Giustizia: depenalizzazione, atto primo di Antonio Ciccia Italia Oggi, 4 aprile 2015 Il Tribunale di Belluno applica il Decreto sulla non punibilità per "particolare tenuità del fatto", in vigore dal 2 aprile, e dichiara non punibile la dichiarazione di falsa identità, sanzionabile con 5 anni di carcere. La depenalizzazione muove i primi passi e si applica retroattivamente. Con sentenza del gip di Belluno del 2 aprile 2015 è stata dichiarata la non punibilità dell'autore del reato di dichiarazione di falsa identità. Il gip ha applicato il decreto 28/2015, che fa tabula rasa dei reati puniti fino a cinque anni di pena detentiva oltre che di quelli sanzionati con pena pecuniaria, purché il fatto sia tenue e la condotta non abituale. a depenalizzazione muove i primi passi e si applica retroattivamente. Con sentenza del gip di Belluno del 2 aprile 2015, tra le prime in Italia, è stata dichiarata la non punibilità dell'autore del reato di dichiarazione di falsa identità, illecito punito fi no a cinque anni. È entrato in vigore ed è subito operativo il decreto 28/2015, che fa tabula rasa dei reati puniti fi no a cinque anni di pena detentiva oltre che di quelli sanzionati con pena pecuniaria, purché il giudice ravvisi che il fatto è tenue e che la condotta non è abituale. Trattandosi di norme favorevoli al reo, le disposizioni con il nuovo beneficio sono applicabili anche ai reati commessi anteriormente all'entrata in vigore. Come nel caso specifico, in cui, nel 2012, una persona (assistita dagli avvocati Giorgio Azzalini e Jenny Fioraso) ha dato un nome falso e una data di nascita anch'essa falsa ai carabinieri, che lo avevano fermato e volevano identificarlo. Tra l'altro il verbale degli agenti operanti ha evidenziato che la persona era ubriaca e che voleva prendere in giro gli appartenenti alle forze dell'ordine. Il fatto è stato rubricato inizialmente come falsa attestazione a un pubblico ufficiale (articolo 495 codice penale). All'udienza dibattimentale ha, però, avuto successo la strategia difensiva e il fatto è stato qualificato come false dichiarazioni sulle identità. Il diverso inquadramento ha consentito così di ricorrere a quanto previsto dal decreto legge 28/2015. L'articolo 496 del codice penale prevede cinque anni di reclusione come massimo della pena e rientra nella soglia del decreto 28 citato. La vicenda processuale ha imboccato la strada tracciata dal decreto 28 e il gip del tribunale di Belluno ha pronunciato sentenza di non doversi procedere per non punibilità, ritenuta la particolare tenuità del fatto, ai sensi dell'articolo 131 bis codice penale. La pratica forense mette in evidenza la potenzialità espansiva della non punibilità per fatto tenue e non abituale. Nell'episodio bellunese le indagini sono partite per un fatto più grave, ma si è riusciti a rientrare nel livello soglia (cinque anni) attraverso una interpretazione giuridica della vicenda. Applicandosi, inoltre, il principio del favor rei sia le procure sia i tribunali dovranno valutare se per i fascicoli pendenti si debba, a seconda dello stato processuale, chiedere l'archiviazione o definire con sentenza di proscioglimento. Se ciò porterà certamente a smaltire l'arretrato e a deflazionare indagini e processi, va anche valutato l'impatto dal punto di vista della prevenzione del sistema penale. Nella vicenda in commento una persona ha preso in giro gli appartenenti alle forze dell'ordine e non subirà alcuna conseguenza penale. D'altra parte è prevedibile che non ci siano neppure strascichi di altra natura. Giustizia: la recidiva esclude la non punibilità per tenuità del fatto di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 4 aprile 2015 In via generale per i reati puniti con pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l'esiguità del danno o del pericolo, l'offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale. I criteri sui quali deve incardinarsi il giudizio di "particolare tenuità del fatto" sono cosi due: la particolare tenuità dell'offesa, che implica una valutazione sulle modalità della condotta e l'esiguità del danno o del pericolo; la non abitualità del comportamento dell'autore (che non deve essere un delinquente abituale, professionale o per tendenza, né aver commesso altri reati della stessa indole). Sono così state introdotte delle circostanze che escludono la particolare tenuità del fatto le quali, ovviamente, non possono riguardare i reati di falso in bilancio. È il caso di quando l'autore ha agito per motivi abietti o futili, o con crudeltà, anche in danno di animali, o ha adoperato sevizie o, ancora, ha profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche in riferimento all'età della stessa, ovvero quando la condotta ha cagionato o da essa sono derivate, quali conseguenze non volute, la morte o le lesioni gravissime di una persona. L'istituto, dunque, non si applica ai reati di omicidio colposo e di lesioni gravissime, oppure qualora l'autore abbia agito con particolare crudeltà o approfittando delle condizioni della vittima. Per questa ragione nel disegno di legge viene previsto che, ai fini della non punibilità per particolare tenuità, il giudice valuta, in modo prevalente, l'entità dell'eventuale danno cagionato alla società, ai soci o ai creditori conseguente ai reati di falso in bilancio di cui agli articoli 2621 e 2621 bis, quindi relative alle società non quotate (anche per lieve entità) e alle società "non fallibili". Da segnalare poi che l'applicazione di questa particolare causa di non punibilità presenta per i reati societari, e quindi nella specie per il falso in bilancio, le medesime problematiche che si incontrano per i reati tributari: è necessario che non siano stati commessi altri reati della stessa indole anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità. Ne consegue che in presenza di violazioni contabili reiterate negli anni e quindi di falsi in bilancio commessi per più esercizi, non sarà possibile usufruire della non punibilità. Da ricordare, infine, che, in ogni caso, la causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto scatta dopo un effettivo accertamento della responsabilità a carico dell'indagato e non in modo automatico. Giustizia: "il processo non è un optional". Intervista a Andrea Mascherin (Cnf) di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 4 aprile 2015 Andrea Mascherin è stato eletto da pochi giorni alla guida del Consiglio nazionale forense; succede a Guido Alpa e guiderà il Cnf per i prossimi 4 anni. Presidente Mascherin, gli avvocati italiani, i più numerosi in Europa, vivono anch'essi un momento di grande difficoltà per effetto di una crisi economica che non risparmia le professioni. Tuttavia almeno con questo Governo hanno ricevuto un riconoscimento importante come interlocutori importanti nei processi di riforma. "Credo si tratti del giusto riconoscimento dell'avvocatura come architrave del sistema ordinistico, ponte indispensabile tra i cittadini e il sistema giustizia. Per il resto le priorità, anche nel confronto con il Governo, non possono che essere il rafforzamento dell'avvocatura come soggetto attivo della giurisdizione, come elemento di garanzia dei più deboli, come promotrice di interventi che non devono mai suonare come autoreferenziali, ma a tutela della collettività. Altrimenti a perdere di credibilità siamo tutti noi". Negli ultimi tempi, nelle politiche della giustizia, sia sul versante civile sia su quello penale, il filo conduttore è parso quello del processo come "risorsa scarsa", da riservare ai casi veramente meritevoli di tutela. Professione di realismo condivisibile? "Non proprio. Il processo non può essere considerato solo in termini di efficienza: al debole deve essere sempre garantita la possibilità di agire contro il forte. Il rischio, in caso contrario, è che a restare del tutto privi di tutela siano diritti diffusi come quello alla salute, all'istruzione, che pure hanno pieno riconoscimento nella Costituzione. Il processo sta invece diventando sempre più costoso, senza neppure avere certezza che i maggiori incassi derivanti dagli aumenti costanti del contributo unificato vengano destinati a investimenti per migliorare l'amministrazione della giustizia". Troppo spesso l'avvocatura si espone ad accuse di conservatorismo. È il caso delle forme di esercizio della professione... "Il Consiglio nazionale forense non ha pregiudizi sull'applicazione di forme imprenditoriali. Soprattutto se si tratta di meccanismi che favoriscono l'ingresso dei giovani nella professione. Certo, se il riferimento è alle società con presenza del socio di capitale, allora l'attenzione deve essere massima. Sotto più punti di vista: dalla tutela del segreto professionale, i fascicoli non possono essere a disposizione di chi non è avvocato, al rischio di infiltrazione di capitali opachi. Il rapporto fiduciario legale-cliente non deve essere compromesso. In più, non è che le dimensioni siano sempre garanzia di qualità: i piccoli studi legali, soprattutto in alcune realtà del Paese, anche alla luce della nuova geografia giudiziaria, sono una risorsa che non deve essere mortificata, semmai incentivata". In materia di accesso alla professione è favorevole al numero chiuso a Giurisprudenza? "Non siamo contrari all'introduzione di un numero programmato che però assicuri ai meritevoli di potere procedere nello studio". Il nuovo ordinamento forense ha già bisogno di un tagliando? "Adesso è presto. Credo bisognerà aspettare un paio d'anni ancora. In ogni caso, il tema dell'accesso andrà sicuramente valutato, come pure i risultati della parziale esternalizzazione del procedimento disciplinare. Altri due punti da considerare: l'esercizio del controllo sull'esercizio continuato della professione e la riserva sulla consulenza stragiudiziale". Si profila l'ennesimo intervento sul Codice di procedura civile. Servirà? "Devo esprimere un certo scetticismo, anche se si profila una riforma complessiva, che è certo cosa diversa dall'alluvione di modifiche frammentarie cui abbiamo assistito negli ultimi anni. Alla giustizia servirebbero invece risorse aggiuntive sia di personale, togato e no, sia economiche. In caso contrario anche iniziative che stanno mostrando esiti interessanti, come il processo telematico, corrono il pericolo di segnare il passo". Giustizia: intercettazioni, allo studio le proposte dei pm Nordio e Gratteri di Silvia Barocci Il Messaggero, 4 aprile 2015 Questione di costi. E non solo. Su come modificare le norme per regolamentare le intercettazioni con l'obiettivo di garantire una maggiore privacy dei non indagati si divide non solo la politica ma la stessa magistratura. Due magistrati di punta, Nicola Gratteri e Carlo Nordio, nel giro di pochi giorni hanno avanzato proposte trasversalmente plaudite ma che nella sostanza divergono. Il procuratore aggiunto di Venezia, Nordio, dalle pagine del Messaggero l'altro giorno ha suggerito un decreto per vietare le intercettazioni ad eccezione di quelle preventive, utili come spunto investigativo ma che non hanno valore probatorio. Il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Gratteri, che a Renzi ha presentato i risultati di un'ampia proposta di riforma penale, è arrivato ad altre conclusioni: nessun limite alle intercettazioni che, però, nelle ordinanze possono essere sintetizzate ma non trascritte per esteso, a meno che gli ascolti non siano "rilevanti ai fini della prova". Non solo: i giornalisti che dovessero pubblicare arbitrariamente le intercettazioni secretate rischiano una pena da due a sei anni di carcere. Se Ap, con il capogruppo in Commissione Giustizia alla Camera Andrea Pagano, trova interessanti entrambe le proposte, il Pd va cauto. In ambiente democrat si intravedono limiti sia nel progetto Nordio (in particolare nel rischio di depotenziare le intercettazioni come strumento di prova), sia in quello Gratteri (il carcere ai giornalisti è in controtendenza rispetto al progetto di depenalizzazione della diffamazione a mezzo stampa). Dal canto suo, il procuratore aggiunto di Reggio Calabria non è affatto convinto dall'idea di Nordio: "Ricorrere alle sole intercettazioni preventive - dice dai microfoni di Zapping - significa abbassare i livelli di garanzia per i cittadini. Senza contare che i costi aumenterebbero e di molto: un telefono intercettato per 24 ore costa 3,5 euro al giorno. Se però quegli ascolti non si possono utilizzare come prova, e dunque si deve far ricorso ai pedinamenti, i costi arriverebbero a 2.500 euro". Giustizia: anti-corruzione? Un buco nell'acqua. Bisogna riformate la P.A. e la burocrazia di Paolo Tosoni Italia Oggi, 4 aprile 2015 Si prosegue nell'approccio repressivo che è già clamorosamente fallito da Tangentopoli in poi. Il senato ha dato il via libera al disegno di legge anticorruzione, con il quale è stato riformulato il reato di falso in bilancio, sono state inasprite le pene per il delitto di corruzione a di alcuni altri gravi reati contro la pubblica amministrazione e per quello di associazione di tipo mafioso. In sintesi, il reato di false comunicazioni sociali torna ad essere un reato di mero pericolo (non deve essere provato un danno, ma viene punita la mera condotta di falsificazione), le pene per le società non quotate vanno da 1 a 5 anni di reclusione, da 6 mesi a 3 anni per i fatti più lievi ed è prevista una causa di non punibilità (si tratta di una novità assoluta) per i fatti particolarmente tenui; più alta la pena per la società quotate: reclusione da 3 a 8 anni. La procedibilità è sempre d'ufficio, salvo per le società non quotate minori, al di sotto dei limiti di fallibilità previsti dal