Giustizia: i processi sono troppo lenti? e allora hanno allungato la prescrizione di Vincenzo Vitale Il Garantista, 3 aprile 2015 Non mi stancherò mai di denunciare come e quanto il governo Renzi si sia arreso alla magistratura in vario modo e soprattutto in modo inaspettato. Innanzitutto, ormai di prescrizione non si può più parlare, essendo stato di fatto l'istituto abolito dal governo. Infatti, l'effetto di due modifiche legislative è proprio questo: da un lato, si sono introdotte pause di sospensione del tempo deputato alla prescrizione; dall'altro, invece, aumentando a dismisura le pene previste per alcuni reati, dal momento che la prescrizione è agganciata alla previsione della pena edittale (cioè prevista dal testo di legge), la si è allungata oltre ogni immaginazione. Risultato finale: una prescrizione che può anche giungere a vent'anni per reati contro la pubblica amministrazione. Il significato pratico è che un essere umano potrà rimanere soggetto ad un processo in corso per circa due decenni, tanto la prescrizione non maturerà prima di allora. Come dire che una persona normale e presunta innocente, per un quarto della propria vita sulla terra, dovrà difendersi da un'accusa sostanzialmente senza tempo, infinita, per la quale il trascorrere dei giorni è senza effetto apprezzabile. Insomma, una orribile e raccapricciante condanna preventiva: la condanna ad esser processati a vita, senza mai venirne a capo, tanto il tempo non passa, la prescrizione è divenuta di fatto un a remota possibilità. Consiglierei a Renzi e ai suoi sodali di leggersi un breve e sapido testo di Dino Buzzati, non a caso titolato "Procedura penale", ove appunto la vicenda tutta si dipana attorno ad un'accusa proteiforme ed infinita, la quale, dopo aver vanificato ogni difesa, culmina in una atroce e paradossale condanna: passare la vita a fronteggiare un'accusa indefinita ed infinita. Forse capirebbero perché Calamandrei poteva affermare che il processo è già una pena, è già una pena essere costretti a difendersi, è già una pena esser pubblicamente accusati: a tal pena non c'è rimedio. Strano stratagemma davvero quello adoperato da Renzi: per limitare gli effetti della prescrizione, invece di ridurre la durata dei processi ormai abnorme, si allungano i tempi della prescrizione. È come se un medico, visto che non riesce a guarire un malato, lo ammazzi: in questo modo la guarigione non sarà più un problema. Poco ma sicuro. Inoltre, è evidente che operando in tal senso, si è aumentato a dismisura il potere dei pubblici ministeri, dal momento che essi rimangono arbitri di gestire in solitudine ed in modo insindacabile la durata di tutte le indagini, e quindi buona parte del decorso degli anni di prescrizione. Bisogna infatti sapere che nonostante la legge stabilisca che il pubblico ministero è tenuto ad inscrivere nel registro degli indagati il nome della persona a cui si ritiene di attribuire il reato immediatamente, quest'ultimo avverbio viene interpretato come sinonimo di arbitrariamente, vale a dire quando ritengano opportuno. Ne viene che il termine dei sei mesi, prorogabile fino a due volte, previsto dalla legge per la durata massima delle indagini preliminari, viene esteso a dismisura, per il semplice motivo che, decorrendo dalla iscrizione del nome in quel registro, comincia a decorrere anche dopo due o tre anni: in tutto questo tempo il pubblico ministero agisce come padrone assoluto del destino processuale del soggetto accusato o accusabile, perché in questa fase neppure è certo che l'accusa possa davvero esser sostenuta fino ad arrivare al dibattimento. È come se il pubblico ministero fosse anche padrone del tempo, arbitro incontrastato di decidere il momento esatto da cui far decorrere i termini delle indagini. In tal modo si produce un effetto processualmente aberrante, perché l'indagato è abbandonato, senza difesa alcuna, nelle mani di chi è arbitro del suo destino: e dovrebbero essere per primi i pubblici ministeri, dando il giusto rilievo all'aggettivo "pubblici", a chiedere a gran voce di esser privati di un tale aberrante potere, senza limiti e senza controllo. Per farlo, dovrebbero tuttavia esser provvisti di un senso etico e giuridico che oggi pare purtroppo assente, lo stesso senso etico e giuridico che nel racconto biblico del giudizio di Salomone brilla sovranamente. A Dio padre, apparso fra le nubi e che gli chiedeva cosa desiderasse di più ottenere, Salomone rispose di desiderare un "cuore docile": e dunque non denaro o ricchezze, né, tanto meno, il potere. Ma un cuore "docile", vale a dire capace di lasciarsi guidare dalle verità delle cose, dal senso di giustizia e verità che, al di là di ogni bruttura, è sempre possibile cogliere nelle vicende degli uomini. È appena il caso di notare come, ben lontana da questa esemplare lezione di umiltà e di realismo, ieri l'Associazione Nazionale Magistrati abbia replicato duramente a D'Alema, che si lamentava della pubblicazione indiscriminata di intercettazioni telefoniche che lo coinvolgono, rivendicando l'uso delle intercettazioni come strumento d'indagine. L'Anm, forse, farebbe bene a rileggersi il libro dei Re, ove si narra l'episodio sopra accennato: imparerebbe molte cose. Giustizia: "agenti provocatori" e tic paranoici, così l'anticorruzione diventa Inquisizione di Luigi Manconi Il Foglio, 3 aprile 2015 Mercoledì scorso, nell'aula del Senato, intorno a mezzodì, un brivido ha percorso molte auguste schiene. È stato quando ha fatto irruzione rumorosamente la formula "agente provocatore". Non era la riproposizione, esausta se non folclorica, di un classico della feroce rissosità terzinternazionalista: "Taci, nemico del popolo!", "Taci tu, agente provocatore!". Niente di ciò. Più prosaicamente, l'evocazione di una figura investigativa destinata, nelle intenzioni, a sconfiggere la malapianta della corruzione. E, infatti, presentando questa misura, il proponente (va da sé: un parlamentare dei Cinque Stelle), per renderla più bonaria e appetibile, faceva riferimento ai "telefilm americani". Così che, alle mie spalle, una senatrice - beata innocenza - esclamava: "Ah, come Starsky & Hutch!". Altro momento indimenticabile è stato quando il senatore grillino ha spiegato che l'introduzione dell'agente provocatore sarebbe "un deterrente potentissimo almeno nel 70 per cento dei casi. Forse non sarà il 70; sarà addirittura il 90 o forse il 50 per cento, non importa". In questo "non importa" c'è tutto un mondo e una metafisica. E stiamo parlando, sia chiaro, di un parlamentare dotato di una qualche cultura: eppure non gli è sembrato né irresistibilmente comico né drammaticamente sciagurato evocare un effetto di deterrenza, in termini che pretendeva scientifici, misurandolo con quella spirale sgangherata di cifre. L'emendamento è stato bocciato, ma poco prima il governo aveva accolto "come raccomandazione" un altro emendamento trasformato in ordine del giorno, proposto dai grillini, che chiedeva all'esecutivo di estendere le operazioni "sotto copertura" anche alla Pubblica amministrazione, contro i reati di concussione e corruzione. Siamo, palesemente, in una dimensione oscillante tra pochade e incubo, tra Policarpo dei tappeti e Serpico al catasto. Tra Maurizio Merli e Capitano Ultimo. Provate a immaginare gli agenti sotto copertura e tanto più gli agenti provocatori furtivamente infiltrati in un ufficio pubblico, all'interno di una circoscrizione municipale, o nella sede dell'azienda tramviaria. A quarant'anni dall'inizio dell'epopea fantozziana, si aprono scenari sconfinati per la fantasia dei cantori dell'ufficio come universo di senso e dei grandi burocrati come eroi eponimi. Intorno a essi, secondo il M5s, dovrebbero aggirarsi gli agenti provocatori, pronti a tendere tranelli, a istigare al reato, a incitare al malaffare. Ecco, questo è il punto, che rimanda non solo a una controversia giuridica, ma anche a una