Giustizia: il processo penale è malato, ha regole assurde da rivedere subito di Giancarlo De Cataldo (Magistrato e scrittore) L'Espresso, 6 aprile 2015 Un colpevole con complici non individuati. Così le assoluzioni per il delitto di Perugia mettono a nudo l'assurdità delle nostre regole. Da rivedere subito Per l'omicidio di Meredith Kercher c'è un solo colpevole. Si chiama Rudy Guede e sta scontando la sua pena. Nella sentenza che lo condanna a 16 anni di reclusione è scritto che il delitto è stato commesso in concorso con altri individui. Costoro non sono, e non potranno mai essere, Amanda Knox e Raffaele Sollecito, assolti definitivamente qualche giorno fa dalla Cassazione. Conclusione che ha seminato sconcerto nell'opinione pubblica, come sempre più spesso accade quando ci si addentra nei meandri del sistema processuale italiano. Per la storia, Raffaele e Amanda sono due bei ragazzi dal volto pulito finalmente liberati da un'assurda persecuzione. Agli occhi di qualche commentatore la condanna di un giovane nero, e per di più "difficile", ha avuto il sapore di una beffarda palingesi di quella che un tempo si chiamava "giustizia di classe". Si rinnovano interrogativi ricorrenti: com'è possibile che gli stessi imputati siano due volte assolti e due condannati? Era necessario farlo, questo processo, visto l'esito? Torna a risuonare il mantra più diffuso nel contemporaneo: chi paga? Qualche precisazione, anche se impopolare, è doverosa, da parte del tecnico. Qui nessuno era stato colto in flagrante con la pistola fumante. Il processo era indiziario. Vale a dire che mancava la prova certa, ma c'erano argomenti da collegare insieme per arrivare alla ricostruzione del fatto. Elementi che la legge vuole "gravi, univoci e concordanti", chiedendo al giudice di esaminarli e valutarli. In questa attività, tipicamente interpretativa, sono possibili esiti difformi. Prendiamo la prova scientifica, snodo ormai cruciale di ogni vicenda criminale. Inizialmente, consulenti e periti del pm e del giudice per le indagini preliminari non erano affatto certi che il delitto fosse stato commesso da più persone, ritenendo possibile l'esistenza di un solo assassino. Altri consulenti - e giudici - propenderanno per l'ipotesi del delitto collettivo, ma la prima considerazione resta agli atti. Ed è, come tutto, materia d'interpretazione. Materia scientifica d'interpretazione. Tocca rassegnarsi: è la scienza in sé a costituire materia opinabile, e la dialettica processuale sembra ideata da una mente perversa che gode ad amplificare i contrasti, lungi dal sanarli. Gli esperti possono comparire in un processo come consulenti di parte o del giudice. Nel primo caso, sono ontologicamente chiamati a portare acqua al mulino di una delle tesi contrapposte. In un processo accusatorio, dunque di parti che godono di eguali facoltà e diritti, non è ammissibile accordare - in ipotesi - maggior fiducia al poliziotto o al carabiniere in quanto "rappresentanti dello Stato", ma ogni argomento scientifico, da chiunque sia portato, deve essere attentamente vagliato, sia esso accolto o confutato. Nel secondo caso, i periti rispondono direttamente al giudice. E questo, se offre una garanzia aggiuntiva, liberando il campo da ogni sospetto (per quanto tendenzioso) sulla qualità dell'analisi offerta, dall'altro non mette al riparo da altri pericoli. O, per meglio dire, dal multiforme atteggiarsi dell'esperienza umana, anche nel campo del sapere scientifico. Il dilemma del dna Gli esperti sono spesso di provenienza accademica. Si dividono per l'adesione all'una o all'altra metodologia d'indagine, per il riconoscersi o meno in una determinata scuola di pensiero. Nel caso di Perugia, gran parte del contrasto sul Dna, momento decisivo della vicenda, dipendeva, in ultima analisi, dal confronto-scontro fra genetisti su alcuni temi specifici che da anni alimentano il dibattito della comunità scientifica. Quando il Dna è poco, lo si definisce "Low copy number", e per sottoporlo all'analisi (la "corsa elettroforetica"), occorre amplificarne il volume mediante il ricorso a reagenti chimici. Ma l'amplificazione può indurre risultati artefatti: la comparsa di dati inesistenti, la scomparsa di dati esistenti. Sino a che punto il materiale genetico può essere "stressato" senza che ciò comporti risultati del tutto inattendibili? E un risultato dubbio, come va interpretato? Come "non c'è prova che il Dna sia di Tizio", secondo una certa opinione, molto autorevole, o come "non si può escludere che quel Dna sia di Tizio, pur non potendolo dire provato", secondo un'altra opinione, altrettanto autorevole? Quali procedure adottare per garantire che nelle fasi di prelevamento, custodia, esame dei reperti non si verifichino contaminazioni? Un risultato ottenuto in violazione dei protocolli è da scartare, o è comunque valido, perché i protocolli non sono legge, e l'esperienza del perito deve prevalere su astratte regole ideate per qualche caso-limite? I consulenti del primo processo svolto a Perugia sostengono di aver trovato Dna misto di Amanda e della vittima su un coltello sequestrato, e Dna di Sollecito sul reggiseno della vittima. I periti nominati dalla Corte, nel processo di appello, censurano l'errata conservazione dei reperti, giudicano inattendibile il materiale genetico trovato sul reggiseno, escludono il Dna della vittima dal coltello. Primo annullamento della Cassazione. Nuovo appello, nuovi periti. I quali non possono ripetere l'analisi sulle tracce già esaminate del coltello per carenza di materiali genetici, ma valutano un'altra traccia, ignorata perché ritenuta troppo esigua dai precedenti periti, e l'attribuiscono alla sola Amanda. I giudici degradano il Dna misto Amanda/Meredith a indizio (prima era una prova piena), ma nella loro valutazione complessiva il Dna della cui conservazione si dubitava è comunque valido. L'ultima Cassazione - vedremo le motivazioni quando saranno disponibili - evidentemente non ha condiviso il