della prescrizione mentre sono stati condannati solo alcuni funzionari per i "tentativi di giustificare i maltrattamenti". Ma anche costoro hanno beneficiato di tre anni di indulto su una pena totale non superiore ai 4 anni. La responsabilità di tutto ciò non è stata né della Procura né dei giudici ai quali il Governo italiano secondo la Corte ha provato ad attribuire la "colpa" della prescrizione. Anzi, al contrario, i magistrati hanno operato "diligentemente, superando ostacoli non indifferenti nel corso dell'inchiesta". Il problema, secondo la Corte, è "strutturale": "La legislazione penale italiana si è rivelata inadeguata all'esigenza di sanzionare atti di tortura in modo da prevenire altre violazioni simili". Infatti "la prescrizione in questi casi è inammissibile", come inammissibili sono amnistia e indulto. La Corte ritiene necessario che "i responsabili di atti di tortura siano sospesi durante le indagini e il processo e, destituiti dopo la condanna". Esattamente il contrario di quanto accaduto. Forse anche per questo "il Governo italiano non ha mai risposto alla specifica richiesta di chiarimenti avanzata dai giudici di Strasburgo". Dall'ex capo dell'Ucigos Giovanni Luperi al direttore dello Sco Francesco Gratteri al suo vice Gilberto Caldarozzi, al capo del reparto mobile di Roma Vincenzo Canterini, i massimi vertici della polizia hanno proseguito le loro brillanti carriere fino alla condanna definitiva. Per molti di loro è arrivata nel frattempo l'agognata pensione, per gli altri nessuna destituzione da parte del Viminale ma solo l'interdizione per 5 anni dai pubblici uffici disposta dai giudici, terminata la quale potranno rientrare in servizio. Per i capisquadra dei picchiatori del nucleo sperimentale antisommossa di Roma, condannati ma prescritti prima della Cassazione (ritenuti però responsabili agli affetti civili) non risultano sanzioni disciplinari, tantomeno per i loro sottoposti mai identificati. "I vertici delle forze di polizia hanno ricevuto in questi anni soltanto attestazioni di stima e solidarietà" commenta il procuratore generale di Genova Enrico Zucca, che ha sostenuto l'accusa contro i poliziotti in primo e secondo grado - e mi rifiuto di credere che lo stato non abbia funzionari migliori di quelli che sono stati condannati". "Quando nel corso dei processi insieme al collega Cardona parlavamo di tortura citando proprio casi della Cedu ci guardavano come fossimo pazzi", ricorda con un pizzico di amarezza mista alla soddisfazione per una sentenza che considera però "scontata". Per il magistrato, che spesso si trovò isolato anche all'interno della stessa Procura nell'inchiesta più scomoda "bisogna prevenire fatti di questo genere e in Italia non abbiamo antidoti all'interno del corpo di appartenenza. Le dichiarazioni dopo la sentenza definitiva dell'allora capo della polizia Manganelli non sono solo insufficienti ma dimostrano la mancata presa di coscienza di quello che è successo. Fece delle scuse, sì, ma parlando di pochi errori di singoli, senza riflettere sulla vastità del fenomeno". La sentenza che ha condannato l'Italia a un risarcimento di 45 mila euro ad Arnaldo Cestaro arriva a quattro anni dal ricorso. I legali di Cestaro, gli avvocati Niccolò e Natalia Paoletti, che non hanno neppure atteso la sentenza di Cassazione per rivolgersi alla Cedu, esprimono soddisfazione: "Siamo molto contenti, soprattutto per il fatto che la corte ha rilevato l'enorme mancanza dell'ordinamento interno italiano, vale a dire la non previsione del reato di tortura e lo invita quindi a porre dei rimedi". Per il loro cliente anche un risarcimento superiore a quanto normalmente disposto dalla Corte per casi simili "anche se - dice l'avvocato - parlare di cifre rispetto alla violazione di determinati diritti, è svilente". "La sentenza della Corte di Strasburgo - commenta il sindaco di Genova Marco Doria - riconosce la tragica realtà delle violenze perpetrate alla Diaz e mette a nudo la responsabilità di una legislazione che non prevede il reato di tortura e, per questa ragione, lascia sostanzialmente impuniti i colpevoli. È una sentenza di grande valore, non solo da rispettare, ma da condividere pienamente". "Uno stato democratico - aggiunge il sindaco - non deve mai tollerare che uomini che agiscono in suo nome compiano atti di brutale violenza contro le persone e i diritti dell'uomo. È, questa, una condizione essenziale anche per difendere la dignità di quanti operano invece negli apparati dello Stato secondo i principi della Costituzione". L'Italia, che potrebbe fare ricorso contro la sentenza, sarà costretta a ottemperare con una legge ad hoc. "Il modello - spiega l'avvocato Paoletti - potrebbe essere per esempio quello francese, che prevede per la tortura una pena base di 15 anni, aumentata a 20 in caso sia un pubblico ufficiale a commetterla e a 30 in caso di infermità permanente per la vittima, ma si sa che il nostro Paese è molto ‘bravò a ottemperare con molta lentezza alle sentenze della Cedu". Nell'attesa, comunque lo Stato italiano potrebbe essere costretto a sborsare molto per risarcire le altre circa 60 parti civili della Diaz che hanno fatto ricorso in blocco dopo la sentenza definitiva. Se quella di Cestaro può essere considerata una sentenza-pilota, si può ipotizzare un risarcimento di quasi 3 milioni di euro. Senza contare i processi civili per le vittime non solo della Diaz ma anche di Bolzaneto, che sono appena cominciati. Giustizia: il vero scandalo non è la tortura "praticata"… ma è in Parlamento di Patrizio Gonnella (Presidente di Antigone) Il Manifesto, 8 aprile 2015 C'è un giudice in Europa. I fatti di Genova risalgono al 20 luglio del 2001. In quella circostanza una buona parte delle istituzioni si è sentita legittimata a ragionare e ad agire come se fosse in uno stato di eccezione. La presenza di due ministri nella cabina di regia delle operazioni di polizia contro i manifestanti assunse il significato di legittimare l'eccezionalità di quanto stava accadendo. Ci furono le brutalità della Diaz e poi le torture di Bolzaneto. Non furono episodi marginali o "mele marce". Fu qualcosa di sistemico e strutturale. L'anno prima vi erano state le violenze al Global forum di Napoli e quelle denunciate nel carcere di San Sebastiano a Sassari. Tre anni prima, ovvero nel luglio 1998, l'Italia solennemente aveva firmato lo Statuto della Corte Penale Internazionale che avrebbe dovuto giudicare su scala globale i gravi crimini contro l'umanità, tra cui per l'appunto la tortura. Tredici anni prima, nel 1988, l'Italia aveva firmato e ratificato la Convenzione Onu contro la tortura che all'articolo 1 definiva il crimine e agli articoli successivi impegnava tutti i Paesi a punirlo in modo adeguato ed efficace. In Italia la tortura invece non è un reato. A Strasburgo se ne sono accorti e così è arrivata la condanna per quanto accaduto alla Diaz. La parola chiave di questa storia è "scandalo". La pietra dello scandalo non è la tortura praticata, in quanto essa non è mai purtroppo una sorpresa, neanche nelle più consolidate delle democrazie. Chi si sorprende della tortura fa sempre il gioco dei torturatori. È uno scandalo il fatto che per 25 anni la classe dirigente di questo paese non ha avuto alcuno slancio nel nome dei diritti umani. La storia parlamentare ci rimanda a inerzie, meline, opposizioni nel nome ora della ragion di stato, ora dello spirito di corpo, ora delle mani libere. Una storia politica dove è difficile capire chi non sia responsabile. Dal 1988 si sono succeduti governi della prima e della seconda Repubblica, governi di centrodestra e di centrosinistra, eppure la tortura non è mai stata criminalizzata per quel che è, ovvero un delitto proprio del pubblico ufficiale. Nei prossimi giorni riparte il dibattito alla Camera. La Commissione Giustizia ha modificato il testo - imperfetto e incoerente rispetto al dettato Onu - approvato in Senato. Per cui riprenderà il ping pong parlamentare che nelle scorse legislature ha decretato la morte delle varie proposte di legge pendenti. In tutti questi anni, abbiamo sentito parlamentari chiedere che non fosse punita la sofferenza psichica prodotta dalla tortura altrimenti alcuni pubblici ministeri avrebbero rischiato l'incriminazione o altri deputati evocare la punizione solo per chi tortura almeno due volte. Nel frattempo la cronaca ci ha ricordato che la tortura non è un crimine da terzo mondo, ma anche del secondo e del primo. Tre anni fa un giudice ad Asti non ha potuto punire due agenti di polizia penitenziaria in quanto, come lui stesso ha scritto nella sentenza, "in Italia manca il delitto di tortura" e le condotte dei due agenti coincidevano con la descrizione del crimine presente nel Trattato delle Nazioni Unite. Sappiamo - grazie a Voltaire - che il meglio è nemico del bene. Sappiamo anche che abbiamo bisogno di una legge che non perpetui l'impunità dei torturatori. Giustizia: intervista a Mauro Palma "punito il sistema delle bugie" di Carlo Lania Il Manifesto, 8 aprile 2015 Mauro Palma: "L'operazione alla scuola Diaz fu pianificata e proprio per questo si può parlare del reato di tortura". "Bene, possiamo dire che il famoso giudice di Berlino esiste davvero. La sentenza della Corte di Strasburgo riconosce quanto accaduto alla scuola Diaz come episodi di tortura, anche se dimostra un'incapacità nazionale di riconoscerli come tali". Mauro Palma è stato per anni il presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e guarda con soddisfazione alla decisione dei giudici europei. Anche se, ammette, nella sentenza non mancano motivi di riflessione e autocritica. "Il quadro che emerge del Paese non può che farci guardare allo specchio in maniera dura perché nella sentenza si ricorda come nel 2006, rispondendo a una richiesta di chiarimenti proprio su quanto accaduto al G8, il governo spiegò che in Italia manca un reato specifico perché la tortura è lontana dalla nostra mentalità. Una risposta che lascia esterrefatti e che mi sconvolge, perché tra le tre situazioni di Genova, la piazza, la Diaz e Bolzaneto, l'operazione Diaz venne pianificata facendo così intervenire proprio il reato di tortura". Ci sono voluti 15 anni e un'istituzione straniera, per quanto europea, perché si arrivasse a pronunciare la parola tortura sui fatti di Genova. "È vero, ma tenga presente che la sezione che ha emesso la sentenza è presieduta da un giudice italiano, anche se in questo caso non presiedeva lui. Poi sì, c'è un elemento sovrannazionale che ci giudica e se vuole questa è la linea d'ombra tra la positività della decisione e la constatazione della nostra incapacità interna a risolvere il problema". La Corte parla di responsabilità della polizia per non aver contribuito a identificare gli agenti autori delle violenze. Un atto di accusa molto preciso. "Dice anche che sono state fornite foto molto vecchie degli agenti. Fa parte di questa opera di scarsa trasparenza anche la falsificazione dei verbali e la conferenza stampa successiva all'irruzione nella scuola. Tutto questo è proprio di un sistema corporativo che si chiude a riccio e commette reati. Vede, quando si tratta del singolo episodio, della persona picchiata si può anche pensare, seppure con le molle, al classico caso della mela marcia. Ma qui hai un sistema che difende se stesso falsificando. E non può essere la decisione del singolo". Un modo per abbattere il sistema di cui parla è il codice identificativo per gli agenti, la cui approvazione trova però sempre molta resistenza. A cosa è dovuta? "Ho parlato più volte con i