significativa questione culturale. L'agente provocatore, figura sempre problematica sotto il profilo costituzionale e legale, pur quando utilizzato per indagini straordinarie (narcotraffico, terrorismo, mafie), appare comicamente fuori luogo e fuori misura se applicato all'ambito della Pa. Qui l'agente provocatore può essere previsto solo da chi coltiva una rappresentazione nichilista e catastrofista della società nazionale, frutto di uno sguardo allucinato e torvo. Per capirci, lo stesso sguardo che suggeriva quel titolo scellerato del Fatto quotidiano ("Italia a delinquere") e quella visione cupa delle relazioni sociali, totalmente dominate dal crimine piccolo e grande. Nelle parole dei parlamentari Cinque Stelle c'è sempre l'"Italia a delinquere": una concezione disperata, senza respiro e senza salvezza, dove la macchina criminale viene a tal punto enfatizzata da trasformarsi fatalmente in un blocco della vita sociale che non consente alcuna possibilità di emancipazione. Siamo persino oltre la logora contrapposizione buoni/cattivi: i buoni probabilmente non ci sono più dal momento che quelli che ieri erano esemplarmente buoni ci mettono un attimo a diventare cattivissimi (lo sanno bene quanti dal Movimento Cinque Stelle sono usciti e quanti non ne escono per le medesime ragioni). Ma non si tratta solo di questo: se si considerano i vari linguaggi utilizzati in questa visione paranoide, si scoprirà agevolmente che l'agente provocatore - anche nella sua definizione teorica - è colui che induce in tentazione. Dunque, non colui che scopre il male, bensì colui che incita a commetterlo, contando sulla debolezza della carne del soggetto istigato. Come non vedere che, in un simile contesto, l'attività giudiziaria è destinata ad assumere tonalità e dispositivi propri della macchina dell'Inquisizione? L'agente provocatore - esagero, ma non troppo - è il serpente della Genesi e il Confessore del Sant'Uffizio della Romana e universale Inquisizione. Giustizia: la legge anticorruzione, un po' spot e un po' flop di Alessandro Mantovani Il Fatto Quotidiano, 3 aprile 2015 Più ombre che luci nel testo approvato dal senato, dalla propaganda governativa a soluzioni che non convincono i pm impegnati sul campo sbattere contro il muro del Pd. di Alessandro Mantovani L'aumento delle pene per mafia, corruzione e altri reati contro la pubblica amministrazione è un ottimo spot per i tweet del "rottamatore" che fu. "Approvata legge # anticorruzione: stretta sui reati di mafia, falso in bilancio, aumentano pene per corruzione Pa # lavoltabuona", cinguettava martedì Matteo Renzi dopo il voto del Senato. Perché diventi legge, in realtà, si attende il sì della Camera. Ma al di là degli spot, i magistrati impegnati sul campo spiegano che aumentare le pene "non serve" o almeno "non basta". Pene più severe per mafia e corruzione Per la corruzione oggi la pena va da uno a 5 anni e il massimo passerebbe a 6, quella per atti contrari al dovere d'ufficio va da 4 a 8 e diverrebbe da 6 a 10, il peculato prevede da 4 a 10 anni e il massimo salirebbe a 10 anni e 6 mesi, la corruzione dei giudici per ingiusta condanna andrebbe da 5-12 anni a 6-14, l'indebita induzione a dare o promettere utilità da 3-8 anni a 6-10 e sei mesi. Pene più severe anche per l'associazione mafiosa: per i partecipanti da 7-12 anni a 10-15, per gli organizzatori (i capiclan) da 9-14 a 12-18, per l'associazione armata da 9-15 a 12-20 con un massimo di 26 per i casi più gravi. Per altri reati non ci sono aumenti. Ma la prescrizione continua a incombere L'aumento dei massimi avrà un impatto sulla prescrizione, l'incubo di chi indaga sui reati dei colletti bianchi. Troppo spesso i presunti corrotti arrivano davanti al giudice quando i reati sono prescritti o lo saranno presto. I reati si estinguono quando è trascorso un periodo pari al massimo della pena più un quarto, quindi un aumento di un anno allunga il processo solo di tre mesi. Nulla a che vedere con interventi radicali suggeriti dalla commissione guidata dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri: sospensione della prescrizione all'inizio del processo (cioè quando il pm chiede il rinvio a giudizio) e stop definitivo al decorso dopo la sentenza di primo grado (con sconto di pena, anziché denaro, se il processo dura troppo). Nuova incognita: la "particolare tenuità" Bisognerà poi comprendere se il proscioglimento per la "particolare tenuità" e la "non abitualità" del reato, in vigore da ieri anche per i reati contro la pubblica amministrazione (con pena fino a cinque anni), comporterà il colpo di spugna paventato dai grillini. Falso in bilancio sì, ma niente intercettazioni La grande novità del disegno di legge anticorruzione approvato, pur indebolito rispetto alla proposta del presidente del Senato Pietro Grasso che da due anni si trascinava a Palazzo Madama, è il ritorno del reato di falso in bilancio. A tredici anni dalla sostanziale depenalizzazione, voluta da Berlusconi per risolvere i suoi problemi. Ora il reato tornerebbe perseguibile d'ufficio. Per le società quotate in borsa (meno di duecento in Italia) la pena andrebbe da tre a otto anni, per quelle non quotate (oltre cinque milioni) da uno a cinque o da sei mesi a tre anni (le più piccole). Avverbi come "consapevolmente" e "concretamente" non faciliteranno gli inquirenti. Ma il vero problema è la pena fino a cinque anni che esclude le intercettazioni. Tra le altre cose, i pm non potranno usare un'ipotesi di falso in bilancio, come facevano prima del 2002, per indagare con le intercettazioni e scoprire così eventuali altri reati, fino al pagamento di tangenti. Concussione più ampia ma l'induzione resta com'è È positivo che anche gli incaricati di pubblico servizio (esattori di concessionari, guardie giurate, operatori delle Motorizzazioni, ecc), come i pubblici ufficiali, siano chiamati a rispondere di concussione. Non si tocca però la legge Severino che ha introdotto il reato di induzione a dare e promettere utilità, scorporando la concussione per induzione (meno grave di quella per costrizione) ma sanzionando anche il soggetto "indotto". Così molti imprenditori di fatto concussi sono spinti a tacere. Forse anche Silvio Berlusconi si è salvato in questo modo da una diversa deposizione del funzionario di polizia che si occupò di Ruby. Benefici ai pentiti e obbligo di restituire Il Senato ha approvato la proposta di sconti di pena (da un terzo alla metà) per i responsabili di reati contro la pubblica amministrazione che collaborano con gli inquirenti. Come per i reati di mafia. È un riconoscimento delle difficoltà che pm e polizia giudiziaria incontrano tra colletti bianchi, spesso più omertosi di certi picciotti. Sì anche all'obbligo di restituire il maltolto per i condannati per reati di corruzione (e chi patteggia). No alle operazioni sotto copertura È naufragata l'idea di estendere ai reati contro la pubblica amministrazione le regole su ritardati sequestri e attività sotto copertura che hanno dato risultati contro mafie e narcotraffico. La ripropone Gratteri nella relazione al governo. Non sono state previste le intercettazioni video ambientali in abitazioni private quando il pm le ritiene utili ma non si tratta del luogo di commissione del reato (anche questa è tra le idee di Gratteri). Salta il "Daspo per i corrotti" Addio anche al cosiddetto "Daspo per i corrotti", suggestione calcistica (il Daspo è il divieto di accesso agli stadi per i violenti) che indica l'interdizione dai pubblici uffici come in aggiunta alle condanne per reati contro la pubblica amministrazione. L'annuncio del premier è rimasto uno spot. E gli emendamenti del M5s sono andati a sbattere contro il muro del Pd. Giustizia: reati contro la P.A.; poca deterrenza e troppa discrezionalità a pm e giudici di Andrea R. Castaldo Il Sole 24 Ore, 3 aprile 2015 Del famoso programma di Ferdinando II di Borbone "Feste, farina e