codice civile, per cui si procede a querela. Si tratta di un ritorno al passato, ante riforma del 2002, in cui il falso in bilancio aveva subito una sorta di depenalizzazione di fatto, sia per l'esiguità delle pene previste, in parte anche contravvenzionali e la relativa incidenza sulla prescrizione (troppo corta per i tempi del processo penale italiano), sia per la procedibilità a querela per le società non quotate: l'attuale formulazione, viceversa, prevede la pena edittale più alta d'Europa per questa tipologia di reato, solo la Gran Bretagna si avvicina con la previsione di un massimo edittale di 7 anni di reclusione per le società quotate. Con riguardo al reato di corruzione propria è prevista la pena da 6 a 10 anni (la precedente riforma Severino prevedeva una pena da 4 a 8 anni), la corruzione in atti giudiziari, nelle sue varie forme, prevede rispettivamente pene da 6 a 12, da 6 a 14 e da 8 a 20 anni, il delitto di induzione indebita passa da 3 a 8 anni, all'attuale versione con pena da 6 a 10 anni e 6 mesi. È prevista in caso di condanna la pena accessoria del divieto di trattare con la Pa per 5 anni; inoltre, è stato previsto che per i reati di corruzione, concussione e peculato il patteggiamento sia subordinato all'integrale risarcimento del profitto illecito (condizione già introdotta per i reati di evasione fi scale). Infine, come detto, sono state inasprite anche le pene per il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso che, nelle sue varie articolazioni, arriva a prevedere anche una pena edittale massima di 26 anni. Queste le novità più rilevanti introdotte con il disegno di legge che dovrà tornare alla camera e potrà subire ulteriori modifiche. Si tratta ora di valutare la bontà dello stesso e la sua reale efficacia riguardo alle condotte illecite evidentemente diffuse nel nostro sistema economico e sociale: per far questo bisogna distinguere la riforma del falso in bilancio da quella relativa ai reati contra la Pa, tralasciando di commentare quella del reato di associazione mafiosa. Con riguardo al fenomeno corruttivo, nonostante l'Italia abbia vissuto il periodo di Tangentopoli - un fenomeno giudiziario eccezionale di contrasto dei delitti contro la Pa, noto a livello mondiale, che ha determinato gli assetti politici ed economici dell'ultimo ventennio - si può dire che poco o nulla sia cambiato: gli episodi di corruttela diffusa in tutto il Paese, di cui sono piene anche le recenti cronache, impongono una riflessione rispetto all'efficacia dell'azione giudiziaria per combattere ed estirpare questa piaga del nostro Paese. Il fatto che dagli anni novanta ad oggi si continuino a versare tangenti per ogni tipo di lavoro, di appalto, di favore a tutti i livelli, anche se con modalità variegate e sempre più raffi nate proprio per sfuggire l'azione contrastante della magistratura, significa che tale azione è inadeguata ed insufficiente per combattere questo fenomeno di illegalità così radicato nel nostro sistema. Eppure fi no ad oggi si è sostanzialmente intervenuti solo, o quasi esclusivamente, sulle regole (il codice penale) che governano l'azione repressiva della magistratura e, nonostante l'evidente fallimento, anche con il disegno di legge in discussione ci si illude di poter risolvere il problema, inasprendo ulteriormente le pene o allungando la prescrizione per questi reati (è previsto che, prossimamente, vada in discussione in senato un provvedimento che propone di aumentare della metà il tempo necessario a prescrivere il reato di corruzione). Non è un caso che il disegno di legge originalmente sia stato presentato dal presidente Pietro Grasso, nel marzo 2013, quando ancora non presiedeva il senato: un alto magistrato (era stato il procuratore nazionale antimafia) che, evidentemente, per forma mentis è portato a ragionare più in termini repressivi che non preventivi; un disegno di legge che è stato sostenuto e invocato dall'Anm e addirittura osteggiato dalla componente più intransigente del parlamento, il Movimento 5 stelle, perché ritenuto troppo "morbido". Ciò che è mancato e manca tutt'ora è un serio e radicale rinnovamento del sistema all'interno del quale prolifera e si sviluppa, in modo quasi necessario, il fenomeno corruttivo: ossia il sistema della Pa, l'imponente meccanismo burocratico che è il vero freno dell'economia e dell'iniziativa privata di questo paese, cui la politica, a tutti i livelli, spesso è complice o supinamente succube e impotente. Il vero sforzo di riforma andrebbe indirizzato a semplificare le procedure di appalto, a sveltire quelle di autorizzazione, di pagamento, a snellire gradualmente il numero sproporzionato dei pubblici dipendenti, a poter licenziare o trasferire in base a criteri meritocratici ai quali affidarsi anche per gli avanzamenti di carriera, a introdurre sistemi di rotazione, soprattutto per gli incarichi più delicati (quelli di responsabilità e di reale potere), a implementare procedure che permettano un reciproco controllo sui poteri di firma decisivi: tutto questo non è stato fatto e il sistema continua, avvinghiato su se stesso, ad alimentare le condotte illecite di coloro che cercano favori e scorciatoie, sia per sopravvivere, sia per arricchirsi. Certamente intervenire a questo livello è molto più faticoso, i risultati sono diluiti nel lungo periodo ed è politicamente impopolare: licenziare un disegno di legge che inasprisce le pene per la corruzione, in un momento in cui da mesi quasi ogni giorno emerge una nuova indagine che ipotizza corruzioni di politici e pubblici funzionari da parte di imprenditori e cooperative, è politicamente molto più efficace e illude i cittadini di risolvere il problema. Temo, però, che non sia sufficiente: l'innalzamento delle pene è certamente un segnale e indica una strada, ma se non si interviene sul sistema in senso preventivo, la sensazione è che tutto si riduca a un'ottima strategia di propaganda politica, di corto respiro. Purtroppo questa modalità di legiferare, sull'onda dell'emergenza dettata dal comune sentire dell'opinione pubblica, è caratteristica degli ultimi decenni e va a discapito di una visione d'insieme che sola può combattere un fenomeno così complesso come quello di cui si discute: un altro esempio è relativo al citato problema della prescrizione. Non ha senso proporre di aumentare della metà il periodo necessario a prescrivere il reato di corruzione: con la nuova formulazione il delitto si prescrive complessivamente in 12 anni e 6 mesi. Pensare che più di dodici anni non sia un tempo sufficiente per definire un processo, significa essere rassegnati a vivere in un sistema processuale di denegata giustizia, sia per gli imputati, sia per le vittime dei reati, sia per la collettività: bisogna, pertanto, intervenire sugli aspetti processuali che permettano una maggiore celerità dei processi e vi sono ampi spazi di intervento, nella fase delle indagini (la fase in cui, statisticamente, si consuma il maggior numero di prescrizioni…), dell'udienza preliminare e degli altri gradi di giudizio; per non parlare dell'obbligatorietà dell'azione penale, sulla quale sarebbe necessaria una seria riflessione circa la sua adeguatezza ad una democrazia moderna. Diverso è il discorso per il falso in bilancio: la norma necessitava di essere riformata, perché la condotta godeva di una sorta di impunità di fatto ed essendo uno dei sistemi idonei a creare la "provvista" da parte delle aziende a fi ni corruttivi (ma non solo), la sua riforma è coerente con la logica di contrasto al fenomeno corruttivo. Inoltre la condotta, oltre ad essere illecita in sé, è prodromica anche ad altre tipologie di reato, quali il riciclaggio o la bancarotta, pertanto era auspicabile che tornasse ad essere punita in modo adeguato. L'unica critica che ritengo di muovere è che alcune formulazioni, quali la "lieve entità" (come attenuante del reato per le società non quotate), o la "tenuità del fatto" come causa di non punibilità, sono molto generiche e si prestano a un'ampiezza di discrezione del magistrato giudicante che mal si concilia con la necessità di certezza del diritto che tutti, soprattutto i piccoli e medi imprenditori, avvertiamo: sul punto, però, si potrà rimediare nel passaggio alla camera, cercando di definire meglio queste situazioni. Non resta che augurarsi che il nuovo disegno di legge non resti un fatto isolato, ma sia l'inizio di un cambio di rotta che vada ad incidere profondamente sull'assetto della Pa e sul sistema economico che ne deriva, oltre che sul riassetto del sistema giudiziario, per rendere il processo più celere ed efficace e la certezza della pena e del diritto effettiva: da ciò si potrà misurare nei prossimi anni se questo governo e questo parlamento stanno veramente lavorando per il futuro del nostro Paese. Giustizia: la pdl sulla diffamazione è ferma da due mesi in Commissione alla Camera Public Policy, 4 aprile 2015 Sono passati circa due mesi dalla scadenza (fissata il 26 gennaio scorso) del termine per la presentazione degli emendamenti alla proposta di legge sulla diffamazione, tornata in commissione Giustizia alla Camera in seconda lettura. Gli emendamenti depositati sono stati circa un centinaio ma, tra la riforma della prescrizione il decreto anti terrorismo, la II commissione di Montecitorio ancora non ha discusso nemmeno un emendamento. Eppure in questi ultimi giorni in cui è riesploso il dibattito sulle intercettazioni, questa proposta di legge - approvata già una volta sia dalla Camera che dal Senato - potrebbe tornare presto al centro del dibattito. Tanto più che un emendamento presentato da Area popolare in tema di intercettazioni ricalca il primo criterio di delega contenuto nel ddl penale, sempre all'esame della commissione Giustizia della Camera. Anche se, di recente, il ministro della Giustizia Andrea Orlando, ha escluso che la delega sulle intercettazioni contenuta nel ddl sul processo penale possa affiancarsi al testo sulla diffamazione: "Questa cosa (le intercettazioni; Ndr) - aveva detto Orlando - noi la vogliamo portare a fondo, bene se quel veicolo (il ddl sul penale; Ndr) viaggia se no penseremo ad altre strade. Abbiamo visto che talvolta dividere consente di avere una velocità di crociera più rapida". La proposta di legge sulla diffamazione prevede diverse norme. La principale, in sintesi, sostituisce la pena del carcere per chi diffama a mezzo stampa con una multa fino ai 10 mila euro (fino a 50mila se il fatto attribuito è consapevolmente falso). Ma il provvedimento contiene anche diverse altre norme, come l'obbligo di rettifica per il direttore o per il responsabile della testata entro due giorni dalla richiesta o una normativa sulle querele temerarie. Ma anche il contestato articolo sul diritto all'oblio che - come riportato da Public Policy - sembra desinato allo stralcio. Ma tra il centinaio di emendamenti presentati alla proposta un paio di Area popolare riguardano proprio le intercettazioni. Un emendamento di Area popolare - a firma unica Alessandro Pagano - prevede una delega al governo "per l'introduzione di misure dirette a garantire la riservatezza delle comunicazioni e delle conversazioni telefoniche e telematiche oggetti di intercettazioni". Nello specifico i decreti di recepimento della delega, da adottare entro un anno dall'entrata in vigore della legge, dovrebbero contenere: "prescrizioni - secondo quanto si legge nell'emendamento - che incidano anche sulle modalità di utilizzazione cautelare dei risultati delle captazioni e che diano una precisa scansione procedimentale all'udienza di selezione del materiale intercettato, avendo speciale riguardo alla tutela della riservatezza delle comunicazioni e delle conversazioni delle persone occasionalmente coinvolte nel procedimento, in particolare dei difensori nei colloqui con l'assistito, e delle comunicazioni comunque non rilevanti a fini di giustizia penale". A ben vedere il primo criterio di delega contenuto nel ddl Orlando di riforma del processo penale - sempre all'esame della commissione Giustizia della Camera - ricalca proprio l'emendamento Pagano: "prevedere disposizioni dirette a garantire la riservatezza delle comunicazioni e delle conversazioni telefoniche e telematiche oggetto di intercettazione, in conformità all'articolo 15 della Costituzione, attraverso prescrizioni che incidano anche sulle modalità di utilizzazione cautelare dei risultati delle captazioni e che diano una precisa scansione procedimentale all'udienza di selezione del materiale intercettativo, avendo speciale riguardo alla tutela della riservatezza delle comunicazioni e delle conversazioni delle persone occasionalmente coinvolte nel procedimento, in particolare dei difensori nei colloqui con l'assistito, e delle comunicazioni comunque non rilevanti a fini di giustizia penale". Un altro emendamento a firma Pagano introduce nel codice penale il reato di riprese e registrazioni fraudolente, punito con la reclusione da 6 mesi a 4 anni di carcere. Nello specifico commetterà il reato "chiunque fraudolentemente effettua riprese o registrazioni di comunicazioni e conversazioni a cui partecipa, o comunque svolte in sua presenza" e fa uso delle stesse "senza il consenso degli interessati". Viene esclusa la punibilità nel caso in cui le riprese o le registrazioni così ottenute vengano utilizzate nell'ambito di un processo o quando queste "sono effettuate nell'ambito delle attività di difesa della sicurezza dello Stato". "Il reato - si legge infine nell'emendamento Ap - è punibile a querela della persona offesa". Giustizia: addio all'Opg, arrivano le Rems; così tra allarmismi e ritardi finisce un'era