Ordini dei Giornalisti Lombardia e Veneto: no alla chiusura del giornale "Sosta Forzata" Omnimilano, 7 aprile 2015 Il presidente dell'Ordine dei giornalisti della Lombardia, Gabriele Dossena e il presidente dell'Ordine dei giornalisti del Veneto, Gianluca Amadori, esprimono solidarietà alla direttrice del giornale "Sosta Forzata", Carla Chiappini, "per l'improvvisa e immotivata sospensione delle pubblicazioni da parte della direzione della casa circondariale delle Novate di Piacenza. "Sosta Forzata" è uno dei giornali che ha ispirato la Carta di Milano (sui diritti dei detenuti), nata e promossa all'interno del Consiglio dei giornalisti della Lombardia e condivisa con altri Ordini regionali, tra cui quello del Veneto e dell'Emilia Romagna". "Il giornale "Sosta Forzata", attivo nel penitenziario piacentino da undici anni e diretto dalla stimata collega, già vicepresidente dell'Ordine dei Giornalisti dell'Emilia-Romagna - spiega la nota -, ha chiuso i battenti senza ricevere motivazioni ufficiali circostanziate da parte della direzione del carcere. "Sosta Forzata" è nato come allegato del giornale diocesano "Il Nuovo Giornale" con una tiratura di 4.500 copie, sul quale scrivevano una media di 20 detenuti all'anno. Condividiamo l'appello dei redattori del giornale "Ristretti Orizzonti" attorno alla volontà che davvero le carceri diventino luoghi trasparenti e dignitosi per chi vi abita e per chi vi lavora, anche attraverso la redazione di un giornale che come ricordano da "Ristretti orizzonti" (giornale della Casa circondariale di Padova) non può essere un'attività ricreativa per detenuti autorizzata sotto stretto controllo, l'informazione dal carcere è un bene comune, una risorsa di civiltà utile soprattutto al territorio, che può così conoscere meglio qualcosa che gli appartiene. Un carcere dove volontari e detenuti fanno informazione ha molte probabilità di diventare un carcere trasparente. Ci uniamo alla speranza della collega: non si interrompa il dialogo che "Sosta Forzata" ha instaurato in questi anni tra le persone recluse e quelle libere". Giustizia: altro che "svuota carceri", le celle sono di nuovo strapiene di Errico Novi Il Garantista, 7 aprile 2015 Finito l'effetto della pronuncia sulla Fini-Giovanardi detenuti in aumento di oltre 1.000 unità rispetto a febbraio. La protesta di Rita Bernardini che (con Pannella) è in sciopero della fame per l'amnistia e l'indulto. Rieccole, le carceri che scoppiano. È durata troppo poco l'illusione di una svolta deflattiva, che un mese fa aveva spinto il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria ad annunciare: "Non c'è più alcun detenuto ristretto in meno di 3 metri quadri". Lo stesso Dap ora deve ammettere che la popolazione carceraria, al 31 marzo, risulta di nuovo in aumento, di oltre 1.000 unità rispetto alla rilevazione precedente. "Si è esaurito l'effetto della dichiarazione di incostituzionalità sulla Fini-Giovanardi", osserva la segretaria di Radicali italiani Rita Bernardini, "i detenuti che potevano permettersi l'avvocato per sollevare l'incidente al giudice dell'esecuzione l'hanno fatto, gli altri restano dentro". Bernardini e Pannella hanno trascorso anche questa Pasqua a visitare penitenziari. Sono al 33esimo giorno di sciopero della fame e chiedono l'amnistia. "Subito quella mirata a chi è in carcere per droga". È un aumento lieve, ma non casuale. "Secondo i dati diffusi dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria al 31 marzo 2015 i detenuti presenti nei 200 istituti penitenziari italiani sono 54.122 e tornano a risalire". Lo fa notare la segretaria di Radicali italiani Rita Bernardini. Reduce da due giorni, Pasqua e pasquetta, trascorsi con Marco Pannella a visitare le due grandi carceri della Capitale, Regina Coeli e Rebibbia. Ma anche a riflettere su quello che già si vedeva a occhio nudo nelle celle e ora viene confermato dalle statistiche ufficiali. A febbraio la popolazione penitenziaria era di circa 53mila unità. E a un certo punto il nuovo capo del Dap Santi Consolo si era anche potuto concedere la celebrazione di un particolare primato: "Non abbiamo più alcun detenuto ristretto in spazi di meno di tre metri quadri". Così in effetti suggeriva la media aritmetica, seppur subordinata alla famosa regola del pollo di Trilussa: un pollo a testa può voler dire che c'è chi se ne gode due e chi resta a pancia vuota, così vale per le celle dove si sta relativamente larghi a cui fanno da contraltare i buchi sovraffollati indegni di un Paese civile. Con gli oltre 54mila censiti nei penitenziari al 31 marzo va a farsi benedire di nuovo pure la recente conquista aritmetica. E soprattutto si manifesta una tendenza al rialzo. Preoccupante, senza dubbio, dopo circa un anno in cui il saldo tra uscite e nuovi ingressi nelle carceri era stato finalmente positivo. "Lo si può spiegare", dice Bernardini, "con il sostanziale venir meno dell'effetto Consulta: mi riferisco alla dichiarazione di incostituzionalità sulla Fini-Giovanardi, che ha imposto l'applicazione di minimi e massimi edittali molto più bassi per i reati relativi alle droghe leggere. Quella pronuncia è di febbraio 2014, epoca in cui la popolazione penitenziaria totale toccava quota 60.828: subito dopo si è creato un forte processo deflattivo, ben visibile con il riscontro al 31 luglio 2014, quando, nel giro di appena 5 mesi, il dato risultò essere sceso a 54.414". Secondo il ministro della Giustizia Orlando quella "botta" al sovraffollamento fu il risultato dei due provvedimenti svuota-carceri. Il primo entrato in vigore tra fine 2013 e inizio 2014, il secondo l'estate scorsa. Secondo i radicali non è così: a incidere davvero fu appunto la dichiarazione della Corte costituzionale sulla legge Fini-Giovanardi. Continua Bernardini: "Appena introdotte le nuove pene, più basse, grazie alla pronuncia dei giudici costituzionali, tutti i detenuti per cannabis che potevano permetterselo hanno sollevato l'incidente davanti al giudice dell'esecuzione. Hanno cioè ottenuto che un magistrato riconoscesse loro il diritto di vedersi applicata una pena inferiore. Chi aveva i soldi per l'avvocato si è mosso subito, in quei primi mesi del 2014, e magari è uscito. Esauritasi l'ondata di quei ricorsi, la popolazione carceraria ha smesso di calare. A mio giudizio perché il resto dei vecchi detenuti per droga, che rispetto al totale incidono tantissimo, non ha i soldi per il procedimento e non può quindi ottenere una libertà a cui pure avrebbe diritto". E qui si arriva il punto chiave, il nodo più critico, che spinge la segretaria di Radicali italiani e il vecchio leader Marco Pannella a proseguire il loro sciopero della fame, giunto oggi al 33esimo giorno: la cosa più urgente sarebbe proprio "un'amnistia mirata per chi sconta ancora le vecchie pene della Fini-Giovanardi". Difficile che Renzi si faccia intenerire, considerato che, per esempio, ha lasciato cadere la delega con cui si sarebbe potuto introdurre la detenzione domiciliare come pena principale per tutti i reati con pene massime fino a 5 anni. "Timori elettorali filo-leghisti?", è l'insinuazione neppure troppo tendenziosa di Bernardini. Certo, come la stessa segretaria radicale ricorda, è scesa la percentuale dei detenuti in attesa di giudizio: dal 43% di fine 2010 siamo al 27,6%. Comunque un sacco di persone: 19.799. Vittime dell'arretrato penale. Di quei 4 milioni e 600mila "vecchi" processi censiti dal capo dell'Organizzazione giudiziaria Mario Barbuto. "È quest'ultimo dato a richiedere un'amnistia generalizzata", ricorda Bernardini a proposito della principale ragione del Satyagraha suo e di Pannella. "Preoccupa la grande quantità di detenuti in attesa di primo giudizio, che sono 9.504", continua la segretaria di Radicali italiani, "i detenuti stranieri sono 17.617 pari al 32,5% del totale (il 30 novembre 2010 erano il 37%). Quanto al sovraffollamento, ci sono ben 58 carceri con un sovraffollamento superiore al 130% (tenendo conto delle sezioni chiuse). Si va dal 200% della Casa circondariale di Udine (164 detenuti in 82 posti effettivi), al 199% del carcere di Busto Arsi-zio (303 detenuti in 145 posti effettivi), al 196% del carcere di Latina (149 detenuti in 76 posti). Quanto ai grandi istituti", nota Bernardini, "a Milano-San Vittore si registra un sovraffollamento del 182% (963 detenuti in 530 posti effettivi), a Regina Coeli del 178%, a Na-poli-Secondigliano del 153% (1.353 detenuti in 886 posti)". Il pollo di Trilussa continua a essere mal distribuito. Giustizia: perché senza Napolitano torna il primato delle Procure di Valerio Spigarelli (Unione Camere Penali) Il Garantista, 7 aprile 2015 C'è qualcosa di cui si avverte la mancanza, di questi tempi, nel dibattito-non-dibattito sulla Giustizia. Qualcosa, o forse qualcuno, che riporti la questione alla sua altezza naturale nella scala dei valori costituzionali. A differenza di quel che si aspettavano alcuni osservatori, infatti, il rafforzamento politico di Renzi non ha prodotto alcun risultato su questo terreno. Anzi, al contrario, non solo è definitivamente scomparsa dall'orizzonte la prospettiva di una riforma organica della giustizia, ma sono anche state peggiorate le proposte avanzate all'inizio della legislatura. Il consenso penale, che l'esecutivo cerca ostentatamente dall'elettorato, oggi si gioca su di una svolta regressiva da Bengodi dell'emergenza la cui ricetta è sempre la solita: parossistica stretta sanzionatoria con la riforma dei reati contro la pubblica amministrazione, progressiva erosione dei diritti costituzionali con le nuove norme antiterrorismo, populismo giudiziario con l'introduzione del reato di omicidio stradale e l'aumento insensato dei termini di prescrizione dei reati. Il tutto accompagnato ria un rapporto con la magistratura che solo gli ingenui possono ritenere sintomatico di un recupero di autonomia della politica. Renzi ha imparato da Berlusconi, e alla fine ha superato il maestro su questo terreno: a parole sembra un leone ma nei tatti lascia le cose come stanno sulle questioni (obbligatorietà dell'azione penale, controllo sul suo esercizio, separazione delle carriere, reclutamento laterale dei magistrati, composizione del Csm) che farebbero veramente la differenza. In più gli capita la fortuna di una Anm debole che gli permette di far finta di essere il più forte. L'Associazione dei magistrati, infatti, è schiacciata da un lato da una maggioranza silenziosa sempre più preoccupata dalla perdita di status professionale ed economico ed assai poco coinvolta dalle questioni di politica giudiziaria, e dall'altro dalla progressiva esposizione diretta dei capi delie Procure, semplici e super, che, saltando la mediazione dell'Associazione, e persino delle correnti, vanno direttamente avanti alle commissioni parlamentari a dettare le loro linee. Per accontentare i primi Sabelli è costretto a pigiare l'acceleratore sulla responsabilità civile (che sotto sotto gli andrebbe pure bene) o la prescrizione, per non farsi scavalcare dagli altri provoca Renzi sulla legge anticorruzione. Un regalo per il premier che. senza togliere un grammo di potere ai veri padroni del vapore giudiziario, che sono quelli di cui sopra, riesce pure a fare la figura del castigamatti dei magistrati. Esattamente come ha fatto Berlusconi per qualche decennio, fino ad uscirne con le ossa rotte, però. In questa pochade il tema vero, quello dell'equilibrio dei poteri e della riforma di quello giudiziario, scompare anche perché dal parterre è uscito uno dei pochi protagonisti che della questione aveva