responsabili delle forze dell'ordine e l'opposizione è sempre una: il rischio che l'agente possa in qualche modo vedere messa in pericolo la propria incolumità. A me sembra una cosa non reale. Il codice identificativo lo possiamo anche cambiare o far ruotare con una certa facilità e si possono tenere molto segrete le modalità di decriptazione facendo in modo che siano fruibili solo da parte dell'autorità giudiziaria. Gli agenti replicano dicendo di temere comunque di diventare dei bersagli. Mi sembra l'espressione di una cultura arretrata. Io parto da un principio: la trasparenza non è solo massima garanzia di legalità, ma anche massima garanzia di tutela per chi agisce in un lavoro difficile come quello delle forze dell'ordine. Più si è trasparenti meglio è anche per le forze dell'ordine, che così vengono tutelate rispetto ad accuse ingiuste. Ma il messaggio che invece passa sempre è che l'opacità garantisce, tutela. L'opacità non garantisce niente e nessuno, neanche le forze dell'ordine". Lei ha parlato di culture arretrate. Ma c'è una cultura di violenza tra le forze dell'ordine e, quindi, di impunità? "Più che di violenza parlerei proprio di impunità. Quando devi fare delle promozioni e scegli di promuovere agenti che sono sotto inchiesta per violenza e maltrattamento di persone in custodia, mandi un segnale culturale al giovane agente che è dirompente". Da Strasburgo arriva anche l'accusa all'Italia di non avere una legislazione adeguata, e il riferimento esplicito è al reato di tortura. "Ricordiamoci che soltanto quattro anni fa, quando ci fu da parte dell'Onu la precedente revisione degli obblighi relativi ai diritti umani da parte del nostro paese, ancora una volta l'Italia si presentò a Ginevra dicendo che da noi non c'è bisogno di istituire il reato di tortura, perché esistono altre fattispecie che permettono di perseguire le condotte violente. Da allora abbiamo avuto una serie di prove tangibili che questo non è vero e abbiamo visto come perseguire con figure di reato deboli esponga alla prescrizione". C'è quindi il rischio che episodi simili si ripetano? "Sì. Credo e spero che Genova sia stata il punto di caduta più basso di un trend. Ma a livello di singoli individui può sempre capitare. E poi penso che ci sia anche molta dimenticanza da parte dell'opinione pubblica". Giustizia: reato di tortura e codici sulle divise degli agenti… le leggi impossibili di Eleonora Martini Il Manifesto, 8 aprile 2015 La Camera domani riprende i lavori sull'introduzione del reato. Ma tipizzato all'italiana. Mentre il governo blocca al Senato il testo di Sel sugli identificativi per gli agenti. Reato di tortura e codice identificativo per le forze dell'ordine: fino a quando l'Italia non provvederà a colmare queste lacune nel proprio ordinamento, la "natura strutturale del problema" rimarrà - per usare le parole della Corte europea dei diritti dell'uomo - "evidente". Appurato infatti che il comportamento da "macelleria messicana" tenuto dalle forze dell'ordine alla Diaz "deve essere qualificato come tortura", nella condanna contro Roma la Corte di Strasburgo pronuncia un esplicito imperativo a rispettare i principi della legislazione internazionale. Insomma, ciò che gli italiani discutono inutilmente da decenni, all'impasse per i veti delle divise di cui la destra si fa portavoce ma che riescono ad imbalsamare anche il Pd, incapace di procedere sulla strada segnata dalla stessa Costituzione italiana, dalla Convenzione di Ginevra del 1949 e da una lunga serie di patti internazionali fino alla Convenzione Onu ratificata dal nostro Paese nel 1988 ma mai attuata, appare invece chiaro ai giudici europei. Il collegio presieduto da Päivi Hirvelä infatti scrive che il diritto penale italiano ha dimostrato di essere "inadeguato" non solo perché non prevede alcuna sanzione contro i pubblici ufficiali che abusando dei propri poteri compiono atti di "tortura" o anche solo "azioni disumane e degradanti", ma anche perché è "privo di disincentivi in grado di prevenire efficacemente il ripetersi di possibili violenze da parte della polizia". Già un anno fa la Corte europea, condannando l'Italia a risarcire un uomo picchiato dai carabinieri, aveva bacchettato anche la magistratura troppo spesso inerte davanti simili fatti. E sebbene qualcosa si sia mosso, negli ultimi anni, da quando alcuni tribunali hanno sottolineato l'impossibilità di procedere alla condanna delle forze dell'ordine colpevoli di violenza per mancanza di leggi appropriate (G8 di Genova e caso Cucchi, primi tra tutti), il reato di tortura e il codice identificativo per gli agenti di polizia non sono ancora strumenti a disposizione. Alla Camera però è calendarizzata già per domani la discussione iniziata il 23 marzo scorso sul ddl tortura, il cui testo è stato licenziato dal Senato nel marzo 2014 e modificato dalla commissione Giustizia al fine di armonizzarlo maggiormente - ma non del tutto - alle convenzioni internazionali. "Abbiamo innanzitutto raddoppiato i tempi di prescrizione che ora arrivano fino a 24 anni - spiega la presidente della commissione Donatella Ferranti (Pd) - e abbiamo cercato di tipizzare meglio la fattispecie di reato, soprattutto nel caso di pubblico ufficiale che abusa dei propri poteri, specificando le finalità della condotta volta ad ottenere informazioni, a vincere una resistenza, per punizione o per discriminazione". Ma la prima e più importante "pecca" del testo, che dopo l'approvazione della Camera dovrà comunque tornare in seconda lettura al Senato, sta nel fatto che la tortura non è qualificata come reato proprio ma comune, quindi imputabile a qualunque cittadino e non solo alle forze dell'ordine, come avviene in molti Paesi occidentali. "È stata una scelta politica - ammette Ferranti - ma non cambia nulla perché nel caso di reato commesso da pubblico ufficiale è prevista un'aggravante con pena autonoma, come se fosse un reato specifico. Abbiamo scelto di non stravolgere ulteriormente il testo del Senato, dove comunque si è svolto un alto dibattito per più di un anno, in modo da velocizzare l'approvazione finale. Ora mi auguro che la Camera approvi all'unanimità il provvedimento, in modo da poter avere la legge definitiva entro l'estate". Il nuovo testo modificato dalla commissione Giustizia punisce con la reclusione da 4 a 10 anni "chiunque, con violenza o minaccia o violando i propri obblighi di protezione cura o assistenza, intenzionalmente cagiona a una persona a lui affidata o sottoposta alla sua autorità sofferenze fisiche o psichiche". La pena è aggravata da 5 a 12 anni quando a torturare è un incaricato di pubblico servizio, il quale può essere accusato anche di un nuovo reato, l'istigazione specifica, punito con il carcere fino a 3 anni anche se l'istigazione non è stata accolta e la tortura infine non c'è stata. Per i codici alfanumerici sulle divise invece c'è da aspettare di più, perché il governo ha di fatto bloccato i lavori in commissione Affari costituzionali del Senato sul testo presentato da Sel e che avrebbe dovuto arrivare in Aula la scorsa settimana, annunciando provvedimenti in questo senso in un prossimo ddl sulla sicurezza urbana. "L'accordo con il ministro Alfano è che la commissione analizzerà contemporaneamente i due ddl - spiega la senatrice di Sel Loredana De Petris - Ma aspetteremo ancora quindici giorni, poi, se il ddl governativo non arriverà, faremo pressioni per riprendere i lavori sul nostro testo e introdurre i codici con i quali a Genova si sarebbero potuti identificare i torturatori". Giustizia: Corte di Strasburgo, sentenza e paradosso di Arturo Diaconale L'Opinione, 8 aprile 2015 "Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti". Così recita l'articolo 3 della Convenzione dell'Unione Europea sui Diritti dell'Uomo. E sulla base di questo articolo il nostro Paese è stato condannato dalla Corte di Strasburgo per le violenze subìte da un manifestante che si trovava nella Diaz durante il pestaggio della polizia del 2001 e per l'assenza di un'adeguata legge contro la tortura nella nostra legislazione. La sentenza della Corte europea è stata salutata con soddisfazione da quanti non hanno mai smesso di denunciare il comportamento delle forze dell'ordine durante le drammatiche giornate del G8 di Genova. Ma ha dato vita ad un singolare paradosso. Perché ha messo in luce come proprio chi ha più contestato le torture perpetuate dalla polizia alla Diaz non ha mai speso una sola parola per denunciare la totale assenza nel nostro Paese di norme contro l'altro tipo di tortura, quella che si manifesta con trattamenti inumani o degradanti compiuti dallo Stato ai danni dei cittadini. Questo paradosso è pericoloso. Perché non riguarda solo i difensori degli antagonisti, degli anarchici, degli extraparlamentari, degli autonomi o di chiunque sia stato a favore della violenza di popolo contro la violenza di Stato. Ma si estende ad una larga fetta della società italiana che non ha dubbi e perplessità di sorta nel protestare contro la tortura della polizia, ma non ha neppure una sola esitazione nel chiedere contemporaneamente pene e comportamenti inumani, degradanti ed incivili, cioè l'applicazione della tortura, nei confronti degli accusati di reati considerati emergenziali. Questa parte dell'opinione pubblica nazionale, espressione di una cultura giustizialista divenuta purtroppo egemone negli ultimi decenni, rischia di dirottare lo stimolo provocato dalla sentenza della Corte europea verso l'introduzione di un reato di tortura limitato ai soli casi di eccesso di violenza da parte delle forze dell'ordine. Invece il richiamo che viene da Strasburgo dovrebbe spingere ad una riflessione diversa e ad una azione legislativa molto più ampia. La riflessione è che nel nostro Paese la tortura, quella che non solo colpisce fisicamente ma che degrada, umilia e schiaccia la dignità dell'uomo, esiste da tempo immemorabile ed è la conseguenza inevitabile delle diverse legislazioni di natura emergenziale applicate nel corso degli anni. I comportamenti condannati dalla Corte europea sono stati la regola nella lotta al terrorismo degli anni Settanta e Ottanta, sono stati gli strumenti con cui è stata condotta e continua ad essere portata avanti la lotta alla mafia, sono stati le conseguenze della cosiddetta rivoluzione giudiziaria di Mani Pulite e si sono trasformati progressivamente nella prassi iniziale di qualsiasi inchiesta giudiziaria. Riconoscere che l'uso della tortura, intesa nel senso più ampio indicato dai giudici europei, sia connaturata con le diverse legislazioni emergenziali italiane non è un modo per contestare la lotta al terrorismo, alla mafia ed alla corruzione. È solo un inevitabile punto di partenza per compiere un bilancio dell'efficacia delle legislazioni emergenziali (sicuramente positivo quella contro il terrorismo ma di segno contrario quelle contro mafia e corruzione) e, soprattutto, un'attenta analisi di come si possa e si debbano condurre azioni più efficaci contro ogni genere di crimine nel rispetto e nella tutela dei diritti degli individui. Da Strasburgo, in sostanza, è giunta la richiesta di riflettere sulle pene inutilmente afflittive, sulla carcerazione preventiva troppo spesso usata come strumento d'indagine piuttosto che come misura cautelare, sulla gogna mediatica che uccide moralmente e socialmente gli innocenti oltre che ad affliggere in maniera disumana i colpevoli, sulle carceri che con tre metri quadrati di spazio per ogni detenuto non sono luogo di detenzione ma di tormento. Questa riflessione è indispensabile. Perché