ragionamento. La prova scientifica, insomma, lungi dal fornire certezze, rischia di produrre nebbia ancora più fitta. Accade in continuazione: non a caso negli Stati Uniti si stanno studiano protocolli imperativi, nel senso dell'adozione di linee-guida da rendere obbligatorie per l'uso della scienza nel processo. Dovremmo fare qualcosa di simile anche noi. E farlo presto. E che dire del movente? Indicato in un primo momento nella violenza sessuale, viene ricondotto, dall'ultima sentenza di condanna (quella annullata per sempre dalla Cassazione) a una lite progressivamente degenerata. Inutile dire che il tecnico sa bene come l'individuazione del movente non sia necessaria, quando c'è la prova della colpevolezza: all'uomo della strada questa constatazione appare un sofisma del quale diffidare. Su un punto, però, senso comune e tecnica concordano. È irrazionale che tre individui coinvolti nella medesima vicenda siano processati in due diverse sedi e con regole processuali diverse. È qui, in questa diversità, che si annida un baco profondo: finché non vi si metterà mano, l'irrazionalità del sistema risulterà ineliminabile. Rudy Guede ha scelto il rito abbreviato, e in cambio ha ottenuto uno sconto sulla pena. Nel processo contro di lui sono stati utilizzati materiali investigativi che non potevano essere spesi contro Knox e Sollecito: perché il processo abbreviato si fa sulla base delle indagini del pm, mentre nel processo ordinario la prova si forma in dibattimento. All'imputato, in sostanza, si offre un patto: tu accetti di essere giudicato "allo stato degli atti", e in caso di condanna prendi meno anni. Nessuno, tanto meno il pm, può opporsi. Per giunta, finché il processo abbreviato dura, chi vi è assoggettato ha facoltà di non rispondere in quello contro gli eventuali coimputati. Sono le nostre regole. Sul piano astratto hanno una sostanziale nobiltà. Su quello concreto, contribuiscono a rendere la giustizia un affare tendenzialmente gnostico. Siamo stati molto criticati, per la vicenda di Perugia, special mente dagli americani: una loro cittadina accusava di brutalità le nostre forze dell'ordine, la sentenza contro Guede appariva incomprensibile, i membri della giuria popolare non erano sequestrati durante il dibattimento - come avviene negli States - ma vivevano come liberi cittadini, godendo persino del diritto di leggere il giornale o guardare la Tv. Sistemi diversissimi, chiaro. Da quelle parti, quando un imputato vuole uno sconto di pena, si mette d'accordo con il pm e si impegna, con un contratto formale, ad accusare i complici. Da quelle parti, l'imputato o parla, sotto giuramento, o tace, ma una volta che abbia parlato, le sue dichiarazioni sono eterne e incancellabili. Da noi l'imputato è il signore del processo: decide se e quando parlare, ritrattare, mentire. Senza pagare dazio. Non c'è da entusiasmarsi per la giustizia contrattualistica all'americana, ma il nostro processo, così com'è, è una sorta di surreale macchina celibe, un modello indecifrabile. È accaduto, insomma, in questo caso, quanto si verifica sovente nei processi indiziari: alcuni giudici li hanno ritenuti, questi indizi, sufficienti a condannare, altri sono stati di diverso avviso. Niente che si discosti dalla fisiologia del sistema. Non è una storia da Csi Esistono valide alternative? In un regime democratico no. In passato si usava la tortura, ma è lecito dubitare che persino il più scatenato colpevolista la rimpianga. Del resto, più gradi di giudizio sono previsti proprio per evitare le conseguenze disastrose a cui porterebbe una decisione errata, o controversa, se ci si attenesse solo ad essa, senza possibilità di riesame. Ma si poteva evitare un giudizio così difficile e scivoloso, il cui esito è letto da molti come una sconfitta per la giustizia? Premesso che non si può pensare di processare soltanto chi confessi immediatamente (di solito, l'accusato si difende, è così che funziona), nel nostro sistema il pm ha l'obbligo di procedere e non può "scegliere" chi processare e per quali reati. Insegue un'ipotesi accusatoria e spetta poi ai giudici vagliarla. Ogni processo è una partita aperta che ruota intorno a un interrogativo di fondo: gli elementi offerti dall'accusa sono o no sufficienti alla condanna? Anche se si introducesse la discrezionalità dell'azione penale, i termini della questione non cambierebbero. Ci sarebbero sempre un'accusa e una difesa, e possibili esiti contraddittori del giudizio, perché quando il giudice condivide le prospettazioni dell'accusa, condanna, quando le confuta, assolve. Ma, si dice, oggi una famiglia colpita a morte non ha avuto giustizia. Eppure, per il delitto c'è un sicuro colpevole. Gli altri devono necessariamente essere i due imputati? Anche se nei loro confronti le prove non sono sufficienti? La vicenda si è trascinata per otto lunghi anni. Il nostro sistema processuale presenta indubbie falle, alcune delle quali sono emerse proprio in occasione di questo caso. Ma l'accertamento della verità è un percorso accidentato, dialettico, difficile, e in qualche caso impossibile. Sui tempi si potrà e si dovrà lavorare, ma dovremo avere tutti l'onestà intellettuale di spiegare all'uomo della strada che un omicidio vero non accetterà mai di farsi comprimere nei cinquanta minuti di un format tipo Csi. Giustizia: il dramma dei suicidi in carcere, tre uomini si sono tolti la vita in pochi giorni di Elisabetta Longo Tempi, 6 aprile 2015 Nei nostri penitenziari la situazione dei detenuti continua ad essere insostenibile. Ogni giorno la polizia penitenziaria sventa tentativi analoghi. Il 2 aprile si è suicidato un detenuto a Opera (Mi). L'uomo aveva 50 anni e stava scontando una pena per maltrattamenti, che si sarebbe esaurita nel 2028. La Polizia penitenziaria è intervenuta senza successo, come spiega al Corriere della Sera Donato Capece, segretario generale del Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria): "Il suicidio costituisce solo un aspetto