forca", il Governo dimentica i primi due e applica l'ultimo. È quanto emerge dal Ddl licenziato al Senato e in viaggio alla Camera per la definitiva approvazione. Infatti, l'insieme di disposizioni in tema di reati contro la pubblica amministrazione, le associazioni mafiose e il falso in bilancio trova il denominatore comune nel generalizzato aumento delle pene e nella complessiva severità repressiva. L'equazione tra inasprimento delle pene e diminuzione dei reati è però tutt'altro che certa e comunque non automatica come si vorrebbe far credere. Del resto, fin quando la riforma delle leggi penali consisterà nell'inseguire gli umori dell'opinione pubblica, sedandoli con l'illusione del diritto penale come panacea di ogni male, i nodi che asfissiano la legalità quotidiana saranno impossibili da sciogliere. Beccaria già ammoniva sull'illusoria efficacia general-preventiva della pena, se limitata alla sola fase della minaccia e non alla sua applicazione concreta. E uno degli aspetti critici del nostro sistema penale è la tensione dialettica tra due poli contrapposti, che si elidono a vicenda: da un lato, la finalità rieducativa della pena, costituzionalmente imposta, e dunque un diritto penitenziario a essa informato, che ha reso meno afflittiva la sanzione detentiva e incerta nella reale durata; dall'altro, l'implementazione del catalogo dei reati, alcuni dal dubbio sapore offensivo e il generalizzato ricorso al carcere, specie in occasione di emergenze sociali. Nel falso in bilancio le contraddizioni vengono a galla. Il nuovo reato abbandona il pregresso meccanismo della perseguibilità a querela, della distinzione tra pericolo e danno e abolisce la punibilità condizionata al superamento di soglie. In luogo di ciò, viene disegnata una macrodistinzione tra società quotate e non, con inevitabile ripercussione sulla dosimetria sanzionatoria (3-8, 1-5 anni di reclusione). La struttura del fatto tipico è invece simile: per evitare la condivisibile preoccupazione che ricada nel perimetro penale ogni comunicazione sociale, anche senza valenza offensiva, la riforma si preoccupa di introdurre una serie di paletti in funzione di anticorpi. Si richiede così la "rilevanza" dell'esposizione di fatti materiali falsi o della loro omissione se imposta dalla legge e concernente la situazione economica, patrimoniale, finanziaria della società o del gruppo di appartenenza. Ancora, la falsa notizia deve possedere l'idoneità concreta all'induzione in errore del terzo, rimarcandosi l'effettiva fraudolenza. Fanno da cerniera nella medesima direzione gli interventi sull'elemento psicologico; la condotta dovrà essere "consapevolmente" falsa (precisazione per la verità pleonastica) occorrerà il dolo specifico del fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto. La prova di quest'ultimo non sarà però affatto scontata: poiché per la sussistenza del reato non è necessario il raggiungimento di tale risultato, l'accertamento dello scopo dell'azione sarà pressoché impossibile da dimostrare, trattandosi dell'introiezione psicologica del reo. Alle luci (soffuse) si contrappongono numerose ombre. Infatti, l'arricchimento della fattispecie quanto ai requisiti indispensabili per la tipicità consegna come riflesso condizionato un ampio potere in capo al pm e al giudice. Saranno costoro a dover decidere, esercitandosi in complessi ragionamenti tecnici, sulla definitiva offensività. Se si aggiunge che per le società quotate la cornice di pena comporta il ricorso alle intercettazioni telefoniche, è facile immaginare come si assisterà a una vera e propria fishing expedition, dove la ricerca dell'eventuale falso in bilancio sarà il pretesto per l'esame della governance e delle politiche aziendali. Col timore che la divulgazione delle intercettazioni riguardi dati sensibili e possa persino cagionare turbative al mercato. Si pensi per gli istituti di credito alla valutazione delle partite incagliate o in sofferenza o, sul fronte omissivo, alla mancata segnalazione di indicatori di dissesto patrimoniale, per comprendere appieno la portata dirompente di un eccesso di discrezionalità. Non da ultimo, analoghe preoccupazioni si registrano sull'introduzione dell'attenuante per fatti di lieve entità e soprattutto della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità, la cui tecnica legislativa scadente si somma alla scarsa comprensione dei parametri ulteriori che il giudice dovrà utilizzare. Giustizia: "intercettazioni, basta voyeurismo", ora il Garante chiede un freno al governo di Maria Antonietta Calabrò Corriere della Sera, 3 aprile 2015 Soro: selezionare le notizie da pubblicare. Gratteri: utili ma va trascritto solo il necessario. "Di fronte al fenomeno, sempre più diffuso, del processo mediatico, emerge con forza l'esigenza di un' adeguata selezione delle notizie da diffondere", in modo che si eviti che finiscano in pasto all'opinione pubblica "spaccati di vita privata (delle parti ma soprattutto dei terzi) del tutto estranei al tema della prova". È il Garante della privacy, Antonello Soro, a scriverlo in una lettera al presidente del Consiglio, Matteo Renzi, in cui chiede che vengano adottate le necessarie misure per "evitare la "pesca a strascico" nella vita degli altri". La lettera di Soro arriva il giorno dopo che il Procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri, presidente della Commissione per le nuove norme antimafia, ha presentato una rivisitazione complessiva del regime delle intercettazioni. Sedici cartelle in cui tra l'altro la Commissione propone l'introduzione di un nuovo reato, quello di "pubblicazione arbitraria di intercettazioni". "La pubblicazione di atti di indagine - ha scritto Soro a Renzi - dovrebbe rispondere a finalità di interesse pubblico e non a tensioni voyeuristiche, nella consapevolezza che non tutto ciò che è di interesse del pubblico è, necessariamente, anche di pubblico interesse". Ciò vale "soprattutto per le intercettazioni: risorsa investigativa fondamentale, ma che proprio - in quanto fortemente invasiva - deve essere gestita con molta cautela". Soro segnala la necessità che gli organi inquirenti evitino fughe di notizie che pregiudichino le indagini, oltre che la privacy degli interessati e che la stampa, eviti quel "giornalismo di trascrizione" che finisce, oltretutto, per far scadere la qualità dell'informazione". Soro invoca insomma il "principio di proporzionalità tra privacy e mezzi investigativi ribadito, anche recentemente, dalla Corte di giustizia europea". Critico il presidente dell'Ordine dei Giornalisti, Enzo Iacopino: "È allarmante che il Garante per la privacy parli di un'adeguata selezione delle notizie da diffondere". In un'intervista a Sky Tg24, Gratteri ha spiegato il senso della riforma proposta. "La norma che abbiamo scritto è chiara - ha detto - se l'intercettazione serve a dimostrare la responsabilità penale dell'indagato e poi dell'imputato può essere riportata integralmente nell'informativa, nella richiesta di custodia cautelare e nell'ordinanza di custodia cautelare. Se questa non serve, non si deve trascrivere, non deve essere inserita là dentro. Se poi sottobanco un pubblico ministero o un ufficiale di polizia giudiziaria la dà ai giornalisti, chi la pubblica risponde di questo nuovo reato, cioè di questa pubblicazione che non doveva fare". Come esempio Gratteri porta quello di un'intercettazione che riguarda qualsiasi aspetto della vita privata: "Noi non riteniamo che debba essere trascritta, né pubblicata". "L'intercettazione - ha concluso Gratteri - è la prova più garantista, perché è formata dalla voce degli attori protagonisti, quindi non c'è il pericolo di travisamento del fatto. Inoltre è il mezzo più economico, perché un telefono intercettato per 24 ore costa 3,5 euro al giorno". Giustizia: intercettazioni a testata multipla, l'antidoto con una nuova disciplina legislativa di Domenico Cacopardo Italia