la tortura a cui siamo ormai assuefatti non è più tollerabile. Non solo dai cittadini italiani, anche dall'Europa! Giustizia: Rems, il Governo intervenga immediatamente in tutte le Regioni inadempienti dalla Giunta dell'Unione Camere Penali www.camerepenali.it, 8 aprile 2015 Apprendiamo che la Giunta Regionale toscana, dopo tanti tentennamenti, ha infine deciso di destinare gli internati toscani dell'Opg di Montelupo Fiorentino alla Casa Circondariale Mario Gozzini di Firenze che, per l'occasione, attraverso apposita operazione di maquillage, dovrebbe parzialmente trasformarsi in Rems a vigilanza rafforzata. Avevamo denunciato nei giorni scorsi il fatto che l'Opg toscano, sebbene cancellato per legge, fosse ancora in piena attività e fosse evidentemente destinato a sopravvivere chissà per quanto tempo, vista l'incapacità della Regione di individuare soluzioni adeguate per la realizzazione delle strutture alternative previste dalla legge, miseramente documentata dalle plurime e variegate ipotesi formulate nell'arco di oltre tre anni e sempre rapidamente accantonate. Tuttavia la scelta operata rappresenta il peggiore epilogo che potesse immaginarsi. Ci si chiede come possa una Rems, che dovrebbe essere una struttura sanitaria e non penitenziaria, un luogo di cura e di assistenza e non di detenzione, come vuole la legge, essere ospitata dalla sezione di un carcere; come si possa immaginare di dare attuazione ad una legge che, con enorme progresso di civiltà, sancisce la chiusura degli Opg, trasferendo in malati in un carcere. Il caso, inoltre, rappresenta un ulteriore campanello di allarme se si considera che già la Lombardia aveva deciso di trasformare in Rems a vigilanza rafforzata l'Opg di Castiglione delle Stiviere, con un'operazione che assomiglia molto ad un cambio di etichetta, e che il Piemonte e la Liguria avevano deciso di destinare i propri malati a quella struttura. Non vorremmo - ma abbiamo motivo di temerlo - che una riforma di portata storica, grazie a scelte di questo tipo, si trasformasse in un'operazione gattopardesca. Sono molte le Regioni che non sono pronte a rispettare il dettato normativo, nonostante il lunghissimo tempo avuto a disposizione. Gravissime inadempienze sulla pelle di persone che, invece, avrebbero bisogno di maggiori attenzioni, perché alle loro problematiche spesso si aggiunge l'abbandono da parte delle famiglie. Chiediamo dunque al Governo di non ratificare la decisione della Regione Toscana, d'intervenire immediatamente in tutte le Regioni inadempienti e di nominare un commissario ad acta, come previsto dalla legge, per procedere rapidamente all'individuazione di soluzioni alternative per i malati di quelle regioni in cui non sono state ancora approntate soluzioni idonee, auspicabilmente rivalutando anche quelle che non sono in linea con l'ispirazione del percorso riformatore culminato nella Legge 81/2014. Lettere: prescrizione dei reati, allungare i termini è una sconfitta dello Stato di Luca Ferraro (Presidente Aggiunto Onorario Corte di Cassazione) Libero, 8 aprile 2015 Si è fatto un gran parlare in questi giorni della decisione del governo di promuovere un allungamento dei termini di prescrizione dei reati, con particolare riferimento al reato di corruzione. La polemica si è fatta molto serrata al punto da ritenere che i fautori dell'allungamento siano da annoverare automaticamente nella schiera di coloro che vogliono combattere la corruzione, nel mentre i sostenitori della tesi opposta sarebbero i soggetti che hanno scelto di mantenere un atteggiamento morbido nei confronti di un fenomeno di malcostume squisitamente italiano. Niente di più sbagliato. Anzitutto, la prescrizione è sempre e comunque una sconfitta dello Stato, che si dimostra incapace di intervenire con il proprio apparato giudiziario per l'accertamento e la repressione dei reati. Da qui all'aumento dei termini, già molto alti (più di 15 anni), ce ne corre, anche perché un principio fondamentale dello stato di diritto è che la giustizia va amministrata nel rispetto di un ragionevole termine di durata dei procedimenti. Nel caso dell'Italia, la ragionevole durata costituisce un principio di rango costituzionale (art. 111) al cui rispetto sono preordinate precise norme di legge, interne ed internazionali, e la cui violazione ha frequentemente visto lo Stato italiano condannato con sanzioni risarcitone di notevole consistenza. Il nostro Paese, nel momento stesso in cui si accinge a varare l'allungamento dei termini di prescrizione, si deve confrontare con il citato precetto dell'art. 111 e con le inevitabili sanzioni in ambito europeo. Si pensi allora ad una soluzione alternativa potenziando l'azione di contrasto, istituendo magari nuclei speciali di forze di polizia e creando pool di magistrati esperti nel campo dei fenomeni corruttivi. Più in generale, Parlamento e governo sono chiamati a occuparsi dei fattori che appesantiscono la macchina giudiziaria, determinando il problema della durata eccessiva del processo civile e penale, quali: la lentezza delle procedure codicistiche, l'accentuato formalismo, il vertiginoso accumulo dell'arretrato, l'abnorme ricorso alla giurisdizione (mediazione, dove sei?), la cattiva distribuzione dei magistrati e del personale amministrativo, la scarsità dei mezzi a disposizione, l'arretratezza dell'informatizzazione, l'espansione esagerata del diritto penale con la previsione di sanzioni penali per illeciti che sarebbe preferibile colpire con sanzioni amministrative o pecuniarie. La vicenda ultima di Amanda e Sollecito (una volta condannati in primo grado, due volte giudicati in appello e in Cassazione con verdetti contrastanti, alla fine assolti in terzo grado con formula piena) mina la credibilità della giustizia anche e soprattutto per la durata del procedimento. Lo stesso dicasi per i casi di pene minacciate, irrogate, in tutto o in parte ineseguite, che scuotono l'opinione pubblica, spesso sconcertata per fatti che non riesce a comprendere. Un'ultima considerazione. Se è vero che il 57% degli imputati finiscono assolti, è giusto che la soddisfazione arrivi a distanza di 20 anni? Se la risposta è negativa, allungare ulteriormente i termini di prescrizione non rappresenta la medicina giusta per guarire la malattia delle lungaggini delle nostre procedure. Lettere: Toto Cuffaro "in carcere ritrovo Dio" Italpress, 8 aprile 2015 L'ex presidente della Regione siciliana, Totò Cuffaro, condannato a sette anni per favoreggiamento alla mafia, in una lettera-testimonianza pubblicata in prima pagina da Avvenire, il quotidiano dei vescovi, racconta la "disumanità' " delle strutture detentive e di come in carcere abbia ritrovato Dio. "Quattro anni fa - spiega il direttore del quotidiano Marco Tarquinio - non avrei neanche pensato di poter pubblicare in prima pagina un testo di Totò Cuffaro". "La lettera-testimonianza del detenuto Cuffaro, del potente caduto e condannato a sette anni di carcere..., mi ha però colpito sin dalle prime battute - aggiunge - e, infine, mi ha scosso e anche commosso". Nella lettera, che porta la firma "Totò Cuffaro, Detenuto nel carcere di Rebibbia", l'ex governatore della Sicilia scrive: "Caro direttore, il Papa è voluto essere uno di noi, il suo amore e la sua Misericordia sono Cristo. Il carcere non è luogo sconsacrato: "Dove dimora il dolore il suolo è sacro". Cristo arriva e porta pace alla disperazione degli uomini che sono al varco del confine, nelle urne del pianto. Arriva e libera gli spiriti legati alle catene. Cristo è uno dei nostri, fatica con noi per riscattare il nostro passato e per ripristinare i nostri giorni. Lo sentiamo camminare accanto a noi, consola la nostra libertà crocifissa, e a ogni passo sentiamo che il giogo diventa più sopportabile. Lui è stato crocifisso, ma quando vede crocifissi noi detenuti, diventa Cireneo, ci aiuta a portare il peso della croce e cammina insieme a noi e ci rende creature nuove e forti". "Così - aggiunge Cuffaro, sulle macerie delle parole e degli ascolti, dentro il deserto del carcere, poveri in mezzo ai poveri e tutti nella miseria, abbiamo sperato ancora. È proprio dentro questo vivere che abbiamo capito che è cambiata la nostra storia e la nostra vita". "È in questo luogo - prosegue l'ex presidente della Regione - che molti di noi hanno trovato l'appuntamento decisivo per l'incontro fondamentale con Chi eravamo convinti di avere incontrato e invece non conoscevamo a fondo. Credevamo di averlo trovato nella liturgie a cui avevamo preso parte, di averlo raggiunto nei pellegrinaggi che avevamo fatto, di esserci stati accanto in meditazione nei ritiri spirituali, ma oggi possiamo dire che l'incontro che veramente ce lo ha fatto conoscere è accaduto qua dentro. In questo luogo, senza cercarla né aspettarla abbiamo sentito la Sua voce: inconfondibile. In questo luogo che tenta di far scomparire l'uomo Lui ci ha svelato la sua dimensione essenziale". "È disumano - scrive Cuffaro - voler annullare l'uomo. Nessuna disumanità è più grande che far scomparire la persona che ognuno di noi è: precisamente questa è la disumanità del nostro tempo. E lo Stato oggi dà per legge, come mandato al carcere, proprio questa disumanità, mortificare e far sparire l'io dei detenuti. Ma un avvenimento che ha la forma di un incontro può salvare. L'incontro fa percepire e fa scoprire il senso della propria dignità. E siccome la personalità umana è composta di intelligenza, di affettività e di libertà, in quell'incontro l'intelligenza si desta in una volontà di verità nuova e l' ‘iò incomincia a fremere di una affezione alla vita, a sè, agli altri, che prima non aveva". "Ma l'avvenimento - aggiunge Cuffaro - deve essere riconosciuto ed è necessario un io che lo accolga, soprattutto se è un io mortificato qual è quello del detenuto, che ha però un cuore liberamente disponibile ad accoglierlo. Senza cuore, senza che tu abbia cuore, senza che tu sia capace di conservare il cuore che ti è stato dato, senza cuore Dio non può far nulla. Essere se stessi è la risorsa più importante per frenare l'invadenza del carcere, per salvaguardare la propria coscienza e allontanare il pericolo che il carcere alimenta, lusingando la perdutezza della memoria. È così, direttore, abbiamo riconosciuto la Sua voce: l'uomo ha questa capacità di riconoscere la voce buona che chiama all'incontro decisivo. La voce è inconfondibile. Possiamo non risponderle e tapparci l'animo. Ma è impossibile non riconoscerla. In tanti abbiamo risposto con il più forte grido di dolore che si potesse emettere, perché meglio fosse raccolto dal Cielo: abbiamo gridato e ci siamo sentiti liberi. Abbiamo sentito dentro la nostra carne il dolore, abbiamo capito che dentro il nostro dolore c'era anche la sofferenza degli altri e la sofferenza Sua. Per questo, direttore, vogliamo gridare ancora più forte, vogliamo riuscire a gridare al posto di chi qua dentro non ha la capacità o la forza di gridare nonostante soffra molto. Vogliamo gridare il dolore di chi non vuole ascoltare e non sa rispondere alla voce buona. Soffrire per gli altri è una grande forma di amore e se gridiamo il nostro e il loro dolore, liberiamo la nostra libertà. Giovedì 2 aprile 2015 la voce del Papa era stanca e addolorata ma era la voce buon, noi detenuti l'abbiamo riconosciuta subito. Lui era Cristo. Grazie, Francesco", conclude Totò Cuffaro. Piacenza: detenuto straniero di 30 anni si toglie la vita in cella con il gas di Mattia Motta Libertà, 8 aprile 2015 Ennesimo gesto disperato alle Novate, la vittima uno straniero di trent'anni. Ogni