compreso, sulla sua propria pelle, l'importanza e l'urgenza. Al momento delle dimissioni di Giorgio Napolitano non tutti si resero conto di quanto il cambiamento dell'inquilino del Quirinale avrebbe pesato sul dibattito della Giustizia. Al di là dei momenti "acuti", come la vicenda del processo-trattativa, o le polemiche con Di Pietro ed Ingroia, Giorgio Napolitano incarnava infatti il primato della politica nelle scelte di politica giudiziaria. Primato della politica che lo portò più volte a sottolineare la necessità di una riforma complessiva del sistema giustizia, anche dal punto di vista costituzionale. Il lavoro della commissione dei saggi da lui voluta lo testimonia egregiamente. Anche nel suo impegno testardo contro la disumana condizione carceraria trovava posto l'ipotesi di provvedimenti di clemenza, che solo i radicali proponevano apertamente ma che lui non ha mai escluso come soluzione politico/parlamentare, proprio in nome di quella primazia. Supremazia vera, però, non quella dei boatos, berlusconiani o renziani poco importa, o delle leggi, ad porsonam o populistiche importa ancora meno, visto che la demagogia giudiziaria non è meno grave, e pericolosa, dei conflitti di interessi. Fin qui il nuovo presidente della Repubblica non ha ancora affrontato la questione di una riforma costituzionale del sistema giudiziario, ma ci sono temi che chi preside il Csm non può ignorare. Anche perché il suo silenzio sarebbe da interpretarsi come una scelta a favore del mantenimento di un sistema squilibrato sia dalla commistione ordinamentale delle funzioni di accusa e di giudizio, sia dell'utilizzo etico delle indagini preliminari svolte in sede penale sia, infine, dall'innaturale contiguità tra i circuiti investigativi e la stampa. Ciò che produce lo slittamento lento, candido ed inconsapevole, verso quella democrazia giudiziaria i cui rischi erano ben chiari a Napolitano. Giustizia: operazione "Farfalla", il fallimento dei nostri 007 nelle carceri con i boss www.linkiesta.it, 7 aprile 2015 Nel 2004 il Sisde cercò di avvicinare 8 boss al 41 bis. Il Copasir: "Un'operazione poco trasparente". Nel 2004 alcuni agenti dei servizi segreti italiani cercarono di entrare in contatto con esponenti di spicco della criminalità organizzata. Un'azione di intelligence, gestita assieme ai responsabili del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, per ottenere informazioni da alcuni capimafia detenuti e sottoposti al 41bis. Nome in codice, operazione Farfalla. A dieci anni di distanza una lunga indagine del Copasir - il comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica - fa luce su quella vicenda. I risultati ottenuti dall'organismo bicamerale sono a tratti inquietanti. Dopo aver ascoltato ventuno personalità coinvolte a vario titolo, la relazione finale fotografa una lunga serie di anomalie. I parlamentari descrivono "un quadro complessivo caratterizzato da una gestione superficiale e da carenze organizzative aggravato da un'assenza di tracciabilità documentale che, oltre a non aver condotto a risultati di qualche utilità, ha reso possibili letture dietrologiche della vicenda". Un'operazione fallimentare, condotta dai soggetti istituzionali coinvolti attraverso una interpretazione "strumentale e arbitraria" della normativa allora vigente. E ancora oggi scandita dai troppi "non so" e "non ricordo". I fatti sono piuttosto recenti. L'operazione Farfalla viene avviata nel giugno del 2003. Alla ricerca di fonti privilegiate, il Sisde, allora guidato dal generale Mario Mori, decide di entrare nelle carceri italiane. Assieme al Dap vengono individuati otto soggetti che sembrano essere funzionali all'operazione. Otto potenziali informatori rinchiusi in diverse case circondariali, sei dei quali in regime di 41 bis. L'obiettivo è "raccogliere informazioni da detenuti che, sentendosi abbandonati dalle proprie famiglie o dalle organizzazioni criminali di appartenenza, avrebbero potuto manifestare la disponibilità a fornire informazioni di natura fiduciaria subordinata a vantaggi anche di natura economica per se stessi o per i loro parenti". I contatti vengono stabiliti dal generale Mori con Giovanni Tinebra, il direttore del Dap. Anche se in realtà un ruolo centrale viene subito affidato a Salvatore Leopardi, responsabile dell'Ufficio ispettivo e di controllo del Dap. È lui, così scrive il Copasir, ad essere incaricato "delle prime acquisizioni generali di informazioni finalizzate a verificare l'incidenza esterna di alcuni soggetti criminali e le strategie delle organizzazioni criminali". Ed è sempre lui, a operazione avviata, a tenere i contatti con il Sisde, attraverso due funzionari ancora in servizio. "Secondo le risultanze delle audizioni presso il Copasir - si legge - i funzionari dei Servizi tratteggiarono con il dottor Leopardi l'impostazione operativa in almeno cinque incontri presso l'ufficio del Dap, per delineare i profili degli otto detenuti individuati ed ipotizzare i temi sui quali accertare la loro attendibilità". Eppure di quell'operazione non restano troppe tracce. La documentazione sull'operazione Farfalla giunta in Parlamento "risulta composta da soli tredici documenti, tra quelli generati all'interno del Sisde ed inviati a soggetti esterni e quelli generati per il Servizio stesso". Nelle considerazioni l'organismo bicamerale ammette che lo scambio informativo tra il Sisde e il Dap è avvenuto quasi sempre "tramite comunicazioni date a voce, non codificate e non protocollate". Non solo. "Il rapporto informativo instaurato tra i due organismi nell'operazione Farfalla è stato costruito solo sulla base di conoscenze personali tra i rispettivi dirigenti e direttori degli enti e non sulla base di regole precise, concordate e codificate". Il Copasir punta il dito contro "la struttura amicale" data all'operazione. Mori, Tinebra e Leopardi "erano stati colleghi ed avevano collaborato a Caltanissetta e poi, una volta ritrovatisi a Roma ai vertici del Sisde e del Dap, avevano ricostruito un gruppo di lavoro che operava con modalità di funzionamento che sfuggivano alle norme e che tutt'ora rimangono sconosciute anche a causa dei "non so", "non mi ricordo", e "nulla di scritto". Del resto, ascoltato dal Comitato parlamentare, l'ex direttore del Dap Tinebra ha confermato di non avere molto da dire in proposito. "Il ruolo del dottor Tinebra - si legge nella relazione del Copasir - a capo del Dap tra il 2001 e il 2006, ne esce oscurato da un secco "non so e non sapevo" e da una frase, riferita in sede di audizione: "Il direttore si deve accontentare di farsi raccontare il succo, dare una delega e sorvegliare che tutto vada bene e pregando Iddio che tutto vada bene"". A questo si aggiunge una critica all'operato dei dirigenti del Dap coinvolti. "Pur non rientrando nei compiti di questa indagine - si legge ancora nel documento parlamentare - risulta evidente che il Dap ha svolto un ruolo non consono alle sue prerogative e fuori dal perimetro assegnato - ruolo assimilabile a quello di una vera e propria struttura parallela di intelligence - con l'ulteriore aggravante di una carenza professionale di ricerca informativa e di una carenza organizzativa nel rapporto con i fiduciari e con il Sisde". "Dal punto di vista giudiziario l'operazione "Farfalla" non ha condotto ad alcuna condanna né ad altra sanzione", precisano i parlamentari che hanno seguito l'indagine. "Si sottolinea che gli organi giudiziari non hanno riscontrato elementi per promuovere azione penale". Intanto a leggere la relazione si resta colpiti dalle dichiarazioni dei ministri all'epoca competenti. Anche loro all'oscuro di tutto, o quasi. Ascoltato dal Copasir, l'ex ministro dell'Interno Giuseppe Pisanu rivela la sua estraneità alla vicenda. Ammettendo non solo l'oggetto "misterioso" di quell'attività di intelligence, ma anche di non aver "mai sentito parlare" dell'operazione "Farfalla". Ovviamente un'idea, seppure vaga, ce l'aveva anche il titolare del Viminale. In audizione Pisanu ha assicurato di essere a conoscenza che l'ambiente carcerario fosse controllato e "attenzionato" dai Servizi. "Ma non gli era dato conoscere come lo facessero e con quali procedure". Stessa reazione da parte del senatore Roberto Castelli, all'epoca ministro della Giustizia. "Posso dire di aver sentito parlare del "protocollo Farfalla" - le sue parole davanti al Copasir - per la prima volta qualche giorno fa sui mezzi di informazione". Una delle poche certezze del Copasir, è che l'operazione Farfalla non ottiene i risultati sperati. Gli otto detenuti individuati non diventeranno mai fiduciari del Sisde. Nell'estate del 2004 l'operazione viene sospesa "per l'infondatezza dei presupposti, per la difficoltà a stabilire un rapporto fiduciario con i carcerati individuati e in particolare per l'impercorribilità di un'operazione caratterizzata da un'attività di contatto intermediata da personale del Dap privo di specifica formazione". Le considerazioni del Comitato parlamentare sono impietose. "Con queste premesse, l'operazione "Farfalla" non poteva che risultare fallimentare, così come poi è stata, con il coinvolgimento di uomini del Dap, del Sisde e della magistratura che sono stati distolti da attività più utili e produttive per l'Italia e per i cittadini". Giustizia: il progetto "Made in carcere" per il riscatto delle detenute di Fabrizio Gentile www.interris.it, 7 aprile 2015 Ha lasciato il mondo della finanza, il suo posto da dirigente di banca, le sicurezza che 22 anni di servizio le davano e il prestigio di aver contribuito a creare il primo modello di banca virtuale. E ha deciso di regalare il suo tempo alle detenute. È la storia di Luciana, che a un certo punto della sua vita ha pensato di tornare a casa, a Lecce, di dedicare più tempo a se stessa e alla sua famiglia; ma anche che fosse arrivato il momento di restituire agli altri quanto di buono aveva ricevuto dalla vita. E si è inventata qualcosa di grandioso: usare il materiale buttato via da alcune aziende per dare lavoro - regolarmente contrattualizzato - alle donne in carcere. Cioè utilizzare gli scarti delle lavorazioni per farli trasformare da quelli che impropriamente vengono definiti gli scarti della società. Un piccolo miracolo, che produce anche economia. Uno schiaffo alla superficialità con cui si emettono giudizi sulle persone relegandole ai margini della società. "Dall'innovazione tecnologica - racconta - ho pensato di arrivare all'innovazione sociale. Mi sono sempre preoccupata di pensare all'"altro". Un approccio materno se vogliamo, di mamma mancata, ma ho sempre cercato di prendermi cura degli altri. In un primo momento avevo brevettato un collo di camicia, iniziato la formazione in carcere per formare delle risorse. Ma sono uscite tutte con l'indulto, e mi sono ritrovata con un pugno di mosche in mano. Troppo complicata la sartoria per quel tipo di cucito. Dunque ho ricominciato con oggetti più semplici, borse fatta con materiale di recupero, rettangoli". Le ragazze che lavorano con Luciana Delle Donne nel progetto Made in carcere hanno un regolare contratto, che però ha come sede di lavoro il carcere stesso. Quando finiscono di scontare la loro pena ed escono, devono lasciare quel lavoro e andare incontro alla libertà, avendo però un bagaglio professionale acquisito. Ma come fare per trovare il materiale necessario a produrre borse e gadget? "Cerchiamo all'interno delle aziende tessili, chiediamo se hanno rimanenze, scarti, campionario. Confidiamo nelle donazioni, raramente compriamo; e poi stock di magazzini che hanno