Oggi, 3 aprile 2015 Un segnale s'era avuto con l'articolo di Gian Antonio Stella sul Corriere, una rimasticatura di tutti i luoghi comuni da tempo in circolazione su Massimo D'Alema. Sembrava un attacco gratuito, ma, nei fatti, era una sorta di anticipazione di ciò che sarebbe venuto dopo una settimana: il caso Cpl Concordia-Ischia. Se all'Isola del Giglio naufragò la nave Concordia, a Ischia deraglia, infatti, la cooperativa Cpl Concordia, uno dei colossi emiliani, presente in tutt'Italia e, apprendiamo ora, anche a New York. Una questione di appalti (la metanizzazione) all'interno di un intenso rapporto corruttivo, per il momento presunto, e, quindi, oggetto di un atto di accusa (e cattura del sindaco Ferrandino). Il tutto inizia con la denuncia presentata (2013) dal presidente del consiglio comunale di Cava dè Tirreni, Antonio Barbuti che ha firma un esposto contro l'aggiudicazione di un lavoro simile alla Cooperativa Cpl Concordia. È facile immaginare che l'attività d'indagine sia consistita nell'intercettazione a tappeto di tutti coloro che operavano nella Concordia e che con la Concordia avevano rapporti. Attraverso questo metodo è balzato agli occhi dei pubblici ministeri di Napoli quanto era accaduto e stava accadendo tra l'appaltatore e il sindaco Ferrandino. L'ordinanza con la quale la Gip Amelia Primavera dà il via alla fase attuale del procedimento (con varie restrizioni in carcere), mette in rilievo gli elementi di reato e sottolinea, tra l'altro, che "per comprendere fino in fondo e per delineare in maniera completa il sistema affaristico organizzato e gestito dalla Cpl Concordia, appare rilevante soffermarsi sui rapporti intrattenuti tra i vertici della cooperativa e l'esponente politico che è stato per anni il leader dello schieramento politico di riferimento per la stessa Cpl Concordia, che è tra le più antiche cosiddette "cooperative rosse", ovvero l'onorevole Massimo D'Alema". Certo, si afferma subito che D'Alema è estraneo alle indagini, ma questo non è un "favore" concesso all'uomo politico, ma un deciso e inoppugnabile "disfavore", giacché è la coda avvelenata di un'altra questione a cui è sicuramente estraneo, la metanizzazione di Ischia. Lo definiamo un "disfavore" per le ragioni che sono sotto gli occhi di tutti. I media si sono impadroniti delle intercettazioni che lo riguardavano: conversazioni alle quali non ha mai partecipato, svoltesi tra altri soggetti, nelle quali si faceva il suo nome con riferimento a tre azioni della cooperativa, tre contributi annuali da 20.000 euro alla Fondazione Italiani- Europei, l'acquisto di alcune copie di un suo libro "Non solo euro", l'acquisto di 2000 bottiglie di vino prodotte dall'azienda che gestisce con la moglie. Non c'è difesa nei confronti di questo metodo: non sei imputato e non puoi difenderti in nessuna sede giudiziaria e non hai strumenti legali di difesa nei confronti di coloro che ricevono l'indiscrezione e la pubblicano, la diffondono e la commentano. Coloro, infatti, che ne scrivono sui giornali e ne parlano sui media esercitano il diritto di cronaca e non c'è barba di giudice in Italia che abbia voglia di intervenire a tutela del "terzo" estraneo al procedimento in corso contro i responsabili della Concordia e il sindaco di Ischia. È inutile soffermarsi sulle distorsioni che provoca il mero metodo delle intercettazioni: finché il parlamento non deciderà di adottare una nuova legge organica che, senza impedire l'uso dello strumento, disciplini le posizioni "estranee", i pubblici ministeri ne dispongono legittimamente e ne disporranno. Certo, se in alcuni nasce il sospetto che tutto sia stato voluto e che in realtà, la presenza nelle intercettazioni di un nome grosso come quello di D'Alema abbia potuto ingolosire gli inquirenti in vista del clamore mediatico del suo coinvolgimento, questo sospetto va respinto con decisione, insieme a ogni riferimento al curriculum lucano del pm Woodcock, contitolare dell'inchiesta. La questione è un'altra ed è quella posta sul tappeto. Quello che sembra difficile accettare, è la supina, acritica funzione esercitata dai media, pronti a ripetere e ampliare le scarne (si fa per dire) informazioni diffuse, senza alcuna capacità critica o di riflessione. Per esempio la diffusione dell'istituto della fondazione, come strumento di dibattito e formazione politica, al quale contribuiscono ampiamente, nel mondo, imprenditori più o meno illuminati, più o meno interessati alle evoluzioni del clima politico, più o meno disposti ad aiutare, anche economicamente, coloro che portano avanti idee accettabili e gradite. La valutazione che l'ordinanza della Gip Primavera fa balenare è che il "sistema" (una brutta parola generica che significa tutto e il contrario di tutto, abusata in passato per la costruzione di teoremi, talora confermati, talora crollati) di sostegno a D'Alema e alla fondazione da lui presieduta fosse finalizzato all'ottenimento di aiuti illeciti. Una tesi tutta da provare, naturalmente. Ma la semplice illazione, per la voce da cui proviene, ha una micidiale sostanza accusatoria, nei confronti della quale non c'è difesa. Gli altri due elementi, l'acquisto del libro e dei vini, sono parvità di materia, "piccolezze" direbbe un osservatore neutrale, sui quali non sembra necessario soffermarsi anche se si sono rivelate utili "ad colorandum". Intanto, dal palazzo di giustizia partenopeo, filtra l'indiscrezione di un imminente interrogatorio di D'Alema per chiarimenti sul "sistema" e sui benefici che ne avrebbe tratto. Certo come "persona informata sui fatti", ma ciò non attenuerà, anzi accentuerà il "battage" mediatico. Una barbarie per un giurista di scuola anglosassone, difensore dei diritti del cittadino, fra i quali spicca quello alla propria onorabilità. L'assordante silenzio del Pd (e dei vari titolari di fondazioni politico-culturali) in materia non è nuovo e reitera quello del passato. Nessuno che pensi di poter cadere nella medesima inevitabile trappola. Accadrà. Accadrà. Giustizia: Legnini (Csm); niente bavagli ai cronisti, ma si deve tutelare chi non è indagato di Liana Milella La Repubblica, 3 aprile 2015 Giovanni Legnini. Il vicepresidente del Csm promuove la manovra. anti-corruzione: "Ora non si può dire che non ci sono strumenti di contrasto". La manovra anti-corruzione? "È un dato di fatto. Ci sono norme che prima non c'erano". Governo promosso? "Il percorso delle riforme sta andando avanti". Falso in bilancio debole? "È un reato sanzionato più duramente". Le intercettazioni? "Niente bavagli a magistrati e giornalisti". Il vice presidente del Csm con Repubblica fa il punto sui temi caldi del momento. Arresti per corruzione a raffica. La politica arranca? "In questi mesi il quadro è cambiato. Penso ai provvedimenti sull'attività e la funzione dei magistrati, alcune riforme già approvate o in itinere, l'emersione di gravi fenomeni corruttivi, e una grande attenzione dei cittadini sulla lotta al malaffare. Sono temi che consiglierebbero ai titolari di funzioni pubbliche e alla magistratura associata di riposizionare il confronto su basi nuove". E sarebbe? "Dopo il voto sul ddl anti-corruzione al Senato e gli altri interventi non si può più dire che il nostro Paese non ha strumenti di contrasto. Il percorso delle riforme sta andando avanti. E io, nella mia piena indipendenza di giudizio, mi sento di darne atto al governo, al Parlamento, al Guardasigilli". Quindi una promozione? "Vorrei solo dire che il reato di Auto-riciclaggio prima non c'era e adesso c'è. Il voto di scambio è stato ridefinito. Sul falso in bilancio s'invocava un intervento da più di 10 anni e finalmente è stato approvato un testo. Sulla corruzione si chiedeva maggiore rigore, e si può valutare il ddl come si vuole, ma non c'è dubbio che miri a rendere la lotta più efficace. Potrei continuare sul processo civile e altri temi". Fermiamoci al falso in bilancio. Vista