volta che una persona privata della libertà e affidata al sistema carcerario si toglie la vita, è una sconfitta per tutta la società civile" ha detto recentemente il provveditore alle opere pubbliche ad un convegno su queste tragedie. Ieri è stato uno di questi giorni. Un altro suicidio si è registrato al carcere delle Novate. All'interno di una cella dell'istituto di pena un detenuto straniero di circa 30 anni ha respirato volutamente il gas metano della bombola che dovrebbe servire per farsi da mangiare, ma che ieri è stata utilizzata dall'uomo per togliersi la vita. Inutili gli sforzi dei sanitari del 118. Il cuore dell'uomo si è fermato due volte. Dopo un primo arresto cardiaco dovuto all'inalazione volontaria del gas contenuto in una bombola, l'intervento dei medici e dei sanitari del 118 arrivati in via Delle Novate nel pomeriggio di ieri era riuscito a far "riprendere" il cuore del 30enne, ma un secondo fatale attacco di cuore arrivato poco prima dell'ingresso al pronto soccorso dell'ospedale Guglielmo da Saliceto si è rivelato fatale. Ai medici del nosocomio piacentino non è rimasto altro da fare che constatarne il decesso. Molto probabilmente, verrà disposta l'autopsia dalla procura della Repubblica per definire le cause del decesso, anche se sembrano esserci pochi dubbi. Come spesso accade, le notizie dal carcere di Piacenza escono con il contagocce. L'uomo, stando a quanto si apprende, era già in arresto cardiaco ed era riverso vicino ad una bombola del gas. Dopo un primo disperato tentativo di rianimazione, il cuore dell'uomo aveva ripreso a battere. Ma un secondo attacco ha stroncato la vita del detenuto. Gli ultimi dati disponibili sulle casistiche di suicidio al carcere di Piacenza sono del 2013 e li ha forniti il sindacato Uil penitenziari. Questi dati parlano di trentasei tentati suicidi e 235 atti di autolesionismo in un anno. Dati preoccupanti a cui vanno sei tentativi di aggressione a danno degli agenti. Il dato relativo ai tentati suicidi e agli atti di autolesionismo consegnava a Piacenza il terzo posto nella triste classifica nazionale. Un contesto, quello del carcere piacentino, che sembra farsi sempre più nebuloso con la chiusura del laboratorio di giornalismo che per undici anni ha portato alla pubblicazione del giornale fatto dai detenuti "Sosta forzata", diretto dalla ex vicepresidente dell'Ordine dei giornalisti dell'Emilia-Romagna, Carla Chiappini. Il giornale ha cessato le pubblicazioni ad inizio anno: una chiusura che ha sollevato polemiche. In favore di una maggior "trasparenza del sistema carcerario" e contro la chiusura del giornale sono intervenute le associazioni Articolo 21 e la Federazione nazionale della Stampa Italiana. Castrovillari (Cs): detenuto morì in ospedale, Tribunale acquisisce verbali Il Velino, 8 aprile 2015 Nel processo sono imputati responsabili del carcere di Castrovillari e medici dell'ospedale di Cosenza. Il Tribunale di Cosenza ha acquisito i verbali delle guardie penitenziarie nel corso dell'udienza di oggi del processo che cerca di fare luce sulla morte di Aldo Tavola, deceduto il 26 giugno del 2012 nell'ospedale di Cosenza. L'uomo era stato trasferito all'Annunziata il 22 giugno per problemi neurologici. Nel processo sono imputati Francesco Montilli, responsabile dell'area sanitaria del carcere di Castrovillari, e i medici dell'Annunziata Furio Stancati, Angela Gallo, Domenico Scornaienghi, Ermanno Pisani, Carmen Gaudiano e Antonio Grossi. Tavola che era stato ricoverato per problemi neurologici e lamentava - emerge dalle denunce dei familiari - dolori alle gambe, è deceduto però per shock emorragico causato da un'ulcera perforante. Per l'accusa, i medici e il responsabile sanitario del carcere avrebbero sottovalutato la patologia lamentata dal paziente e riscontrata da alcuni esami endoscopici. In particolare, il giudice monocratico del foro bruzio ha deciso di acquisire i verbali delle guardie che hanno svolto il servizio di piantonamento quando Tavola era detenuto. Solo due degli agenti sono stati sentiti, oggi, per ulteriori approfondimenti: Alfredo Ponterio e Giuseppe Brusco. I due hanno riferito delle condizioni di salute del paziente. Tavola si lamentava per i dolori, ma i medici in servizio sono arrivati sempre a visitarlo. Il processo è stato rinviato al prossimo 23 giugno quando sarà sentito il direttore facente funzioni del reparto di Neurologia dell'Annunziata, Alfredo Petrone, e i consulenti della Procura, i medici legali Silvio Cavalcanti e Vannio Vercillo. Per quella data il giudice ha disposto anche l'acquisizione dei registri di accesso alle celle custoditi dalle guardie penitenziarie. Firenze: l'Opg di Montelupo, il carcere di Solliccianino e i pregiudizi ancora da superare di Michele Passione (Avvocato) Corriere Fiorentino, 8 aprile 2015 Lo scorso 1 aprile mi trovavo al Senato, per un incontro in occasione del superamento degli Opg, al quale ha partecipato anche il ministro Orlando. Il ministro ha affermato che è troppo tempo che non si fanno battaglie culturali di questa portata nel nostro Paese. Nessuno può pensare che la battaglia di civiltà compiuta con la promulgazione della L. 81/2014 sia conclusa, ed a tutti è chiaro come questa legge vada sostenuta e difesa. Per questo l'articolo pubblicato su Repubblica lo scorso 5 aprile a firma della vicepresidente della Regione Stefania Saccardi, disvela in maniera evidente come la strada sia ancora lunga. Ed infatti, il richiamo all'esperienza della struttura Le Querce, certamente un modello per tante altre Regioni, in realtà si rivela ultroneo rispetto al tema della questione, cioè il trasferimento dei 49 internati toscani da Montelupo al Gozzini. É del tutto evidente come questo provocherebbe il trasferimento dei detenuti (a custodia attenuata) di Solliccianino, interrompendo il loro percorso: ed appare incomprensibile. La legge ed il recente accordo tra Governo, Regioni e Province autonome disciplinano chiaramente il modello delle Rems (con capienza inderogabile massima di venti persone, con completa ed esclusiva gestione sanitaria della struttura, se del caso con attivazione di servizi di sicurezza esterna attivati in base a specifici accordi con la Prefettura); come si vede, Solliccianino non può assolvere a questa funzione. Per soddisfarla, bisognerebbe attendere mesi per apportare modifiche (comunque insufficienti), oppure violare la legge. Di più. La vicepresidente dimentica che la Regione non ha indicato nei termini (15 marzo u.s.) quale fosse la soluzione individuata, essendo state viceversa prospettate altre soluzioni, tutte poi rivelatesi infruttuose. Ancora una volta prevale la preoccupazione dei cittadini sulla sicurezza, perfino sostenendosi che gli internati sarebbero incapaci di una piena competenza sociale (il cui metro di giudizio, evidentemente, è sempre quello securitario), subito dopo aver commesso crimini gravi (dimentica, Saccardi, che in Opg c'è gente internata da anni). Infine, la vicepresidente richiama l'esperienza risorgimentale di palazzi nobiliari edificati a ridosso del lazzaretto, quale espressione di una mentalità inclusiva, che oggi tuttavia avrebbe impedito la soluzione Villanova, perché troppo vicino al Meyer. Quale sia la struttura sanitaria di eccellenza che attraverso la sua contiguità con un istituto a custodia attenuata può scardinare il pregiudizio che tocca il carcere non è dato comprendere; possiamo solo aggiungere che la Toscana ha il record degli eventi critici in carcere, e non è un bel vedere. Tanto lavoro resta da fare, ma non si può tornare indietro, né far finta che tutto cambi perché niente cambi. Oggi si decide in riunione riservata il futuro degli internati toscani; ci auguriamo che lo si faccia rispettando il diritto, la storia personale e le esigenze di ognuno di loro. Verona: rivolta al carcere di Montorio, intossicati 2 detenuti e 11 agenti Corriere di Verona, 8 aprile 2015 Nella sezione maschile è stato dato fuoco a un materasso per protestare contro la situazione tesa all'interno del penitenziario. Il Sappe: "Ormai è un'emergenza". Rivolta al carcere di Montorio, due detenuti e 11 agenti sono stati portati al pronto soccorso degli ospedali di Borgo Roma e Borgo Trento dopo essere rimasti intossicati. A mezzogiorno alcuni detenuti della seconda sezione maschile hanno dato fuoco a un materasso per protestare contro la situazione del penitenziario. Sabato c'era stata un'aggressione. I sindacati della polizia penitenziaria da tempo denunciano una "situazione tesa" all'interno del carcere. Il direttore in questi giorni è in ferie e nessun altro è autorizzato a parlare. "Quello che accade all'interno del carcere di Verona è inquietante ed i numeri sono quelli di un fenomeno che, alimentato dall'effetto emulativo, ha ormai assunto le proporzioni dell'emergenza". Lo afferma Donato Capece, segretario generale del Sappe, il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, dopo l'incendio provocato da un gruppo di detenuti nel carcere veronese di Montorio, nel quale sono rimasti intossicati tredici agenti della Polizia Penitenziaria, in servizio nella casa circondariale. La nota del Sappe ricorda che nel 2014 nel penitenziario scaligero si sono contati 32 tentati suicidi di detenuti, sventati in tempo dai poliziotti, 169 atti di autolesionismo, 181 colluttazioni e 44 ferimenti. "Questo episodio - scrive Capece in una nota - è sintomatico di una disorganizzazione generale nella guida dell'Istituto di pena veronese per il quale rinnoviamo la richiesta di avvicendare il direttore attualmente in servizio". Il segretario del Sappe denuncia che "già sabato sera c'erano stati i primi segnali di tensione detentiva, con molti detenuti che hanno minacciato i poliziotti penitenziari con lamette ed altri oggetti atti ad offendere, ostinandosi a non volere entrare in cella sembra per protesta". "Poi oggi - aggiunge - gli stessi detenuti protagonisti delle gravi proteste sabato sera si sono resi responsabili di un gravissimo episodio, che avrebbe potuto conseguenze ancora più gravi di quel che ha avuto". I detenuti hanno dato fuoco ad un materasso nella cella, causando fiamme, panico, fumo e pericolo. "Tiriamo un sospiro di sollievo - conclude il comunicato del Sappe - per l'ennesima tragedia evitata dal coraggio e dalla professionalità degli uomini del reparto di Polizia penitenziaria di Verona che però solleva dubbi sull'Amministrazione penitenziaria regionale e locale per la "sempre più confusionaria politica di gestione e organizzazione nel Veneto". Piacenza: i detenuti "piastrellisti" aggiustano il pavimento della palestra del carcere www.piacenzasera.it, 8 aprile 2015 Si è tenuta nei giorni scorsi presso la Casa Circondariale di Piacenza la consegna dei diplomi del corso per posatori di piastrelle, gestito dalla Scuola Edile di Piacenza. Si è trattato del momento conclusivo di un importante momento di collaborazione che ha consentito di rinnovare i locali della palestra utilizzata dai detenuti di Piacenza. Sono stati gli stessi detenuti coinvolti nel corso a rinnovare i locali, con la risistemazione del fondo e la tinteggiatura delle pareti. Avviato anche il ripristino delle attrezzature. L'idea del corso, nata nell'ambito del Comitato Locale Esecuzione Penale Adulti (Clepa), è stata quella di impegnare quindici detenuti, che hanno imparato le basi del lavoro di piastrellista, conseguendo anche un diploma e un piccolo compenso (50,00 euro ciascuno). Il corso, della durata complessiva di 80 ore, è stato condotto da Scuola Edile, che tramite la propria direttrice