di Donatella Coccoli Left, 4 aprile 2015 Le Regioni individuano le nuove strutture sanitarie per i malati di mente autori di reati. Sono poche centinaia le persone malate di mente che hanno compiuto dei reali, pochissimi dei quali gravi. Eppure suscitano reazioni di questo tipo: "La chiusura degli Opg spaventa medici e pm: rischi per la sicurezza". Titola così La Stampa un articolo del 29 marzo in cui si prospetta la possibilità che internali pericolosi possano essere dimessi e tornare in libertà avendo superato "il limite massimo della pena edittale". "Un allarme inesistente", replica secco Mauro Palma, vice capo del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) che si sta occupando della fase di transizione degli Opg, sulla base della legge 81/2014. "In genere per chi ha commesso reati gravi, come l'omicidio pluriaggravato, il massimo della pena edittale prevede trent'anni di carcere o l'ergastolo, quindi non c'è alcun allarme sociale. Non è vero poi che i magistrali di sorveglianza siano preoccupali. Sostengono solo che lo spostamento dei malati sia il frutto di un percorso di accompagnamento. Giustissimo. E non è allarme", sottolinea, Susanna Marietti, coordinatrice nazionale dell'associazione Antigone aggiunge: "La sicurezza non si costruisce solo con gli agenti o con il sistema penale, ma con interventi di mille tipi e quello sanitario psichiatrico è essenziale". Il 30 marzo Marietti ha visitalo l'Opg di Aversa, dove ha incontrato dei pluriomicidi che, precisa, "non saranno un problema di ordine pubblico e verranno presi in carico da un punto di vista sanitario". Ma il clima mediatico più o meno "l'orzato" sul passaggio dai sei ex manicomi criminali alle nuove strutture sanitarie regionali Rems (Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza) è solo uno degli aspetti relativi alla chiusura degli Opg. Il problema più urgente è accogliere i 700 pazienti internati fino al 31 marzo a Castiglione delle Stiviere, Reggio Emilia, Montelupo Fiorentino, Aversa, Napoli, Barcellona Pozzo di Gotto, Circa la metà sono dimissibili e molti sono già stati affidati alle comunità e ai servizi dei Distretti di salute mentale dei territori. Per gli altri la sistemazione - perché è esclusa qualsiasi proroga, come ha ribadito fino all'ultimo il sottosegretario alla Salute Vito De Filippo - potrebbe richiedere settimane e mesi. "Purtroppo nessuno ha la bacchetta magica", continua Palma. Ogni Regione dovrà assicurare l'assistenza sanitaria dei malati residenti nel proprio territorio e che adesso si trovano sparsi in più istituti. Ma non tutte le amministrazioni sono in regola. Come denunciano i bollettini quasi quotidiani di Stop Opg (il Comitato costituito da molte sigle e associazioni), il Veneto è quella più inadempiente: non ha individuato nessuna struttura. La Regione guidata dal governatore Zaia sembra che non ne voglia sapere degli "psicolabili pericolosi" come li ha definiti La nuova Venezia e c'è chi spiega questo disinteresse con la campagna elettorale dei leghisti che sfrutterebbe anche i "folli rei". La Regione però sarà commissariata, ha comunicato il 31 marzo il ministero della Giustizia. Le altre regioni in difficoltà sono Friuli Venezia Giulia, Puglia, la Provincia autonoma di Trento e il Piemonte, che forse riuscirà ad aprirne una a settembre. Secondo la mappa stilata dal comitato, in tutta Italia saranno realizzati 795 posti letto in 34 strutture. Per il momento molte Rems sono provvisorie, ricavate spesso dove là dove già esistevano servizi sanitari. Alcune residenze sono già partite come quelle di Bologna e Parma o quella di Pontecorvo (Frosinone) inaugurata sempre il 31 marzo con il ministro Orlando. Al Sud, Barcellona Pozzo di Gotto è rientrata nel processo di superamento Opg e sono previste già due Rems. Castiglione delle Stiviere, essendo l'unico istituto femminile, e anche l'unico gestito dal Servizio sanitario nazionale e non dal Dap, si trova in una posizione di "apripista". L'istituto diventerà una Rems con diversi moduli per un totale di 160 posti letto. Si appoggeranno a Castiglione anche la Liguria e la Valle d'Aosta. Stop Opg è molto critico per questo "allargamento" e denuncia che così si potrebbe ricreare un manicomio. Ma come afferma Valeria Verdolini di Antigone, "Castiglione delle Stiviere, dove oggi rimangono 66 donne e 159 uomini ha avuto in passato una miglior gestione della presa in carico dei pazienti. Ha strutture come piscina, teatro, palestra. E nel cambiamento del percorso terapeutico si deve procedere gradualmente". Potrebbe infatti diventare traumatico spezzare il rapporto medico-paziente creato negli anni là dove un tentativo di cura era stato intrapreso. Adesso occorre aprire una nuova strada, resa impossibile finora dalla struttura stessa degli Opg. Franco Scarpa, responsabile della Uoc Salute in carcere di Montelupo Fiorentino, con 110 pazienti in attesa di partire, ci tiene a ribadirlo: "Il senso della legge è proprio questo: individuare strutture sanitarie con controllo esterno dove attuare un trattamento sanitario riabilitativo completo, senza la pesantezza dell'organizzazione e delle regole della struttura penitenziaria". Con l'individuazione - all'ultimo momento - dell'Istituto Mario Gozzini vicino al carcere di Sollicciano come sede di Rems, lo psichiatra si sente sollevato. "Siamo salvi", dice, dopo che per giorni aveva temuto che la Regione non riuscisse a trovare il luogo adatto per i suoi pazienti toscani. Se i "vecchi" internati troveranno un luogo per terapie più appropriate, il problema che rimane è quello dei nuovi ingressi e della prevenzione nel territorio. Maria Bronzi psichiatra della Asl Roma A, referente del processo di superamento degli Opg, ogni giorno vede pazienti psichiatrici autori di reati e non solo con marginalità sociale. "Occorre sviluppare da parte degli operatori la capacità di valutare la pericolosità sociale potenziale con un monitoraggio attento - afferma. E se si vuol risolvere bene il problema dei pazienti psichiatrici che compiono dei reati è fondamentale lavorare sugli esordì della malattia". Giustizia: cosa cambia nel dopo-Opg di Maria Grazia Giannichedda Il Manifesto, 4 aprile 2015 Il migliaio di internati trasferiti nelle Rems, residenze che hanno lo scopo di custodire e curare. In qualche caso aperte negli ex Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Comunque un passo avanti. Poteva andar peggio: il rinvio della chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) le regioni l'avevano chiesto da tempo, dichiarandosi in maggioranza non ancora pronte a un provvedimento che fu annunciato per la prima volta quarant'anni fa, nel 1975, ministro di grazia e giustizia Oronzo Reale. Ma governo e parlamento, la commissione sanità del senato soprattutto, hanno resistito a queste pressioni e così dal 31 marzo 2015 i sei Opg italiani devono smettere di funzionare. Siamo di fronte a un cambio epocale come lo fu la riforma psichiatrica e come sembrano credere quanti, nelle ultime settimane di dibattito, hanno usato toni di allarme o di trionfo a proposito di questo provvedimento? Per cercare di capire cosa cambi in realtà per il migliaio di internati attuali e per quelli potenziali è meglio abbandonare i toni forti e osservare da vicino il decreto legge sulle "disposizioni urgenti in materia di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari", decreto nato il 22 dicembre 2011 dentro il cosiddetto decreto svuota carceri e diverse volte rimaneggiato fino alla versione attuale, la legge n. 52 del 31 marzo 2014 corretta dalla legge di conversione del 31 maggio 2014, la n. 81. Cosa cambia con questa legge? Un punto rilevante: il luogo di esecuzione della misura di sicurezza prevista per l'infermo di mente autore di reato e per il condannato divenuto infermo di mente. Finora questo luogo era l'Opg, oggi è la residenza per l'esecuzione della misura di sicurezza, la Rems. Cosa non cambia? Un punto non meno rilevante, la struttura della misura di sicurezza definita dal codice penale: si tratta di una misura detentiva che, ovunque sia eseguita, continua a mantenere il duplice scopo di curare e di custodire per far fronte sia all'infermità che alla pericolosità sociale. Ancora: cambia l'autorità responsabile degli istituti che eseguono la misura di sicurezza psichiatrica. Per gli Opg era il ministero di giustizia, oggi è la sanità regionale. Cambia anche il tipo di personale: prima era prevalentemente giudiziario (con l'eccezione dell'Opg di Castiglione delle Stiviere) da oggi sarà tutto sanitario il personale all'interno della Rems, mentre l'"attività perimetrale di sicurezza e vigilanza" sarà di competenza della pubblica sicurezza. Questo non tragga in inganno: il mandato delle Rems è, unitariamente, alla cura e custodia, e le Rems appena aperte e quelle in progetto evidenziano bene cosa ciò significhi. La Rems inaugurata il primo aprile dal presidente Zingaretti e dal ministro Orlando a Pontecorvo (Frosinone), destinata a sole donne e collocata in una palazzina attigua alla Casa della Salute, ha un giardino esterno ben recintato, un apparato di video sorveglianza controlla tutti gli ambienti sia interni che esterni, dappertutto vetri antisfondamento. Nel corso dell'inaugurazione è stato firmato il protocollo per la sicurezza da parte delle autorità sanitarie e del prefetto, alla presenza della direzione del Dipartimento Affari Penitenziari. La regione Toscana ha deliberato di collocare una Rems al Sollicianino, il carcere intitolato a Mario Gozzini, utilizzando un'area dell'istituto che già ospita detenuti a custodia attenuata o in semilibertà e che è a tutti gli effetti una struttura penitenziaria. La Lombardia ha scelto invece la transizione più morbida possibile: le Rems di questa regione saranno collocate nello stesso Opg di Castiglione, basterà un cambio di nome e tirar su qualche tramezzo. Quale fondamento ha dunque l'allarme sollevato da più parti - da Matteo Salvini della Lega a Gilberto Corbellini sul Sole24ore del 29 marzo - sui pazzi pericolosi che saranno rimessi in libertà? E d'altra parte, come si può, in un tale quadro normativo e amministrativo, affermare che si sta realizzando il passaggio dalla pena alla cura, per usare le parole di qualche esponente del governo? La sola cura possibile nelle Rems è quella in uso da due secoli negli ospedali psichiatrici civili, quella sempre sacrificata, come sappiamo, alle esigenze della custodia, che qui nelle Rems è anche legittimata dal codice penale. Nessuna vicinanza quindi tra questo provvedimento sugli Opg e la legge 180 del 1978, che non si limita a chiudere i manicomi ma ridefinisce lo statuto del malato di mente e i limiti del trattamento psichiatrico. Però non è vero che questa chiusura degli Opg sia un pesce d'aprile, come ha detto qualcuno, un gesto privo di rilievo. È invece un passaggio importante perché segnale che si è aperta di nuovo la partita Opg ed è ancora tutta da giocare, senza trucchi però, come diceva lo slogan che ha accompagnato il digiuno a staffetta e le altre iniziative promosse lungo tutto il mese di marzo dalla campagna per l'abolizione degli Opg (www.stopopg.it). Da quando, ad aprile del 2011, ha preso avvio questa campagna si è riusciti a spostare l'attenzione dagli istituti fatiscenti alle persone vittime di aberrazioni giuridiche e alle politiche colpevoli, sia sanitarie che giudiziarie, cha alimentano gli Opg e la domanda di misure di sicurezza. Sono state rispolverate le sentenze dimenticate della Corte Costituzionale e corretti alcuni dei punti più pericolosi del decreto del 2012, così che oggi è chiaro a tutti che le Rems non sono la sola misura su cui è legittimo concentrare risorse. È stato anche mitigato uno degli aspetti più indecenti della legge penale, precisando che "la misura di sicurezza detentiva non può durare oltre il tempo stabilito per la pena detentiva prevista per il reato commesso". Ora, insieme alla vigilanza su ciò che accade, bisogna riaffrontare la riforma del codice penale, che sola può consentire l'abolizione della misura di sicurezza psichiatrica e autorizzarci quindi a parlare di diritti, dignità e cura. Giustizia: chiudono gli Opg, scelta necessaria… impariamo l'arte dell'accompagnamento di Chiara Rizzo Tempi, 4 aprile 2015 "Non bisogna creare allarmismi sulla chiusura degli Opg". Intervista allo psichiatra Marco Bertoli, responsabile del Centro di salute mentale di Latisana (Ud). Gli ospedali psichiatrici giudiziari - gli ex manicomi criminali - o Opg, dall'1 aprile non esistono più. Dopo due anni di rinvii è stata applicata la legge che nel 2011 ha sancito la loro chiusura e il trasferimento dei detenuti in altre strutture. Dall'entrata in vigore della legge si è già registrata una costante diminuzione degli internati: dai 1.072 del 31 dicembre 2014 si è arrivati ai 750 presenti al 31 marzo. Di queste persone, 250 dovrebbero essere dimesse o trasferite in comunità residenziali più leggere, perché ritenuti meno pericolosi o perché verso la fine della pena. Altre 450 persone dovrebbero essere ospitate nelle nuove strutture, le Rems (Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza). Però non in tutte le regioni le Rems sono pronti e, in certi casi, la preoccupazione è grande. Lo psichiatra Marco Bertoli, responsabile del Centro di salute mentale di Latisana (Ud), assicura: "È un evento atteso e necessario. E non ci sarà alcun pericolo per la sicurezza, né per la salute di queste persone recluse". Cosa ne pensa dell'addio agli Opg? "Erano istituti anacronistici, e ce n'erano alcuni assolutamente impresentabili e con condizioni di fatiscenza disumane, sia dal