bisogno di essere svuotati. Per fortuna esiste una buona disponibilità, anche perché sapendo l'utilizzo che se ne fa troviamo quasi sempre disponibilità. L'idea che certi tessuti non finiscano al macero ma vengano rigenerati, continuino a vivere, abbiano una seconda chance è molto profonda, specialmente se la si mette in correlazione con chi effettua questa trasformazione. Peraltro - aggiunge con un sorriso - alla fine vengono tessuti vintage molto belli". Attualmente sono operative convenzioni con i carceri di Lecce e Trani. Al loro interno sono stati attrezzati laboratori di sartoria con macchine da cucire, alcune comprate alcune noi altre dal Dipartimento di polizia penitenziaria. Ma esistono collaborazione anche con le carceri di Genova, Vigevano, Santa Maria Capua Vetere. "Le detenute - spiega ancora Luciana - accettato la sfida, questa opportunità economica e professionale. Nessuna difficoltà particolare. Stipendio base e premi per chi mette passione, o ruoli di seniority; la meritocrazia qui funziona, un altro piccolo miracolo". L'offerta di lavoro prescinde dalla tipologia di reato per cui si sta dietro le sbarre: "Noi il reato non lo conosciamo, la lavoratrice viene selezionata anche dalla direzione. Non ci interessa fare i giudici, noi vogliamo tendere una mano". Un intento lodevole, ma con qualche rischio: le detenute infatti lavorano con forbici lunghe 20 centimetri… "C'è sempre un controllo da parte della polizia penitenziaria. C'è chi dice che non è mai successo nulla perché non avrebbe senso sprecare un'opportunità del genere… Beh, chi parla così non conosce la realtà della galera; il senso in carcere è una parola grossa, e per ferire le persone o per andare in ospedale si potrebbe fare di tutto. Per nostra fortuna non è mai accaduto". E allora eccolo il campionario in vendita: accessori, borse, prodotti anche personalizzati. Vengono venduti in alcune librerie fastbook e in altre indipendenti a livello nazionale, poi nei punti Italy, nei Conad ("Per loro abbiamo prodotto 400.000 braccialetti", racconta). Ma non sono tutte rose e fiori. "Non è facile competere sul mercato, in particolare con l'invasione dei cinesi. Ci tocca evitare la doppia cucitura, ad esempio, per non perdere tempo e far alzare i costi. E poi comunque dobbiamo fare i conti con la disponibilità del personale di guardia necessario al controllo; quando non c'è, si ferma anche la produzione". La prima fattura è arrivata nel 2008, con la Regione Puglia. A seconda delle commesse ricevute, le impiegate oscillano dalle 15 alle 50. Un grande impegno, molto difficile da portare avanti: "Fare impresa sociale - conclude amaramente Luciana - è quasi un ossimoro. O fai l'uno o fai l'altro". Per fortuna c'è chi non molla. Giustizia: la buona informazione è come l'aria che respiriamo di Laura Arconti (Direzione di Radicali Italiani) Il Garantista, 7 aprile 2015 I titoli di un quotidiano, secondo una opinione corrente, hanno il compito di attirare interesse: in parole più modeste, il compito di vendere un maggior numero di copie del giornale. È opinione molto diffusa, che io non condivido. Un giornale piace e viene comprato per i contenuti, per la chiarezza e la attendibilità delle informazioni, per la scelta dei temi; meglio se ha anche belle fotografie e si occupa di temi trascurati da altri quotidiani. Queste scelte appartengono ai direttori dei giornali, così come le scelte dell'impaginazione destinate a mettere in evidenza gli argomenti più importanti sono compito suo, del suo caporedattore e dei più stretti collaboratori, che non a caso si riuniscono ogni giorno per decidere l'impostazione del giornale prima di consegnarlo alle macchine. E allora perché affidarsi al titolista, alla sua capacità di trovare la formula "pour épater le bourgeois", la battuta furba, l'aggancio della similitudine sillabica, il richiamo alla visceralità del lettore, quando non addirittura al bisogno di compiacere l'editore, spesso contraddicendo i contenuti stessi del pezzo da titolare? Il giornale è figlio di coloro che lo scrivono, e sono loro che dovrebbero apporre il titolo destinato a mettere in evidenza ciò che scrivono: in tal modo anche il titolo farebbe corpo unico con l'articolo, contribuendo a valorizzarne i contenuti. Il giornale, come strumento di informazione, è nutrimento della vita quotidiana non soltanto dell'homo politicus, ma anche del cittadino responsabile, conscio di non essere un suddito. Se i mezzi di informazione nascondono le notizie relative a determinate persone, deprivano il cittadino del suo diritto a conoscere, a confrontare, a giudicare e decidere. Quando illustravo ai miei giovani colleghi in formazione i principi dell'analisi transazionale codificata negli anni Cinquanta da Eric Berne, per addestrarli a riflettere sui comportamenti da tenersi nel dialogo con qualunque interlocutore, iniziavo la prima lezione chiedendo quale fosse, secondo loro, il "bisogno primario" assolutamente prioritario su tutti. Stupefacenti risposte fornivano molte informazioni sul carattere e sulle abitudini degli allievi, ma nessuno -mai nessuno in decine di Corsi tenuti attraverso gli anni - rispose che il bisogno assolutamente prioritario è "respirare". Nessuno, infatti, riconosce il respirare come bisogno primario, se non colui che ha problemi all'apparato respiratorio: colui che riconosce nel respiro la vita stessa. Perché ho citato la lezione sui bisogni primari, che apparentemente non ha a che vedere col discorso iniziale sul come e perché un giornale viene letto e stimato, e sul come e perché una trasmissione televisiva viene vista ed apprezzata? C'è un motivo ben preciso: neppure la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, nei suoi trenta articoli che esaminano nei minimi particolari tutto ciò che rappresenta la vita di una persona, parla di "diritto all'informazione, diritto a conoscere la verità". Nessuno ci ha pensato, finché il grande visionario del nostro tempo, l'uomo che vede lontano nel futuro -intendo Marco Pannella - non ha indicato questo "nuovo" diritto come primario nella vita politica e sociale delle persone. Ovviamente, lui lo ha individuato proprio perché egli stesso e il suo partito radicale, come ogni altro cittadino, vengono privati di questo diritto: se il diritto a conoscere per poter consciamente deliberare (di proposito echeggio le parole del grande presidente Luigi Einaudi) è un diritto primario, i Radicali appunto, ignorati ed espulsi dalla grande comunicazione, sono persone cui manca quel respiro vitale che viene dall'essere conosciuti per quello che sono in realtà, per le loro idee e per i loro metodi di vita e di lavoro politico. E la vera vittima di questa espulsione è il cittadino, privato di un suo diritto primario. In questo momento, mentre scrivo (il giorno successivo alla Pasqua 2015) Marco Pannella ha lasciato da poco il carcere di Regina Coeli, dove con alcuni Radicali ha portato un saluto fraterno ai detenuti e al personale dell'Istituto di pena: antica tradizione radicale a Natale, a Pasqua, a Ferragosto, i giorni in cui tutti gli altri fanno festa. Era con lui Rita Bernardini, segretario nazionale del movimento "Radicali Italiani". Rita è in sciopero della fame da trentatré giorni e non ha mancato di emettere comunicati precisi illustrando i motivi della sua azione nonviolenta. Con le sole eccezioni dei siti radicali, di Radio Radicale e del Garantista, nessun giornale, nessuna televisione, nessuna radio ha pubblicato la notizia. Ovviamente non è importante il fatto che Rita Bernardini non mangi: è importante che l'opinione pubblica sappia perché lo fa. Con il suo corpo sottile, smagrito dal digiuno, vuol ricordare che la legalità stessa del nostro Paese è tradita da coloro che dovrebbero averne cura. Vuol ricordare che il solenne messaggio alle Camere dell'ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano è stato disatteso e schernito dal Parlamento; vuol accendere un faro sulla rovina della giustizia italiana, sull'ingorgo processuale, sui tempi assurdamente lunghi dei procedimenti. E ancora sulla connivenza degli organi di informazione principali, sulle notizie esplosive che vengono nascoste all'opinione pubblica. Quali notizie? Per esempio due, recenti: la prima, che la Direzione Nazionale Antimafia ha pubblicato la propria Relazione annuale in cui si pronuncia con decisione per la depenalizzazione della cannabis, mentre tuttora sono in carcere persone condannate in base alla legge Fini Giovanardi dichiarata incostituzionale dalla Consulta. La seconda, che il Governo ha lasciato decadere un provvedimento delegato che prevedeva la detenzione domiciliare come pena principale per i reati meno gravi. Vogliamo parlarne più diffusamente? Se il Garantista vuole, lo faremo. Ma, attenzione: bisogna che tutti coloro che credono nel Diritto e nella legalità, e giustamente pretendono una informazione corretta e completa, si diano da fare: abbonandosi al Garantista, insistendo con il loro edicolante perché si faccia parte diligente e tenga in edicola il giornale, girando varie edicole per ripetere la richiesta. Se il nostro amico "Cronache del Garantista" diventerà un giornale a più ampia tiratura, sarà tutelato quel nostro diritto all'informazione che è un diritto primario: è l'aria che occorre per respirare. Giustizia: il discorso che Renzi non farà mai alla nazione di Claudio Cerasa Il Foglio, 7 aprile 2015 "Onorevoli, il vero bavaglio è quello che la dittatura delle intercettazioni vuole mettere alla democrazia". Cari colleghi, onorevoli giornalisti, amici elettori, gentili intercettati. Ho passato queste ore di festa a pensare a molte cose e in particolare a quello che è successo nel nostro paese negli ultimi giorni - e mi verrebbe da dire negli ultimi anni - e che credo sia arrivato il momento di fermare e di sanare una volta per tutte. Non ci possono più essere sfumature e non ci possono più essere ambiguità e lo dico nel modo più chiaro possibile: non possiamo più accettare che chi governa questo paese, a livello nazionale e a livello locale, a livello politico e a livello imprenditoriale, sia costretto a fare i conti ancora a lungo con l'unico vero regime che esiste oggi in Italia: la dittatura delle intercettazioni. Sorrido di gusto quando ascolto i campioni della difesa della democrazia, i fenomeni dell'indignazione in servizio permanente, ribellarsi di fronte a un governo che starebbe trasformando l'Italia in una succursale della tirannica repubblica delle banane. Mi verrebbe da ridere, se non ci fosse da piangere. E se non ci fosse da ricordare, con urgenza, che se in Italia esiste un potere che si comporta come un regime dittatoriale quel potere, cari colleghi, onorevoli giornalisti, amici elettori, gentili intercettati, coincide con le forze - politiche, giudiziarie e mediatiche - che hanno permesso indisturbate che la nostra democrazia diventasse schiava di uno schizzo di fango. Dicevo le intercettazioni, sì. È ovvio, non sono scemo: so perfettamente che le urgenze dell'Italia sono altre, che le riforme che dovrei fare sono molte, che le priorità oggi sono legate all'economia, al lavoro, alla spesa pubblica, alle tasse e alla necessaria crescita del nostro paese, che è ancora insufficiente e che chissà se ci permetterà mai di spiccare il volo. Ma quello che è successo negli ultimi tempi, prima con l'ex ministro Maurizio Lupi poi con l'enologo Massimo D'Alema, mi ha fatto riflettere molto. E mi ha fatto capire che in passato, su questo tema, ho sbagliato anche io, e che forse è ora di rimediare. Vedete, il