Cristina Bianchi, ha espresso la volontà di realizzare altri cantieri presso il carcere di Piacenza, dove le possibilità di intervento sono numerose. Soddisfazione è stata espressa anche dal direttore dell'istituto di pena di Piacenza, Caterina Zurlo, che ha sottolineato "il desiderio e volontà della Direzione a che si possa continuare nell'esperienza dei corsi che sottraggono all'ozio, danno competenze ai detenuti e permettono di poter vivere in ambienti più gradevoli". La Zurlo ha fatto presente di aver colto l'entusiasmo dei detenuti nel "pensare" i colori oltre che nel realizzare il ripristino della palestra. Il gradimento dell'iniziativa è stato evidenziato dagli stessi partecipanti, che anche durante il corso - come ha ricordato Brunello Buonocore, incaricato di Asp "Città di Piacenza" e del Comune di Piacenza - "hanno espresso a lui e al docente che ha condotto l'iniziativa l'importanza di non rimanere con le mani in mano, impegnati a far trascorrere un tempo che non passa mai". L'intervento è stato finanziato attraverso i fondi dei Piani di Zona ed è stato reso possibile dal lavoro congiunto di Comune, Carcere, Scuola Edile e Asp "Città di Piacenza". A nome di quest'ultima è intervenuto l'amministratore unico, Marco Perini, che ha confermato l'interesse di Asp, attiva da tempo nel settore carcere, e ha rimarcato l'importanza delle modalità con cui si è svolto il corso e dei finanziamenti a sostegno. Il ripristino della palestra avrà immediatamente positive ricadute anche sull'attività motoria condotta nell'ambito dei corsi all'educazione per adulti dell'Ufficio Scolastico Regionale, che ha messo a disposizione un proprio docente. Il corso per posatori è uno dei primi atti concreti del nuovo corso del Clepa, il Comitato che l'assessore comunale al welfare Stefano Cugini ha interpretato come luogo dove ci si scambiano le informazioni e dove si agisce in modo sinergico, evitando il rischio di sovrapposizioni e incomprensioni tra i vari operatori e i volontari che agiscono in carcere. Nei prossimi giorni alcune cyclette e due stazioni polifunzionali completeranno le attrezzature della nuova palestra. Genova: a Marassi sempre più teatro… sempre meno carcere di Laura Santini www.mentelocale.it, 8 aprile 2015 La nuova produzione: "Angeli con la pistola". 28 interpreti, 70 ruoli. I detenuti diventano attori, ma anche addetti al suono e alle luci. Dal 9 al 15 aprile al Teatro della Tosse. Antonio D'angelo lo dice in napoletano: "Per me questo teatro è n'u piatto squisitissimo". Insieme agli altri detenuti del corso di scenotecnica, D'Angelo è già al lavoro al Teatro della Tosse per il montaggio di Angeli con la pistola, in scena dal 9 al 15 aprile. Sì, perché al di là di fare gli attori, i detenuti da tempo sono coinvolti in altre attività formative, che hanno portato molti di loro ad acquisire un mestiere. Dopo due tragedie shakespeariane, quest'anno il nuovo musical della Compagnia teatrale Scatenati della Casa Circondariale Genova Marassi, guidata dallo staff di Teatro Necessario, ovvero Carlo Imparato, Mirella Cannata e in particolare dal regista Sandro Baldacci, è una commedia, e più precisamente una riscrittura del racconto Madame La Gimp di Damon Runyon, noto a molti per le versioni cinematografiche di Frank Capra - Lady for a day (1933) e Pocketful of miracles (1961). Quest'ottava produzione gode di una sempre più stretta e proficua collaborazione tra il gruppo che anima Teatro Necessario e tutto lo staff della Casa Circondariale di Genova a partire dal direttore Salvatore Mazzeo, all'ispettore Domenico Pagano e a tutte le forze di Polizia Penitenziaria coinvolte e partecipi in un percorso che ha portato a costruire all'interno dello storico edificio di Marassi il Teatro dell'Arca. La nuovissima struttura - di cui abbiamo ampiamente parlato qui - dovrebbe finalmente essere collaudata nei prossimi mesi e diventare agibile ufficialmente dal prossimo autunno quando verrà anche aperta al pubblico esterno e sarà a tutti gli effetti un altro palcoscenico della città. Nel frattempo però c'è chi questo spazio lo gode lo stesso perché l'ha visto costruire, perché se ne occupa quotidianamente o perché è li che va a fare teatro o a imparare i mestieri del teatro: i detenuti. "Quest'esperienza iniziata con un embrione di idea, ora è diventata davvero importante. Ogni volta che entro nel nostro nuovo Teatro dell'Arca provo una grande emozione, perché vedo crescere ancora, ogni giorno, quella stessa primissima idea. Ognuno nel proprio ruolo mi fa vedere la magia del teatro. Il coinvolgimento fa diventare tutti più buoni, poliziotti e detenuti, perché tutti si sentono parte del progetto. Là vedo trasformarsi in particolare alcuni detenuti e questa è la piena testimonianza di un loro pieno coinvolgimento e reale percorso riabilitativo. Ho ricevuto una bellissima lettera da uno di questi detenuti coinvolti che un giorno pubblicherò. Senza contare che i giovani coinvolti da Teatro Necessario, sia i ragazzi delle scuole che gli attori professionisti, hanno creato una vera e propria simbiosi con i detenuti". Senza alcun clamore, Mazzeo aggiunge, in calce, che Marassi, come altri istititui di pena italiani, ha visto una "riduzione di 100 detenuti". Un numero che non fa notizia, certo, ma che in Italia ha coinvolto complessivamente 8000 persone e che si inquadra più ufficialmente, come spiega Mazzeo, in una serie di "provvedimenti deflattivi del governo che portano molti detenuti a essere coinvolti in lavori socialmente utili tramite gli uffici di esecuzione penale esterni". Semplici "misure strutturali" per Mazzeo, ma allora qual è la chiave per agire sulla situazione di invivibilità delle carceri italiane? "Trasformare le camere detentive in luoghi di solo pernottamento e far sì che tutto il resto sia convertito in attività lavorative per tutti i detenuti". Un'idea semplice semplice, proprio come quella di costruire uno spazio come il Teatro dell'Arca in un angolo utilizzato solo come magazzino all'interno del carcere. Ma a volte ciò che è semplice a dirsi è oltremodo complesso a farsi. Eppure, eppure di strada Marassi ne ha fatta eccome. Ma il Teatro dell'Arca sopravvivrà a Mazzeo? "Nel 2003 (quando Mazzeo è arrivato a Marassi, ndr) non c'era campo sportivo, non c'era una falegnameria, non c'era la panetteria, non c'era il centro di grafica e design. E non c'era il centro di cottura che stiamo per inaugurare e che servirà per preparare pasta confezionata da vendere all'esterno. Sul futuro sono ottimista abbiamo creato basi solide e questo teatro sopravvivrà Mazzeo e molto altri direttori". Più che un direttore di carcere Mazzeo somiglia a un imprenditore che ha messo a frutto il suo capitale umano: "Sto diventando imprenditore sì, ma con pochi soldi". E se da un lato c'è chi facilita, dall'altro c'è chi mette a punto le idee e le rende possibili. A raccontarci di una crescita di Teatro Necessario è Mirella Cannata, presidente della onlus. "Il nuovo spettacolo, Angeli con la pistola, quest'anno è solo una delle tappe di un progetto più articolato: Progetto Arca, finanziato dalla Compagnia di San Paolo. Spettacolo e attività di formazione in falegnameria, scenotecnica, illuminotecnica, per tecnici del suono, in cui sono coinvolte anche altre realtà che già operavano all'interno del carcere di Marassi, come per esempio la Bottega Solidale di Genova. Senza contare che quest'anno si è attivato anche un corso per la Polizia Penitenziaria". Teatro Necessario mette così in scena la sinergia di tutte le realtà che coabitano all'interno del carcere. "È tutto autoprodotto: magliette, focaccia, manifesti, scenografie, costumi tutti insieme diamo forza e stabilità a questo progetto". Le repliche per le scuole sono già tutte esaurite con 2500 studenti prenotati e molti restati fuori. Ma i giovani sono anche protagonisti con un'altra parte di progetto il Progetto Arca - Scuola: a cui partecipano tre scuole I.I.S. Vittorio Emanuele II - Ruffini (storicamente legato al carcere per la formazione che gli insegnanti svolgono verso i detenuti), il Liceo Classico Statale D'Oria e il Liceo Statale Sandro Pertini. Per l'occasione della nuova produzione un gruppo dell'I.I.S. Vittorio Emanuele II - Ruffini che ha seguito il laboratorio teatrale con Baldacci sul testo sarà nel foyer a recitare alcuni brani di Angeli con la pistola. Baldacci racconta in po' più nel dettaglio la nuova produzione. "Per il nostro decennale - abbiamo fatto più anni di carcere noi che loro - e dopo due anni di tragedia shakespeariana siamo tornati alla commedia e a temi vicini alla nostra realtà. Angeli con la pistola nasce dal racconto che ispirò anche Frank Capra. Dei suoi due film quello a cui siamo più vicini è quello del ‘33, meno buonista. Come di consueto, abbiamo trasformato il testo originale in una commedia musicale, per cui Bruno Coli ha scritto tutta la partitura musicale, che come sempre sarà in parte eseguita dal vivo. A Fabrizio Gambineri il compito della scrittura, con una stesura di massima del testo, che è poi stato riadattato e cucito in base agli interpreti. Faccio solo un esempio. Abbiamo in compagnia un cinese per cui la vicenda è stata un po' manipolata perché anche lui avesse un suo spazio. D'altra parte nonostante i tanti accorgimenti, siamo rimasti solo in due della compagnia precedente". Tornando al lavoro di regia: "Nell'insieme è come se i personaggi fossero inseriti dentro un fumetto - prosegue Baldacci. Ci sono 70 personaggi per cui molti sono impegnati in doppi e anche tripli ruoli. Il lavoro di scene e costumi, di solito affidato a Laura Benzi, quest'anno è stato gestito da Elisa Gandelli che ha preparato 70 costumi. In scena siamo arrivati a 26 interpreti, di cui 18 attori detenuti. 5 attori esterni professionisti (Federica Granata, Igor Chierici, Mariella Speranza, Francesca Pedrazzi, Massimo Orsetti) e poi ci sono gli allievi del Liceo Coreutico Piero Gobetti. Altri aggiustamenti in corso d'opera, si sono resi necessari, per esempio avevamo un tunisino in uno dei ruoli centrali, ma un mese fa gli è arrivato il decreto di espulsione e abbiamo dovuto sostituirlo". L'aspetto forte delle produzioni di Teatro Necessario è l'impegno che tutti i detenuti mettono nel portare a buon esito un'impresa collettiva che significa moltissimo per ognuno e certo al di là del carcere. "Un ex-detenuto, da esterno, è tornato sempre a provare. Luca Dinaro, che ha cominciato come alunno, si è poi diplomato, ha seguito i nuovi corsi e oggi è assunto dall'associazione Fuoriscena ed è partner tecnico al lavoro alla Corte e al Duse, sempre molto richiesto". E persino chi è in permesso, torna dentro e volentieri per le prove! Dall'autunno quando il Teatro dell'Arca diventerà agibile "ci sono già accordi con altri teatri perché si possano assumere altri detenuti". Tra le buone notizie anche l'annuncio che Angeli con la pistola andrà in scena al Festival di Borgio Verezzi il 20 e 21 luglio 2015, in quello che dovrebbe essere il primo passo verso una convenzione triennale". A chiudere la presentazione della nuova produzione, la nuova scenografa e costumista Elisa Gandelli anche lei testimone del ruolo di svolta che il teatro gioca all'interno del carcere sia per chi ci sta che per chi ci arriva da esterno. "Per me è stata la prima volta. Ammetto di essere stata un po' spaventata, e di aver un po' sofferto tutte le procedure difficili all'ingresso specie per tutti i materiali che di volta in volta mi portavo dietro. Ma devo dire che, grazie alla passione e al convincimento della squadra