di quella più ampia e complessa crisi di identità che il carcere determina, alterando i rapporti e le relazioni, disgregando le prospettive esistenziali, affievolendo progetti e speranze. La cosa peggiore è che accade a pochissimi giorni di distanza dal suicidio di un altro uomo, che scontava la sua pena nel carcere di Sollicciano a Firenze". Quest'ultimo aveva 45 anni e tre anni di reclusione da ultimare. Si è impiccato il 28 marzo, approfittando del cambio di guardia. Nello stesso giorno si è tolto la vita anche un 42enne nel carcere di Rebibbia, dopo che i magistrati di Genova avevano rigettato la sua richiesta di ottenere i domiciliari. L'uomo ha lasciato una lettera, indirizzata ai magistrati. Come segnala Ristretti Orizzonti, dall'inizio del 2015 sono 13 i casi di suicidi dietro le sbarre. L'anno peggiore è stato il 2009, nel quale si sono tolti la vita 79 persone. "Nelle carceri italiane i detenuti si tolgono la vita con una frequenza 19 volte maggiore rispetto alle persone libere e, spesso, lo fanno negli istituti dove le condizioni di vita sono peggiori, quindi in strutture particolarmente fatiscenti, con poche attività trattamentali, con una scarsa presenza del volontariato". Oltre a questi numeri, ci sono anche quelli dei tentati suicidi. Capece ha detto che "la via più netta e radicale per eliminare tutti questi disagi sarebbe quella di un ripensamento complessivo della funzione della pena e, al suo interno, del ruolo del carcere. In un anno la popolazione detenuta in Italia è calata di poche migliaia di unità: il 28 febbraio scorso erano presenti nelle celle 53.982 detenuti, che erano l'anno prima 60.828. La situazione nelle carceri italiane resta ad alta tensione: nel solo 2014 sono stati 933 i tentati suicidi di detenuti in carcere sventati dai Baschi Azzurri della Polizia Penitenziaria. Ma ogni giorno - conclude Capece, i poliziotti penitenziari nella prima linea delle sezioni detentive hanno a che fare, in media, con almeno 18 atti di autolesionismo da parte dei detenuti, 3 tentati suicidi sventati dalla Polizia Penitenziaria, 10 colluttazioni e 3 ferimenti". Giustizia: stranieri il 21% dei carcerati, ma ergastolani e omicidi sono quasi tutti italiani di Gianni Balduzzi www.termometropolitico.it, 6 aprile 2015 È tanto il clamore sui 170mila stranieri arrivati nel 2014 tramite gli sbarchi in Sicilia, un numero molto maggiore di quelli degli anni precedenti, la principale preoccupazione è sempre stata quella legata alla criminalità che gli stranieri porterebbero. Per ora del 2014 si sa quello che il ministro dell'interno Alfano aveva dichiarato, ovvero di un calo dei reati del 7%, dato che già contraddirebbe il pregiudizio che lega un aumento degli stranieri all'aumento dei reati. Vediamo però più in profondità la questione degli stranieri reclusi, quelli che affollano le nostre carceri. Da dove vengono, quanti sono e che reati hanno commesso? Il Portale Integrazione Migranti ha dato per la fine del 2014 i seguenti numeri: 1.737.000 i detenuti in Europa, di cui il 21% stranieri (con picchi del 74,2% in Svizzera, del 46,75% in Austria e del 42,3% in Belgio); 17.462 gli stranieri detenuti in Italia, ovvero il 32,56% dei detenuti totali. Vediamo subito che la proporzione di stranieri tra i carcerati italiani è più alta della media europea. Da un lato il fenomeno immigrazione è molto più recente nel nostro Paese e non si è ancora realizzata una integrazione paragonabile a quella francese, inglese e tedesca, e ancora per molto dovremo veder tali squilibri, considerando anche però che la percentuale di detenuti sulla popolazione nel complesso è sotto la media in Italia. Stranieri: quali le nazionalità più presenti tra i detenuti? L'Osservatorio Antigone, che si occupa dei problemi delle carceri ha stilato delle statistiche molto interessanti, innanzitutto sule comunità di stranieri più presenti nelle carceri, in termini di detenuti per abitante. Vediamo che se in valore assoluto sono più i rumeni degli albanesi tra i detenuti, il tasso di detenzione è maggiore tra gli albanesi che sono meno presenti tra la popolazione. Il tasso di detenzione dei filippini è addirittura inferiore a quello degli italiani, che è 62. Le differenze tra comunità di stranieri sono enormi, e certamente dipendono dalla composizione di genere, dal livello di integrazione, dal tipo di lavoro che gli stranieri in questione trovano o meno. È evidente che le comunità con più donne, come quella filippina, o cinese o ucraina avranno una tendenza a delinquere enormemente inferiore, soprattutto se la principale occupazione è in ambiti che favoriscono la fiducia reciproca con gli italiani, come il lavoro domestico. È anche una questione di età, i detenuti stranieri sono addirittura maggioranza assoluta sotto i 29 anni! È chiaro come tra i giovani anche gli stranieri siano più di quel 7% medio circa della popolazione totale, ma naturalmente è chiaro che conta anche il fatto che gli stranieri giovani sono soprattutto uomini, e che i reati di cui si macchiano sono in massima parte (almeno in valore assoluto) quelli legati alla droga e alla piccola delinquenza, tipicamente giovanili. Agli stranieri quasi il monopolio dello sfruttamento della prostituzione. Se consideriamo che appunto gli stranieri tendono a essere più presenti tra quelle categorie più propense alla delinquenza, ovvero gli uomini e i giovani, dobbiamo prendere atto addirittura di una minore propensione degli immigrati a compiere reati gravi rispetto agli italiani. E tuttavia verso gli stranieri vi sono minori misure alternative al carcere. La difficoltà di trovare un lavoro alternativo, di indicare un domicilio, ma anche la minore dimestichezza con le possibilità che la legge offre da parte degli stranieri, in particolare nordafricani e dell'Est, creano questo effetto paradossale: compiono reati meno gravi ma possono godere meno delle misure alternative. Sarà basilare osservare quello che succederà nei prossimi anni, quando per