mio ragionamento è semplice: non esiste una democrazia che possa avere la certezza di governare con tranquillità se dietro quella democrazia esiste un meccanismo di potere, perché di potere si tratta, che utilizza alcune armi improprie come le intercettazioni per decidere il destino di un politico, di un ministro, di un sindaco, di una giunta e persino di un governo. La meccanica di quello che succede mi sembra evidente e volendola ridurre all'osso la potremmo mettere giù così: c'è un'inchiesta, quell'inchiesta permette l'uso di intercettazioni, le intercettazioni a volte pescano informazioni non solo sulle persone indagate ma anche su quelle non indagate, spesso e volentieri le informazioni che riguardano le persone non indagate finiscono mescolate con le informazioni che riguardano le persone indagate e mescolando tutto in un grande frullatore succede quello che abbiamo visto tutti negli ultimi anni: più le persone intercettate senza essere indagate sono importanti e più quelle informazioni verranno inserite in un fascicolo giudiziario solo ed esclusivamente per alimentare quel mostro che è diventato il processo mediatico. Il principio è generale ma ha un'accezione particolare nel mondo della politica per una ragione che vi illustro rapidamente. Un politico intercettato e non indagato - e pronto per essere sputtanato - è un politico che nelle telefonate può aver detto anche le cose più oscene del mondo ma, al fondo, è un soggetto ostaggio del processo mediatico e in qualche misura è dunque un soggetto ricattato. È vero. Anche a me è successo in diverse occasioni, penso al caso Lupi e penso al caso Cancellieri, di aver utilizzato per questioni politiche che mi potevano tornare utili delle intercettazioni che riguardavano miei avversari, e da cui ho tratto un giovamento (sono diventato premier, prima, ho preso un ministero, poi). Il passato però è passato e, complice la riflessione di questi giorni santi, ho deciso che bisogna attrezzarsi per il futuro. E proprio pensando al futuro, al futuro del paese e anche al futuro dei nostri figli, mi sono reso conto che continuare a essere ostaggi di questa dittatura è un rischio troppo grande per la nostra nazione. Intendiamoci: io non credo che la magistratura sia politicizzata. Io credo però che la magistratura sia prigioniera di una serie di magistrati fuori controllo, convinti che compito della magistratura sia combattere non solo l'illegalità ma anche l'immoralità, e che in nome di questo principio si sentano in dovere di dover uscire fuori dalle righe, di utilizzare mezzi di lotta all'illegalità quasi illegali e che, sempre in nome di questo principio, si possano sentire nel giusto quando infilano il nome di qualcuno estraneo alle indagini nel frullatore del processo mediatico, quando non stracciano intercettazioni che andavano stracciate e quando, è successo negli ultimi giorni, fanno arrivare ai giornalisti non solo intercettazioni ma testi di interrogatori che fino a prova contraria dovrebbero essere segreti e secretati. Tutto questo, tutto questo lento trasformarsi della nostra Repubblica democratica in una Repubblica giudiziaria, sono convinto che sia un danno per la nostra vita e penso che non sia più accettabile che questa piccola minoranza impazzita di magistrati fuori controllo sia autorizzata con un clic a rovinare per sempre e senza ragione la vita di un politico e di un governo. Cari colleghi, onorevoli giornalisti. Io capisco bene quando i direttori dei giornali dicono che se una notizia arriva a un giornale, a prescindere da come quella notizia sia arrivata, compito di un giornale è, per l'appunto, dare le notizie. E mi è chiaro che se arriva un'intercettazione di un politico che dice qualcosa di moralmente non impeccabile per un giornalista è davvero dura non pubblicare quella notizia. Si tratta sempre di una scelta, però, non è un dovere, non esiste l'obbligatorietà della pubblicazione dell'azione penale, si potrebbe sempre decidere, volendo, di privilegiare, come succede in America, il diritto alla privacy sul diritto di cronaca. Ma comunque il tema, così posto, non è inquadrato bene. Il problema non è "se" pubblicare. E perderci nei dettagli rischia di farci perdere il punto vero della questione. E il punto è evidente: non è tanto che un giornalista non deve pubblicare un'intercettazione malandrina ma è che quel giornalista l'intercettazione malandrina non dovrebbe riceverla. Per il semplice fatto che quell'intercettazione, se riguarda persone terze, non indagate, non dovrebbe finire in un fascicolo giudiziario. E invece non funziona così. La discrezionalità con cui un magistrato o un giudice inserisce in un fascicolo giudiziario, a disposizione delle parti e anche dei giornali, un'intercettazione malandrina è infatti pressoché totale. Le regole ci sono ma non vengono rispettate. E ogni politico che parla al telefono, oggi, è un politico che può essere ricattato. Perché si può essere sputtanati per una telefonata innocua o per una chiacchiera come un'altra. E oggi può capitare, come forse sta già capitando, che ci siano procure che hanno deciso di mettere in vivavoce un governo. Onorevoli colleghi. Sono cresciuto osservando con dolore governi caduti e mi verrebbe da dire abbattuti per via giudiziaria. Sono cresciuto, come uomo e come politico, osservando con dispiacere e con rabbia il modo in cui il nostro paese non è riuscito a far sua la lezione di Montesquieu, quella dell'equilibrio dei poteri, del potere giudiziario che deve esimersi dall'essere potere legislativo e dal potere legislativo che deve esimersi dall'essere potere giudiziario. Oggi però l'emergenza è forte, e per riequilibrare questo squilibrio il potere legislativo non può che intervenire in una certa misura nel potere giudiziario, come stiamo provando a fare anche al Csm, dove non a caso abbiamo scelto come vicepresidente un ex esponente del nostro governo. Siamo in una fase di grandi anomalie e per combattere alcune anomalie a volte bisogna mettere sul campo altre anomalie. Il mondo della giustizia va riformato nel suo insieme. Ma senza partire dall'Abc e senza capire oggi quali sono i terreni sui quali si gioca la nostra vita democratica non si va da nessuna parte. Vedete. Io non ho nulla da nascondere e neanche chi lavora per me lo ha, ma rimanere ostaggio di un contropotere che con un clic può decidere la vita dei ministri e dei governanti è inaccettabile. E per questo ho deciso di presentare nel prossimo Consiglio dei ministri un decreto urgente per porre fine a questo sciacallaggio. So che qualche testata un po' pigra che ha dato prova in più occasioni di confondere il giornalismo d'inchiesta con la pubblicazione di veline di un magistrato urlerà le solite parole, sventaglierà il solito "bavaglio" e riempirà le sue pagine di post-it. Ma se c'è un bavaglio in questo paese, cari colleghi, onorevoli giornalisti, amici elettori, gentili intercettati, quel bavaglio è quello che la dittatura delle intercettazioni vuole mettere alla democrazia. Così non si può più andare avanti. E so che forse i giornali non saranno d'accordo con me ma il paese vedrete che lo sarà. E per questo ho deciso di agire. Di fermare questa gogna. E vi giuro che lo farò. Grazie a tutti. Giustizia: le intercettazioni non devono essere prove ma strumenti di indagine di Davide Giacalone Libero, 7 aprile 2015 Parole e fatti hanno divorziato, in tema di giustizia. Le prime volano a caso, mentre i secondi sprofondano nel nulla. Eppure, volendo, c'è il modo per risolvere la questione delle intercettazioni telefoniche. Tenendo assieme le ragioni della riservatezza, della decenza, della prevenzione e della giustizia. Volendo. Discettare su come disciplinarle è un gioco di società, che si vuole non finisca mai. Immaginare punizioni per chi le diffonde è un gioco fesso assai, dato che è già proibito e chi se ne infischia viene premiato. La più stupida delle idee è puntare sull'autodisciplina degli intercettatori (le procure), o su quella dei pubblicatoli (i giornalisti). Mentre è oltraggiosa del diritto l'idea, esposta da Giovanni Legnini, vice presidente del Csm, secondo cui "si deve tutelare chi non è indagato". Avvertite questo signore che il diritto esiste anche per tutelare gli indagati, che non sono dei colpevoli, non, almeno, fin quando non prevale quel frullato d'inquisizione e soviet che gli gira per la testa. La soluzione c'è: mai le intercettazioni negli atti processuali, mai nei mandati di cattura, mai a disposizione delle parti, quindi mai alibi per la loro pubblicità, perché, come nel sistema inglese, devono essere strumenti d'indagine e praticamente mai prove da esibire. Così si tiene in equilibrio la prevenzione dei reati e la riservatezza delle comunicazioni. Qualcuno di noi ha qualche cosa in contrario a che siano ascoltate le conversazioni di soggetti o gruppi che si suppone si stiano preparando a commettere reati gravi? Che siano potenziali integralisti assassini o pedo-fili alla ricerca di minorenni di cui abusare, no, non ho alcunché da obiettare. S'intercetti pure. Una volta colto un indizio, che può condurre a un ipotetico reato, il compito degli inquirenti consiste nel trovare prove che possano essere esibite in un processo. Se due o più soggetti ne parlano offrono elementi a chi indaga. È questo il modo per far convivere la repressione con il diritto. Non altro. Considerare le intercettazioni, in sé, come elementi adducibili alla richiesta di custodia cautelare, quindi da depositare in atti giudiziari, porta a due conseguenze corruttive. Da una parte imbastardisce le indagini e degrada il lavoro delle procure. Dall'altra trasforma i giornalisti in copisti servili. Leggo che un magistrato di valore, come Carlo Nordio ha idee simili alle nostre. Me ne compiaccio. Ma questa roba deve trovarsi nella legge, non nella presunta bontà d'animo o nella morigeratezza di chi maneggia quel materiale. La soluzione è semplice e può essere immediata. Se non la si adotta è patetico lamentarsi di un male di cui si è la causa. Matteo Renzi, che promette interventi ma non chiarisce quali, ha detto che sta leggendo il libro di Mario Rossetti (con Sergio Luciano: "Io non avevo l'avvocato"). Lettura utile a dimostrare che in più di venti anni s'è straparlato, nulla è cambiato, semmai peggiorato. Dice Renzi che non si deve essere giustizialisti. Bravo, ma aumentare le pene e allungare la prescrizione (come sta facendo) è la quintessenza del giustizialismo. Quella è la resa del diritto alla retorica della severità farlocca. La resa del processo all'accusa eterna. Più che giustizialismo: è dispotismo. L'idea che i diritti individuali siano subordinati alle verità sociali. L'accoppiata "ignoranza & viltà" socia di quella "chiacchiere e inutilità". Una quadriglia che prova a fermare la divulgazione delle intercettazioni dando sempre più potere a chi se lo conquista divulgando. Galattica bischerata. Giustizia: Garante della privacy "le intercettazioni irrilevanti rovinano la vita della gente" di Liana Milella La Repubblica, 7 aprile 2015 Intercettazioni, tra diritto delle indagini, diritto di informare, diritto alla privacy. Dice Antonello Soro, dal maggio 2012 Garante della privacy: "La questione, da anni, è fortemente divisiva, ma sono convinto che un equilibrio di interessi costituzionali sia necessario e sia anche possibile". Come mai ha scritto a Renzi proprio dopo i casi Lupi e D'Alema per sollecitare un intervento sulle intercettazioni? "Contesto la premessa. Ho sollevato la questione dal primo giorno in cui ho assunto