dei detenuti, si è creato un clima molto disteso. Tutti hanno sempre dimostrato un grande rispetto nei miei confronti. Entrando in teatro si esce dal carcere. Si esce dai propri ruoli e si crea uno spazio che ha un valore inestimabile sia per noi esterni che per chi vive questa realtà". La trama Ambientate a New York al tempo del proibizionismo, le divertenti vicende di Dave "lo sciccoso" e di Apple Annie, mendicante alcolizzata venditrice di mele, ben si attagliano a una compagnia di attori detenuti, come altrettanto bene si prestano a farne una commedia musicale dai toni ironici e scanzonati. Ancora una volta la scelta del testo cade su temi che, sebbene con la leggerezza della commedia, sono vicini alle storie, così come alle vite, degli insoliti interpreti: truffe, corruzioni e loschi affari sono il quotidiano di Dave "lo sciccoso" e della sua banda che però, delinquenti dal cuore tenero, si adopereranno per realizzare, attraverso indicibili vicissitudini, il sogno della povera Annie: riuscire a sposare la figlia Louise con il discendente del conte spagnolo Alfonso Romero. Una favola: un po' ingenua, forse, sotto la cui semplicità serpeggia però una sorta di morale: ognuno di noi ha una sua propria storia alle spalle più o meno difficile ma, volendolo e con l'aiuto degli amici, può anche avere l'opportunità di sentirsi "signore" per un giorno, come recita il titolo del primo film di Capra, indistinguibile da quei cosiddetti veri "signori" che spesso hanno alle spalle storie molto più imbarazzanti da raccontare. Ferrara: sport in carcere, rinnovata la convenzione con l'Uisp per il triennio 2015-2017 www.estense.com, 8 aprile 2015 Accordo approvato dalla Giunta comunale anche per il triennio 2015-2017. La Giunta comunale ha approvato il rinnovo della convenzione tra Comune di Ferrara e Uisp Provinciale per il triennio 2015-2017 per l'affidamento all'Uisp delle attività sportive svolte nella Casa Circondariale di Ferrara nell'ambito del progetto "Le porte aperte". In particolare il progetto si pone l'obiettivo di sviluppare le attività motorio-sportive nella Casa Circondariale di Ferrara con le seguenti caratteristiche generali: condurre la persona detenuta ad una graduale presa di coscienza e conoscenza del proprio corpo e delle sue esigenze; creare momenti di socializzazione nei quali il "piacere di fare" è connesso al "piacere di fare insieme agli altri" ed il rispetto delle regole dell'attività rappresenta un primo passo verso l'accettazione delle più ampie regole sociali; consentire alle persone di percepire e quindi di vivere in modo diverso gli spazi detentivi; offrire l'opportunità ai detenuti di una graduale autogestione delle attività sportive attraverso momenti di formazione tecnico-pratica volti alla costituzione di quadri tecnici quali arbitri, giudici, allenatori, capaci di gestire tornei sportivi interni e collaborare alla realizzazione di iniziative con soggetti esterni; mantenere un costante collegamento con la realtà esterna al contesto detentivo. La gestione del progetto, dal punto di vista dei contenuti e della realizzazione, è affidata all'Uisp Ferrara che utilizzerà insegnanti di educazione fisica (diploma Isef, laurea in Scienze Motorie) e, nel caso di corsi specifici e di breve durata, a Tecnici specializzati in un determinato settore sportivo. L'assessorato alla Salute e Servizi alla Persona sostiene il progetto mediante l'erogazione di contributi annuali di 3.000 euro, per il triennio di attività, da imputare sul Fondo Sociale Locale. Libri: "Encerrados", gli scatti dell'orrore dalle peggiori carceri del mondo di Angela Nocioni Il Garantista, 8 aprile 2015 Senza cielo e senza aria. In bianco e nero. "Encerrados", (Rinchiusi) libro fotografico di Valerio Bispuri, edito da Contrasto, due testi di Eduardo Galeano e di Roberto Saviano, in italiano, spagnolo ed inglese. Dieci anni di fotografie dentro le prigioni del Sud America, dall'Argentina al Venezuela. Dai cortili sudici dove perlomeno si respira, qualcuno sorride perfino, alle celle del reparto sicurezza dove è vietato entrare a chiunque. Perché i detenuti sono feroci maniaci assassini? No, perché il direttore del carcere ha paura. Teme di perdere il posto se quelli di fuori sanno come vivono quelli di dentro. Non dà il permesso, inventa scuse, minaccia. Valerio Bispuri è entrato lo stesso. Ha firmato l'esonero di responsabilità alle autorità carcerarie, semmai i detenuti lo avessero ucciso o preso in ostaggio, ed è entrato da solo. Non gli hanno consentito di essere accompagnato dalle guardie. È entrato da solo e ha scattato. Le foto sono state esposte e quel reparto è stato chiuso. È successo in Argentina, a Mendoza, nella bella valle dei vini doc, nell'Argentina dei cieli immensi e azzurri con l'orizzonte infinito, i resort cinque stelle sparsi tra i vigneti, nel cuore dell'Argentina da export, da cartolina, quella venduta in dollari ai turisti. Sono stati poi aperti altri reparti peggiori? Sì, certamente, ma intanto quello è stato chiuso. Se un libro serve a qualcosa, questo è servito. "Era il padiglione 5 del carcere di San Felipe di Mendoza, quattromila detenuti" racconta Valerio Bispuri. "Ero andato lì per fotografare, con tutti i permessi a posto. Stavo nel cortile, tutti i padiglioni del carcere si affacciavano nel cortile. Alcuni detenuti hanno cominciato ad urlare appena si sono accorti che un esterno era entrato. Uno di fuori. Chiamavano la mia attenzione. Chiedevano che andassi. Mi gridavano: entra qui, qui non ti fanno vedere niente, te lo facciamo vedere noi, vieni, entra, vieni a vedere come viviamo noi". Erano i detenuti del braccio sicurezza. "Ho chiesto al direttore di farmi andare, ma non ne voleva sapere. Diceva: no, lì ci sono assassini pericolosissimi, i detenuti più pericolosi d'Argentina, non mi posso assumere la responsabilità che le succeda qualcosa. Abbiamo discusso a lungo, io ho alzato la voce, ho detto che non me ne sarei andato senza fotografare quel posto, quando ho detto che sarei entrato da solo, firmando tutto quello che voleva, ha ceduto. Ma non mi ha fatto accompagnare. Sono entrato da solo". E loro, i detenuti del padiglione 5? "Persone. Erano contenti che qualcuno entrasse lì, che vedesse, che fotografasse. Mi hanno mostrato tutto quel che poteva servirmi, mi hanno aiutato". Quelle foto sono state esposte in Argentina nel 2009. Qualcuno se ne è accorto, ci ha montato sopra uno scandalo. Amnesty International se ne è occupata. Fatto sta che nel 2009 il padiglione 5 è stato chiuso. Di carceri orrende nel libro ce ne sono molte. Scrive Saviano: "Lurigancho è il carcere più grande del Sudamerica, si trova a Lima, in Perù, e qui Bispuri ha trascorso lungo tempo. Ospita diecimila detenuti, è una città nella città e in un paese che in questo momento è il primo produttore di coca. Entrare in questo luogo significa sbirciare nelle viscere dell'inferno. Poi è andato a Penitenciaria, a Santiago del Cile, il carcere più vecchio del continente, costruito agli inizi del Novecento. Qui ha visto e fotografato detenuti ricavare spade da tubature arrugginite in vecchi bagni. Poi è stato a Villa Devoto, in Argentina, una delle carceri più pericolose del Sudamerica, proprio dentro la città di Buenos Aires. Poi a Los Teques, a Caracas, in Venezuela, un carcere paradossale ma non per il Sudamerica, lì tutti i detenuti sono armati di coltelli, pistole e hanno una sorta di codice per cui quando un capo esce di prigione sparano sul muro come per festeggiare. A Bogotà, in Colombia, ha visitato Combita, il carcere dove sono rinchiusi ex guerriglieri delle Farc. Quelle di Bispuri sono fotografie di città, carceri formicai, carceri dove chiunque è condannato, poliziotti e detenuti. Carceri dove il detenuto sa che la differenza tra lo stare dentro e lo stare fuori è minima, sostanziale certo per fare affari, ma minima sul piano del disagio, della disperazione, finanche del diritto. Dal momento che si è armati, dal carcere in Venezuela si potrebbe forse persino scappare, ma per cosa? Per finire di nuovo dentro? O ammazzati da un rivale? Il carcere in fondo dà regole e spesso sospende vendette". Ma perché un fotografo romano, a trent'anni, decide di cominciare a girare per prigioni latinoamericane e continua a farlo per dieci anni? Con tutte le complicazioni che ne derivano, permessi da chiedere, aerei da prendere, soldi da trovare. Finanziare un lavoro fotografico così richiede un grande impegno anche economico, non solo di tempo e di vita individuale. Qual era la molla? "Volevo fare un lavoro sulla libertà - risponde Bispuri - all'inizio non ne avevo idea, non sapevo che sarebbe durato così tanto, né che ne avrei fatto un libro. Il fatto è che la libertà, la tua libertà, prende un altro significato quando sei stato lì dentro, anche solo una volta, basta entrare una volta e guardare, pensare cosa possa essere stare rinchiusi, volevo provare a capire come sta chi sta rinchiuso". E perché è stato rinchiuso? Sempre Saviano da "Encerrados": "Il primo reato che riempie le carceri sudamericane è il primo reato che riempie le carceri americane, ed è il primo reato che riempie le carceri europee: la droga. In paesi in cui i cartelli criminali sono fortissimi, a testimoniare quanto la repressione e il proibizionismo non siano stati la strada giusta, quanto le politiche repressive siano state fallimentari. Poi ci sono le truffe, ma prima delle truffe omicidi, stupri, furti. Bispuri è stato anche in carceri femminili. Ha trovato e fotografato storie di donne che hanno ucciso i mariti, spesso ubriachi, per difendersi o semplicemente per stordirli, ma hanno esagerato con i colpi. Madri che hanno ucciso i propri figli. Figli drogati, figli violenti o figli innocenti e a essere ubriache e drogate erano loro. Eppure ciò che colpisce, in tutto questo bianco e in tutto questo nero, è forse la mancanza di disperazione finale, ciò che mi ha sempre colpito sono le percentuali di suicidi in questi inferni, percentuali bassissime se paragonate a quelle dei suicidi nelle carceri nordamericane ed europee. Nessuno si uccide in Sudamerica. E Bispuri, in fondo, è riuscito con il suo talento di fotografo a raccontare queste vite fatte di resistenza alla morte. Resistenza che spesso diventa indolenza - guardate i volti! -, questi uomini e queste donne non sembrano voler insorgere, sembrano piuttosto resistere come legni, come stalattiti. Pelle, calli, gocce di sudore e ancora gocce di sudore". Dopo dieci anni a scattare foto dentro celle di prigioni infernali, cosa rimane? Cosa si impara? "Io ho capito che tutti possiamo avere un momento di follia. Non ho incontrato persone cattive in carcere, non ho visto una carrellata di mostri. Avrei potuto esserci io al posto di qualcuno di loro, questo l'ho capito chiaramente. A tutti può succedere un periodo di black out". Libri: "A tu per tu"… Ornella Vanoni si racconta alle carcerate "sono fragile e sola" Il Piccolo, 8 aprile 2015 Il colloquio nella sezione femminile di Trieste è pubblicato, con altri, nel volume "A tu per tu". Dal libro "A tu per tu" pubblichiamo parte della lunga intervista fatta dalle donne del carcere di Trieste a Ornella Vanoni. Il volumetto è curato dalle cooperative sociali Reset e La Collina, con la collaborazione di Pino Roveredo e di Radio Fragola. La presentazione di "A tu per tu. Le donne del carcere di Trieste intervistano Ornella Vanoni, Paolo Possamai, Roberto Cosolini e Pino Roveredo, si terrà, alla casa circondariale di via del Coroneo, mercoledì 8 aprile alle 11.30. La pubblicazione è il risultato del