punto di vista della struttura sia dell'organizzazione. La loro chiusura è un evento atteso da tempo. Lavoro in Friuli, regione in cui è molto viva per la psichiatria una cultura particolare, dato che siamo la regione dove ha lavorato Franco Basaglia. Pur non essendosi concentrato sugli Opg, Basaglia ha messo in luce come non è mai la restrizione della libertà che porta a dei risultati, ma un progetto di vita e un accompagnamento del paziente. Penso che nel nostro sistema regionale la cosa più importante anche oggi sia accompagnare le persone che curiamo sui tre assi della vita: avere una casa, un lavoro e la possibilità di socializzare. Anche per questa cultura, il Friuli ha sempre avuto un numero molto basso di detenuti in Opg. È chiaro, ci sono anche da noi persone con problemi di salute mentale con una pericolosità sociale, ma prima di tutto mi sentirei di sfatare un mito. Negli Opg non tutte le persone detenute hanno commesso delitti, cioè crimini contro le persone: la maggior parte, anzi, sono detenuti per aver commesso reati, cioè per aver violato le leggi che tutelano cose e patrimoni. Per tutti i casi di non pericolosità, da tempo in questa regione abbiamo ovviato attraverso l'affidamento del detenuto a comunità. Al Centro di salute mentale di Palmanova, quando sono arrivato dieci anni fa, avevamo sei persone provenienti da Opg. Due soli di loro avevano commesso dei delitti contro altre persone: tutti e sei li abbiamo comunque portati in comunità, e per loro abbiamo preparato dei progetti". E com'è andata a finire? "È finita in tutti i casi benissimo. Non è che in Friuli non ci fossero matti, ma l'importante è saperli accompagnare". Nelle regioni dove le Rems non sono state ancora aperte, dove finiranno gli internati dei vecchi Opg? "Due anni fa c'erano più del doppio degli internati, più di 1.400. Dove sono finiti? Sono già stati trasferiti in questi anni nelle comunità esistenti e non è che siano aumentati i crimini. Oltretutto, tra chi sta in Opg la recidiva è rarissima. Anche in questi giorni sono certo che le persone in sovrappiù rispetto ai posti dei Rems non siano state abbandonate a se stesse. L'Opg di Reggio Emilia, che è un centro di riferimento anche per il Friuli, ad oggi mi risulta che non sia stato chiuso. È in una fase di rapida transizione in cui si attende che i vari detenuti siano ospitati nelle comunità di riferimento, e si tratta di comunità che, anche se non sono strutturate come le Rems, hanno una sorveglianza. Non bisogna creare allarmismi". In base alla sua esperienza, che tipo di percorso si deve attuare per il recupero efficace di un detenuto con problemi psichiatrici? "Anzitutto bisogna immaginare un percorso individuale in cui si distingue se una persona ha commesso un reato o un delitto, e quanti anni prima è accaduto l'evento. Infatti, più è vicino nel tempo, superiore dovrà essere la sorveglianza, a partire dalle 24 ore al giorno. Inoltre è opportuno non lasciare la persona condannata penalmente nello stesso territorio, ma spostarla in una comunità un po' distante. Dopo di che lo psichiatra e il suo staff dovrebbero fare un progetto di reinserimento, che parta dalla capacità e competenza per il lavoro del detenuto, e chiaramente - se necessario - prescrivere dei farmaci. Qualche anno, fa mi è stato affidato un ragazzo di origine trentina che era a Castiglione delle Stiviere. Quando lo visitai, mi raccontò che era in Opg da dieci anni e che aveva girato varie strutture: Montelupo, Reggio Emilia e, appunto, Castiglione. Mi raccontò che aveva ucciso la sorella, e io pensai dentro di me che si trattava di un caso difficile. Vedendo la mia faccia perplessa, si affrettò ad aggiungere, quasi a volermi rassicurare: "Ma non volevo uccidere lei, volevo uccidere mio cognato. L'ho sgozzata. Ma non si preoccupi, è che io ero macellaio". Ho capito che potevo rischiare con lui, era sincero e così gli ho detto: "Mi piaci. Ti porto con me". È venuto in una comunità che seguivo e, dato che in ognuna di esse c'è sempre un luogo di produttività, lui scelse di lavorare come muratore e lo mettemmo in una delle nostre squadre di manovali. Prendeva i farmaci regolarmente, lavorava sodo, era sempre puntuale nei cantieri. Un giorno lo chiamai e mi complimentai. Lui mi rispose: "Sa dottore, nessuno nella mia vita mi aveva detto "mi piaci" come ha fatto lei". Su quella fiducia ha ricostruito la sua vita. È chiaro che i casi che provengono dagli Opg possano fare paura all'opinione pubblica, ma la verità è che tutte le storie, se trovano una base nella fiducia della comunità che accoglie, sono come quella di quell'uomo". Lettere: detenuto si impicca, una notizia che non fa notizia Ristretti Orizzonti, 4 aprile 2015 Un detenuto, per caso, si è impiccato nel carcere modello di Rebibbia. Ovviamente nessuno ne parla. Giornali e televisioni danno spazio soltanto ai suicidi eccellenti, chi se ne frega se si micca un poveraccio. Aveva chiesto al Tribunale di Sorveglianza di concedergli gli arresti domiciliari. Non sapeva che gli arresti domiciliari si concedono soltanto ai colletti bianche, o a chi può pagarsi uno psichiatra che dichiari che Tizio non sopporta il carcere, magari va in depressione. La depressione carceraria è una malattia da ricchi. Non importa sapere di che cosa fosse accusato il suicida rompiscatole, ma se aveva deciso di chiedere gli arresti domiciliari non doveva essere colpevole di qualche reato grave. Altrimenti lui e magari il suo avvocato avrebbero risparmiato l'istanza. Una riforma della giustizia che non ponga rimedio alle storture del sistema carcerario è una riforma inutile. Di carcere si muore, si continua morire. I Tribunali di Sorveglianza sono plotoni di esecuzione. ovviamente di esecuzione della pena. Urge qualcuno che sorvegli i Tribunali di Sorveglianza, e forse basterebbe che i garanti dei diritti dei detenuti garantissero quello che dovrebbero garantire. Ma i garanti, almeno molti di essi, intervengono solo dopo, e il dopo è sempre tardi, il dopo è mai. Si era parlato della possibilità, per il giudice del processo, di concedere gli arresti domiciliari con la sentenza, o di lasciare comunque al giudice, anche dopo la sentenza, la competenza in materia di arresti domiciliari o di altre misure alternative. ma questo avrebbe intaccato lo strapotere dei Tribunali di Sorveglianza. E gli strapoteri, come si sa sono poteri a potenza privilegiata. Domandiamoci, anche se la domanda è retorica, cosa può aver provato il giudice di sorveglianza alla notizia del suicidio provocato dal rigetto di una istanza di arresti domiciliari., ammesso che la notizia gli giunga alle orecchie togate. Brevemente un ricordo personale. avevo chiesto gli arresti domiciliari per un mio assistito semiparalizzato e sofferente di attacchi epilettici. Davanti al Tribunale di Sorveglianza il mio assistito fu portato in barella, legato perché non cadesse in caso di una crisi epilettica. Il Procuratore della Repubblica espresse parere favorevole, il che non succede quasi mai. Quando fu il mio turno di parlare, il Presidente del Tribunale di Sorveglianza, era una donna, mi disse : avvocato è inutile che parli, la situazione del suo assistito non ha bisogno di essere perorata, parla da sé. Uno si sarebbe aspettato che l'istanza venisse accolta. Invece passarono tre giorni, poi qualcuno decise che il Tribunale dovesse decidere per il rigetto dell'istanza. Io e il mio assistito ci sentimmo presi in giro, in sostanza la Presidente, dicendomi che era superflua la mia arringa a corredo dell'istanza, aveva leso il dirotto alla difesa. Ma occorre abituarsi all'ingiustizia della giustizia. Soltanto i radicali, che non contano nulla, si preoccupano della situazione carceraria. Soltanto i radicali, che sono sensibili al problema, danno voce ai detenuti. Ma Radio Radicale è poco ascoltata, e se qualcuno che potrebbe intervenire ascolta per mero caso Radio Radicale, e la sua rubrica "Radio Carcere", fa orecchi da mercante. Il Ministro Orlando, Guardasigilli, fa tenerezza per la sua smaccata incompetenza. Qualcuno gli dica che un altro poveraccio si è impiccato in un carcere modello, tanto per non perdere tempo in attesa delle riforma della giustizia. La nostra legge ha suicidato un altro essere umano, non volendo o non potendo capire che un detenuto è comunque e prima di tutto un essere umano. Lettere: il Papa a Rebibbia e quella domanda al cimitero degli acattolici di Adriano Sofri Il Foglio, 4 aprile 2015 Giovedì pomeriggio ho guardato il Papa che lavava i piedi ai detenuti e li baciava e abbracciava, e gli agenti penitenziari che invidiavano i detenuti. Sabato mattina ho letto un pezzo sul Guardian che spiegava che la cristianità è una religione di perdenti, e dopo un andamento un po' tortuoso concludeva che questo è il bello. (Sui 530 commenti, almeno 400 fraintendevano). Ieri pomeriggio sono andato al cimitero degli acattolici (ma cristiani, i più) alla Piramide di Caio Cestio, e ho trovato un coreano inginocchiato per decifrare le scritte sulla tomba di Antonio Gramsci, mentre all'altro capo gruppi di occidentali si facevano fotografie sguaiate davanti al sepolcro di Keats. Voi magari conoscete la tomba di Umberto Missori: è abbastanza vicina all'entrata, a destra. È semplice, registra l'alfa e l'omega, il 1942 (era mio coetaneo) e il 1999. E la domanda, maiuscola: Novità? Forse lo conobbi, trovo poco sul suo conto: doveva essere socialista, o radicale, o le due cose, fu arrestato nel 1995 (se è lui, come credo) nell'inchiesta sulla cooperazione. Immagino che abbia dettato lui la domanda con cui interpellare i provvisori passanti. Quanto a rispondergli, ci sta tutto: Sì, No, Non so. Domani poi è domenica di Pasqua. Il giorno in cui il fallimento è riscattato, dice l'articolo del Guardian. Hallelujah. Lettere: "affondate D'Alema"… è il patto tra i Pm e Renzi ? di Piero Sansonetti Il Garantista, 4 aprile 2015 Non è che uno vuole essere malizioso, o complottista o chissà che. Solo che mette in ordine un po' di avvenimenti buffi e si fa un'idea. Gli avvenimenti sono questi. Il governo Renzi annuncia la riforma della giustizia. La riforma non piace ai Pm. In settembre i Pm spediscono avvisi di garanzia ai candidati renziani per la regione Emilia. Renzi allora frena sulla riforma. Poi a dicembre Renzi torna a parlare di riforma della giustizia e viene approvata una leggina sulla responsabilità civile. I pm si indignano. E aprono uno scandalo sul padre di Renzi. A questo punto Renzi frena di nuovo. Il suo ministro della giustizia apre a Gratteri (il Pm sceriffo di Reggio Calabria). Il padre di Renzi viene scagionato. Però si spara una intercettazione e fango contro il ministro Lupi, perché l'Ncd continua a mantenere una linea garantista. I Pm vogliono punire l'Ncd. Renzi fa fuori Lupi. L'Ncd è all'angolo. I Pm sono soddisfatti. Ed ecco che scende in campo Woodcok, il Pm che ha aperto più inchieste lui su persone famose di tutti gli altri Pm d'Europa messi in sieme (e ha ottenuto un numero pazzesco di archiviazioni). E che fa? Tira una carrettata di fango contro D'Alema, spargendo intercettazioni (prive di notizia di reato) un po' ovunque. Renzi è abbastanza contento. Noi, nei giorni scorsi, avevamo ipotizzato che ci fosse un patto tra Renzi e Pm, una specie di Nazareno-Due. Forse non era mica una nostra fantasia… Calabria: non c'è più sovraffollamento delle carceri, disponibili ancora circa 300 posti di Francesco Ridolfi www.ilquotidianoweb.it, 4 aprile 2015 I detenuti sono 2.367 mentre i posti disponibili sono 2670. Secondo il ministero della Giustizia in Calabria non c'è sovraffollamento ma in realtà le cose stanno un po' diversamente e tra la polizia penitenziaria emerge un problema di sicurezza. In Calabria ci sono in totale, secondo quanto riporta il ministero della Giustizia con statistiche aggiornate al 31 marzo 2015, 13 istituti carcerari per complessivi 2.670 posti disponibili a fronte di 2.367 detenuti ospitati. Limitandosi a questi numeri sembrerebbe di poter dire che no, in Calabria non c'è sovraffollamento, anzi ci sarebbero altri 300 possibili posti a disposizione. Ma in realtà la situazione appare un po' diversa perché se nei totali il sovraffollamento non c'è nei casi specifici delle singole carceri le cose cambiano e, inoltre, comincia a sorgere, a sentire gli esponenti sindacali di categoria, anche un problema di sicurezza legato al numero di agenti di polizia penitenziaria in servizio. In primo luogo tra i 13 istituti di pena indicati dal ministero figura ancora il carcere di Lamezia che però alcuni mesi fa è stato improvvisamente svuotato dei suoi detenuti. Infatti nella statistica del ministero, a fronte dei 46 posti disponibili, Lamezia Terme ospita 0 detenuti. Quindi il numero dei carcerati va ripartito non più in 13 strutture ma in 12. Ma anche questo non è del tutto vero in quanto un altro istituto, quello di Crotone, a fronte di 86 posti disponibili in verità ospita solo 4 detenuti di cui uno straniero. e il perché è presto detto: il carcere è in ristrutturazione quindi non può ospitare proprio nessuno. Evidenziato ciò, dunque, i penitenziari disponibili in Calabria scendono a 11 mentre i posti realmente utilizzabili, al netto del venir meno di Lamezia Terme e Crotone, scendono da 2.670 a 2.538. Il margine si è assottigliato ma ancora siamo entro i limiti visto che il totale dei detenuti in Calabria è di 2.367 unità di cui 55 donne (20 a Castrovillari, 1 a Cosenza e 34 a Reggio Calabria "Panzera") e 310 stranieri. Una puntualizzazione va fatta per la struttura di Laureana di Borrello che è riservata solo a detenuti a basso indice di pericolosità pertanto le sue