esempio saranno meno gli anni residui di detenzione rimasti per molti stranieri in carcere, ma ancora più importante sarà monitorare il grado di integrazione degli stranieri stessi e come questo potrà diminuire la loro tendenza a delinquere. Giustizia: Pannella (Radicali) a Rebibbia e Regina Coeli "accelerare i tempi dei processi" Ansa, 6 aprile 2015 Marco Pannella ha visitato ieri il carcere di Rebibbia e oggi, insieme ad una delegazione radicale, che comprende anche Rita Bernardini, si recherà a Regina Coeli. Intanto, interviene su Radio radicale in merito alle condizioni delle carceri. "Voglio cogliere l'occasione per ribadire ai nostri ascoltatori e ai nostri interlocutori, a cominciare dalle massime autorità della Repubblica, che noi mettiamo al centro della nostra iniziativa strategica l'urgenza di lottare per aiutare lo stato italiano, e quindi in primo luogo i suoi massimi esponenti, ad uscire dalla condizione tecnica indiscutibile e sempre più aggravata delle condizioni criminali. Da qui il nuovo appello al Parlamento di dare corso alla richiesta del Presidente emerito Giorgio Napolitano che ha chiesto - dice Pannella - nel suo messaggio alle Camere la di compiere i gesti per non aggravare i tempi dei nostri processi. Devo dire che anche l'attuale Presidente della Repubblica, seppure in modo più sfumato ma anche molto chiaro - aggiunge il leader radicale - ha ricordato l'urgenza di operare nella direzione indicata dal Presidente Napolitano, con l'urgenza di accelerare i tempi della giustizia. Giustizia: Bernardini (Radicali); detenuti in aumento, dati preoccupanti sovraffollamento La Presse, 6 aprile 2015 "Secondo i dati diffusi dal Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria al 31 marzo 2015 i detenuti presenti nei 200 istituti penitenziari italiani sono 54.122 e tornano a risalire dopo gli effetti dovuti ai vari provvedimenti svuota-carceri e, soprattutto, alla sentenza della Consulta che ha dichiarato incostituzionale la legge Fini-Giovanardi che equiparava le sostanze stupefacenti leggere (hashish e marijuana) a quelle pesanti (eroina, cocaina)". Lo ricorda Rita Bernardini, Segretaria di Radicali italiani, giunta oggi al 32° giorno di sciopero della fame. "I detenuti in attesa di giudizio - spiega ancora Bernardini - sono 19.799 pari al 27,6% (erano il 43% il 30 novembre 2010) mentre coloro che scontano una pena carceraria definitiva sono il 63,4%. Su questo fronte si registra dunque un deciso miglioramento visto che fino a poco tempo fa eravamo ben oltre il 40%. Preoccupa la grande quantità di detenuti in attesa di primo giustizio, che sono quasi diecimila: 9.504 per l'esattezza. I detenuti stranieri sono 17.617 pari al 32,5% del totale (il 30 novembre 2010 erano il 37%)". "Quanto al sovraffollamento, ci sono ben 58 carceri con un sovraffollamento superiore al 130% (tenendo conto delle sezioni chiuse). Si va dal 200% della Casa Circondariale di Udine (164 detenuti in 82 posti effettivi), al 199% del carcere di Busto Arsizio (303 detenuti in 145 posti effettivi), al 196% del carcere di Latina (149 detenuti in 76 posti). Quanto ai grandi istituti penitenziari, a Milano-San Vittore si registra un sovraffollamento del 182% (963 detenuti in 530 posti effettivi), a Roma-Regina Coeli del 178%, a Verona Montorio del 176% (608 detenuti in 345 posti), a Padova-2 Palazzi del 169% (738 detenuti in 436 posti), a Lecce-Nuovo complesso del 163,5% (1.017 detenuti in 622 posti), a Napoli Secondigliano del 153% (1.353 detenuti in 886 posti), a Bologna-Dozza del 150% (734 detenuti in 489 posti), a Milano-Opera del 146% (1.303 detenuti in 893 posti)", aggiunge l'esponente Radicale. "Quel che preoccupa, e quindi come radicali ci occupa di più - sottolinea Bernardini - sono i tanti detenuti che si trovano ancora in carcere perché non hanno potuto rivedere al ribasso la pena che è stata loro comminata in base ai vecchi minimi e massimi edittali della legge Fini/Giovanardi che andavano dai 6 ai 20 anni senza fare distinzione fra droghe pesanti e droghe leggere mentre, dopo la dichiarazione di incostituzionalità per i derivati della cannabis, si è passati a pene edittali che vanno dai 2 ai 6 anni. Ma c'è di più. Nelle carceri i detenuti che lavorano sono solo il 20% e fanno lavori saltuari e per niente spendibili una volta finita la prigionia; in molti sono afflitti da gravi malattie e non sono curati come è loro diritto, tantissimi sono illegalmente ristretti in istituti lontano dalle famiglie e dagli affetti. Gli educatori sono insufficienti e non riescono a chiudere per tempo le relazioni di sintesi per l'accesso alle misure alternative, per non parlare della carenza di psicologi che si riflette drammaticamente su una popolazione detenuta che per il 30% è formata da tossicodipendenti e per il 20% da casi di sofferenza psichiatrica". "Alla base del mio sciopero della fame per l'amnistia e l'indulto, come aveva chiesto alle camere con il suo messaggio costituzionale il Presidente Emerito Napolitano, c'è innanzi tutto, oltre alla condizione di illegalità delle carceri, la débâcle della giustizia irragionevolmente e incostituzionalmente lunga. È stato il magistrato Mario Barbuto a dirci pochi giorni fa che i procedimenti penali pendenti sono ben 4.600.000: una montagna mostruosa che blocca l'amministrazione della giustizia. Infine come mai nessun grande mezzo di informazione (inclusi i giornali) ha detto che la Direzione Nazionale Antimafia, nella sua recente relazione annuale, si è espressa categoricamente per la depenalizzazione dei derivati della cannabis? E ancora, perché nessun mass-media ha detto una parola sul fatto che il Governo ha fatto decadere, non esercitando la delega, il provvedimento che prevedeva la detenzione domiciliare come pena principale che avrebbe potuto essere comminata per reati puniti nel massimo edittale fino a 5 anni? Timori elettorali filo-leghisti?", conclude Bernardini. Giustizia: "no alla videocamera in bagno" e il boss Leoluca