laboratorio giornalistico realizzato all'interno della sezione femminile a cura delle cooperative sociali Reset e La Collina con Pino Roveredo e Radio Fragola. Il laboratorio e la pubblicazione sono stati realizzati fra marzo e luglio 2014 nell'ambito del progetto "Work in progress" finanziato dal Comune. È mai stata in carcere? "Non sono mai stata carcerata, ma sono stata a San Vittore più volte a trovare Cusani, una volta sono andata a cantare nella Stella di San Vittore e un'altra volta sono andata a parlare con i carcerati maschi". Come mai ha scelto di interpretare le canzoni della Mala? "Non ho scelto. All'epoca ero la compagna di Strehler e avevo fatto la scuola, dato che allora era uno scandalo che il maestro fosse legato a una ragazza, lui non mi faceva recitare. Io lo seguivo quando lui faceva le opere liriche e tornando in macchina a casa canticchiavo le melodie. Allora si è deciso di farmi cantare, ha inventato le canzoni della mala che sono state scritte da lui, da Fo, Jannacci, Carpi. Sono nate dalle canzoni popolari di sconosciuti e dalla raccolta popolare di Pasolini. Quando cantavo queste canzoni della Mala, ricevevo molte lettere dal carcere. E la gente non capiva se ero solo una cantante della Mala o se venivo dal carcere". È mai scesa a compromessi? "Nel lavoro raramente. Solo compromesso d'amore: quando una persona dovrebbe durare 3 giorni, la fai durare 3 anni e non ne puoi più". Cosa ne pensa dei talent show, visto che la abbiamo vista ad Amici. "Ormai Amici è uno spettacolo che sembra Fox crime dove succede di tutto e di più. Mi volevo divertire e mi sono divertita. Alla Ferilli ho detto scusami se non ti ho comperato nemmeno un divano". Nonostante il successo e la fama, soffre o ha sofferto di solitudine? "Da morire soffro e ho sofferto di solitudine. Non avendo un compagno da tanti anni soffro di solitudine, ma anche quando avevo un compagno ne soffrivo. La solitudine è un fatto personale, interiore: puoi avere intorno 1000 persone, essere innamorata e felice, e sentirti sola. Ti senti sola perché la persona con cui sei non ti risponde come vorresti. C'è una sola persona con cui non mi sento mai sola, ha 31 anni, fa lo scrittore, quando sto con lui, come amico, io mi sento protetta. Con lui so che non ho bisogno di parlare, di spiegare. E se ne soffro me la toglie. Io penso che l'abbraccio è la cosa più bella che possa succedere. A me capita di incontrare persone che non conosco e che vedo tristi, le abbraccio e si sciolgono in lacrime. L'abbraccio è la cosa più bella. L'abbraccio è generoso". Fa beneficenza? "Sì a Sant'Antonio, Caritas, Vidas. Con un'asta dei miei vestiti fra poco finiamo di costruire delle scuole superiori in Cambogia, dove abbiamo già costruito elementari, medie e ospedale". Quanto costa il successo? "Non costa nell'incontro delle persone; io non sono Vasco Rossi che non può uscire di casa. Costa lottare per arrivarci e mantenerlo". Com'è stato duettare con Ramazzotti? "Niente. Non emana nulla. Quando ho cantato con Dalla, Gino, Jovanotti, Renato Zero mi è successo qualcosa, ma con Ramazzotti non ho sentito un'emozione". Ha paura del declino? "Ho paura solo del declino mentale. A parte se diventi matto veramente, perché in quel caso non te ne frega più niente". È mai stata innamorata di una donna? "Affascinata molto. La ho amata in un certo senso, ma siccome non mi piace il sesso femminile la ho delusa e ha sofferto. Continuo a volerle bene, siamo ottime amiche". Cosa ne pensa della musica italiana degli ultimi anni? "Trovo gli arrangiamenti noiosi, tutti uguali. Mi piacciono gli inglesi. Un sogno che ho, è quello di cantare con Sting". Qual è il posto più bello dove è stata? "Ci sono tanti tipi di bellezza. Trieste è una città bellissima, meravigliosa; tutte le città di mare sono belle, ma Trieste lo è in particolare perché è diritta sul mare. Era un po' che mancavo da Trieste: ieri sono andata anche a Sistiana dove stanno costruendo questa città del futuro, molto interessante. Poi Roma è bellissima. Milano ha delle zone belle, è bella con la nebbia, è un po' una donna con la veletta". È una donna forte? "Sono una donna coraggiosa, non forte. Sono molto fragile e pago tutto con lacrime, fatica. Paoli sostiene che tutti mi prendono per un setter, invece sono un cucciolo di boxer". Che rapporto ha con suo figlio? "Mio figlio ha vissuto malissimo la mia carriera e ha sofferto tantissimo. Di conseguenza ne ho sofferto anch'io. Solo da poco il nostro rapporto si è calmato. Ha sognato di uccidermi per tutta la vita e adesso mi ha detto "Pensa che passo avanti, non sogno più di ucciderti!". Per fare carriera ho lavorato tanto tanto e ho usato la passione per andare avanti, quindi non ero presente. Sono un'ottima madre, ma non sono stata una buona mamma, che è diverso". Se non avesse fatto la cantante, che cosa le sarebbe piaciuto fare? "L'estetista. Ho anche il diploma. Siccome avevo l'acne, sono andata a Ginevra a studiare". Ci racconta un aneddoto sui suoi amori o sul suo amore? "Quando ho deciso di entrare nella musica leggera, ero tutta vestita di nero in una casa di edizioni musicali, passa uno tutto vestito di nero con gli occhiali neri, io sento come una fitta, e chiedo chi è, mi viene risposto che è un frocio terribile che scrive delle canzoni orrende. Era Paoli. Intanto lui mentre suonava "Il cielo in una stanza" chiede chi era la rossa nell'altra stanza, e gli rispondono che è una lesbica che porta sfiga e che canta i brani della Mala. Ci rincontriamo il giorno dopo per caso e io gli chiedo se mi scrive una canzone. Ripasso già innamorata senza un perché, e lui mi suona "Senza fine". Per scrivere il testo ci ha messo 5-6 mesi, stavamo sempre insieme. Finché un giorno siamo seduti su un muretto dopo mesi e gli chiedo se è frocio e mi risponde di no. E lui mi chiede se sono lesbica ed io gli rispondo di no. Siamo andati in un albergo e siamo usciti tre giorni dopo". Ha mai fatto interventi di chirurgia estetica? "Sì. Vedete queste cicatrici? Dagli 11 anni durante la guerra fino ai 20 sono stata torturata da aghi perché non c'era la penicillina. Questa parte è stata fatta due volte. Poi ho rifatto il seno che era andato un po' giù". Lei era amica anche di De André. Ci racconta un episodio della vostra amicizia? "Sì siamo stati molto amici. Prima e subito dopo che sono stati rapiti. Faber era un uomo eccezionale. Mi ricordo che De André era al primo piano che giustificava i rapitori, e Dory era giù che diceva ma proprio a noi doveva capitare! Fabrizio era il figlio del presidente dell'Eridania, che pagò i rapitori, ma Fabrizio glieli tornò tutti. Fabrizio non aveva astio contro i rapitori, dicevano che erano vittime come noi. Per un poeta tutto diventa materiale". Si è data un termine per chiudere la carriera? "Non ci penso proprio. Quando morirò, ma dipende come muori: se muori di una malattia non puoi stare in scena fino all'ultimo. Voglio uscire dal pop, e occuparmi di jazz. Siccome io e Paoli siamo gemelli, stesso anno, stesso mese, stesso giorno, io sono più vecchia di lui perché sono nata 6-7 ore prima, e lui è passato al jazz, ci passerò anch'io". Molti musicisti sono morti di sostanze stupefacenti. Penso che nella sua carriera abbia visto persone stare male. "Dei miei colleghi che si sono fatti, credo, Vasco di coca anche se lui nega. Quasi tutti i rockers si sono fatti. C'era anche una moda che adesso è venuta un po' meno. Ti posso raccontare un episodio, che però non è un episodio di stupefacenti. Luigi Tenco, siamo a Sanremo, lui è lì con Dalida, con cui era un amore che iniziava, non il grande amore che hanno raccontato. Gli hanno fatto cambiare il testo della canzone e questa per lui è stata una cosa tremenda. Siccome ero molto timida e Tenco lo era altrettanto, gli vado vicino e gli dico "Senti Luigi, ricordiamoci di aprire gli occhi quando cantiamo, se no in televisione non passa niente". Lui apre gli occhi: un gufo. Allora io sono corsa al gruppo della Rca la sua casa discografica, dove c'era anche Dalida, e dico di stare vicino a Luigi. Finito di cantare lui e Dalida si sono insultati, lui ha cantato malissimo, hanno litigato e si dice che una volta in camera abbia ricevuto una telefonata dalla sua ragazza e lui si è sparato, lasciando questo biglietto: "In un Paese dove c'è Orietta Berti io non posso vivere". Ora, non ci si ammazza per una stronzata di questo genere, non vi pare? Era pieno di pronox: aveva 4 pronox in corpo, e una bottiglia di cognac. Ma il biglietto mi ha sempre lasciato perplessa". È amica di Mina? "Siamo state molto amiche finché lei usciva di casa. Non è vero l'odio fra me e lei, sono storie dei giornali. L'ho sempre stimata". Qualcuno o qualcosa le ha dato lo stimolo per uscire dalla depressione? "Intanto sono i farmaci, che non bisogna mai smettere di prendere. Mi sono battezzata 7 anni fa, e ho dato il mio cuore a Gesù, è il mio amore vero. Lo prego, lo ringrazio. È un'invenzione? Bene, serve moltissimo". Il silenzio del governo sulle droghe di Leopoldo Grosso (Presidente onorario Gruppo Abele) Il Manifesto, 8 aprile 2015 Sulla "questione droghe", il governo risulta afasico. Dopo un primissimo vagito nei giorni iniziali del suo insediamento, costretto dalla abolizione per incostituzionalità della Fini-Giovanardi a ripristinare la vecchia normativa, il governo non ha più battuto un colpo, nonostante il semestre italiano di presidenza dell'Unione europea, occasione mancata per presentare la discontinuità dalla gestione Giovanardi-Serpelloni. Il governo di larghe intese ha "incassato" la decisione della Corte Costituzionale. Nel doppio senso del termine. "Pugilisticamente", affidando il compito di relatore del rabbercio legislativo allo stesso Giovanardi, con un'operazione incompiuta sia rispetto a vistose incoerenze normative risultanti dal nuovo testo unico, sia per la mancanza di una disposizione di legge che evitasse ai detenuti, condannati con una legge dichiarata incostituzionale, l'onere del ricorso individuale per la rideterminazione della pena. Nello stesso tempo il governo ha incassato i benefici di una riforma extraparlamentare (la reintroduzione della distinzione tra droghe "pesanti" e "leggere", con tutti gli effetti a cascata, in primis sul sovraffollamento carcerario) che nemmeno l'ultimo governo Prodi, nonostante le buone intenzioni, era stato in grado di portare a casa abrogando la Fini-Giovanardi. Poi il silenzio totale per un anno intero, senza la designazione di un referente politico per il Dipartimento Anti Droga, a sostituzione e "correzione" del ruolo ricoperto troppo a lungo da Giovanardi. La legge 309 del 90 richiede che ogni tre anni venga convocata una Conferenza nazionale per verificare e rideterminare le politiche sulle droghe: è sei anni che non viene indetta. La stessa legge prevede l'istituzione di una Consulta e di un Comitato scientifico che coadiuvi l'attività del Dipartimento: non sono mai stati nominati. Il Dipartimento ogni anno finanzia progetti a sostegno di obiettivi ritenuti prioritari o sperimentali, in collaborazione con i servizi pubblici e il privato-sociale accreditato: tutto è fermo e sono state bloccate anche le progettazioni che fruivano di una biennalità già predeterminata. L'indispensabile collaborazione con le Regioni, molto tormentata nella precedente gestione, non è stata ancora riavviata. La stessa relazione al parlamento, debito informativo che il governo ha come obbligo istituzionale, è pervenuta in ritardo e senza la tradizionale prefazione che definisce le priorità e gli orientamenti politici. A