il mio incarico, ne ho parlato nelle due relazioni al Parlamento, in numerose audizioni parlamentari, nei provvedimenti di blocco e di divieto per alcuni giornali. Cito per tutti i casi della prostituzione giovanile a Roma e di Yara". Giura che Lupi e D'Alema non c'entrano? "Assolutamente no. La lettera a Renzi non parte da loro, ma dal fatto che in commissione Giustizia della Camera c'è la delega sulle intercettazioni. Decidere spetta al legislatore, e non voglio certo sostituirmi a lui. Ma è mio compito, in quanto Garante della privacy, far sentire la mia voce. È giusto sollecitare un riequilibrio, posto che tra i diritti fondamentali alla giustizia, alla sicurezza, alla libertà d'informazione, alla privacy, spesso quest'ultima è soccombente". E quindi chiedete che si pubblichino meno intercettazioni? "In un tema così complesso non si può agire a colpi di spada, ma bisogna puntare a un bilanciamento dei diritti, facendo appello a un'Italia matura, che difende il diritto dei cittadini di sapere, ma senza sacrificare il rispetto della dignità della persona". Sta di fatto che la storia delle intercettazioni rispunta quando di mezzo c'è la politica. La politica cerca di tutelarsi. Il Garante si sveglia. "Ma io non ho affatto dormito in questi anni. Non è in mio potere suggerire soluzioni. Né posso affrontare singolari casi giudiziari. Ma ho detto parole anche molto dure quando in tv è stato riportato l'audio dell'interrogatorio di Scajola, perché quello era un modo barbaro di far entrare in tutte le case degli italiani la voce di un uomo in una fase delicata della sua vita, visto che era in carcere". Lo vede? Sempre un politico... "Ho fatto lo stesso per Bossetti (caso Yara, ndr). La dignità personale va difesa sempre, non solo quella di chi finisce di sfuggita in un'intercettazione e non è indagato, ma anche quella degli indagati e dei condannati. Il rispetto della dignità personale è l'architrave su cui si regge il nostro sistema costituzionale, perdere di vista questo ci porta alla barbarie". Lei è stato un politico in vista per anni. Non crede che un uomo pubblico abbia diritto a meno privacy degli altri? I cittadino lo eleggono e hanno diritto di sapere chi è. "So bene che chi ha responsabilità pubbliche ha una tutela attenuata rispetto ai cittadini normali, tuttavia ha diritto a una vita privata che non sia esposta alla curiosità di tutti. Magistrati e giornalisti dovrebbero fare un esercizio critico. La trascrizione integrale di un'intercettazione produce effetti deformati che alterano la rappresentazione dei fatti. Se riguardano aspetti penalmente irrilevanti producono solo un danno irreparabile alla vita delle persone. È successo per uomini politici e gente comune". Però noti magistrati, Spataro, Caselli, Cantone, hanno detto a Repubblica che in un processo contano anche le telefonate utili per ricostruire il contesto... "Come in tutte le cose conta il principio della proporzionalità. Tutte le informazioni rovesciate a volte nelle10mila pagine di un'inchiesta sono indispensabili? O il magistrato deve fare una selezione di quelle necessarie?". La sua proposta qual è? "Le intercettazioni irrilevanti non dovrebbero essere trasmesse nel processo. Ce ne possono essere di contesto, utili nella fase dibattimentale, ma non è necessaria la trascrizione integrale, basta un riassunto o solo il contenuto". E cosa si può pubblicare a quel punto? "Spetta al giornalista valutare, senza alienarsi in una trascrizione integrale. Si può raccontare un fatto senza mortificare la dignità delle persone, offrendo spaccati interi di vita intima come oggetto di curiosità più che di informazione. Un fatto è certo, non vorrei più vedere pubblicati i dettagli che ho letto sull'inchiesta delle minorenni dei Parioli, nessun interesse pubblico, ma solo morbosità che ha danneggiato la vita di queste ragazze". Nella lettera a Renzi lei parla "dell'esigenza di un'adeguata selezione delle notizie da diffondere". Cos'è questo se non un bavaglio? "Non credo che il giornalista sia solo uno che piglia una trascrizione e la butta in pagina. Serve un vaglio critico. Ma sia chiaro, la cultura del bavaglio non mi è mai appartenuta perché ho un'alta considerazione della funzione democratica della libera informazione". Giustizia: una telefonata allunga la vita, forse, però manda in galera di Stefano Di Michele Il Foglio, 7 aprile 2015 Breviario telefonico per intercettati, fra ingenuità, sbruffonate e coglionerie a favore di Procura. Sempre senza una regola, sempre senza una cautela, sempre senza orario. La lingua corre veloce, l'orecchio si tende attento. Nessuno sta zitto abbastanza. Così, se proprio non si riesce a praticare maggiore accortezza, conviene almeno (ri)mettersi nella mani della cara Contessa Clara: "Piccolo breviario telefonico: mai prima delle nove del mattino, mai tra mezzogiorno e le due, mai dopo le nove di sera" ("Il galateo moderno", ed. 1967) - almeno da circoscrivere a qualche ora soltanto sia il perimetro delle intercettazioni, sia soprattutto quello delle cazzate. Soprattutto, non ci sono più le belle certezze di una volta. La benemerita Sip, negli anni Settanta, invogliava persino alla chiacchiera: "Il telefono, la tua voce" - e le orecchie altrui, adesso. La stessa Sip, negli anni Novanta, al vacuo chiacchiericcio associava addirittura effetti salutisti: "Una telefonata allunga la vita" - e la sputtana, a volte. Dicono le cronache, e certificano le sbobinature, che il telefono scotta - e che quotidianamente "Il terrore corre sul filo", come in quel fenomenale thriller (1948) con Barbara Stanwyck e Burt Lancaster, non ancora affinato Gattopardo viscontiano. Periglio massimo, vanteria sempre operosa, così ogni cosa non taciuta rischia di mutarsi in cosa risaputa - persino "La voix humaine" di Cocteau adesso chissà se sarebbe al sicuro, e il memorabile monologo della febbrile femmina al telefono ("Pronto… Pronto… Pronto". "Ti amo!" - mirabile la Magnani spettinata e in lacrime sul letto, tra scialletti e ombre, avvolta nel filo dell'apparecchio) già domani potrebbe finire tra gli artigli della pubblica voracità. È la tua voce che ti accorcia la vita, altroché, piuttosto che allungarla. Le pagine dei giornali, che di sbobinature son ripiene - come tristi farciti tacchini natalizi, come maritozzi alla panna - dicono tutto, ma chissà il molto che fraintendono: ché il tono è altro dallo scritto, la cazzata è quasi obbligo sociale, la sbruffonata per tutti costante. Così che pure la paciosa Sora Cecioni (intesa Franca Valeri) al telefono con mammà potrebbe passare i guai suoi: "Pronto mammà? Che la camomilla è un barbiturico? No, perché siccome che me serviva che me dormissero i pupi j'ho fatto… mica j'ho fatto una tazzina da beve, j'ho fatto il purè…" - e che qualcuno possa accorrere a chiedere conto del losco e brusco comportamento con gli infanti di casa. Le meglio ambizioni e i meglio traffici e le meglio coglionate - insaccati nelle bobine, salsicce fumanti alla griglia per il giorno appresso - colano unto e producono risentimento, che pare quasi di stare dentro un giallo di James Ellroy (come nell'ultimo, "Perfidia", Los Angeles 1941), dove tutti registrano tutti e ognuno risente le chiacchiere di ognuno e tutti nascondono e tutti sanno. "Ho schiacciato la levetta, andando avanti veloce per il resto della conversazione. Il congegno è notevole. Un nastro sottile passa tra due bobine, su una macchina delle dimensioni di un piccolo fonografo. Delle levette spingono il nastro avanti e indietro. Io indosso le cuffie per contenere i rumori ambientali…". Urge allora, per telefonisti incalliti e balordi del sottobosco e cazzari dalla lingua rapida, sulle orme della sempre solida Contessa Clara, aggiornato ritocco al suo vecchio breviario. Regola uno: stare zitti ("L'arte di tacere", dell'Abate Dinouart, e siamo ancora al Settecento). Regola due: se proprio la favella urge, evitare certe parole, ormai in grado di alleprare ogni ascoltatore nell'ombra (segue apposito elenco). APPALTO. Si capisce che solo pronunciare la parola - direbbero nei ministeri romani - è come mettere il gatto a guardia della trippa: la zampata arriva comunque. Si potrebbe virare su espressioni meno consuete, contratto o concessione, ma si capisce che nessuno si farebbe confondere o impressionare. Un latinista si trova dappertutto, e allora "do ut des" potrebbe sembrare la soluzione (fonte La Trippa/Totò: "Do ut des, ossia tu dai tre voti a me, che io do tre appalti a te") - ma un latinista, magari cinematografaro, si trova pure tra i marescialli in ascolto. Sconsigliato l'azzardo linguistico. Se proprio non si può fare decentemente l'appalto, seguire Ennio Flaiano, che sul vizio e la putredine della vita politica romana si attardò con ostentato furore. "Vien voglia di andarsene, ma dove?", si domandava angosciato. E sospirava: "Ah, potersi ritirare in campagna, soli, con un chilo di cocaina, lontani da queste sozzure". Sennò, e meglio: taglieggiare meno. AUGURI. Con parsimonia - ché il povero generale che li ha fatti a Renzi deve stare ogni giorno a spiegarli e a giustificarli. A parte la zia di Massa Marittima e il consuocero di Follonica, non spingersi mai più a nord della Maremma con i convenevoli (lassù c'è Firenze). BANCA. "Abbiamo una banca" - e bene sa il povero e onesto Fassino cosa passò. Parola da evitare assolutamente. Oddio, cassa va ancora peggio. Meglio evocare la "Numero Uno" di Paperone, se proprio c'è necessità. Più ancora, i dinosauri: chi ascolta potrebbe essere distratto dal ruggito del Tyrannosaurus Rex - però, anvédi, l'on. è un estimatore di "Jurassic Park"! - mentre in realtà il riferimento è a Bill Gates, che appunto la banca alla bestia in estinzione paragonò. Evitare colti riferimenti brechtiani al fondare o al rapinare la stessa: sottile sarebbe l'allusione, ma sempre continuerebbe a persistere la possibilità di ritrovarsi nelle pagine di cronaca (nera: o tangente o rapina). CERTOSA. Vi è ultimamente tornato il Cav. Perciò, mai alludere al telefono a possibili ospitalità ricevute in passato. Nel caso, negare con decisione, mostrandosi piuttosto fervidi ammiratori dell'opera di Stendhal: parlavo di quella di Parma, mica della Costa Smeralda! Sinonimo possibile: certosino. Così da confondere tutto o col gatto o con lo stracchino. COOP. Per carità, nelle conversazioni mai andare oltre i pregi del banco frigo. Ottima l'idea, qualche anno fa, di cambiare slogan: "La coop sei tu, chi può darti di più?". FIGLI. Da bastone della vecchiaia a bastonata (politica) della mezza età. Far sempre mostra di affidamento sulla saggezza biblica dei proverbi: "Chi risparmia il bastone odia suo figlio". Saggezza e durezza. Ideale se il virgulto è in giro per l'Erasmus. LIBRO. I libri dei politici, di solito, sono come il barattolo di bicarbonato in cucina - sembra niente, ma viene buono per tutto ("un aiuto per ogni occasione"), dalla digestione alle verdure. Tenerne qualcuno in casa, perciò, è buona cosa. Parlarne al telefono è invece pessima idea. Perfetto, in necessità, per non destare attenzione, il termine manufatto: siccome nessuno degli scriventi è onestamente Thomas Mann, nessuno potrebbe ritenersi eccessivamente penalizzato. LOTTI. All'uopo, soccorre la presenza del cugino geometra che possa argomentare su come l'interesse sia di tipo ortofrutticolo piuttosto che sotto-segretariale: solo curiosità per dei lotti di terreno. Non edificabili, però. MERDA. Mettere la mani nella stessa. Materiale da maneggiare con grande cautela - sia al telefono, sia nella