disponibilità (34 posti) e i detenuti ospitati (17) vanno considerati a parte. Andando a guardare in dettaglio i dati si scopre che esistono in Calabria quattro penitenziari in provincia di Cosenza, due in provincia di Catanzaro (uno in verità è Lamezia di fatto inattivo mentre quello del capoluogo è il più grande della regione con 627 posti disponibili e 538 "ospiti"), uno a Crotone (anch'esso inutilizzabile), cinque in provincia di Reggio Calabria ed uno in provincia di Vibo Valentia. Di questi ben 6 presentano un lieve problema di sovraffollamento (Cosenza 237 detenuti contro 220 posti, Paola 187 detenuti contro 182 posti, Rossano con 230 detenuti contro 215 posti, Locri con 125 detenuti contro 89 posti, Palmi con 164 carcerati contro 152 posti e Reggio Calabria "Panzera" con 242 carcerati contro 184 posti disponibili) ma in linea di massima il problema sembra essere rientrato anche grazie all'apertura di nuovi padiglioni in diverse strutture come ad esempio Vibo Valentia che oggi ospita 306 detenuti contro i 407 posti disponibili. Ma, come detto, adesso il problema che comincia a manifestarsi con forza nelle carceri calabresi è un altro ossia quello della sicurezza perché anche in forza della spending review il personale di Polizia penitenziaria in servizio nelle strutture non sempre è in numero adeguato in rapporto ai detenuti senza contare che in Calabria, secondo voci ufficiosi, starebbero stendando a decollare i progetti di sorveglianza dinamica tesi consentire un controllo migliore degli ospiti delle strutture. Sardegna: Caligaris (Sdr); le carceri di Iglesias e Macomer cancellati da elenchi Dap Ristretti Orizzonti, 4 aprile 2015 "La Sardegna dal mese di marzo conta non più 12 ma 10 Istituti Penitenziari. Sono stati infatti cancellati dagli elenchi del Ministero della Giustizia le Case Circondariali di "Sa Stoia" a Iglesias, nel Sulcis, e di "Bonu Trau" a Macomer, nel Nuorese. Un chiaro segnale di una chiusura ormai inappellabile". Lo afferma Maria Grazia Caligais, presidente dell'associazione "Socialismo Diritti Riforme", con riferimento ai dati diffusi dal Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria relativi alla capienza regolamentare e alla presenza dei detenuti aggiornate al 31 marzo scorso. "Sembrano quindi del tutto tramontate - sottolinea Caligaris - le speranze degli amministratori locali che avevano assunto alcune iniziative per mantenere in piedi gli Istituti Penitenziari. Lo svuotamento degli edifici, con il trasferimento degli Agenti e degli Educatori, sancirà la chiusura definitiva delle Case Circondariali rendendo necessario un progetto per evitarne il degrado". "Alla riduzione del numero degli Istituti e quindi dei posti letto passati da 2.774 del mese di febbraio ai 2.671 del mese scorso corrisponde però - osserva la presidente di Sdr - una crescita complessiva del numero dei detenuti. Erano 1.834 e sono diventati 1.849 con un incremento di presenze a Tempio Nuchis (+ 32), Cagliari Uta (+23), che con 659 posti regolamentari diventerà presto la struttura penitenziaria regionale più grande per presenze, e Sassari Bancali (+ 10), quest'ultimo ormai giunto quasi alla saturazione (341 detenuti per 363 posti). Le situazioni più delicate attualmente sono tuttavia quella di Nuchis, dove a fronte di 167 posti sono rinchiuse 199 persone, e di Massama Oristano 266 posti per 282 presenze, trattandosi entrambe destinate al regime di Alta Sicurezza". "Restano perlopiù sottodimensionate le Case di Reclusione di Is Arenas (70 presenti per 176), Isili (84 per 185) e Mamone (120 per 392). Aldilà dei numeri però è evidente che - conclude Caligaris - è cambiata notevolmente in Sardegna la fisionomia dei cittadini privati della libertà la maggior parte dei quali ormai non solo vengono dalla Penisola ma sono inquadrati in circuiti di alta sicurezza. Una condizione significativa per la tipologia di reati loro ascritti che desta non poche preoccupazioni per l'aumento dei rischi di diffusione e radicamento di forme di criminalità organizzata nel territorio isolano". Toscana: il Consigliere Nascosti "Opg, buone intenzioni ma questione gestita malissimo" www.gonews.it, 4 aprile 2015 Il Consigliere regionale Nicola Nascosti interviene sulla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) e la creazione di Rems (Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza detentive) a partire dal 31 marzo scorso che interessa sei strutture a livello nazionale e una in Toscana, a Montelupo Fiorentino. Una questione a suo avviso "gestita malissimo, perché non si è stati attenti al progetto con cui si voleva de-istituzionalizzare questi pazienti, che sono, però, socialmente pericolosi, non solo a loro stessi, ma anche ad altri". Nascosti fornisce inoltre alcune importanti cifre circa la ricollocazione dei pazienti. "Considerate le condizioni inaccettabili più volte rilevate negli Opg - spiega Nascosti - la loro chiusura, è un evento importante perché pone in primo piano il diritto alla cura (secondo il concetto psichiatrico di "recovery") e non alla punizione delle oltre 700 persone "custodite", colpevoli di delitti e giudicate incapaci di intendere e di volere". "Il modello proposto - aggiunge il consigliere - passaggio previsto dalla Legge 81/2014, è quello delle "Residenze sanitarie per l'esecuzione della misura di sicurezza (Rems)" strutture in grado di accogliere gli internati nel rispetto del diritto alla cura e all'inclusione sociale oltre che a garantirne la misura detentiva. Ogni Rems dovrebbe ospitare al massimo 20 internati per consentire un approccio più mirato, attento alle caratteristiche di ogni internato. In altre parole, e in teoria, queste strutture saranno destinate a ricoveri e non a reclusioni, alla cura e non alla custodia, il tutto volto al recupero e alla deospedalizzazione. Tuttavia le Rems - incalza Nascosti - non saranno comunità terapeutiche ma, piuttosto, luoghi di contenimento, e nella fase iniziale ci saranno due tipi di Rems: quelle di valutazione e di stabilizzazione e quelle degli stabilizzati". Alla luce di queste premesse il consigliere regionale Nascosti si chiede: "Se, per un verso, è un evento atteso, per un altro verso la perentorietà della data di chiusura, nelle attuali condizioni, alimenta un dubbio: realtà o manovra elettorale? Non basta, infatti, chiudere (o annunciare la chiusura) delle vecchie strutture per considerare il problema risolto. Dovevano infatti essere già state realizzate le Rems in grado di accogliere queste persone per le finalità prima dette". Possiamo parlare di una rivoluzione? "La realtà è ben diversa dall'enfasi posta sulla chiusura - risponde Nascosti - Dopo tanto tempo, convegni, tavoli, parole, infatti, non risulta che le regioni abbiano ancora potenziato i servizi sanitari e reso fruibili le strutture alternative. Molte non sono ancora pronte, molte sono piene. In altri termini le Regioni, tra queste la Toscana, sono inadempienti perché finora hanno dimostrato di non riuscire a trovare una soluzione adeguata nei tempi previsti dalla legge". "Restando nell'ambito della Regione Toscana, si pensi che fino alle ore 13.00 del 31 marzo la sede dell'istituto Mario Gozzini (struttura adiacente al Complesso Penitenziario di Sollicciano, ma autonomo sia come funzioni che come edificio ndr) non era prevista ed erano in corso trattative con l'assicurazione Unipol per l'acquisto di Villa Nova. Evidentemente la trattativa non è andata a buon fine e si è optato per l'istituto Gozzini, che è un carcere, sia pure a custodia attenuata che ritengo assolutamente non adeguato alle esigenze". "Cosa sia veramente accaduto per tale opzione non è dato saperlo - aggiunge Nascosti - eppure il tempo c'è stato e sono stati spesi molti soldi dei contribuenti per lavori presso l'Opg di Montelupo Fiorentino. Nella recente delibera della Regione toscana, si stabilisce infatti: - di impegnare la Asl 10 di Firenze ad eseguire l'analisi di fattibilità inerente la quantificazione e qualificazione degli interventi di adeguamento dell'Istituto Mario Gozzini a Sollicciano (conosciuto come "Solliccianino"), corredandola di cronoprogramma; - di attivare un tavolo regionale congiunto delle autorità coinvolte nel processo di superamento dell'Opg, coordinato dalla Direzione Generale Diritti di cittadinanza e coesione sociale, con la partecipazione del Provveditore dell'Amministrazione Penitenziaria per la Toscana, del Presidente del Tribunale di Sorveglianza, del Direttore Generale dell'Asl 10 di Firenze ed il supporto dei Settori regionali e territoriali competenti, al fine di garantire la sinergia delle azioni di rispettiva competenza e presidiare il monitoraggio ed il coordinamento degli interventi volti ad assicurare il superamento dell'Opg; - di organizzare corsi di formazione per gli operatori per la progettazione e organizzazione di percorsi terapeutico-riabilitativi e le esigenze di mediazione culturale; - di riqualificare i dipartimenti di salute mentale, contenendo il numero complessivo di posti letto da realizzare nelle strutture sanitarie; di predisporre percorsi terapeutico-riabilitativi individuali di dimissione di ciascuna delle persone ricoverate in Opg. "Come si vede è tutto "da farsi" - tira le somme il consigliere regionale Nascosti e fornisce un po' di numeri importanti per capire a che punto siamo. Dal 2011 sono stati promossi e sostenuti a livello regionale 65 programmi di dimissione dall'Opg, per favorire il rientro degli internati toscani. I 65 percorsi di dimissione attivati sono stati diretti per il 73% in comunità terapeutiche psichiatriche, per il 9% in comunità terapeutiche per doppia diagnosi, il 14% in residenze sociali e il 4% al domicilio proprio o dei familiari. Con varie delibere, la giunta regionale ha stabilito il potenziamento della rete dei servizi territoriali, l'attivazione delle residenze intermedie, la realizzazione di una residenza destinata ad accogliere i pazienti internati con misure di sicurezza detentiva, la formazione professionale e l'aggiornamento continuo degli operatori, l'adeguamento della dotazione di personale, il sostegno dei percorsi di dimissioni per gli internati toscani e gli stranieri senza fissa dimora". "Ad oggi nell'Opg di Montelupo sono presenti 115 internati, di cui 49 toscani, il resto da altre regioni. In più, 1 toscano è nell'Opg di Reggio Emilia e 2 donne toscane sono nell'Opg di Castiglione delle Stiviere. I pazienti di altre regioni verranno presi in carico dalle rispettive Regioni. La Regione Toscana ha individuato soluzioni innovative, basate su tre livelli: 1° livello: Rete ordinaria dei servizi territoriali 2° livello: Residenze intermedie e moduli 3° livello: Residenza con sorveglianza intensiva Per quanto riguarda i pazienti toscani, queste le soluzioni individuate: - per alcuni di loro (14) ci sono percorsi di dimissione in corso; - per 22, l'Istituto Mario Gozzini a Sollicciano (sorveglianza intensiva); - 12 andranno nella struttura realizzata nel padiglione Morel presso l'ospedale di Volterra (servirà la zona da Massa Carrara all'isola d'Elba) (struttura intermedia); - 10 nella comunità terapeutica "Tiziano" di Aulla, già funzionante (struttura intermedia); - 8 a Le Querce, a Ugnano, Firenze (struttura intermedia); per l'Area vasta sud sono stati individuati 2 moduli, ciascuno di 4 posti, in due strutture a Siena e Arezzo, che entreranno in funzione a ottobre. "Il passaggio dal controllo del Ministero della Giustizia a quello della Sanità, con conseguenti significativi cambiamenti nella gestione dei pazienti pone diverse problematiche relative alla conversione prevista dalla Legge che all'interno delle Rems, prevede la presenza del solo personale sanitario e siano ricoverati i pazienti psichiatrici considerati socialmente più pericolosi". "Inappropriate - spiega Nascosti - sembrano le misure adottate per la nuova gestione dei pazienti e, soprattutto, per la messa in sicurezza degli operatori che lavoreranno nelle Rems. Mentre, infatti, negli Opg è prevista la polizia penitenziaria che quotidianamente affianca e aiuta nel rispetto delle regole nella struttura, nelle Rems la polizia penitenziaria non ci sarà. Al momento, infatti, la legge affida il compito di gestire gli internati al solo personale interno alle Rems, con la collaborazione della Polizia penitenziaria solo all'esterno della struttura ed eventualmente in caso di spostamenti; è previsto un monitoraggio video-camerale all'interno del perimetro della Rems, in teoria affidata al Ministero della Giustizia, quindi all'amministrazione penitenziaria. Di fatto, però, non è previsto l'utilizzo del personale, con un controllo da remoto. il che non è esattamente sinonimo di sicurezza, né per il personale né per la collettività. L'unico personale di vigilanza sul luogo sarà, perché questo prevede la legge, la guardia privata". "Il problema di sicurezza del personale che lavorerebbe nelle strutture - aggiunge ancora Nascosti - non si fermerebbe al pericolo legato alle malattie psichiche dei pazienti e quindi socialmente pericolosi. Infatti, una percentuale di internati è costituita che fanno parte di organizzazioni malavitose. Quindi, c'è la possibilità di convivenza anche con eventuali membri di cosche e clan che, in assenza di una polizia penitenziaria, potrebbero ritessere rapporti malavitosi. Tra i 20 internati accolti nelle Rems, quindi, basterebbe che solo uno fosse legato alla malavita per procedere con minacce più o meno velate al personale sanitario, che non avrebbe un contatto significativo con la Polizia penitenziaria, ma solo con la vigilanza privata che non può intervenire fisicamente in caso di emergenza". "La