l'attesa non poteva essere meno frutto di un compromesso? "Cerco di rispondere alla domanda con una domanda. Quando la norma sarà definitivamente approvata sarà più facile o no combattere le falsificazioni dei bilanci societari finalizzati a costituire fondi neri per gli scopi più vari, anche corruttivi? Questo è il punto, non quale sia la migliore soluzione possibile tra quelle adottabili". Tre punibilità diverse, con un'anomalia, società quotate intercettabili, le altre no. La Consulta boccerà? "Quando il trattamento penale differenziato corrisponde a una diversa intensità delle condotte allora una graduazione delle sanzioni è giustificata". Giustamente lei diceva che bisogna tener conto della pressante richiesta di moralità dell'opinione pubblica. Consentire le intercettazioni non è sintonico? "La risposta può essere rintracciata dentro la composizione della maggioranza parlamentare, in particolare del Senato". Intercettazioni. Il Garante chiede una legge per non pubblicabile. Come lo giudica? "Su questo delicato e controverso tema personalmente mi è chiaro ciò che non bisognerebbe fare, ovvero limitarne l'utilizzo da parte della magistratura e imbavagliare la stampa...". Ma è quello che si sta cercando di fare, si comincia con le intercettazioni e poi si vieterà qualcos'altro. "Da diversi anni il valore costituzionalmente garantito della riservatezza personale si è radicato nella cultura dei cittadini. Se si tratta di reprimere reati non c'è riservatezza che tenga. Se questa esigenza non c'è, deve prevalere il principio costituzionale, che è un diritto fondamentale della persona. Ciò vale per la magistratura e vale per la stampa". Lei andrà ancora in piazza per qualche manifestazione. La gente vuole sapere o no come si comportano i politici con le imprese? "Premesso che la mia attuale funzione non mi consente un eccessiva frequentazione della piazze, che peraltro ho sempre ascoltato con interesse, penso che tale esigenza vada soddisfatta con gli strumenti dell'ordinamento. Se c'è un reato si persegue, se non c'è devono funzionare le norme su trasparenza e prevenzione". Il caso D'Alema, già suo compagno di partito. Come giudica la sua reazione furibonda contro i giudici? "Mi ci vede quale vice presidente del Csm a polemizzare con le personalità politiche o a commentare le loro reazioni? Sul merito ho già detto pubblicamente ciò che penso e lo ribadisco. È maturo il tempo di una legge sulle intercettazioni che non imbavagli nessuno, ma che tuteli la riservatezza delle persone non indagate, e anche le persone indagate per fatti che esulano dall'oggetto dell'indagine". La politica è tuttora molto aggressiva contro la magistratura. Ricorda un po' Berlusconi. Non preferirebbe più rispetto per le decisioni dei giudici? "Non condivido la parte assertiva della domanda. Quanto al quesito, certo che preferisco una politica che rispetta le decisioni dei giudici. Anzi, è necessario un mutamento di clima tra magistratura e potere politico nella direzione di un rapporto meno conflittuale e teso a individuare le riforme per far sì che la giustizia non sia più un handicap per il sistema Paese, ma un fattore di evoluzione etica e di crescita economica. E occorre ascoltare di più la magistratura quando chiede più personale, coperture degli organici e risorse. Su questo il governo è in ritardo". Giustizia: Desi Bruno (Garante E.r); Case Lavoro un fallimento, esperienza da superare Ristretti Orizzonti, 3 aprile 2015 "Noi guardiamo i pochi detenuti presenti qui a Castelfranco con una certa invidia. Loro usciranno quando avranno scontato la pena, nessuno chiederà loro dove andranno e cosa faranno. Noi dovremo, invece, dimostrare di avere un lavoro e una casa. Con i pregiudizi che ci riguardano, ma chi ce lo dà un lavoro o una casa dopo anni di detenzione?". Chi parla è un internato nella casa lavoro di Castelfranco Emilia (Mo) e le sue parole sono state citate da un avvocato nel corso della conferenza stampa di presentazione degli atti del convegno intitolato "Poveri o pericolosi?", che si è svolto a Castelfranco il 20 ottobre 2013. È passato un anno e mezzo e la situazione non può dirsi migliorata. La Casa lavoro di Castelfranco ospita un centinaio di internati e meno di dieci detenuti; questi ultimi sanno quando finirà la pena, i primi la pena l'hanno già scontata ma vengono ritenuti "socialmente pericolosi" e su di loro grava una "misura di sicurezza" aggiuntiva, che risale al Codice Rocco del 1930. In pratica, gli internati - senza casa, senza lavoro, senza una famiglia in grado di accoglierli - restano reclusi a tempo indeterminato. "Ergastolo bianco" è l'espressione che spesso viene utilizzata per definirli. Quella di Castelfranco è una delle quattro strutture aperte in Italia. Del centinaio di internati, circa 15 sono stranieri, nessuno è residente in Emilia-Romagna. Da anni il Comune - alla conferenza stampa sono intervenuti il sindaco, Stefano Reggianini, e l'assessore Giovanni Gargano - chiede un ripensamento sulla struttura carceraria presente nel suo territorio per ciò che non ha funzionato rispetto alle aspettative. Chiede al Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (Dap) una scelta netta: o un forte investimento per dare concretezza all'espressione "casa lavoro" o il superamento di questa esperienza. E oggi avanza la preoccupazione che la chiusura degli Ospedali psichiatrico giudiziari (Opg) possa scaricarsi anche su strutture come questa, giudicate inadatte alla presa in carico di problematiche così complesse. Piuttosto, secondo Desi Bruno, Garante regionale dei detenuti, "il superamento degli Opg va preso a punto di riferimento per praticare il tante volte enunciato principio della territorialità della pena, trasferendo gli internati alle regioni di appartenenza". Bruno ha poi detto che il 15 aprile incontrerà il nuovo capo del Dap, Santi Consolo, per chiedere che vengano mantenuti gli impegni che il suo predecessore aveva espresso proprio nel corso del convegno di Castelfranco Emilia dell'ottobre 2013, e che sono agli atti. "È necessario ridare speranza a tutti gli internati ai quali non viene riconosciuto il diritto di sapere né quando né se potranno riacquistare la propria libertà", ha spiegato la Garante. La quale, rifacendosi alla nuova legislazione sugli Opg, ha aggiunto che "non sarebbe comprensibile la previsione di una durata massima per la misura di sicurezza prevista per gli infermi e per i seminfermi di mente, ma non per i soggetti reclusi nelle Case lavoro". Ai vertici del Dap recentemente rinnovati si chiede di non rimandare ulteriormente "una decisione i cui contorni sono da tempo chiari, e l'aver superato il problema del sovraffollamento delle carceri apre possibilità maggiori che in passato". Le Case di Lavoro "rappresentano il conclamato fallimento della funzione rieducativa della pena- ha aggiunto- e forniscono una risposta di tipo esclusivamente segregante a domande che possono trovare risposta assistenziale e sanitario". In particolare, "a Castelfranco Emilia manca il lavoro, ovvero il presupposto stesso di esistenza dell'Istituto, nonostante il ricco patrimonio agrario e laboratoriale a disposizione, da anni del tutto inutilizzato". Le potenzialità enormi della struttura carceraria e il senso di spreco che ne deriva sono stati sottolineati da tutti i soggetti intervenuti alla presentazione degli atti del convegno. Alla conferenza stampa, questa stamattina nella Sala Consigliare del Comune, hanno partecipato anche Patrizia Tarozzi (direttore Ufficio esecuzione penitenziaria di Modena), Paola Cigarini (presidente Conferenza regionale volontariato), Gianpaolo Ronsisvalle (Camera penale di Modena), Giuseppe Basellis (Centro servizi volontariato Modena). Giustizia: il Sottosegretario Ferri "fermiamo le stragi al volante, pene minime più severe" La Nazione, 3 aprile 2015 "L'introduzione del reato di omicidio stradale è una battaglia