pratica. Quasi illimitati i sinonimi: popo', pupù… "Forse forse forse / è la mia cacca!" - come dalla felicissima "Canzone della cacca". Alludere a Benigni - "Inno del corpo sciolto". Se si è cooperatori di sinistra, la stessa legare a possibili strategie rivoluzionarie: "Quando la merda avrà valore i poveri nasceranno senza culo". Così, si potrà sempre sostenere che si parlava della Lunga Marcia. Per maggiore credibilità, si segnala l'esigenza di un doppio velo rotolone a portata di mano. METANIZZAZIONE. Al telefono, evidenziare i pregi del fornello a gas Pibigas che si possiede dagli anni Cinquanta. Risolutiva una citazione dell'apposito Carosello: "Poi la timida stufetta / si riscalda in tutta fretta!". NIPOTE. Nel caso si fosse monsignore, come per i figli (vedere sopra). PALAZZO CHIGI. Sia che si entri dalla porta principale, sia che si passi per quella secondaria, alla cornetta mai farne cenno. Alludere, al più. Per dire, Palazzo Vecchio evoca il Fiorentino Residente, ma la giovane età sottrae a possibili immediati abbinamenti: era vecchio, già rottamato! Ammettere di averlo visto solo al tigì. Chiedere se è per caso una multiproprietà a Santa Teresa di Gallura (nel caso, fingersi interessati). PATONZA (memorabilia). Che giri o che stia ferma, voi immobili al posto vostro. E se la stessa era in movimento, farsi provvedere di apposito certificato che attesti vostro febbrone in data di simile perigliosa circolazione. Al telefono, chiedere costo di scatola di Baci Perugina per la legittima consorte. SARTO. Nelle conversazioni, buttarsi verso i Magazzini Mas. Proclamarsi pubblicamente nostalgici della Standa. Mai far uscire dall'asola l'ultimo bottone della manica. Negare, ove possibile, la stessa conoscenza dell'esistenza di ago e filo. Camicia in terital, color beige. Alla domanda: ma lei parlava del sarto?, evocare con forza la propria devozione nei confronti di san Pio X (cardinale Giuseppe Sarto). Negare con decisione ogni rapporto con la parola imbastitura. ROLEX. Sia mai! Al telefono, far sempre notare che sono ormai anni che, quando volete sapere che ora è, passate sempre presso la basilica di Santa Maria degli Angeli a scrutare la bellissima meridiana al suo interno. O che vi inerpicate fin sul Pincio per informarvi dall'idrocronometro realizzato da padre Embriaco nel 1867. Ecco - in necessità, tralasciare la parola Rolex e puntare su idrocronometro. Al massimo, ostentare lo Swatch (al telefono: mai sgarra di un secondo!). I negozi di cinesi, peraltro, possono fornirvi di orologi a euro 7,90. Resta sempre la possibilità della sveglia al collo. VINO. In vino veritas, ma pure in intercettazioni. Lasciare stare la vigna, ché come dicono i saggi popolari "chi tiene la vigna tiene la tigna" - se non per evocarsi tra i filari come Benedetto XVI: "Semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore". Poi, se qualcuno vuole sapere chi è il Signore in questione, quello non è tipo da farsi facilmente impressionare. Al massimo, con spensierata letizia, limitarsi ad accennare al telefono con l'interlocutore il felice canto: "Oh com'è bella l'uva fogarina / oh com'è bello saperla vendemmiar…". Sennò, peste vi colga! La meglio cosa, quella risolutiva, sarebbe ripiegare sul chinotto (o l'acqua, se si desidera pure leggermente gassata). Lettere: l'idea sbagliata di restringere il diritto di cronaca di Caterina Malavenda (Avvocato esperto in Diritto dell'informazione) Corriere della Sera, 7 aprile 2015 Caro direttore, il premier si è detto pronto ad intervenire, per risolvere il nodo intercettazioni, con misure che non blocchino i magistrati e, contemporaneamente, consentano di soddisfare il sacrosanto diritto di cronaca. Saggia decisione e, tuttavia, par di capire che voglia anche limitare la diffusione delle conversazioni di cui, secondo lui, avvocati, magistrati, addetti ai lavori e media avrebbero abusato, in modo incredibile ed inaccettabile. Certo il programma è ambizioso, ma il clima non è dei migliori. I giornalisti continuano ad avere la giusta pretesa di scegliere le conversazioni da pubblicare ed a volte sbagliano. Le persone non indagate, ma messe ugualmente alla berlina, protestano, a volte del tutto immotivatamente, invocando sanzioni esemplari ed interventi legislativi. Tecnici e politici, incuranti del malaffare che tocca oramai gangli vitali, ne hanno fatto una questione di principio e ciascuno di loro è sicuro di avere in tasca la formula giusta, per arginare il dilagare delle conversazioni, che tracimano dagli atti giudiziari, fin sui giornali e in tv. E taluni, richiesti o meno, mandano al governo i loro suggerimenti, che hanno in comune lo smantellamento del sistema di regole vigenti, cui nessuno sembra oramai attribuire alcun credito. Nell'attesa di conoscere quale sarà la soluzione che, secondo Matteo Renzi, è a portata di mano, bisogna dire che le poche proposte, finora avanzate, non paiono andare nella direzione da lui indicata. Se occorre anche tutelare il diritto di cronaca, infatti, le misure da adottare non dovrebbero impedire ai giornalisti, entrati in possesso legittimamente di atti, brogliacci e file audio, di selezionare gli stralci, a loro parere meritevoli di diffusione. E se le intercettazioni sono irrinunciabili, non bisognerebbe limitarne l'uso o addirittura abolirle. Eppure Carlo Nordio ha sostenuto, con un certo seguito, che sarebbero pericolose per i dialoganti - un modo elegante per indicare gli indagati - ed addirittura nefaste per i terzi, estranei alle indagini. Propone, perciò, di eliminarle dal codice, ad eccezione delle intercettazioni preventive, quelle che servono solo ad acquisire notizie per prevenire i reati più gravi, associazione mafiosa e terrorismo in primis, e non certo per individuare chi sia il responsabile di quelli già commessi. Intercettazioni che - nessuno lo ha ricordato - consistono in ascolti a tappeto, facilmente prorogabili, disposti dal solo pm, su richiesta del ministro dell'Interno o di altri organi delegati, sulla base di meri elementi investigativi e senza alcun intervento del giudice. Le intercettazioni, se la proposta venisse accolta, verrebbero così utilizzate solo per prevenire - e non per accertare - tutti i reati, per i quali è oggi possibile disporle, così ampliando a dismisura uno strumento invasivo, che solo la gravità dei reati per cui è oggi previsto può giustificare. I risultati, infatti, non possono essere usati nel processo e vengono distrutti, chi ne rivela i contenuti commette reato, ma nessuno degli intercettati saprà mai di esserlo stato e le informazioni raccolte possono ugualmente essere utilizzate "a fini investigativi", senza alcuna garanzia o controllo. La Commissione Gratteri, un supporto tecnico, con funzioni consultive, a quel che si è inteso, suggerisce, poi, come ha ricordato qualche giorno fa Giovanni Bianconi sul Corriere, di introdurre un nuovo reato, la "pubblicazione arbitraria delle intercettazioni"; e di punire, con la multa da 2 mila a 10 mila euro - non proprio un'inezia - o con la reclusione da due a sei anni, chiunque diffonda le intercettazioni, se il loro contenuto è diffamatorio e risulti "manifestamente irrilevante ai fini di prova". La sanzione riguarderebbe certamente i giornalisti - per i quali, dunque, tornerebbe il carcere - che decidessero di pubblicare anche conversazioni non pertinenti alle indagini perché, parafrasando il Garante della privacy, secondo il quale non tutto ciò che è di interesse per il pubblico è anche di pubblico interesse, non tutto ciò che non interessa il pm è anche privo di pubblico interesse. Ma potrebbe applicarsi anche a giudici e magistrati che, sempre secondo le norme elaborate dalla Commissione, non dovrebbero inserire, nei loro provvedimenti, ad eccezione delle sentenze, il testo integrale delle intercettazioni, a meno che esse non siano rilevanti ai fini della prova. La violazione di questo criterio, non agevole da applicare, li esporrebbe a facili denunce dei loro indagati. Potrebbe accadere, ad esempio, al gip che diffondesse, trascrivendole in un'ordinanza di custodia cautelare, intercettazioni utili solo ad inquadrare il contesto criminoso, con la consapevolezza che, così facendo, esse diverrebbero subito pubbliche. Facile intuire la serenità con la quale i magistrati si troverebbero a redigere i loro atti, spesso forieri di conseguenze assai negative per i destinatari. Il governo non si è pronunciato su queste proposte e si confida che non sia il silenzio di chi, tacendo, acconsente; e non ha ancora reso note le norme, che finalmente scioglieranno il nodo. La verità, a noi sembra, è che nessuno possiede ricette miracolose e per disciplinare una materia così complessa, occorre ragionare con pacatezza, senza fretta e certo non sull'onda di polemiche, suscitate da proteste, spesso tutt'altro che disinteressate. Una sola cosa è certa, molti sono i diritti in gioco e tutti meritano di essere ugualmente garantiti. Firenze: domani si decide sui 115 internati dell'Opg a Solliccianino, vertice in Regione di Antonio Passanese Corriere Fiorentino, 7 aprile 2015 Per capire quale sorte attende i 115 internati dell'Ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo bisognerà attendere domani. Nella sede della giunta regionale è prevista una riunione riservata - tra Comune di Firenze, Regione, Dipartimento amministrazione penitenziaria e Asl - a cui parteciperanno anche Carmelo Cantone, provveditore regionale del ministero della giustizia e Antonietta Fiorillo, presidente del tribunale di sorveglianza. All'ordine del giorno il trasferimento di 22 pazienti dell'Opg nell'Istituto Mario Gozzini di Sollicciano, meglio conosciuto come "Solliccianino". "Ci opporremo fermamente a questa ipotesi, - denuncia il radicale Massimo Lenzi - gli internati hanno diritto a un percorso terapeutico e assistenziale. Li facciamo uscire da un ospedale - si chiede - per metterli in un carcere?". Lenzi ha annunciato di aver chiesto il commissariamento dell'Opg da parte. Sulla stessa lunghezza d'onda anche Psichiatria Democratica, associazione fondata da Franco Basaglia, che ha espresso un giudizio negativo "sull'incapacità della Regione Toscana nel gestire, politicamente, una così importante scadenza di legge". Intanto, un'altra radicale, Rita Bernardini, a giorni presenterà un'interrogazione parlamentare sull'argomento. Critico sull'opzione Gozzini anche Eros Cruccolini che, in giornata, dovrebbe incontrare l'assessore al welfare di Palazzo Vecchio Sara Funaro, mentre in settimana andrà a parlare con i detenuti dell'Istituto Mario Gozzini. Lecce: detenuti in celle inferiori ai tre mq, il Magistrato dispone due riduzioni di pena www.corrieresalentino.it, 7 aprile 2015 Due riduzioni di pena e un risarcimento economico per un periodo di detenzione in palese violazione con i diritti garantiti ai reclusi. Nei giorni scorsi i magistrati del Tribunale di Sorveglianza di Lecce, Ines Casciaro e Alessia Magliola, hanno parzialmente accolto il reclamo di Saverio Elia, 37enne di San Pietro Vernotico e di Giovanni Canoci, 46enne di Torchiarolo. I giudici hanno stabilito per Elia una riduzione di pena 45 giorni e a Canoci di 12 giorni oltre a un risarcimento del danno di 48 euro. Sulla scorta degli elementi istruttori Elia, per 510 giorni di detenzione nel carcere di Borgo San Nicola con due compagni di cella, disponeva di complessivi 2,86 metri quadrati. Per lo stesso motivo, per complessivi 121 giorni, è stato disposto uno sconto di pena ed un risarcimento danni in favore di Canoci detenuto sempre nel penitenziario