Bagarella cambia carcere di Pietro Melati La Repubblica, 6 aprile 2015 Ora che l'Italia somiglia un po' di più all'abituale stile di vita di un boss di Cosa Nostra, con le corruzioni diffuse, le mafie liquide, le cosche militarmente insediate da Roma in su, lui, l'antico maestro, l'ultimo corleonese (Riina e Provenzano hanno ormai imboccato il viale del tramonto) era costretto in una celletta illuminata e videosorvegliata 24 ore su 24, nell'area riservata del carcere di Nuoro, con il bagno alla turco al centro del locale. Regime di 41 bis, carcere duro, e nessun diritto all'intimità, hanno denunciato i legali. Il giudice di sorveglianza ha dato ragione a Leoluca Bagarella. La telecamera è stata subito oscurata e a breve il detenuto verrà trasferito "in struttura idonea". Era appena sbarcato qui dal carcere dell'Aquila, Bagarella, da dove il 12 luglio del 2002 era intervenuto, annunciando lo sciopero della fame contro l'uso barbarico delle misure penitenziarie speciali. "Siamo stanchi di essere usati come merce di scambio dalle forze politiche" aveva detto. Nato a Corleone, mafioso integrale da almeno tre generazioni (uomini d'onore il nonno, il padre, i fratelli, gli zii), fratello di donna Ninetta, moglie di Totò Riina, l'esordio da boss il 21 luglio del 1979, quando uccide a Palermo, all'interno del bar Lux, il capo della squadra Mobile Boris Giuliano. Il poliziotto aveva scoperto il suo covo di via Pecori Giraldi, con dentro eroina, documenti falsi, armi e denaro, prime tracce dell'allora nascente impero planetario di Cosa Nostra, basato sulle raffinerie siciliane, che trattavano quintali di morfina base arrivata dall'Oriente. Fallisce di un soffio l'evasione dal carcere dell'Ucciardone, nell'81: avrebbe dovuto saltare il muro di cinta con una pertica. Scarcerato per decorrenza di termini, riarrestato di nuovo nell'86 dal giudice Falcone, condannato a sei anni al Maxiprocesso di Palermo, pena ridotta a quattro in appello, esce ed è protagonista di un faraonico matrimonio nella Villa Igea dei Florio. Sua moglie, parente di un Marchese poi pentitosi, si suiciderà. Nel 1992 organizza con gli altri le stragi di Capaci e via D'Amelio e, dopo l'arresto di Riina, guida la campagna di attentati sul Continente. Fa sapere a Provenzano che, se non è d'accordo con la campagna di terrore in Italia, si appendesse pure un cartello al collo, per farlo sapere a tutti. Viene arrestato nel 1995 mentre, a Palermo, ritira un paio di jeans in lavanderia. Abitava di fronte la casa di due magistrati: Giuseppe Pignatone, attuale procuratore di Roma, e Guido Lo Forte, capo della Procura di Messina. Proporrà a Giovanni Brusca di farlo evadere dall'Ucciardone abbattendo il muro con missili e granate. Quello gli farà sapere "che vede troppi film miricani". Molti pentiti gli hanno attribuito un disegno politico siciliano di tipo separatista, in occasione del crollo della Prima Repubblica nel 1992. Bagarella, nel corso del processo sulla trattativa Stato-mafia, ha di recente smentito, dicendosi vicino alle posizioni unitarie di Giuseppe Garibaldi. Toscana: serviranno mesi per svuotare completamente l'Opg di Montelupo di Michele Bocci La Repubblica, 6 aprile 2015 Processo rallentato da altre Regioni in condizioni arretrate. Sull'ipotesi Gozzini è polemica in Toscana. L'Opg di Montelupo non chiuderà subito e nemmeno tra qualche settimana. Ci vorranno mesi perché la struttura venga svuotata completamente. Chi si aspettava la fine degli ospedali psichiatrici giudiziari il primo aprile ha fatto uno sbaglio. Il percorso è ancora piuttosto lungo e lega tra loro tutte le regioni. La Toscana non è di quelle messe peggio nell'apertura dei servizi di accoglienza alternativi ma comunque non è pronta. E in più potrebbe essere condizionata da altre regioni che sono ancora più indietro. Lo dicono anche dalla Rsu dell'Opg: "Non sappiamo cosa succederà, nessuno è in grado di dire quanto tempo ci vorrà per chiudere davvero Montelupo". Il punto, intanto, è che ogni ospite dell'Opg deve essere valutato dagli psichiatri e dal tribunale di sorveglianza, che deve dire in quale struttura può essere accolto. Quindi prima vanno concluse queste pratiche (ultimamente sono stati valutati una dozzina di reclusi e solo per sei si è ritenuta possibile la liberazione). La Regione ha già ipotizzato dove mandare i toscani. Il punto è che la legge prevede che ogni amministrazione locale riprenda nelle sue strutture alternative i suoi cittadini. Su 115 pazienti internati a Montelupo, i toscani sono 49. Gli altri devono essere accolti dalle loro regioni. E se queste non sono pronte? Dal ministero alla Salute hanno fatto sapere che almeno 6 amministrazioni sono indietro e il termine di dismissione degli Opg per loro è slittato a settembre. Cosa succederà agli ospiti di Montelupo che non potranno rientrare nella loro regione per carenza di strutture? "Teoricamente - dicono sempre dalla Rsu - teoricamente potrebbero anche essere messi temporaneamente in strutture detentive". Oppure potrebbero restare a Montelupo. La Toscana comunque avrà il suo lavoro da fare per dare un'alternativa agli opg. Si è deciso di avere, oltre ai vari servizi territoriali o domiciliari per i pazienti meno pericolosi, sei Rems, residenze per l'esecuzione della misura di sicurezza. Saranno di due tipi: Cinque di queste (a "Le Querce" a Firenze, ad Aulla, Volterra, Abbadia San Salvatore, Arezzo) saranno di primo livello, una (l'istituto Gozzini a Sollicciano) di secondo, nel senso che accoglierà i pazienti più pericolosi. Quest'ultima struttura è stata scelta pochi giorni fa, dopo che prefettura, questura, e Comune hanno sconsigliato Villanova, scelta da Asl e Regione, perché troppo vicina al pediatrico Meyer. Ma sul Gozzini ci sono state varie polemiche di chi non lo ritiene comunque adatto. L'azienda sanitaria fiorentina è stata incaricata di verificare che interventi sono necessari per ricavare uno spazio dedicato alle persone in arrivo da Montelupo e dai primi