di grande civiltà sulla quale il governo ha messo la faccia. Stia tranquillo che la condurremmo in porto il testo nei tempi previsti. Ritardare sarebbe un danno per tutti". Cosimo Ferri, sottosegretario alla Giustizia, non ha dubbi: se si vuole creare un deterrente efficace allo spaventoso fenomeno delle vittime della strada, occorre cambiare le norme sul tema e farlo al più presto. "Vede - racconta alla Nazione che si è fatta promotrice di questa campagna di sensibilizzazione - oggi il nostro codice per la guida in stato di ebbrezza o dopo l'assunzione di droghe prevede già pene severe che vanno da un minimo di 3 anni a un massimo di 10". Però... "Però, fra attenuanti e cavilli raramente chi uccide al volante va in carcere. Per questo stiamo spingendo per introdurre nel codice l'omicidio stradale che, in quanto reato autonomo, non solo farà da deterrente ma non potrà più essere oggetto del bilanciamento con altre attenuanti". E poi cosa chiedete? "Chiediamo di inasprire le pene minime per questo tipo di reato". Perché? "Perché nell'applicarle il giudice parte spesso dal basso, cosicché, per effetto delle attenuanti generiche o di altro, fin qui la pena è venuta spesso a mancare. Vogliamo cambiare le cose sul serio". Nel testo l'omicidio stradale è rimasto un reato colposo... "Ed è un bene che sia così. Se lo stabilissimo doloso, dovremmo introdurre dei criteri probatori molto complessi. Stabilire il dolo, insomma, diverrebbe più difficile, con il rischio di ottenere l'effetto opposto". Una legge del genere può incontrare problemi con l'Europa? "Io non vedo problemi. Alcuni Paesi hanno già normative molto più severe delle nostre, il testo reggerà tranquillamente all'impatto. Anzi: noi dovremmo guardare di più all'Europa". In che senso? "Nel senso che dovremmo guardare all'Europa anche per quanto riguarda prevenzione. Noi in un anno facciamo un milione e 400 mila controlli sulla strada, la Francia ne fa 6 milioni. Dovremmo aumentarli per forza anche noi". Riassumendo, qual è la sua ricetta per fermare la strage degli innocenti sulle strade? "Introdurre l'omicidio stradale come reato e l'ergastolo della patente; alzare le pene minime sulla materia; punire penalmente anche altri condotte gravi come l'alta velocità nei pressi delle scuole; dare vita a una grande campagna di sensibilizzazione: solo sapendo a cosa si va incontro ci si può salvare". Giustizia: "Oltre le sbarre", parla don Pier Sandro Spriano, il cappellano di Rebibbia di Maurizio Fontana Osservatore Romano, 3 aprile 2015 "Il Giovedì santo di Papa Francesco a Rebibbia sarà importante per i detenuti, ma forse ancora di più per chi è fuori". Sorride don Pier Sandro Spriano, cappellano del carcere romano, consapevole dell'affermazione un po' spiazzante. Dietro l'apparente paradosso si nasconde quello che per lui è l'aspetto più importante della messa "in coena Domini" che il Pontefice celebra nel pomeriggio di giovedì 2 aprile. "I cristiani - spiega al nostro giornale - non hanno ancora compreso che anche all'interno del carcere c'è una Chiesa. Non una chiesa di mattoni, ma una Chiesa di uomini e donne, che prega, celebra, riflette, ascolta la parola di Dio e vorrebbe annunciare all'esterno il concetto di giustizia che esprime il Vangelo". Non l'"occhio per occhio, dente per dente" al quale si fa riferimento nel mondo comune. Invece "la giustizia del Vangelo pensa a punire se è necessario, ma nel contempo anche a salvare il colpevole". Venticinque anni (su cinquanta di sacerdozio) di servizio pastorale all'interno del carcere hanno consolidato in lui una convinzione: "Se oltre a punire chi commette un reato, io non lo curo, questa persona tornerà a delinquere più di prima". Per questo spera che da questa celebrazione emerga un "segnale forte per dire che il reato, il male, non annulla la possibilità di essere cristiani, ma nemmeno annulla la possibilità di essere annunciatori di una giustizia nuova, così come la predica il Vangelo". E il primo scopo della giustizia evangelica è quello di "ricomporre", di "ricostruire" la persona. Proprio a questo si dedica il gruppo guidato da don Spriano: quattro cappellani ufficiali, tredici preti volontari, ventidue seminaristi e un centinaio di volontari della Caritas (sono quelli del Vic, Volontari in carcere, fondato dallo stesso cappellano). Ai detenuti viene proposto un cammino celebrativo di preghiera e di catechesi: si pensi che in carcere c'è una partecipazione alla messa del trenta per cento. Quello dei volontari cattolici è un lavoro prezioso nella complessa realtà di Rebibbia: quattro istituti penitenziari, tre maschili e uno femminile, circa 1.900 uomini e 350 donne, il 36 per cento dei detenuti è straniero (da un'ottantina di Paesi). Sono più di quanti il carcere potrebbe accogliere, ma secondo il cappellano il sovraffollamento non è il primo dei problemi. Quello vero è che ci si accontenta di seguire solo il dettato della Costituzione, che impone, per un certo tempo, di allontanare dalla società chi ha commesso dei reati. Ma per il recupero delle persone, il carcere fa poco. Ecco allora che diventa fondamentale la presenza della Chiesa. "Noi - ci spiega - riusciamo a confrontarci con la singola persona affinché questa possa essere, come dice la legge, stimolata a rivedere il suo passato deviante". In questo i volontari sono aiutati anche dal fatto di non avere obblighi istituzionali: non partecipano ai consigli di disciplina, non danno giudizi al magistrato. I detenuti lo sanno. E trovano in loro un appiglio, la possibilità di una speranza. Parte allora il dialogo. A volte si avviano conversioni. Si tenta di ricucire, di ricomporre i cocci. La realtà del carcere, sembra quasi banale ricordarlo, è devastante per la persona. Don Spriano entra un po' nel dettaglio: "Qui si vive in un impianto che non è fatto per riconciliare. È fatto per punire. Violenze gratuite, rapporti disciplinari, il dover stare chiusi e non poter decidere niente per conto proprio, il sovraffollamento che crea la fatica del convivere". Su tutto domina la solitudine. Le carceri sono stracolme, le celle accolgono molti più detenuti di quanto dovrebbero, ma in questo affollamento "la solitudine è uno dei problemi fondamentali del carcerato". Proprio pochi giorni fa, a Rebibbia un detenuto si è suicidato. "I suicidi in carcere - spiega il sacerdote - dipendono dalla condizione spirituale della persona. A volte ci sono problemi psichici, a volte non si regge la frattura di aver perso la famiglia, o il colpo di una condanna all'ergastolo. Ci sono delle condizioni che il carcere esaspera proprio per la solitudine in cui si vive. Qui nessuno riesce a impostare veri rapporti amicali. Ci può essere aiuto reciproco, cameratismo, ma fondamentalmente si è portati a badare al proprio interesse, alla sopravvivenza". E se si pensa alle famiglie la realtà è altrettanto triste: "La maggioranza si perde. Mancano i contatti, manca un rapporto costante: ci sono solo quattro ore al mese di colloqui. Durante i quali non puoi dare neanche una carezza a tua moglie. Tutto questo è molto difficile da sostenere". Eppure, ci dice ancora il cappellano, per accordare i benefici di legge ai detenuti, la cosa più importante che viene valutata è proprio il loro rapporto con la famiglia. La constatazione di don Pier Sandro è amara: in questo sistema, a chi commette un reato non si infligge solo la pena prevista della privazione della libertà, ma, in maniera del tutto gratuita, "vengono tolti anche altri diritti fondamentali come quelli all'affettività, alla privacy, o quello alla salute". Quella sanitaria - p u re in un carcere come Rebibbia considerato dagli stessi reclusi "a sei stelle" - è infatti un'emergenza assoluta. "Tante volte noi volontari - ci rivela il cappellano - dobbiamo comprare medicinali salvavita che la Asl non riesce a garantire". E continua: "La quantità di infarti di persone giovani deriva