leccese. I due reclami sono stati presentati dall'avvocato Vincenzo Rocco Vincenti. È stato così di fatto violato un principio sancito dall'articolo 3 della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo che stabilisce: "Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti degradanti o inumani". E la giurisprudenza della Convenzione Edu ha concluso per la violazione dell'articolo 3 proprio nell'ipotesi di restrizione in una cella nella quale il detenuto abbia a sua disposizione uno spazio inferiore ai 3 metri. Proprio come nel caso dei due detenuti finiti all'attenzione dei magistrati di Sorveglianza e che risolleva l'annosa emergenza dei diritti violati anche per il sovraffollamento nel carcere di Borgo "San Nicola". Napoli: detenuto in gravi condizioni, pochi posti letto e il Policlinico rifiuta il ricovero di Fabio Postiglione Roma, 7 aprile 2015 Ciro Mauriello, il boss di Secondigliano, prima appartenente al clan Di Lauro e poi agli scissionisti, è in pericolo di vita ma non si trova una struttura idonea a curargli la sua malattia: una gravissima forma di ipertensione. E allora il ping pong di responsabilità ha costretto i giudici ad inviare una nota anche alla Regione Campania affinché accerti per quale ragione non si riesca a trovare un posto letto al Secondo Policlinico, li dove era stato deciso che Mauriello fosse curato. Il 16 aprile prossimo la dodicesima sezione del Riesame di Napoli valuterà l'ennesima istanza dell'avvocato Maria Grazia Padula che chiederà la concessione dei domiciliari per il suo cliente, unico modo, ritiene, per evitare che la situazione possa drammaticamente peggiorare. Domiciliari per inadeguatezza delle cure tenuto conto che i giudici hanno disposto il ricovero ma il provvedimento non è stato mai eseguito, non si è mai di fatto ottemperato all'ordine disposto dai giudici. Sono stati sia i magistrati del Riesame che quelli di Corte d'Assise a stabilire che Mauriello andasse curato e su sollecitazione della difesa i magistrati hanno anche chiesto al pm di valutare eventuali responsabilità di natura penale di chi non ottempera a tale provvedimento, prima tra tutti il Dap. "Questa autorità giudiziaria chiede l'esecuzione coatta del provvedimento", scrivono i magistrati ma una nota del dirigente del Secondo Policlinico rimanda al mittente la decisione in quanto essendoci pochi posti letto non è possibile prendere in consegna un detenuto che vada piantonato. Questo perché ha bisogno di una struttura "protetta" e quindi deve stare da solo e in una sanità in crisi come quella campana, questo pare essere un "lusso" che non può essere concesso. A questa nota i giudici ne hanno inviato una alla Regione alla quale si chiede immediatamente di accertare se "se il rifiuto del ricovero sia il piantonamento del paziente, il che non è possibile presso struttura pubblica, o se il rifiuto si basi sull'impossibilità di applicare piani terapeutici adatti a Mauriello". Eppure sono sette mesi che la situazione va avanti con il rischio che la situazione possa improvvisamente precipitare. Mauriello è un personaggio di spessore della camorra dell'area Nord e deve scontare un residuo di pena per armi mentre e imputato in Corte d'Assise per il duplice omicidio Monlanino-Salierno, quello che nel 2004 diede vita alla faida di Scampia tra i Di Lauro e gli scissionisti che portò in dieci mesi a quasi ottanta morti tra i quali anche vittime innocenti. Genova: catturato in centro città il detenuto evaso il 29 marzo dal carcere di Asti Ansa, 7 aprile 2015 "È davvero una buona notizia sapere che il detenuto genovese che il 29 marzo scorso non era rientrato nel carcere di Asti dopo aver fruito di un permesso di 5 giorni, ed era quindi evaso, è stato catturato la mattina di Pasqua nel centro della città di Genova. L'operazione congiunta Polizia Penitenziaria del Reparto di Genova Marassi in collaborazione con la procura di Asti ed il Reparto di Polizia Penitenziaria astigiano è stata coronata dal successo e a loro va il nostro apprezzamento. L'evaso è stato dunque catturato ed ora ne pagherà le conseguenze in termino di pena da scontare". È il commento di Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo della categoria, alla cattura del detenuto evaso il 29 marzo scorso dal carcere di Asti. Capece sottolinea "l'importante attività posta in essere dai poliziotti penitenziari dei Reparti di Genova Marassi ed Asti, che da subito si sono messi sulle tracce del detenuto evaso, arrivando alla sua cattura. Segno tangibile di un Corpo di Polizia dello Stato, qual è la Polizia Penitenziaria, in prima linea nel contrasto della criminalità e della delinquenza". Mantova: il Vescovo Busti ai detenuti "la speranza è la nostra salvezza" di Martina Adami Gazzetta di Mantova, 7 aprile 2015 Una funzione ricca di sentimento nel carcere di via Poma. Tra lacrime e sorrisi. "Non crediate mai di essere soli nella vostra lotta, perché il Signore cammina al vostro fianco sempre". È stata una funzione ricca di sentimento quella tenuta tra le mura - e le sbarre - del carcere di via Poma. Come da tradizione, il vescovo Roberto Busti ha celebrato la messa di Pasqua tra i sorrisi, gli sguardi e le lacrime dei detenuti, uniti a volontari, guardie penitenziarie e operatori per celebrare la resurrezione di Gesù. Tra i banchi della piccola cappella si sono inseguiti per tutta mattina sorrisi complici, per combattere la solitudine che in queste giornate di festa si fa più pesante che mai. "Dobbiamo essere uniti, la speranza deve essere la vostra salvezza. Non crediate mai di essere soli nella vostra lotta, perché il Signore cammina al vostro fianco sempre", ha detto Busti, gli occhi fissi nei loro. Qualcuno di loro sorrideva convinto, qualcun altro sussurrava una preghiera tra le labbra, qualcuno aveva gli occhi lontani, oltre le mura del carcere, mentre altri ancora si guardavano in torno aggiustandosi la camicia indossata per l'occasione, come se la messa rappresentasse una parentesi da una serie di giornate che si susseguono tutte uguali, a voler fingere un ritorno alla normalità per qualche ora. C'era anche chi piangeva, con il viso coperto dai capelli e le mani giunte. A loro in particolare sono andate le parole del vescovo: "Dio ci ha perdonati per i nostri sbagli, e ora ci aiuta a perdonare noi stessi. Abbiamo confessato i nostri peccati e siamo pronti per la nostra rinascita, supportati dall'amore per la famiglia di Dio e la famiglia di sangue. Non smettete mai di amare, di farvi amare e di sperare. Riservate un pensiero alle vittime di violenza e fate che la vostra vita sia un nuovo battesimo. La Pasqua è la resurrezione, dove la vita vince la morte e l'amore batte l'odio, rendendoci più forti". Ha parlato anche di libertà, che come i detenuti sanno costa cara, e dell'importanza di rimanere fedeli ai legami con i cari, un vuoto insormontabile tra le mura del carcere. "Siamo qui per scontare la nostra pena - dicono i detenuti leggendo la lettere scritta da loro - Siamo abitanti di un microcosmo obbligati tra queste mura di silenzio, disperazione, solitudine e lotta. Affidarsi nell'altro è l'unica salvezza che abbiamo. Se abbiamo recato dolore con i nostri sbagli ora riflettiamo sull'amore per redimerci, e preghiamo perché il Signore che ci ha perdonati ci aiuti a farlo prima con noi stessi e poi verso gli altri". Solidarietà e amore predicati a gran voce dai detenuti e dal vescovo, quando tra canzoni e preghiere è sceso tra di loro a regalare abbracci e sorrisi, per combattere gli sguardi tristi e assenti. Una messa svolta come tante altre, che sarebbe potuta passare per una funzione in una qualunque Chiesa se non fosse stato per gli occhi lontani dei ragazzi, aldilà delle mura del carcere, uniti con il pensiero ai famigliari lontani. Libro: "Io non avevo l'avvocato", quando la giustizia è un tritacarne (e ha torto) Matteo Fanelli www.ilsussidiario.net, 7 aprile 2015 Un sistema viene costruito per l'uomo o l'uomo è un meccanismo del sistema? Come può una giustizia rivelarsi ingiusta? Sembrano questi gli interrogativi che emergono da "Io non avevo l'avvocato" (Mondadori, 2015), di Mario Rossetti. L'autore del libro è un ex-dirigente di Fastweb, coinvolto nell'inchiesta Fastweb-Telecom Italia Sparkle con l'accusa di associazione a delinquere, che lo ha portato prima in carcere, poi ai domiciliari e infine all'assoluzione completa. La storia di un uomo, protagonista di una vicenda incredibile, che ci accompagna nelle contraddizioni del nostro sistema-giustizia, di cui spesso parliamo ma che non conosciamo fino in fondo. Rossetti viene arrestato nel marzo 2010 e vengono sequestrati tutti i beni e bloccati conti correnti e carte di credito appartenenti a lui e alla sua famiglia. "Lo Stato, per difendere i suoi potenziali diritti futuri, si prende i tuoi beni oggi, anche se non provenienti dai reati contestati". Qui comincia, oltre al suo calvario, una serie di questioni brucianti: come si può pensare di mettere una famiglia sul lastrico per ragioni di "giustizia"? Viene il momento del carcere. "Non sono più una persona ma un numero. Un numero in una cella". Certamente il problema non è far diventare i penitenziari degli hotel a 5 stelle, ma dei luoghi maggiormente a misura d'uomo, in cui anche le relazioni interpersonali siano più umane. Rossetti individua nella possibilità di lavorare e di imparare un mestiere una soluzione che consentirebbe ai detenuti da una parte di impiegare in maniera utile il proprio tempo, e dall'altra di ottenere qualcosa da offrire al mercato del lavoro, una volta conclusa la pena, per reinserirsi nella società. Ma la burocrazia, anche dietro le sbarre, complica tutto al limite dell'insormontabile. E poi c'è il (mal)funzionamento della giustizia. Rossetti riscontra innanzitutto una scarsa competenza dimostrata da pm e finanzieri nel momento dell'interrogatorio. Non solo. "Nel nostro Paese - racconta Rossetti a proposito dei suoi arresti cautelari, in cui non sussistevano le motivazioni previste dalla legge - a fianco del codice penale scritto dal legislatore, esista un codice penale "materiale", che è quello che si applica nei nostri tribunali". Il punto non è abolire del tutto la carcerazione preventiva, ma ripensare il suo utilizzo. Rossetti sottolinea che diversi giudici svolgono bene il proprio lavoro e ribadisce la propria fiducia ultima nella giustizia, tuttavia l'atteggiamento generale, sia per le condizioni del carcere, sia per il comportamento di taluni magistrati, sembra essere spesso quello di una sentenza già scritta ancora prima di approfondire i fatti. In dubio, pro reo, dicevano i latini, ma Rossetti può smentirlo. Non ultimi i mass media. Viviamo in un paese in cui le condanne vengono emesse a mezzo stampa e, quel che è peggio, senza aspettare l'esito dei processi. "La stampa fa da cassa di risonanza a quello che arriva dagli uffici della procura anche perché i procuratori e i loro uffici sono una fonte continua di notizie" racconta l'autore. I mostri vengono sbattuti in prima pagina, si costruiscono titoli di giornali e aperture di tg, ma non viene dato lo stesso risalto mediatico all'assoluzione di Rossetti e degli altri dirigenti coinvolti nell'inchiesta. Così, sullo sfondo della vita sconvolta di un uomo che si vede privare ingiustamente della propria libertà, che si mette alla ricerca di un nuovo rapporto con se stesso, con la propria famiglia, che affronta il dolore straziante per la perdita di un figlio, ci sono le contraddizioni della giustizia e dell'informazione, quelle che noi vediamo per prime, ma