legge che ha sancito la chiusura dei "manicomi criminali", ha un vulnus: a causa di una norma contenuta nella legge i giudici sono tenuti a revocare le misure di sicurezza per gli internati giudicati pericolosi che, però, abbiano superato il limite massimo della pena edittale, cioè quella che avrebbero dovuto scontare in carcere se fossero stati giudicati capaci di intendere e di volere. Occorre quindi una modifica del codice penale che, in caso di vizio di mente, consenta di detenere e curare le persone più gravi in case circondariali. E nel frattempo? Ciò che preoccupa è la possibilità di distinguere chiaramente le funzioni socio-sanitarie da quelle di sorveglianza, custodia e sicurezza che non competono a chi si occupa di salute mentale. Occorre, quindi, arrivare a dei protocolli operativi molto precisi sulle singole responsabilità e le singole funzioni per garantire i diritti degli utenti, quelli degli operatori sanitari e quelli dei cittadini". "Altra criticità - conclude Nascosti - è la carenza cronica di personale. Infatti, l'impegno per le attività delle Rems potrebbe causare un apporto di personale che non è dedicato esplicitamente a queste strutture con una riduzione dei servizi per tutti gli altri utenti". "In conclusione, le intenzione sono buone, ma la questione è stata gestita malissimo, perché non si è stati attenti al progetto con cui si voleva de-istituzionalizzare questi pazienti, che sono, però, socialmente pericolosi, non solo a loro stessi, ma anche ad altri". Firenze: un altro decesso a Sollicciano, muore detenuto di origine tunisina di 42 anni www.toscanamedianews.it, 4 aprile 2015 La denuncia dell'Osapp: "Siamo sicuri che sia infarto? Meglio escludere Notte Bianca". Il carcere fiorentino doveva essere coinvolto nell'evento. "Ieri mattina verso le 8,30 un detenuto di origine tunisina di 42 anni, ristretto nella sezione giudiziaria del carcere di Firenze Sollicciano è deceduto, all'apparenza, a seguito di infarto. Per quanto ci è dato di conoscere a nulla sono valsi i protratti tentativi di soccorso posti in essere nell'immediatezza dal personale sanitario e da quello di polizia penitenziaria. Alle ore 9 è stato dichiarato il decesso". Lo riferisce il sindacato Osapp, l'Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria, tramite il segretario generale, Leo Beneduci. "Ci auguriamo - scrive ancora l'Osapp - che effettivamente le cause del decesso siano da ascrivere a motivi cardiaci tenuto conto che nel recente passato dell'istituto fiorentino altre morti dubbie erano stato attribuite al consumo di sostanze stupefacenti, così come ci auguriamo che il ristretto che svolgeva attività lavorativa come addetto alle pulizie fosse stato sottoposto ai prescritti controlli sanitari per l'idoneità al lavoro". "Peraltro - conclude Beneduci - qualcuno prima o poi dovrebbe prendere atto che l'istituto penitenziario di Sollicciano viaggia sulla media di un decesso a settimana per cui come primo intervento sarebbe il caso di escludere che l'Istituto diventi nei prossimi giorni sede degli apertivi e della notte bianca organizzati dalla direzione e senza che il personale ne venisse in alcun modo informato". Radicali: Stato incapace, assicurare diritto alla salute Dopo la notizia diffusa dall'Osapp sulla morte (probabilmente per infarto, ndr) di un detenuto nel carcere di Sollicciano, sono intervenuti Maurizio Buzzegoli e Massimo Lensi, rispettivamente segretario e presidente dell'Associazione radicale Andrea Tamburi: "Aldilà della causa della morte del detenuto, è preoccupante questo aumento del tasso di decessi nelle carceri toscane: lo Stato è incapace di custodire i propri cittadini" Buzzegoli e Lensi si soffermano sul problema della salute in carcere: "Secondo un'indagine dell'Agenzia Regionale della Sanità, il 71,8% dei detenuti toscani è affetto da almeno una patologia, spesso incompatibile con la detenzione: una difficoltà che si acuisce vista l'assenza di livelli assistenziali sanitari adeguati". Infine i due esponenti radicali ricordano l'impegno della segretaria di Radicali Italiani: "Rita Bernardini è giunta al 30° giorno di sciopero della fame per proporre l'amnistia: unica soluzione in grado di porre fine a questa crudele mattanza che avviene nelle carceri italiane". Macomer (Nu): Sappe "mistero sui documenti del carcere, dove sono finiti i registri?" La Nuova Sardegna, 4 aprile 2015 Che fine hanno fatto i documenti riservati, tra i quali i registri dei detenuti, dell'ex carcere di Macomer? Chi può consultarli liberamente e accedere a notizie riservate delicatissime? A porsi queste domande è Donato Capece, segretario generale del Sappe, il Sindacato autonomo della polizia penitenziaria, il quale dopo le notizie diffuse nel corso di un programma televisivo andato in onda una settimana fa, ha manifestato preoccupazione per l'accessibilità ai documenti e ai registri della struttura penitenziaria nella quale sono stati reclusi detenuti legati al terrorismo islamico considerati pericolosi soprattutto per l'opera di proselitismo che potrebbero aver compiuto nei confronti di altri detenuti finiti in carcere per reati comuni. "Trovo sorprendente - scrive in un comunicato - che materiale riservato e sensibile come i registri a vario titolo riferiti ai detenuti dell'ex carcere di Macomer possano essere ancora oggi nella condizione di essere accessibili a tutti. Vuol dire che l'Amministrazione penitenziaria ha sottovaluto l'importanza di quei carteggi, e questo è grave. A Macomer erano detenuti fondamentalisti islamici e il Sappe aveva in più occasioni sottolineato come il carcere fosse luogo sensibile, da monitorare costantemente per scongiurare pericolosi fenomeni di proselitismo del fondamentalismo islamico tra i detenuti presenti in Italia. La polizia penitenziaria, attraverso gruppi selezionati e all'uopo preparati, monitora costantemente la situazione, ma non dimentichiamo che oggi è ancora significativamente alta la presenza di detenuti stranieri in Italia". Donato Capece sottolinea inoltre che indagini condotte negli istituti penitenziari di alcuni paesi europei tra cui Italia, Francia e Regno Unito hanno rivelato l'esistenza di allarmanti fenomeni legati al radicalismo islamico, "che anche noi come primo sindacato della polizia penitenziaria - scrive - abbiamo denunciato in diverse occasioni". Si sofferma poi sul proselitismo e sul fatto che detenuti comuni si siano trasformati in estremisti sotto l'influenza di altri detenuti già radicalizzati. Parla infine "del gravoso compito affidato alla polizia penitenziaria di monitorare costantemente la situazione nelle carceri per accertare l'eventuale opera di proselitismo di fondamentalismo islamico nelle celle, ma fa capire - conclude - anche le gravi responsabilità di chi non ha protetto con le dovute accortezze il materiale cartaceo riferito alla detenzione a Macomer di detenuti islamici particolarmente pericolosi e fanatici". Napoli: a Secondigliano, in coda dalle 3 del mattino per fare visita ai parenti detenuti di Ferdinando Bocchetti Il Mattino, 4 aprile 2015 In fila dalle 3 del mattino per visitare i detenuti del carcere di Secondigliano. C'è chi ha dormito in auto, chi è in piedi e chi è appoggiato a sedie di fortuna. Tutti ad aspettare le 8 del mattino, quando il cancello dell'istituto penitenziario si apre e potranno iniziare le procedure per l'accettazione dei familiari dei detenuti in attesa dei colloqui con i propri congiunti. Per ogni detenuto possono entrare tre adulti e due bambini fino ad otto anni. "Le guardie carcerarie - dice Giovanna - arrivano verso le 6,30 e così nasce una sorta di lista. Se tutto fila per il verso giusto, dopo aver fatto la fila notturna, te la cavi in sette-otto ore". Qualcun altro reclama alzando la voce: "È come essere alla posta, con gente che non vedi in fila ma che entrano prima degli altri". Centinaia di persone, dal lunedì al venerdì, devono esser sottoposte ai controlli di legge prima di avere accesso alle sale predisposte per i colloqui. E così in tanti trascorrono la notte in attesa, pur di essere i primi ad entrare. Salerno: le Rems non sono pronte, nel carcere apre una Sezione per i detenuti psichiatrici La Città di Salerno, 4 aprile 2015 Il 31 marzo sono stati chiusi gli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) che in Campania sono due, ad Aversa e Napoli. Si è aperto un nuovo percorso con il graduale trasferimento delle persone internate negli Opg ai servizi esterni. Resta però ancora da capire quale sarà il destino degli internati che lasciano i sei ospedali psichiatrici giudiziari italiani, che dovranno essere ospitati nelle Rems, le Residenze per l'esecuzione della misura di sicurezza. Le strutture non sono ancora pronte e in Campania saranno due, in provincia di Caserta e di Avellino. Nel frattempo sono state attivate le pre-Rems, a Rocca Romana, in provincia di Caserta (20 posti letto), a Mondragone in provincia di Caserta (8 posti letto) e a Bisaccia in provincia di Avellino (10 posti letto). La Regione Campania ha poi previsto che ogni provincia sia dotata di una sezione di salute mentale in carcere. Inoltre la legge 81/2014 fa obbligo alle aziende sanitarie di predisporre per i cittadini autori di reato e con patologie psichiche, un Progetto terapeutico riabilitativo individuale (Ptri) da trasmettere alla magistratura. "Questa attività viene garantita per la Asl Salerno dal servizio Superamento Opg e salute mentale in carcere, articolazione della sanità penitenziaria, che opera in diretta collaborazione ai servizi del Dipartimento di salute mentale e dell'autorità giudiziaria - spiega il direttore generale della Asl Salerno Antonio Squillante. L'apertura della sezione di salute mentale in carcere, nella casa circondariale di Salerno, ampliando l'offerta di servizi a questo particolare tipo di pazienti, permetterà una ulteriore collaborazione inter-istituzionale". "Con notevoli difficoltà per il coinvolgimento delle risorse necessarie ovvero di dirigenti medici, psicologi e personale del comparto - prosegue Squillante - l'Asl è riuscita, a far partire dal 1° aprile la struttura della salute mentale in carcere presso la casa circondariale di Salerno. Tale organizzazione consente di accogliere questa particolare tipologia di pazienti fornendo adeguate risposte che salvaguardano la dignità della persona in un contesto assistenziale particolare". Per l'attivazione del servizio di salute mentale l'Asl ha attivato una gara per l'individuazione di un'agenzia interinale che fornisca 2 ostetriche, 3 fisioterapisti, 28 infermieri, 3 assistenti sociali, 9 operatori socio sanitari. Pesaro: l'on. Ricciatti (Sel) visita il carcere "Istituto modello ma edifici fatiscenti" Corriere Adriatico, 4 aprile 2015 Ieri mattina la deputata di Sinistra ecologia e libertà ha utilizzato le prerogative ispettive riconosciute ai parlamentari. "Dopo i recenti fatti di cronaca che hanno interessato la struttura - afferma la parlamentare fanese dopo la visita - ho voluto verificare personalmente le condizioni del carcere. Ho potuto constatare condizioni di detenzione generalmente buone, grazie all'impegno quotidiano e alla dedizione di dirigenti e agenti della polizia penitenziaria, tuttavia destano preoccupazione le condizioni di fatiscenza della struttura". Diversi edifici della Casa circondariale presentano un evidente stato di degrado che rende particolarmente gravose le condizioni di detenzione, privando, allo stesso tempo, i detenuti di potenziali spazi da dedicare ad attività rieducative. "La Casa circondariale è considerata un fiore all'occhiello del nostro sistema penitenziario - continua Ricciatti - soprattutto se paragonata ad altri Istituti. La sezione femminile, in particolare, è un esempio di gestione che dovrebbe essere replicato in altre strutture. Restano però alcune criticità sul piano della rieducazione della pena che trova diverse limitazioni nella scarsità di risorse economiche e di spazio". "A Villa Fastiggi ci sono le condizioni per costruire un modello di detenzione che rispetti pienamente il dettato costituzionale in ordine alla funzione rieducativa della pena. Un tema troppo spesso trascurato a causa delle difficoltà di bilancio e di una cultura della pena intesa spesso in termini afflittivi. Intendo richiamare l'attenzione del ministro della Giustizia Orlando - ha concluso Ricciatti - per sollecitare un suo intervento affinché i passi fatti negli ultimi due anni verso un sistema di detenzione più giusto, possano rafforzarsi ed avvicinarci a standard di civiltà giuridica europei". Reggio Calabria: Nasone (Agape); in carcere il concetto di rieducazione è riduttivo di Domenico Grillone www.strill.it, 4 aprile 2015 "Se dovessimo paragonare il carcere ad un ospedale dovremmo dire allora che il carcere non cura. Anzi, per certi versi fa ammalare". Per Mario Nasone, già direttore dell'Uepe, l'Ufficio dell'esecuzione penale esterna del ministero della Giustizia, e presidente del Centro Comunitario Agape, il concetto di rieducazione è abbastanza riduttivo quando viene ricondotto alle semplici strutture penitenziarie, travolte dal problema del sovraffollamento e di mancanza di strutture adeguate. Oltre a mille altri problemi tra cui l'incertezza della pena, la lentezza della giustizia italiana (oltre il 35% dei reclusi in attesa di una sentenza), ma anche la mancanza di opportunità di lavoro socialmente utili, il pilastro per un sistema penitenziario con l'obiettivo della reintegrazione nella società. Per tutto questo, ed altro ancora, più d'uno afferma che le carceri italiane sembrano destinate alla "reintegrazione nella criminalità", vista la