chiaramente dalla mancanza di movimento. Senza contare che la forzata convivenza con troppi favorisce la diffusione di malattie come la tubercolosi o la scabbia". E all'igiene spesso devono provvedere i volontari: si pensi, ci dice il sacerdote, "che ogni detenuto avrebbe diritto a un rotolo di carta igienica ogni due mesi". Tutto questo "fa perdere non solo il gusto del vivere, ma anche i valori". Don Spriano tiene a specificare di non volere colpevolizzare i responsabili e il personale delle carceri italiane: non mancano persone meritevoli e lodevoli. Il punto è un altro: "È l'intero sistema carcerario che, così come è impostato, è fallimentare". Ma anche fuori dal carcere la mentalità non sembra essere differente: "Fuori l'ex detenuto è detenuto per sempre. Non ti si apre più nessuna porta. La società è diffidente al massimo e ti costringe in un angolo, anche se hai voglia di ricominciare". Ecco allora più chiaro l'apparente paradosso con cui don Spriano ha iniziato il nostro colloquio: questa messa celebrata a Rebibbia servirà sicuramente ai detenuti come segno di speranza, ma probabilmente, conclude il cappellano, "sarà più utile fuori da queste mura, a chi sta al di là delle sbarre". Giustizia: "Convenzione", ecco nuovo patto Servizi-Dap per le spie in carcere di Nicola Biondo Il Fatto Quotidiano, 3 aprile 2015 Si chiama "Convenzione". È un testo di sei pagine con 10 punti, siglato nel 2010 e rivelato nel 2014 in Commissione Antimafia. Il suo obiettivo è lo "scambio di informazioni anche contenute negli archivi" tra l'amministrazione penitenziarie e l'Aisi. Un accordo che esclude la magistratura, tenuta all'oscuro da ogni attività degli 007 che acquistano maggiore potere per entrare nelle celle rispetto a quello concesso dall'accordo siglato da Mori Il titolo è di basso profilo, in pieno stile burocratese: "Convenzione". Un testo di appena sei pagine composto da 10 punti. La sua missione è semplice: "Scambio di informazioni anche contenute negli archivi" tra l'amministrazione delle carceri (Dap) e il Servizio segreto civile (Aisi). In realtà si tratta di un passe-partout universale che consegna agli 007 le chiavi di un enorme patrimonio informativo senza alcun limite e controllo. Un accordo così riservato ed esclusivo che esclude la magistratura inquirente che va tenuta all'oscuro da ogni attività dei Servizi nelle carceri. Un protocollo riservato applicato tra i primi ad un boss di mafia testimone nel processo di Palermo sulla Trattativa. Ad avere siglato la Convezione sono stati il generale Giorgio Piccirillo - ex direttore dell'Aisi - e Franco Ionta, ex numero uno del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. Era il 10 giugno 2010. Ecco l'incipit dell'accordo: "Le parti si impegnano a realizzare un costante scambio informativo per lo svolgimento, in collaborazione, di attività istituzionali dei contraenti nonché per favorire la ricerca informativa nei settori di competenza e lo scambio delle informazioni in proprio possesso…". La base giuridica a cui la "Convenzione" fa riferimento è la legge di riforma dei servizi del 2007. E fin qui tutto bene. Ma è il punto "8" che disegna un regime di assoluta esclusività di questo accordo. "Ciascuna delle parti si impegna a non trasmettere a terzi né a divulgare le informazioni e i documenti di cui sopra senza il preventivo consenso dell'altra parte". È un diritto di veto che tutela soprattutto i Servizi, obliterando quelle informazioni agli occhi della magistratura o di una commissione parlamentare, lasciandoli all'oscuro su quello che succede nelle carceri e sul flusso informativo che da lì parte. L'accordo Dap-Aisi viene rivelato nel gennaio 2014 in Commissione Antimafia nell'ambito di un'inchiesta sulla tenuta del 41bis. A farne cenno fu l'allora direttore delle carceri Giovanni Tamburino che tentò di farsi scudo del punto 8 della Convenzione, ingaggiando con la Presidente Rosy Bindi un vero e proprio duello. Presidente: "Vorremmo averne una copia". Tamburino: "Attore della convenzione non è solo il dipartimento, ma anche l'Aisi". Presidente: "Lo chiederemo anche all'Aisi la prossima settimana, ma credo sia già importante acquisire la sua disponibilità, che peraltro non ci può essere negata". Tamburino: "Non devo offrire nessuna disponibilità, che non può essere negata. Dicevo solo che, essendo la controparte pubblica l'Aisi…". Presidente: "…ritiene che sia scontato che l'avremo. La ringraziamo." Ma a quali detenuti è stata "applicata" la "Convenzione"? Secondo Tamburino non più di sei aggiungendo che "nessuno di questi casi potesse riguardare casi di eversione interna o di criminalità organizzata interna". Ma le cose sono andate diversamente. Secondo le indagini della Procura di Palermo - nell'ambito della trattativa Stato-Mafia - l'Aisi sulla base della "Convenzione" ha attenzionato nel 2012 Rosario Cattafi, boss al 41bis, trait d'union tra mafia, imprenditori e pezzi dello Stato. Prima che Cattafi riuscisse a parlare con i magistrati, diventando testimone nel processo Trattativa, l'Aisi - applicando la Convenzione - ha "anticipato" le indagini della Procura palermitana inoltrando una richiesta al Dap per conoscere la situazione carceraria del boss, le persone con cui parla, i colloqui ottenuti da detenuto. Il perché rimane un mistero: a cosa potevano servire quelle informazioni? Quella richiesta sarà definita dallo stesso Tamburino irrituale e inspiegabile nell'interrogatorio reso ai pm di Palermo. Il caso di Cattafi è rimasto l'unico? Chi indaga sottolinea la precisa sovrapposizione tra la convezione e "l'operazione Farfalla", una joint venture tra il Dap e il Sisde - sotto la direzione di Mario Mori - datata 2004, sulla quale si sono appuntate le critiche (assai timide) del Copasir, l'organismo parlamentare di controllo dei servizi, con una relazione licenziata l'altro ieri. Anche in quel caso le penetrazioni non ortodosse degli 007 dovevano, come per la "Convenzione", essere blindate alla magistratura. Ma se l'"operazione Farfalla" che metteva sotto osservazione otto detenuti di mafia al 41bis a detta del Copasir "è stata costruita solo sulla base di conoscenze personali tra i rispettivi dirigenti e direttori degli enti e non sulla base di regole precise, concordate e codificate, risultando fallimentare", la "Convenzione" stabilizza quello che era l'obiettivo dell'"operazione Farfalla", entrare nelle carceri senza alcun limite. Ma come avviene lo scambio di informazioni tra "barbe finte" e Dap? Il braccio operativo della Convezione è il Nic - nucleo investigativo centrale all'interno del Dap - che, secondo l'ex-direttore Tamburino, "dispone di una sala situazione… la convenzione prevede una collaborazione da parte di questa sala situazione con l'agenzia per sue esigenze di intelligence". Celle aperte agli 007 dunque con la Convezione targata Dap-Aisi. In barba, è il caso di dire, alla legge. Opera (Mi): in carcere per omicidio della fidanzata si uccide impiccandosi con il lenzuolo La Repubblica, 3 aprile 2015 Si è ucciso ieri mattina in cella, alle 10,30, facendo un cappio con asciugamano e lenzuolo e annodandolo alla sbarra della finestra. Italiano, 50 anni, era in carcere a Opera da luglio del 2013: avrebbe dovuto scontare una pena fino al 2028 per l'omicidio preterintenzionale della fidanzata. Ieri ha approfittato del momento in cui il suo compagno di cella si era assentato per il colloquio con la propria famiglia e quando è stato soccorso dal medico presente in reparto era ormai troppo tardi. Il detenuto aveva tentato il suicidio anche due anni fa, prima di essere arrestato. "Estremamente problematico" ed ex alcolista, era stato immediatamente preso in carico dal servizio di psichiatria e psicologia del carcere, dove svolgeva attività lavorativa tra pulizie e consegna del vitto. Il Comunicato del Sappe L'uomo si è impiccato nella sua cella. Sarebbe tornato in libertà nel 2028. La