livello internazionale, si avverte con ancora più urgenza la necessità di un riposizionamento dell'Italia rispetto alle politiche dell'Unione europea e dell'Onu. Rompendo l'unitarietà della posizione europea, la gestione Giovanardi-Serpelloni ha schierato l'Italia contro il "pilastro" della Riduzione del danno. L'importantissima scadenza di New York dell'Assemblea Generale Onu sulle droghe (Ungass 2016), in cui si rifletterà sulla possibile revisione delle Convenzioni internazionali, necessita di un diverso ruolo dell'Italia, a favore, e non di ostacolo, alle significative innovazioni e coraggiose sperimentazioni condotte ormai in molti Paesi del vecchio e nuovo Continente. Bisogna che il governo ri-apra con franchezza un percorso di confronto con tutto il settore: le istituzioni regionali, gli operatori del pubblico e del privato sociale, le associazioni coinvolte a vario titolo, i comitati delle famiglie, le rappresentanze dei consumatori, la società civile responsabile. Pena di morte, le buone ma anche le ancora pessime notizie dal mondo La Repubblica, 8 aprile 2015 In Alabama (Usa) un condannato alla pena capitale è stato "esonerato" e liberato dopo 30 anni di galera. Quattro impiccati in Pakistan. Mentre nel Malawi sono state commutate 5 condanne capitali in ergastolo. Stessa cosa in Afghanistan. Dal sito di Nessuno Tocchi Caino, l'unico osservatorio attivo ed efficace per conoscere come nel mondo viene praticata la pena di morte, o come invece questa pratica viene gradualmente abbandonata, si apprendono notizie drammatiche ma anche, in qualche misura, confortanti. Eccone qui di seguito una sintesi. Alabama (Usa) Dopo 30 anni nel braccio della morte torna libero. È accaduto ad Anthony Hinton, 59 anni, nero, che il 3 aprile scorso è stato scarcerato. La giudice Laura Petro della Jefferson County Circuit Court ha formalizzato il ritiro delle imputazioni da parte della pubblica accusa, ed ha ordinato la scarcerazione dell'uomo, che avverrà appena saranno completate le formalità. Hinton venne condannato a morte nel 1986 con l'accusa di aver ucciso i gestori di due ristoranti, John Davidson e Thomas Vason, in due diverse rapine nel febbraio e luglio 1985. Nel corso di una terza rapina, nello stesso periodo e nella stessa zona, un terzo gestore di ristorante, Sidney Smotherman, venne ferito gravemente, ma sopravvisse, e identificò Hinton come aggressore. L'alibi per la terza rapina. Per la terza rapina Hinton presentò un alibi credibile, e per quella rapina non venne incriminato. Ma nell'abitazione dell'uomo era stato rinvenuto un revolver calibro 38, che secondo la pubblica accusa aveva sparato nelle 3 rapine. Al processo per le due rapine mortali, il difensore d'ufficio di Hinton ritenne che la legge gli consentisse di spendere non più di 1000 dollari per assumere un perito balistico, e l'opinione dell'avvocato venne in qualche misura confermata anche dal giudice. Il perito della difesa sostenne che la corrosione della pistola impediva di collegarla con certezza ai proiettili esplosi contro le vittime, contraddicendo quindi l'elemento principale della pubblica accusa. Ma il curriculum di basso profilo del perito balistico della difesa venne utilizzato dalla pubblica accusa per screditarlo. Il riesame del caso. Il 24 febbraio 2014 la Corte Suprema degli Stati Uniti aveva ordinato all'unanimità di riesaminare il ricorso di Hinton, che fino ad allora era stato respinto. La Corte Suprema aveva stabilito che secondo la legge dell'epoca non era vero che esistesse un limite così basso per l'assunzione di un perito balistico, e che un perito più qualificato avrebbe probabilmente instillato in almeno un membro della giuria popolare il "ragionevole dubbio" che avrebbe impedito l'unanimità necessaria per emettere un verdetto di colpevolezza in casi capitali. Hinton sarà iscritto con il n°152 nel registro degli "esonerati" del Death Penalty Information Center, che conta le persone che, dal 1973, sono state prosciolte dopo una iniziale condanna a morte. Hinton è il 2° prosciolto di quest'anno. Debra Milke è stata prosciolta a marzo in Arizona. Emirati Arabi Uniti Salvo dopo aver pagato "il prezzo del sangue". Un uomo di origine asiatica, che era stato condannato a morte per gli omicidi della zia e di suo marito, si è salvato dall'esecuzione negli Emirati Arabi Uniti dopo aver pagato il "prezzo del sangue" e ottenuto il perdono dei familiari delle vittime. L'uomo era stato condannato a morte da un tribunale di primo grado per aver chiuso sua zia con il marito in una stanza, nella loro casa ad Abu Dhabi, dando poi l'abitazione alle fiamme. Una corte d'appello aveva confermato la pena di morte, spingendo l'uomo a presentare ricorso alla Corte di Cassazione, che ha confermato nuovamente la condanna per omicidio premeditato. Il perdono dei parenti delle vittime. Dopo aver atteso l'esecuzione per quasi quattro anni in carcere, una corte con un nuovo panel di giudici ha annullato il verdetto dopo aver ricevuto una lettera in cui i parenti delle vittime perdonano l'imputato. L'uomo avrebbe deciso di sbarazzarsi della coppia che lo aveva rimproverato per un forte calo delle entrate di un laboratorio di loro proprietà, dopo il loro ritorno da un lungo soggiorno nel Paese di origine. Pakistan Altri quattro prigionieri impiccati. Quattro condannati per omicidio e sequestro di persona in casi distinti sono stati impiccati nelle carceri di Attock, Mianwali, Sargodha e Rawalpindi, portando a 64 il numero di esecuzioni da quando il Paese ha revocato la moratoria autoimposta sulla pena di morte nel dicembre 2014. Il Carcere Centrale di Sargodha ha visto la sua prima esecuzione in 105 anni dalla sua costruzione nel 1910. Mohammad Riaz era stato condannato a morte da un tribunale anti-terrorismo per aver ucciso due persone durante una rapina in banca nel 2000. Mohammad Ameen, un prigioniero condannato per aver ucciso una persona nel 1998, è stato giustiziato nella prigione di Adiala a Rawalpindi. Un altro prigioniero, Hubdar Shah, condannato per un duplice omicidio commesso nel 2000, è stato impiccato nella prigione centrale di Mianwali. Infine, Akramul Haq, condannato per il rapimento a scopo di riscatto di una bambina di tre anni nel 2002, è stato impiccato nel carcere di Attock. Malawi Cinque riesami e 5 commutazioni di pena. Sono almeno 24 su 192 i casi di condannati a morte già portati all'esame dell'Alta Corte per la riformulazione della sentenza, e di questi 24 detenuti, cinque hanno ricevuto la commutazione della condanna capitale in pena detentiva, ha appreso la Malawi News Agency. Il presidente della Commissione diritti umani del Malawi, l'ambasciatrice Sophie Kalinde, ha detto che il progetto ha registrato progressi significativi. Parlando di recente ad un Seminario Giuridico sulle Valutazioni della Salute Mentale e Attenuanti nei Casi Capitali, svoltosi a Mangochi, l'ambasciatrice Kalinde ha detto che tutti i detenuti condannati a morte prima del 2007 devono essere portati davanti all'alta corte per la riformulazione della sentenza. Afghanistan Condanna a morte commutata per il killer di una fotografa tedesca. La Corte Suprema afghana ha commutato in 20 anni di detenzione la condanna a morte del poliziotto che nello scorso aprile uccise la fotografa tedesca Anja Niedringhaus, ha riportato l'agenzia AP. L'Associated Press - agenzia per cui Niedringhaus lavorava - ha dato notizia della commutazione citando documenti giudiziari che sono stati inviati al Procuratore generale afghano. Naqibullah, ex comandante di un'unità di polizia, era stato condannato a morte l'anno scorso da un tribunale di primo grado che lo aveva riconosciuto colpevole di omicidio e tradimento. Naqibullah, che come molti in Afghanistan usa un unico nome, aprì il fuoco senza preavviso contro Niedringhaus e la corrispondente veterana dell'AP Kathy Gannon, il 4 aprile 2014. Le due si stavano occupando del primo turno delle elezioni presidenziali nel Paese. Niedringhaus, 48 anni, morì sul colpo. Gannon fu gravemente ferita e si sta ancora riprendendo dalle ferite in Canada. "Né Anja né io crediamo nella pena di morte". Lo ha detto Gannon, dopo aver appreso della sentenza. "So di parlare a nome di Anja, così come per me, quando dico che un killer pazzo non rappresenta né una nazione né un popolo." Gannon ha aggiunto che era "una gioia" occuparsi dell'Afghanistan e che sta progettando di tornarci dopo aver completato la guarigione. "Tornerò per entrambe", ha detto. Secondo Zahid Safi, un avvocato della AP informato della commutazione, 20 anni è la condanna detentiva massima in Afghanistan. Naqibullah fu condannato a morte da un tribunale di primo lo scorso luglio e una Corte d'Appello ha deciso a gennaio di commutare la pena in detenzione. Questa sentenza è stata impugnata davanti alla Corte Suprema, che ha reso definitiva la condanna a 20 anni di carcere, anche se la legge afghana prevede che la durata della detenzione possa essere ridotta se il prigioniero dimostra "riabilitazione sociale." Pakistan: pena di morte, eseguite 2 condanne, oltre 50 da fine moratoria Aki, 8 aprile 2015 Altre due condanne a morte sono state eseguite in Pakistan dopo che il 10 marzo scorso le autorità di Islamabad hanno deciso la revoca totale della moratoria sulla pena di morte per tutti i reati per i quali è prevista. Le condanne, come riferisce Express News, sono state eseguite per impiccagione in due carceri del Punjab. Dalla revoca della moratoria in Pakistan sono stati impiccati più di 50 detenuti. Stamani un detenuto, condannato per aver ucciso due persone nel 1997, è stato messo a morte nella prigione centrale di Sahiwal. Un altro prigioniero è stato impiccato nel carcere Kot Lakhpat di Lahore dopo essere stato condannato per un omicidio commesso nel 2000. Malaysia: approva legge che prevede carcere senza processo per sospettati terrorismo Adnkronos, 8 aprile 2015 Per i sospetti estremisti detenzione senza procedimento giudiziario per un massimo di due anni. Approvata in Malaysia una controversa legge che consente alle autorità di tenere in prigione i sospettati di terrorismo senza processo per un massimo di due anni. Settantanove i voti a favore, 60 i contrari. Secondo quanto riporta l'agenzia di stampa malese Bernama, la norma è stata approvata prima dell'alba dopo 12 ore di intenso dibattito e tra le obiezioni dell'opposizione che teme che possa essere utilizzata contro i critici e gli oppositori del governo. Secondo il vice direttore dell'Ong Human Rights Watch, Phil Robertson, l'approvazione della norma antiterrorismo è "un enorme passo indietro per i diritti umani in Malesia". Secondo il ministro dell'Interno malese, Ahmad Zahid Hamidi, la nuova legge deve essere vista invece come uno degli sforzi compiuti dal governo per affrontare la crescente minaccia dell'estremismo legato all'autoproclamato Stato Islamico. Durante l'ultima ora di dibattito, Ahmad Zahid ha fornito al Parlamento i dettagli sull'arresto di un gruppo di 17 persone accusate di aver pianificato attacchi nella capitale Kuala Lumpur, nei confronti di polizia ed esercito, e accusate di voler rapire funzionari di alto profilo. Del gruppo facevano parte anche due foreign fighters tornati da poco dalla Siria. Nei giorni scorsi il direttore dell'agenzia antiterrorismo, Ayub Khan Mydin, aveva denunciato il rischio di attacchi imminenti dell'Is in Malaysia. Sono almeno 63 i malesi che sono andati in Siria e in Iraq a combattere fra le fila dell'Is. Diverse altre decine sono state incriminate dallo scorso anno per aver cercato di partire.