che quando investono la vita di una persona ribaltano le proporzioni del problema, assumono le sembianze di una gogna anonima dove i meccanismi tendono inesorabilmente a prevaricare su quel che rimane di sé, che istintivamente si oppone all'ingiustizia ma che in ogni momento rischia di rompersi, di crollare. La vicenda di Rossetti è l'esatto rovescio di quanto ha detto papa Francesco in un importante discorso dell'ottobre 2014 sulle questioni del carcere e della giustizia, il primato del principio pro homine, cioè della dignità della persona umana sopra ogni cosa. Ma Rossetti ha detto no, e ha deciso coraggiosamente di raccontare la sua storia perché considera il suo un caso che può ancora ripetersi. C'è da esser certi, purtroppo, che le conferme non mancheranno. Stati Uniti: in California esecuzioni sospese da 10 anni, ma braccio della morte affollato di Cristina Bassi Il Giornale, 7 aprile 2015 Il paradosso dello Stato di Los Angeles, dove il boia è a riposo da un decennio ma le condanne capitali aumentano. E in Texas mancano i veleni per le iniezioni letali. In California il boia è a riposo e nel braccio della morte c'è il "tutto esaurito". È il paradosso della pena di morte ancora comminata ma non eseguita nello stato di Los Angeles. Da un decennio infatti i condannati a morte californiani vengono risparmiati, ma intanto nel penitenziario di San Quintino su un totale di 715 celle ne sono rimaste libere solo sette. La notizia pubblicata dal Los Angeles Times conferma l'allarme globale lanciato da Amnesty International nel suo rapporto 2014 sulla pena capitale: esecuzioni in calo ma condanne in aumento. Il governatore della California Jerry Brown prevede una media di venti nuovi arrivi ogni anno e chiede un finanziamento di emergenza da 3,2 milioni di dollari per costruire 97 nuove celle. L'intenzione è di utilizzare gli spazi guadagnati grazie alla riforma delle pene che ha derubricato a semplici contravvenzioni la maggior parte di quelle per i reati di droga non violenti. L'ultima esecuzione dello Stato risale al 2006, intanto la popolazione di San Quintino è invecchiata e 49 detenuti sono morti di malattia, overdose o suicidio. Le notizie californiane si aggiungono a quelle che arrivano dal Texas, dove cominciano a scarseggiare i veleni per le iniezioni letali. Lo Stato ha a disposizione la dose per una sola esecuzione, in programma per il 9 aprile. A rendere difficile il compito del boia c'è anche il recente appello dell'Associazione americana farmacisti ai propri 62mila iscritti a non collaborare con le amministrazioni che ancora praticano la pena capitale e quindi a non fornire sostanze che servano a mettere a morte esseri umani. E in occasione della Pasqua un gruppo di 400 leader cattolici ed evangelici ha scritto una lettera aperta per chiedere alla classe politica degli stati Usa che ancora applicano la pena di morte di "abbandonare una pratica che diminuisce la nostra umanità e contribuisce a una cultura di violenza e vendetta senza conciliazione". Il documento definisce la pena capitale "il frutto marcio di una cultura seminata con i semi di povertà, disuguaglianza, razzismo e indifferenza alla vita" e sottolinea "la vergognosa realtà che gli Stati Uniti sono una delle poche nazioni sviluppate del mondo che ancora mettono a morte i propri cittadini". Stati Uniti: in carcere da 34 anni, Mumia Abu Jamal ora è in pericolo di vita di Geraldina Colotti Il Manifesto, 7 aprile 2015 Coma diabetico per lo storico leader delle Pantere nere, in carcere da 34 anni. Il giornalista afro-americano Mumia Abu Jamal, storico leader delle Black Panthers in carcere negli Stati uniti, è in pericolo di vita. A fine marzo ha perso conoscenza a seguito di un coma diabetico ed è stato trasferito d'urgenza all'Unità di terapia intensiva del Centro medico di Schukylkill. Alla dottoressa Pam Africa, registrata come il suo contatto sanitario personale d'urgenza, non è stato consentito di visitarlo. Solo dopo la pressione di centinaia di chiamate e di proteste che si sono susseguite nel corso di 20 ore, le autorità Usa hanno consentito alla moglie di Mumia, Wadiya, e al fratello Keith Cook, in attesa fuori dall'ospedale, di visitare il prigioniero per mezz'ora. Il Dipartimento correttivo della Pennsylvania ha tirato fuori una nuova regola arbitraria, in base alla quale anche i famigliari più stretti possono rendergli visita sono una volta alla settimana. E così Bill Cook, il fratello minore e Jamal Hart, suo figlio minore hanno potuto vedere Mumia solo mercoledì 1 aprile. E hanno riferito ai giornalisti le loro preoccupazione per la salute del congiunto il quale, nonostante le gravi condizioni di salute, è rimasto incatenato al letto. Da allora, neanche gli avvocati hanno potuto parlare con il loro assistito e constatarne le condizioni. Nel fine settimana, si sono tenute mobilitazioni sotto l'ospedale e davanti al Dipartimento correttivo. Gli attivisti hanno diffuso il numero di telefono del responsabile della prigione di Mahanoy, John Kerestes (001-570-773-2158), non tanto nella speranza di ottenere risposte, ma per testimoniare la presenza lasciando messaggi registrati. Ora, Mumia è stato trasferito al centro clinico della prigione di Mahanoy a Franckville (Pennsylvania), la stessa che non gli ha mai diagnosticato il diabete, mettendolo a rischio di vita. Il comitato di sostegno a Mumia Abu Jamal (Icffmaj), ha denunciato che l'omissione potrebbe essere stata volontaria: che le autorità abbiamo taciuto di proposito i dati clinici sulla salute del noto prigioniero politico per comminargli in altro modo quella pena di morte che era stata commutata in ergastolo nel 2008. D'altro canto, anche le cure per il grave shock ipoglicemico di cui ha sofferto, gli sono state somministrate in modo tardivo e insufficiente. La vita di Mumia è in pericolo, dicono allora avvocati e famigliari e invitano a mobilitarsi contro le condizioni di detenzione del giornalista, in carcere da 34 anni. Anni scontati in regime di isolamento e a seguito di una condanna ingiusta: l'ex leader delle Pantere nere si è infatti sempre dichiarato innocente e numerosi intellettuali, religiosi e politici di tutto il mondo hanno sostenuto le sue richieste di revisione del processo, viziato - secondo I suoi legali - da evidenti contraddizioni e violazioni dei diritti della difesa. Mumia è stato condannato a morte nel luglio del 1982 con l'accusa di aver ucciso un poliziotto, Daniel Faulkner. Ha sempre negato. Nel giugno del 1999, Arnold Beverly, un sicario, ha anche confessato agli avvocati di Mumia di essere l'autore dell'omicidio del poliziotto e ha parlato di collusioni tra mafia e polizia. La testimonianza non è però stata tenuta in considerazione. Mumia ha continuato il suo calvario di carcere, e ricorsi. Ha pagato soprattutto il suo impegno politico, iniziato precocemente. Nel 1968, aveva 14 anni quando venne arrestato e picchiato, a Filadelfia, durante le proteste contro un meeting del Partito democratico e del candidato alle presidenziali, George Wallace, ex governatore dell'Alabama e sostenitore della segregazione razziale. In seguito, finì nelle schedature dell'Fbi per aver voluto ribattezzare il suo liceo con il nome di Malcom X e per la sua appartenenza al partito delle Pantere nere. Per l'Fbi era persona "da sorvegliare e rinchiudere in caso di allerta nazionale", bersaglio di un'operazione di controspionaggio denominata Cointelpro. L'allerta nei suoi confronti s'intensificò negli anni seguenti quando, diventato giornalista, continuò ad essere in prima fila nelle denunce contro il razzismo, che gli valsero il licenziamento da una stazione radio in cui lavorava. Costretto a fare il taxista per mantenersi, venne gravemente ferito nel corso di una sparatoria nel quartiere sud di Filadelfia, dove aveva accompagnato un cliente, il 9 dicembre del 1981. In quell'occasione, venne ucciso il poliziotto Faulkner e Mumia fu accusato del suo omicidio, di cui si è sempre dichiarato innocente. Un'innocenza che ha gridato per trent'anni anche un altro afroamericano, Anthony Hinton, accusato di aver ucciso due uomini durante una rapina, in Inghilterra. Nel 1985, l'uomo è stato estradato negli Usa e messo nel braccio della morte in Alabama. Solo nel 2014 le autorità hanno riaperto il caso e l'hanno ritenuto non colpevole. Giappone: a giudizio italiano detenuto per molestie sessuali Ansa, 7 aprile 2015 Terza misura cautelare per episodi accaduti su treno a Wakayama. Si complica con un nuovo arresto e il rinvio a giudizio la posizione di Vincenzo D., l'uomo di 40 anni detenuto dagli inizi di marzo su disposizione della polizia di Wakayama, prefettura del Giappone centrale, a causa degli addebiti sulle molestie sessuali. Le indagini, infatti, hanno fatto emergere episodi più gravi del semplice "Italian Kiss", come riportato inizialmente dai media nipponici e diventato un tormentone sui social network. Tanto che gli agenti della stazione di polizia della città di Gobo hanno disposto il terzo arresto nei suoi confronti per atti osceni, molestie e palpeggiamenti (questi ultimi negati dal sospettato) sulla linea ferroviaria locale della JR Kisei. Durante la raccolta delle testimonianze è emersa un'altra serie di incidenti simili a Gobo, città di poco più di 25.000 abitanti, sfociata con l'arresto del 15 marzo dopo il primo del 4 marzo per il tentativo di bacio della fronte e della mano di una donna di 21 anni, seduta in un vagone della stessa linea tra le stazioni di Iwashiro e Minabe. In base a quanto riferito all'Ansa dalla polizia locale, che "continua le indagini per far emergere altri possibili episodi", l'uomo è stato detenuto in un primo periodo (dal 4 al 15 marzo), poi portato fino al 5 aprile ed esteso ancora una volta. La data dell'udienza non è stata fissata, mentre l'uomo - si apprende - in Italia sarebbe stato sottoposto in passato a "periodi di cura". Indonesia: il tribunale respinge l'appello di due condannati a morte australiani La Presse, 7 aprile 2015 Un tribunale indonesiano ha respinto il ricorso in appello di due cittadini australiani condannati a morte per traffico di droga. Era l'ultima possibilità che avevano di evitare la fucilazione. Andrew Chan e Myuran Sukumaran avevano presentato appello contro il no alla richiesta di clemenza pronunciato dal presidente indonesiano Joko Widodo, ha riferito il portale Rappler. Gli australiani sono tra 11 detenuti condannati a morte per narcotraffico, tra cui cittadini di Francia, Brasile, Filippine, Nigeria e Ghana. La Corte amministrativa di Jakarta ha respinto anche la richiesta dei legali di Myuran Sukumaran. La condanna a morte per traffico di droga potrebbe essere eseguita nelle prossime settimane anche per altri stranieri da anni nelle carceri del Paese per lo stesso reato. Nei mesi scorsi, il presidente indonesiano Joko Widodo aveva respinto le richieste di grazia per i due detenuti. Proprio la decisione del presidente è stata citata dal tribunale come il motivo per cui il ricorso non può essere accolto. Chan e Sukumaran sono in lista per l'esecuzione assieme ad altri stranieri, provenienti da Francai, Brasile, Nigeria, Ghana e Filippine. Altri cinque detenuti stranieri, tra cui un brasiliano e un olandese, sono stati giustiziati a gennaio. La linea dura scelta da Widodo sulle esecuzioni degli stranieri ha reso tesi i rapporti soprattutto con Brasile, Olanda e Australia. Secondo il presidente, il traffico di droga ha un costo sociale enorme in Indonesia, data l'alta dipendenza da stupefacenti rilevata dalle statistiche nazionali.