sopralluoghi si è chiarito che saranno necessari-lavori che potrebbero richiedere mesi. E ieri l'osservatorio carcere dell'Unione camere penali ha denunciato le "inadempienze di molte regioni", sottolineando come in Toscana "la giunta, dopo tanti tentennamenti, ha infine deciso di destinare gli internati toscani dell'Opg al Mario Gozzini. Avevamo denunciato che l'opg toscano, sebbene cancellato per legge, fosse ancora in piena attività e fosse destinato a sopravvivere chissà per quanto tempo, vista l'incapacità della Regione di individuare soluzioni adeguate per le strutture alternative previste dalla legge, miseramente documentata dalle plurime e variegate ipotesi formulate nell'arco di oltre tre anni e sempre rapidamente accantonate. Tuttavia la scelta operata rappresenta il peggiore epilogo che potesse immaginarsi". Toscana: trasferimento degli internati dell'Opg a Solliccianino? perché dire di sì di Stefania Saccardi (Vicepresidente della Regione) La Repubblica, 6 aprile 2015 si fa fatica a comprendere le polemiche contro la scelta di dare ospitalità, in un'ala dell'istituto a custodia attenuata "Mario Gozzini", ad una parte dei detenuti dell'attuale Opg di Montelupo. Sono quasi 15 anni che la Regione Toscana ha intrapreso un percorso per rispondere al problema dell'internamento giudiziario in un modo alternativo agli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Era il 2001 quando a Firenze fu aperta la Struttura Residenziale Psichiatrica "Le Querce", una sperimentazione (imitata peraltro da altre Regioni) che sta a monte dell'attuale chiusura degli Opg e delle sentenze che l'hanno anticipata. Perché l'esperienza de Le Querce, che in questi anni ha ospitato oltre 65 persone, ha consentito di comprendere che un'alternativa all'Opg è possibile. Intanto perché il cosiddetto Solliccianino è una struttura architettonicamente sostenibile, con un grande spazio verde, dove realizzare una risposta che rispetti gli alti standard riabilitativi della Salute Mentale toscana. Perché consente di rispondere bene alla preoccupazione dei cittadini sulla sicurezza (assolutamente comprensibile) e all'obbligo di garantire una misura detentiva, perché si trova all'interno di un perimetro già protetto, quello di un carcere a custodia attenuata. Sarebbe sbagliato liquidare tutti gli internati come autori di reati di poco conto e capaci di una piena competenza sociale subito dopo avere commesso crimini gravi in preda a una perdita parziale o completa della capacità di intendere o di volere per infermità psichica. La Toscana ha realizzato un piano per dare sufficiente garanzia di tenuta del programma di riammissione di queste persone alla libertà: una Rems per misure di sicurezza detentive che a regime sarà di 20 posti (nell'immediato va tenuto conto del fatto che la Magistratura di Sorveglianza ha comunicato che 39 degli ospiti toscani attuali dell'Opg di Montelupo non possono uscire da una misura detentiva ) e 6 strutture intermedie - 2 per ogni Area Vasta, per un totale di 48 posti - nelle quali ospitare i soggetti dimessi dalla Rems. Si tratta di una sfida degna di Firenze, la città in cui le famiglie nobili costruirono in Oltrarno i loro splendidi palazzi a ridosso del lazzaretto per dimostrare alla città che lì si poteva vivere senza timore. La Toscana intende scardinare il pregiudizio che tocca il carcere, anche attraverso la contiguità tra un istituto di pena a custodia attenuata e una struttura sanitaria di eccellenza. Siamo capaci di vincere grandi sfide e lo dimostreremo. Per completare la risposta della Toscana alla giusta chiusura degli Opg, saranno allestiti nelle sezioni femminili e maschili di Sollicciano 2 reparti che ospitino i malati di mente toscani che secondo la legge 9 non possono stare nella Rems. E così eviteremo che si chiudano gli Opg per aprire a questi pazienti le porte del carcere ordinario. Allo scopo di tessere una rete che tenga nel tempo, la Regione ha già avviato un piano di collaborazione tra Aziende Sanitarie e magistratura di merito, attraverso protocolli in-ter-istituzionali e formazione congiunta. Alle parole - anche d'allarme - si risponde con fatti concreti. Toscana: coro di "no" contro il trasferimento a Solliccianino degli internati dell'Opg La Repubblica, 6 aprile 2015 Il Garante dei detenuti Franco Corleone firma uno dei due appelli "Pessima soluzione". Chiudere Montelupo per aprire Solliccianino che cosa cambierebbe per gli internati in Toscana? Lo chiede in modo polemico il comitato nazionale "Stop Opg" che contesta la soluzione avanzata dalla Regione, che annuncia nei prossimi mesi uno smistamento degli attuali ospiti nell'ospedale giudiziario in una serie di strutture tra le quali l'istituto Mario Gozzini vicino al carcere di Firenze. Tra le firme quelle di Stefano Cecconi, Giovanna del Giudice e il garante per i diritti dei detenuti della Toscana Franco Corleone. "Pessima soluzione, si va di male in peggio: dall'Opg al Carcere-Opg", si legge nel documento. "Per quanto riguarda la Lombardia, l'Opg di Castiglione delle Stiviere rimane aperto, con 160 posti tra cui vi saranno anche internati provenienti da altre regioni. In queste situazioni serve il commissariamento. È evidente che le Rems non sono la soluzione per superare gli Opg ma una loro prosecuzione". Anche Psichiatria Democratica contesta l'idea. "Eravamo stati facili profeti nel denunciare, con largo anticipo, che il 31 marzo 2015 l'Opg di Montelupo non avrebbe chiuso, nemmeno per gli internati toscani", scrivono gli psichiatri. "Ma non potevamo immaginare che la Regione utilizzasse una parte del Gozzini che già ospita detenuti a custodia attenuata o in semi-libertà. Di fronte a tanta incapacità gestionale ci auguriamo che il ministero provveda a commissariare la Regione". Caserta: Cisl-Fp; stato agitazione del personale dopo la chiusura dell'Opg di Aversa www.casertanews.it, 6 aprile 2015 Il disegno di legge, già approvato dal Senato, di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 