tendenza recidiva di coloro che hanno scontato la pena. Il caso di Santo Barreca, l'ergastolano che dopo 25 anni di carcere è stato ammesso al lavoro esterno e della cui storia si scrive a parte, per studiosi ed esperti sembra essere più un'eccezione che la regola, pur lodando la sua effettiva trasformazione in una persona totalmente diversa da quando varcò la soglia del carcere. Ancor più perché proviene da un tipo di regime carcerario di alta sicurezza, quello che coinvolge detenuti con un alto spessore criminale e con sentenze definitive molto pesanti. Diversa è la posizione di tutte quelle persone condannate che scontano la pena fuori dal carcere, tecnicamente detta "esecuzione penale extra muraria" e che rientra nelle misure alternative alla detenzione vera e propria, quella dentro una cella, e che riguardano pene che mediamente non superano i quattro anni. Con l'aiuto del presidente Nasone siamo andati a verificare i dati delle misure alternative dell'Ufficio dell'esecuzione penale esterna di Reggio Calabria riferiti all'anno scorso. Dati da cui emerge che 512 persone, di cui 61 tossicodipendenti, hanno ricevuto la misura alternativa al carcere dell'affidamento in prova. Sul totale, 512, 414 persone provenivano dalla libertà, nel senso che dopo la condanna sono stati direttamente beneficiati della misura alternativa al carcere. La misura alternativa della detenzione domiciliare ha invece coinvolto 484 persone, di cui 265 dalla libertà. Ventisei, invece, i detenuti in semilibertà, provenienti ovviamente dalla detenzione. "Sono pochi quelli che credono che il carcere possa essere un luogo che rieduchi - spiega Mario Nasone - non lo crede quasi nessuno. Però penso che, nonostante questo tipo di carcere, una persona può fare un cammino di cambiamento. Gli operatori penitenziari, nonostante le difficoltà, fanno di tutti per dare uno stimolo . È chiaro che ci sono carenze strutturali enormi, ci vorrebbero dei locali, laboratori e tutto quello che serve per rendere la vita più dignitosa, e gli operatori fanno miracoli perché cercano di sopperire a tutto questo con dei rapporti personali che in alcuni casi compensano le evidenti difficoltà strutturali.". Diverso è quando la detenzione è lunga. "In questo caso le cose diventano difficili perché la gente si stabilizza in negativo. Quando invece il carcere dura poco, usando poi le misure alternative, allora le cose possono cambiare, e mi riferisco ovviamente ai detenuti comuni". Che le misure alternative al carcere funzionino lo dicono i numeri: solo al cinque per cento delle persone che hanno avuto questo tipo di beneficio sono state revocate le stesse misure. "Tutto questo - continua Nasone - permette il decongestionamento delle strutture penitenziarie. Se non ci fossero queste misure alternative il carcere scoppierebbe in maniera devastante". Il problema vero, per Nasone, è la recidiva. Evitare, cioè, che le persone che escono dal carcere ci ritornino. Una sorta di "sliding doors" (porte girevoli) che rappresenta la sconfitta dello Stato. "Il problema non è tanto pensare ad un indulto o come decongestionare le carceri - evidenzia il presidente dell'Agape - ma piuttosto pensare a cosa fa lo Stato per evitare che le persone, uscendo dal carcere, non ricadano nel crimine. Perché lo Stato dovrebbe innanzitutto stimolare la persona ad accettare, a volere il cambiamento, e poi dovrebbe dare opportunità non solo dentro ma soprattutto fuori dal carcere". Negli Stati Uniti, Francia e in Germania la metà dei condannati sconta la pena fuori dal carcere, lavorando in progetti di pubblica utilità, ovviamente quando si tratta di una pena breve. "In questo caso il giudice - dice ancora Nasone - già in sede di processo decide di far scontare la pena a tal modo. E questo serve ad evitare che entrino nel carcere persone che non dovrebbero entrarci perché, come diceva il cardinale Martini, nel carcere dovrebbero entrarci le persone davvero pericolose, quelli coinvolti in reati di mafia, trafficanti di droga e per reati gravi. Il resto della popolazione carceraria, i cosiddetti detenuti comuni, quelli che vengono dalle sacche dell'emarginazione e dalla povertà dovrebbero essere trattati fuori. E costerebbero allo Stato molto meno". Ragusa: Donne a Sud entrano nel carcere per "curare le emozioni" dei sex offender www.ragusah24.it, 4 aprile 2015 Il progetto si rivolge ai detenuti per reati contro la persona o rinchiusi in sezioni specializzate perché non accettati nemmeno dagli altri detenuti. Ciò comporta un maggiore isolamento e un rischio per l'incolumità personale perché sono maggiormente propensi al suicidio. Dopo l'incontro del 25 novembre scorso, in occasione della Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne, l'associazione Donne a Sud è tornata, da marzo, nel carcere di Contrada Pendente a Ragusa, con un progetto rivolto proprio ai detenuti della sezione Sex Offender. Si chiama "Curare le emozioni" e terminerà il 7 maggio. La violenza sulle donne va combattuta con ogni mezzo a nostra disposizione. Con le denunce delle vittime, in primis, ma anche con l'aiuto nei confronti di chi si è macchiato di reati su soggetti deboli (donne, bambini e disabili) affinché capisca la gravità inaudita di ciò che ha fatto e comprenda perché, una volta saldato il conto con la giustizia, non dovrà più adottare comportamenti recidivi. Per raggiungere tale ambizioso obiettivo, la nostra associazione, in sinergia con il Rotary International di Ragusa, ha deciso di andare direttamente dove può entrare in contatto con i cosiddetti "sex offender", ossia in carcere, a Ragusa. Dal 5 marzo, infatti, nella struttura penitenziaria di Contrada Pendente è partito il progetto "Curare le emozioni" che prevede, attraverso un ciclo di incontri con detenuti selezionati dall'Ufficio Educatori, non solo discussioni di gruppo centrate sulle difficoltà relazionali e l'espressione di emozioni e sentimenti, ma anche la possibilità, per questi uomini, di poter partecipare al laboratorio "Attività Espressiva", partendo dal concetto dell'arte come esperienza terapeutica. Il progetto si rivolge, come detto, ai "sex offender", ossia a detenuti per reati contro la persona o rinchiusi in sezioni specializzate perché non accettati nemmeno dagli altri detenuti. Ciò comporta per loro un aumento dell'afflizione, un maggiore isolamento e un rischio per l'incolumità personale perché tali detenuti, sotto regime di attenta sorveglianza da parte degli agenti di polizia penitenziaria, sono maggiormente propensi al suicidio. Il progetto "Curare le emozioni", elaborato dalla nostra psicologa, dr.ssa Deborah Giombarresi, e dalla nostra assistente sociale, dr.ssa Alessandra Cerro, prevede, oltre al confronto verbale, attività come l'ascolto di musica, la produzione di disegni e l'elaborazione di storie, al fine di incrementare, nei partecipanti, la percezione di sé come individui capace di esprimere emozioni non violente. Fondamentale si sta rivelando la collaborazione con gli educatori ministeriali e con la polizia penitenziaria, che ringraziamo per l'accoglienza riservataci e che avevamo già avuto modo di apprezzare durante l'incontro del 25 novembre scorso. Un ringraziamento speciale va, inoltre, alla direttrice della struttura penitenziaria, dr.ssa Giovanna Maltese, e alla dr.ssa Rosetta Noto, responsabile per il reinserimento sociale della struttura penitenziaria. Il progetto si concluderà il 7 maggio. Torino: Sappe; detenuto marocchino aggredisce un poliziotto penitenziario www.torinotoday.it, 4 aprile 2015 Una nuova aggressione all'interno del carcere di Torino. Nella struttura "Lorusso e Cutugno" un agente della Settima sezione è stato colpito violentemente da un detenuto marocchino mentre era intento a svolgere il suo lavoro. È successo nella giornata di ieri intorno all'ora di pranzo. "La situazione resta allarmante - tuona il segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, Donato Capece dopo l'ennesimo brutto episodio. Quanto accaduto è il culmine di una situazione che vede il penitenziario di Torino sommerso da tante problematiche. Eventi del genere sono purtroppo sempre più all'ordine del giorno e a rimetterci è sempre e solo il personale di Polizia Penitenziaria". I dati del 2014 parlano chiaro: nelle carceri italiane ci sono state ben 1.609 colluttazioni e 444 ferimenti dal 1 gennaio al 30 giugno. "Sono anni che sollecitiamo di dotare le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria di strumenti di tutela efficaci - continua Capece -, come può essere proprio lo spray anti aggressione recentemente assegnato - in fase sperimentale - a Polizia di Stato e Carabinieri. Mi auguro che il Ministro della Giustizia Andrea Orlando, dopo il grave episodio di Torino, valuti positivamente questa nostra proposta e, quindi, assuma i provvedimenti conseguenti". Pisa: tornano le "cene galeotte" nel carcere di Volterra www.ilcittadinoonline.it, 4 aprile 2015 Lo chef di turno è la stellata Cristina Bowerman. Grandissimo appuntamento quello in programma venerdì 17 aprile al carcere di Volterra: a guidare i detenuti nella realizzazione della prossima Cena Galeotte sarà infatti la Stella Michelin Cristina Bowerman del ristorante Glass Hostaria di Roma. Originaria di Cerignola, in provincia di Foggia, dopo la laurea in Giurisprudenza Crisitna Bowerman lascia nel 1992 la Puglia per gli Stati Uniti, destinazione San Francisco: al coffee house Higher Ground matura la sua passione per la cucina, da sempre covata grazie soprattutto agli insegnamenti della mamma e della nonna. Nel 1998 si trasferisce ad Austin, dove consegue la laurea in Culinary Arts avviando il suo personale percorso formativo mettendo a punto tecnica e disciplina, lavorando molto su pulizia e concentrazione dei sapori. Nel 2005 torna in Italia, approdando dopo una prima importante esperienza Al Convivio dei fratelli Troiani a Roma a Glass Hostaria, locale aperto da pochi anni nel cuore di Trastevere: qui Cristina comincia a proporre la sua cucina decisamente originale, frutto delle diverse esperienze all'estero, dei tanti viaggi personali e professionali, dei numerosi stage presso importanti ristoranti di tutto il mondo per apprendere e affinare tecniche e conoscenze nuove. La consacrazione della stella Michelin nel 2010 e i numerosi altri riconoscimenti non placano la sua voglia di studiare, sperimentare e rischiare, dedicandosi ad esempio anche allo street food, che sia in chiave gourmet o on the road. Nel 2014 ha pubblicato il suo primo libro per Mondadori: Da Cerignola a San Francisco e ritorno - La mia vita di chef controcorrente. Cristina Bowerman è tra gli Chef Ambassador di Expo Milano 2015. Ad accompagnare il menu saranno le etichette offerte dall'azienda Sant'Agnese di Piombino e dagli extra vergini della Montalbano Agricola di Lamporecchio. L'intero ricavo della serata sarà devoluto a sostegno della Caritas Firenze. Le Cene Galeotte sono possibili grazie all'intervento di Unicoop Firenze, che oltre a fornire le materie prime assume i detenuti retribuendoli regolarmente. Il progetto è realizzato con la collaborazione del Ministero della Giustizia, la direzione della Casa di Reclusione di Volterra, la supervisione artistica del giornalista Leonardo Romanelli. Un ruolo fondamentale è inoltre ricoperto dalla Fisar-Delegazione Storica di Volterra, che è partner del progetto e si occupa sia della selezione delle aziende vinicole, sia del servizio dei vini ai tavoli. Droghe: Rita Bernardini coltiva marijuana sul terrazzo, punite i Pm che non la arrestano! di Errico Novi Il Garantista, 4 aprile 2015 La Segretaria Radicale pianta altra marijuana sul terrazzo: non la indagano per non far emergere lo scandalo della Fini-Giovanardi. Perché arrestano i consumatori di hashish e con Rita Bernardini non lo fanno? "Ecco, perché non lo fanno? Perché vogliono continuare ad arrestare gli altri. Perché se finissi in galera anch'io, che coltivo cannabis e semino cinquanta piante di marijuana alla volta sul terrazzo di casa, verrebbe fuori l'ignobile condizione di chi sconta ancora le vecchie pene della Fini-Giovanardi". E verrebbe fuori la follia di carceri zeppe di persone trovate con un po' di hashish o un po' di marijuana. E poiché lo Stato - l'autorità giudiziaria così come il governo - trova scomodo ammettere la propria follia, continua a fare finta di niente solo con la segretaria di Radicali italiani. L'ultimo episodio risale al primo aprile e non è uno scherzo. Sul suo terrazzo di casa, appunto, Bernardini procede alla semina di 50 piante di marijuana terapeutica. Lo fa con un "compagno di disobbedienza civile", Andrea Trisciuoglio, malato di sclerosi multipla. Trisciuoglio ha a sua volta "precedenti", uguali e contrari a quelli dei pannelliani: il giorno prima della semina a casa Bernardini, è stato fermato dai carabinieri a Foggia, e si è visto sequestrare il suo medicinale a base di cannabis, il "Bedrocan". Di lui, che della marijuana ha bisogno per questioni mediche, se ne accorgono eccome. Comunque mercoledì la Bernardini e Trisciuoglio l'hanno "fatta grossa": "È stata una semina faticosa, ci sono voluti 500 chili di terra". Il tutto filmato da Radio radicale e disponibile sul sito. Flagranza di reato. Perché i carabinieri, magari quelli di Foggia, non vanno ad arrestare Bernardini e il suo complice, già noto ai (loro) uffici? E perché, e qui siamo al punto, non c'è un-pm-uno che iscriva Pannella, Bernardini, Arconti e tutti gli altri nel registro degli indagati? "Ho sempre chiesto, per le mie ventennali disobbedienze civili sulla legalizzazione dei derivati della cannabis, di essere trattata come tutti quelli che sono