31 marzo 2014, n. 52, recante "Disposizioni urgenti in materia di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari", sancisce in maniera definitiva la proroga della chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari entro il 31 marzo 2015, in favore delle nuove Rems. Ciò premesso, la Cisl FP seppur in ritardo rispetto ai tempi in questione, fa appello al commissario straordinario Gaetano Tanzi chiedendogli di convocare da subito una riunione con il Direttore del dipartimento della Salute Mentale, Carizzone Luigi e il direttore della Sanità Penitenziaria di Caserta Giovanni Nese, per discutere non solo dell'organizzazione del lavoro e quindi della mobilità del personale, ma della ancor più delicata situazione per ciò che concerne i trasferimenti dei pazienti che, come si sa, devono essere traslocati presso le strutture residenziali intermedie, altrimenti dette Rems. Intanto i lavoratori, gli infermieri sono in grande preoccupazione soprattutto relativamente alla questione sicurezza, il percorso riabilitativo infatti deve essere affrontato con quanta più accuratezza è possibile, considerata l'estrema delicatezza delle condizioni dei pazienti in questione. Al momento però le due Rems accreditate sono quelle di Mondragone e Roccaromana, due località abbastanza lontane dai centri maggiormente preparati e che non sono adeguatamente attrezzate, con pochi mezzi e poche risorse di polizia. Ove mai gli operatori sanitari, gli infermieri avessero infatti bisogno di aiuti e sostegni si troveranno lontani dai centri e dalle caserme. Vanno sicuramente aiutati i pazienti - commenta Nicola Cristiani, segretario provinciale - ma non bisogna trascurare la sicurezza dei lavoratori, vogliamo essere tutelati affinché possano essere evitati problemi di maggiore entità. È importante sottolineare che ottemperando la legge in fretta e furia si possono fare errori che invece possono e devono essere assolutamente evitati. Gli investimenti e le risorse economiche per attuare le giuste scelte ci sono. Cerchiamo di non lanciarci in una corsa al paziente, in un percorso improvvisato che penalizza il paziente i lavoratori, e la struttura sanitaria stessa. È il caso anche di ricordare che in situazione analoghe, nel nord del paese, le strutture che dovevano essere chiuse sono invece state riconvertite esse stesse in Residenze Riabilitative, utilizzando spazi verdi esterni e riadattandoli, con una migliore ricollocazione degli ammalati e dei lavoratori stessi". Vallo Della Lucania (Sa): intesa con il carcere, la cura del verde pubblico ai detenuti La Vitta di Salerno, 6 aprile 2015 La manutenzione del verde pubblico a Vallo verrà curata dai detenuti del carcere. Si rinnova un'operazione che riguarda l'utilizzazione di detenuti in regime di semilibertà per la pulizia e la manutenzione del verde pubblico del comune. Nel maggio 2012 tra l'Ente vallese e la direzione della Casa circondariale venne siglato un protocollo d'intesa: il carcere mette a disposizione il personale mentre il Comune deve farsi carico soltanto delle spese relative alle assicurazioni, dispositivi di sicurezza individuale, delle attrezzature e delle colazioni. L'Amministrazione Aloia ha stanziato 500 euro per far fronte alle spese in modo da prolungare un servizio che ha lo scopo di tendere la mano a persone che stanno cercando un pieno reinserimento nella società e nel contempo si impegnano a rendere più decorose alcune zone della città ripulendole da erbacce e rifiuti. Un circuito virtuoso che vede un positivo dialogo tra Istituzioni. Non si tratta dell'unica iniziativa tendente al reinserimento sociale dei detenuti. Infatti gli stessi vengono coinvolti in corsi di cuoco, restauro mobili antichi, pizzaiolo, restauro edifici. Vicenza: il "mental coach", dopo l'esperienza nel calcio, ora lavora con i carcerati di Andrea Lazzari Il Gazzettino, 6 aprile 2015 Beppe Sanmarco ha sviluppato lunghe esperienze nello sport: adesso sta lavorando con una ventina di detenuti: obiettivo, recuperare l'autostima. Il mental coach che insegna a recuperare l'autostima ai detenuti. Beppe Sammarco, classe 1957, dipendente dell'assessorato alla partecipazione, ha un curriculum di tutto rispetto. Diciassette anni trascorsi nel settore giovanile del Vicenza, con compiti di allenatore dai pulcini fino agli allievi, quindi responsabile della scuola calcio e delle attività di base. Dopo le esperienze al Villaggio del Sole, a Lonigo ed a Dueville, è stato direttore generale al Quinto e poi al San Lazzaro, dove da gennaio ha preso in mano le redini della prima squadra in seconda categoria. Mental coach dal 2006, ha conseguito nel 2010 il master che lo ha certificato a livello internazionale. "Mi sono aperto all'ascolto degli atleti, rendendomi conto dei loro bisogni, e lavoro sui loro talenti, andando alla ricerca delle risorse. Ho fatto della comunicazione tra allenatore e atleta il mio strumento principale per migliorare la prestazione dell'atleta e tengo corsi di formazioni nello sport". Tra i suoi allievi ci sono nomi illustri, di cui cela però i nomi, fedele alla riservatezza. "Ho seguito anche qualche atleta nazionale di altri sport: uno è diventato campione europeo di schema, un altro è salito sul podio dei campionati assoluti di arti marziali, ma tra i miei clienti ci sono pure manager d'azienda piuttosto che persone comuni". Che risultati ha avuto in particolare nel calcio? "Le prime applicazioni le ho messe in campo quando ero al Villaggio del Sole, dove ho vinto tre campionati fila alla guida con juniores regionali, d'élite e prima categoria. In particolare faccio tanto coaching sulla gestione dello stato d'animo e con il San Lazzaro siamo risaliti fino a metà classifica". Autore del libro "Il coach sei tu", uscito nell'ottobre del 2012, con il quale ha vinto il premio del Coni per l'arte e la cultura nello sport, da tre anni a questa parte è entrato anche in carcere. "Ho iniziato attraverso i progetti sociali dell'Aics, un percorso che prevede 60 ore di coaching diretto con una ventina di detenuti sul recupero di autostima, che terminerà a fine aprile. È un'esperienza straordinaria, perché hai a che fare con persone al limite. In precedenza mi sono occupato anche di recupero di ex alcolisti e tossici al Sert". Sassari: mostra fotografica sull'ex carcere di San Sebastiano, immagini dall'inferno di Roberto Sanna La Nuova Sardegna, 6 aprile 2015 Uno short movie sull'ex carcere del fotografo Luigi Bossalino. "Della galera non aver paura". La voce graffiante e amara di Joe Perrino fa da sottofondo per quasi sei minuti alle immagini in bianco e nero del carcere abbandonato di San Sebastiano scattate dal fotografo sassarese Luigi Bossalino, che ha assemblato musica e immagini in uno short movie pubblicato su Youtube. Un progetto covato per oltre un anno, dopo la visita al carcere ormai vuoto aperto al pubblico per la prima volta grazie al Fai nell'edizione del 2014 di Monumenti aperti. I segni del tempo. In quel week-end migliaia di persone si sono messe pazientemente in coda per vedere finalmente dal di dentro uno dei luoghi che più hanno segnato la storia della città. Svuotato una volta per tutte anche da sfumature storiche e quasi romantiche come l'evasione acrobatica di Graziano Mesina aggrappato a un palo della luce, la detenzione di una notte di Dario Fo prelevato di peso dal Teatro Verdi o i tornei di calcetto tra detenuti e agenti di polizia penitenziaria con Gianfranco Zola a dare il calcio d'inizio. Oggetti quotidiani. Da queste immagini San Sebastiano appare soltanto quello che era diventato nel tempo, una struttura desueta al centro della città, un vecchio e cadente palazzone dell'Ottocento ancora oggi ingombrante sotto tutti i punti di vista se non è stato nemmeno capace di accogliere un'opera teatrale che rappresentava la sua storia. Un giorno, forse, diventerà qualcosa di dignitoso, adesso è soltanto un luogo di brutte sensazioni che le fotografie fanno emergere impietosamente. Insieme al senso di un abbandono quasi frettoloso, con gli effetti personali dei detenuti ancora nelle celle, i muri scrostati e cadenti, pagine di giornali attaccate alle pareti, pacchetti vuoti di Marlboro ammucchiati su un tavolino, pantaloni stropicciasti abbandonati su una sedia. Tutto quello, insomma, che legittimava l'idea comune di un carcere medioevale dove i detenuti prima di tutto dovevano cercare di non perdere la dignità. Impresa non semplice, perché a San Sebastiano non c'erano nemmeno i bagni chiusi, figuriamoci gli spazi e tante altre cose ancora. Il bianco e nero. Tutto questo è rimasto nella macchina fotografica di Luigi Bossalino, che un anno fa si è messo pazientemente in coda per vedere anche lui dall'interno questo luogo della memoria sassarese. Quarant'anni, appassionato di heavy metal e della Dinamo Basket, nipote dell'ex Miss Italia Paola Bossalino (che ebbe una parte anche nel film "L'avventuriero" con Anthony Quinn e Rita Hayworth), è tornato dalla visita con cinquecento scatti fissati nella memory card e un tumulto di sensazioni tutte da decifrare. Sensazioni che ha cominciato a sfrondare fino a decidere che la cosa giusta era quella di fare un video fotografico o meglio uno short movie. La musica di Joe. "In realtà ho impiegato un mese a realizzarlo - racconta l'autore - ma il vero problema è stato quello di scegliere le immagini. Non perché non ne avessi, ma perché continuavo a scorrere e sentivo che qualcosa non andava, non mi convinceva. Sicuramente quando ho scattato le foto non ero nella situazione migliore, con tutta quella gente intorno era impossibile concentrarsi e isolarsi. Alla fine ho avuto l'idea giusta: provare col bianco e nero. E mi si è aperto un nuovo mondo, improvvisamente il lavoro è decollato". Restava poi il problema della colonna sonora. E Luigi Bossalino si è rivolto ai social network, chiedendo aiuto ai suoi amici: "Ho messo un post nella mia bacheca per avere idee e suggerimenti, mi serviva la musica giusta per rendere il video ancora più comunicativo, una canzone che avesse come tema la galera. Un'amica mi ha fatto il nome di Joe Perrino, che conosco da anni, ma non volevo disturbarlo". La storia sulle note. Un pensiero errato, perché è stato proprio il rocker cagliaritano a farsi vivo sempre su Facebook. Non per proporsi, addirittura per lamentarsi di essere stato tenuto all'oscuro dell'iniziativa: "Ho saputo che il mio vecchio amico non mi ha pensato per il suo lavoro" è stato più o meno il tenore dell'intervento di Nicola Macciò (vero nome di Joe Perrino) che apriva così le porte a una collaborazione. "Mi ha proposto due brani dall'ultimo disco Canzoni di Malavita II, pubblicato in gennaio: "Malavita", appunto, ed "Er più dei più". Ho scelto la prima, mi sembrava più adatta all'argomento". Corridoi vuoti. Si comincia con le immagini dell'ingresso del carcere, mentre la canzone parte col rumore dei passi delle guardie penitenziarie dentro i corridoi della galera che per sedici anni ospiterà il protagonista della canzone "per un'infame sciagurata donna". Il resto sono le immagini forti di un carcere svuotato quasi all'improvviso nel luglio del 2013, dopo aver accolto il primo detenuto nel 1871. In quella giornata estiva l'appello ha contato 143 uomini, 13 donne e un bambino piccolo che la mamma aveva voluto tenere con sé anche in quel luogo inospitale. Il futuro. Tutti trasferiti nella moderna struttura situata a Bancali, periferia della città, in poche ore. Alle 16,30 era tutto finito, un'operazione velocissima della quale si vedono tutti i segni nelle foto. Un giorno non troppo lontano, dicono i politici, San Sebastiano verrà riqualificato. Per adesso resta una struttura che evoca fantasmi e suscita emozioni e proprio per questo stuzzica la creatività artistica. "Guardate questa cella e odiatela" è la frase che a un certo punto compare in una foto: forse il carcere di via Roma diventerà davvero un museo, per adesso è soltanto questo.