quotidianamente arrestati e sottoposti a dure sanzioni amministrative". Tanto per essere chiari: in carcere ci sono ancora detenuti che, come spiega la segretaria di Radicali italiani, dovrebbero vedersi applicate le nuove pene edittali previste per i reati relativi al possesso di droghe leggere: da 2 a 6 anni. Sono in galera a farsi invece ancora gli anni della vecchia Fini-Giovanardi: 6 anni di minima e 20 di massima: "Una pena illegale: dovrebbero stare fuori, ma la maggior parte di loro non ha soldi per pagarsi l'avvocato che presenti l'istanza per ridimensionare l'esagerata pena prevista dalla famigerata legge". Potrebbe pensarci il legislatore, come chiesto dalla Consulta. Ma il legislatore se ne frega. Se Bernardini finisse in galera lo scandalo scoppierebbe. Il suo caso potrebbe finalmente proiettare una luce sulla condizione di tutti quei detenuti che scontano appunto pene illegali. Pm ciechi, Renzi pure. Di questi tempi, questo governo, e questo premier, possono mai farsi dire che "hanno messo in libertà migliaia di piccoli spacciatori"? Evidentemente Renzi ha troppo affetto per i sondaggi e una concessione del genere non la farà mai. Vinca l'urlo forcaiolo anche in questo caso. Eppure qualcosa il governo avrebbe l'obbligo di farla subito: chiedersi perché nessun magistrato indaga Bernardini e la fa arrestare. Nessun pm. Visto che al ministero della Giustizia non se lo chiedono, la domanda arriva finalmente sotto forma di un'interrogazione a risposta scritta. A presentarla è Tancredi Turco, un deputato veronese, appena quarantenne, eletto con i cinquestelle e poi confluito con altri nel gruppo parlamentare "Autonomia libera". Nell'atto, depositato due giorni fa, Turco ripercorre tutta la "carriera criminale" di Bernardini: dalla prima "cessione a titolo gratuito" di hashish fino alle 50 piante del primo aprile. Alla fine del lungo excursus, pieno di disobbedienze civili ignorate, il deputato di Alternativa libera chiede "se sussistano i presupposti di fatto e di diritto per un'iniziativa ispettiva presso gli organi giudiziari che non hanno esperito l'azione penale nei casi indicati in premessa". Ecco, alla faccia dell'obbligatorietà dell'azione penale, di questo patetico feticcio costituzionale. Succederà qualcosa? Il ministro Orlando riconoscerà che i pm non arrestano Bernardini per non dare giustizia a chi sconta pene illegali? Si vedrà. Intanto il caso del complice Trisciuoglio, presidente dell'unico "Cannabis Social club" d'Italia, intitolato "La piantiamo" e aperto a Racale, nel Leccese, finisce in un'altra interrogazione, stavolta firmata dal vicepresidente della Camera Roberto Giachetti. Bernardini e Pannella, infine, sono al ventottesimo giorno di sciopero della fame, contro le carceri inumane e contro le detenzioni illegali. Ve ne serve ancora? Stati Uniti: qualcuno ascolti il grido di dolore di Chico Forti, detenuto italiano di Michela Rostan (Commissione Giustizia della Camera) www.huffingtonpost.it, 4 aprile 2015 Un italiano, Enrico Forti, per gli amici Chico, è detenuto da quasi 15 anni negli Stati Uniti e sta scontando la pena per una condanna pesantissima che una Corte americana gli ha inflitto. Chico Forti grida, da sempre, la propria innocenza e, sin dall'inizio della sua vicenda processuale ha denunciato al mondo intero di essere stato vittima di un complotto, di un clamoroso errore giudiziario. Non so davvero come ci si possa sentire a trascorrere un giorno in carcere, con la convinzione di stare subendo un'ingiustizia perché si è coscienti di essere innocenti. Non oso pensare quanto pesino quindici anni trascorsi in questa condizione di restrizione della propria libertà personale, in un altro paese, lontano dalla propria patria, dai propri figli, dagli affetti. Non so davvero come si potrà, se mai sarà rivisto il verdetto che ha condannato Chico Forti, risarcire quest'uomo. La richiesta di Chico Forti di essere sottoposto ad un processo giusto, approfondito, nel quale poter esercitare in pieno il proprio diritto di difesa, è semplicemente giusta, umanamente e costituzionalmente ineccepibile, che noi, cittadini italiani, dovremmo in modo fermo e convinto sostenere. Ne va, a mio avviso, della credibilità della nostra stessa democrazia, di ciò che resta del nostro sistema-paese, della certezza stessa del nostro diritto e dei principi fondanti sui quali esso si basa e trova quotidiana applicazione. In gioco non c'è solo la vita di un uomo. In gioco c'è l'affermazione di un principio universale, quello del giusto processo, tanto bene articolato dall'art. 111 della nostra Costituzione che, a dire di molti, è la più bella del mondo. Un principio, quello del giusto processo, intimamente connesso alla pienezza del diritto di difesa che deve essere assicurato a tutti i cittadini dinanzi alla legge. Un diritto di difesa che presuppone l'idea che lo Stato possa condannare una donna o un uomo soltanto quando potranno essere definiti colpevoli "al di là di ogni ragionevole dubbio". In nome di questi valori e principi, il nostro paese ha speso quasi otto anni di processi, gradi di giudizio, perizie, verifiche per, alla fine, giudicare innocenti Amanda Knox e Raffaele Sollecito ai quali, nei giorni scorsi, la Corte di Cassazione ha restituito la pienezza dell'innocenza. Proprio alla luce di quest'ultimo precedente, intriso di analogie con il caso Forti, pongo un interrogativo: e se Raffaele Sollecito ed Amanda Knox fossero stati condannati all'ergastolo per l'omicidio di Meredith Kercher in soli 25 giorni di processo ed in virtù di un quadro probatorio lacunoso e carente, il nostro paese e gli Stati Uniti come avrebbero reagito? Il punto è esattamente questo: non intendo, personalmente, né lo intendono tutti coloro i quali supportano Chico, affermare l'innocenza di Forti; con convinzione, tuttavia, sostengo e sosteniamo l'idea che Chico Forti questa sua presunta innocenza non abbiamo potuto dimostrarla e che la sua vita, al momento, risulta sacrificata non in un nome di un sacrosanto bisogno di giustizia bensì sull'altare di un colpevolismo asfittico, processualmente e strumentalmente non adeguato e sicuramente in contrasto con quanto, dall'altra parte, proprio il caso di Amanda Knox e Raffaele Sollecito ci ha dimostrato, ovvero che una condanna, forte e rigorosa, tanto è più giusta e raggiunge l'obiettivo allorquando viene inflitta "al di là di ogni ragionevole dubbio". Nei giorni scorsi, dopo mozioni parlamentari, lettere, corrispondenze con il Governo italiano e quello americano, con i corpi diplomatici ed i familiari di Chico, abbiamo, assieme ad altri deputati, indirizzato una lettera al presidente Mattarella. L'auspicio di tutti noi è quello di sensibilizzare le opinioni pubbliche dei due paesi, al fine di stimolare una "moral suasion" delle istituzioni giudiziarie americane ad accogliere l'ormai ultima ed imminente istanza di revisione del processo che Chico andrà a formalizzare. Grecia: 22 detenuti per terrorismo in sciopero fame da 34 giorni contro "prigioni Gamma" di Pavlos Nerantzis Il Manifesto, 4 aprile 2015 Ventidue detenuti politici che fanno lo sciopero della fame - oggi è il 34 esimo giorno - per l'abolizione delle carceri speciali e di un insieme di misure di emergenza rischiano la morte, mettendo a dura prova il governo di Alexis Tsipras. Sparsi in vari ospedali, cinque di loro, secondo i medici, sono in fase di de-regolarizzazione definitiva delle loro funzioni organiche, uno ha già avuto due infarti, mentre la vicenda, poco prima della pasqua ortodossa, sta offuscando la cronaca sulle trattative tra Atene e i creditori internazionali. Tutto è cominciato il 2 marzo, quando una trentina di detenuti accusati o condannati per rapine, attentati terroristici, tutti considerati "pericolosi" dallo stato ellenico, hanno deciso lo sciopero della fame per protestare contro la "crociata antiterrorismo" degli ultimi anni, che prevede tra l' altro la detenzione dei familiari dei presunti terroristi. In un comunicato firmato da Dimitris Koufontinas, membro dell'organizzazione 17 novembre, e Kostas Gournas, membro di Lotta Rivoluzionaria, ambedue prigionieri nel carcere speciale di Domokos, si legge che i detenuti lottano per "l'abolizione di alcuni articoli del codice penale che si riferiscono alle organizzazioni criminali e terroristiche, per la revoca della legge di emergenza che prevede misure speciali, l'abolizione dei tribunali speciali e delle prigioni di tipo Gamma, simbolo dello stato d'eccezione dei prigionieri politici". La creazione delle carceri speciali, da parte del vecchio governo, fu la goccia che fece traboccare il vaso della protesta contro un sistema penitenziario anacronistico e repressivo. Maltrattamenti, pestaggi, torture sono all'ordine del giorno nelle prigioni greche, tra le più sovraffollati d'Europa. Non solo: la mancanza del personale medico, la sporcizia nelle celle e negli spazi comuni - non a caso epatite e altre malattie sono molto diffuse - ma soprattutto il regolamento disciplinare, che si fa sempre più rigido, danno l'immagine di un vero e proprio inferno, non degno né della storia né della civiltà ellenica. Non a caso ogni anno non sono pochi i detenuti che decidono di mettere fine alla loro vita. L'ultimo è stato un pakistano che si è impiccato il 24 marzo proprio nello stesso carcere dove sono rinchiusi Koufontinas e Gournas. Centinaia sono in attesa del processo, visto che secondo la legislatura greca, una persona può essere detenuta fino a 18 mesi prima di essere processata. Che la situazione sia disumana lo dimostrano i frequenti scioperi della fame, le rivolte, le fughe, ma pure le statistiche e le condanne della Grecia da parte della Corte europea dei diritti umani. Nel 2014 i reclusi nelle prigioni greche, che al massimo possono ospitare 9 mila persone, erano 2700. Più della metà sono extracomunitari e la maggioranza è arrestata perché ha tentato di entrare clandestinamente in territorio ellenico oppure per delitti legati all'uso di droga. In condizioni di lusso, invece, vivono i detenuti neonazisti di Alba Dorata e personaggi politici condannati per corruzione. Il governo di Antonis Samaras non solo non ha fatto nulla per migliorare la situazione, ma ha creato le carceri speciali. Il pretesto è stato l'evasione, nel 2014, di Christodoulos Xiros, membro del 17 novembre, condannato a sei ergastoli e in carcere dal 2003. La sua scomparsa dopo un permesso premio per le feste di Natale (Xiros è stato arrestato di nuovo pochi mesi fa) aveva provocato dure reazioni tra i conservatori e i socialisti, finché Samaras aveva deciso di costruire il primo carcere speciale, detto Gamma, a Domokos, una cittadina a una trentina di chilometri a nord di Lamia. I detenuti sorvegliati dai reparti delle forze speciali della polizia e da militari armati fino al collo, senza permessi di libertà, con ore d' aria quasi inesistenti, senza la possibilità di comunicare con il mondo esterno, con videocamere, porte blindate e finestre antiproiettile, vivono isolati in un carcere tutto nuovo ma medioevale, diventato il simbolo della repressione. Erano seguite proteste contro la riforma del sistema penitenziario da parte di migliaia di detenuti, mobilitazioni organizzate da gruppi anarchici e attivisti della sinistra, ma Samaras era rimasto fermo. Nel tentativo di raccogliere voti, poco prima delle elezioni del gennaio scorso, il suo governo aveva puntato sulla sicurezza, mentre Syriza aveva promesso la chiusura immediata del carcere di tipo Gamma. Ieri il ministro della Giustizia Nikos Paraskevopoulos ha presentato un progetto di legge che prevede, tra l'altro, l'abolizione delle carceri speciali. Per alcuni detenuti politici e simpatizzanti della lotta armata non è sufficiente. Lo stesso pensano alcuni gruppi anarchici - che ieri hanno rischiato di scontrarsi con la polizia nel quartiere ateniese di Exarchia - per i quali Syriza "è sempre espressione del potere" e "nemico di classe". Poche settimane fa gli anarchici, in segno di solidarietà ai detenuti in sciopero della fame, hanno occupato per alcune ore la sede centrale di Syriza ad Atene. Mercoledì scorso una ventina di attivisti, sono entrati nel "sagrato" del Parlamento, dove non ci sono più le barriere metalliche, per esprimere la loro solidarietà ai "compagni incarcerati in lotta". Una protesta del tutto pacifica che ha provocato una marea di reazioni. Per Nd e Pasok "lo Stato è stato travolto", mentre nel governo ci sono due linee di pensiero: c'è chi, come il portavoce e il rappresentante parlamentare di Syriza, considera l'atto "provocatorio e incomprensibile", mentre per la Presidente del Parlamento Zoi Konstantopoulou "non c'è stata alcuna invasione". Bahrein: denuncia pratiche di tortura utilizzate contro i prigionieri, arrestato attivista www.contropiano.org, 4 aprile 2015 L'attivista per i diritti umani Nabeel Rajab è stato arrestato ieri in Bahrein - paese alleato dell'Arabia Saudita - per aver pubblicato alcuni tweet nei quali denunciava le pratiche di tortura utilizzate contro i prigionieri reclusi nelle carceri della piccola petro-monarchia. La moglie di Nabeel, Sumaya Rajab, ha dichiarato che venti auto della polizia si sono presentate davanti alla loro abitazione per portare l'attivista in carcere. Rajab, che ha fondato il centro per i diritti umani del Bahrein nel 2002, era stato arrestato già a settembre quando aveva descritto su Twitter i servizi di sicurezza nel paese come "incubatore ideologico" per jihadisti. L'attivista, accusato di aver insultato le istituzioni pubbliche e l'esercito, era stato rilasciato su cauzione in attesa del processo previsto per il 14 aprile.