denuncia da parte del sindacato di polizia penitenziaria: "È il secondo caso in pochi giorni". Nel carcere di Opera, in provincia di Milano, un detenuto italiano di cinquant'anni, condannato per maltrattamenti in famiglia e lesioni con fine prevista nel 2028, si è impiccato nella sua cella. A darne notizia è il Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria. "A nulla purtroppo è servito l'intervento degli agenti in servizio. E certo fa riflettere che sia il secondo suicidio in pochi giorni di un detenuto in un carcere italiano, dopo quello di Firenze Sollicciano domenica notte", commenta Donato Capece, segretario generale del Sappe. Capece ricorda il pronunciamento del Comitato nazionale per la bioetica, che ha rimarcato come "il suicidio costituisce solo un aspetto di quella più ampia e complessa crisi di identità che il carcere determina, alterando i rapporti e le relazioni, disgregando le prospettive esistenziali, affievolendo progetti e speranze. La via più netta e radicale per eliminare tutti questi disagi sarebbe quella di un ripensamento complessivo della funzione della pena e, al suo interno, del ruolo del carcere". "In un anno la popolazione detenuta in Italia è calata di poche migliaia di unità", avverte Capece. "Il 28 febbraio scorso erano presenti nelle celle 53.982 detenuti, l'anno prima erano 60.828. La situazione nelle carceri italiane resta ad alta tensione: nel solo 2014 sono stati 933 i tentati suicidi di detenuti sventati dagli agenti. Ma ogni giorno, i poliziotti penitenziari in prima linea delle sezioni detentive - conclude - hanno a che fare in media con almeno 18 atti di autolesionismo da parte dei detenuti, tre tentati suicidi, dieci colluttazioni e tre ferimenti". Firenze: Opg; polemiche sul trasferimento degli internati nel carcere di Solliccianino Redattore Sociale, 3 aprile 2015 Non cessano le polemiche sul trasferimento degli internati nel carcere di Solliccianino: "Si va di male in peggio. Dall'Opg si è passati al carcere-Opg". Non cessano le polemiche sul trasferimento degli internati dell'Opg di Montelupo al carcere di Solliccianino, una struttura giudicata inadeguata da molti. A schierarsi contro questa decisione anche il coordinatore nazionale dei garante dei detenuti Franco Corleone, che firma una lettera per il comitato Stop Opg insieme a Stefano Cecconi e Giovanna Del Giudice. "Pessima soluzione - dicono i tre nella lettera - si va di male in peggio: dall'Opg al Carcere-Opg". E poi un riferimento anche alla Lombardia sull'Opg di Castiglione delle Stiviere, che "rimane aperto, con 160 posti tra cui vi saranno anche internati provenienti da altre regioni". Ecco perché in questi casi, prosegue l'appello, "serve il commissariamento. Come abbiamo sempre sostenuto, è evidente che le Rems non sono la soluzione per superare gli Opg ma una loro prosecuzione. E, come nei casi toscano e lombardo, nemmeno sotto mentite spoglie. La mobilitazione continua". Posizione simile sull'Opg di Montelupo da Psichiatria Democratica: "Al peggio non c'è fine. Se eravamo stati facili profeti nel denunciare, con largo anticipo, che il 31 marzo 2015 l'opg di Montelupo non avrebbe chiuso, nemmeno per gli internati toscani, non potevamo certo immaginare che, a due giorni dalla scadenza di legge, al termine di un grottesco "gioco dell'oca", la Giunta Regionale avrebbe deliberato di costituire la Rems a vigilanza rafforzata, presso il carcere Mario Gozzini di Firenze comunemente noto come Solliccianino perché limitrofo al più conosciuto e grande Sollicciano. Tutte queste incertezze sono più che sufficienti per ribadire il giudizio negativo ripetutamente espresso da Psichiatria Democratica sulla incapacità della Regione Toscana di gestire, politicamente, una così importante scadenza di legge (e in tre anni avrebbe avuto tutto il tempo di farlo). Alla luce di questi fatti, come Psichiatria Democratica, respingiamo questa ipotesi di Rems auspicando che altrettanto faccia il Ministero provvedendo di conseguenza al commissariamento della Regione". In struttura Volterra prima paziente da ex Opg È stata inserita nella struttura residenziale Morel 3 di Volterra (Pisa) la prima paziente proveniente dall'Opg di Castiglione delle Stiviere (Mantova) dopo la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. Lo rende noto l'Asl 5 di Pisa. Il Morel 3 è dedicato a trattamenti terapeutici riabilitativi destinati ad accogliere persone con disturbi psichici autori di reato per le quali è venuta meno la misura detentiva di custodia cautelare, pur permanendo la necessità di misure di sicurezza con saltuari controlli esterni da parte delle forze dell'ordine. I posti letto sono 12, spiega l'Asl pisana, "e il tempo di degenza massimo è di 18 mesi più 6 che deve essere concordato con il dipartimento di salute mentale di riferimento, la struttura è gestita da personale che appartiene a più profili professionali che garantisce la presenza sulle 24 ore: la comunità fa parte a pieno titolo della rete di risorse sanitarie della Asl 5 di Pisa ed è dedicata ad accogliere persone residenti o autori di reato nel territorio delle aziende sanitaria dell'Area Vasta Nord-Ovest, in dimissione dall'ospedale psichiatrico giudiziario". La Asl pisana sottolinea che i pazienti che "possono essere inseriti nella struttura volterrana si possono riassumere in tre tipologie: autori di reato dimissionabili dall'Opg di Montelupo Fiorentino, per cui è venuta meno la necessità della misura detentiva, pur permanendo la necessità di misure giudiziarie di tutela; pazienti dimissionabili dalle Residenze per l'esecuzione della misura di sicurezza (Rems), per i quali sia venuta meno la necessità della misura detentiva, pur permanendo l'applicazione di misure di sicurezza e autori di reato provenienti dal territorio, per i quali l'autorità giudiziaria dispone l'invio in struttura per trattamenti riabilitativi con misure di libertà vigilata attenuata in alternativa al carcere o alla Rems". Giustizia: Opg; la chiusura non placa le polemiche, il destino della villa resta un mistero di Ylenia Cecchetti La Nazione, 3 aprile 2015 Una foto dell'interno dell'opg di Montelupo che avrebbe dovuto chiudere oggi, ma invece resterà aperto per ancora non si sa quanto Una foto dell'interno dell'Opg di Montelupo che avrebbe dovuto chiudere oggi, ma invece resterà aperto per ancora non si sa quanto. All'indomani ella chiusura stabilita su carta ma non nei fatti, è ancora buio sul fronte Opg. La Regione ha deciso dove sistemare gli ospiti dell'Ambrogiana rendendo nota all'ultimo tuffo la lista dei luoghi che ospiteranno i 49 internati toscani. Ma la maggior parte delle strutture, come la Rems che dovrebbe essere attivata all'Istituto Mario Gozzini di Sollicciano per 22 non dimissibili, devono essere riadeguate. La data effettiva della chiusura, quindi, è difficile da stabilire. La fase di smantellamento per quanto riguarda l'Opg di viale Umberto I sarà lunga e graduale. Ci sarà ancora da aspettare (e chissà quanto) perché la villa venga restituita ai cittadini; ci vogliono almeno 70mila euro e un progetto appetibile per il recupero dell'immobile in grado di attirare qualche buon investitore. Dalla direzione dell'Opg cala il silenzio mentre dall'amministrazione comunale montelupina si apprende che il 15 maggio in un consiglio straordinario l'attenzione sarà tutta per il futuro della struttura. Si vede la fine dell'opg, insomma, ma non la fine delle polemiche che infuriano soprattutto sulla scelta della Rems ricaduta su Solliccianino. A Montelupo per ribadire la sua posizione è arrivato ieri mattina il parlamentare di Fratelli d'Italia-An, Achille Totaro. "La questione Solliccianino è vergognosa - ha dichiarato l'onorevole in accordo con il consigliere comunale di Montelupo Federico Pavese, Giuseppe Madia membro della commissione Villa Medicea ed Andrea Poggianti, presidente di Fratelli d'Italia-An dell'Empolese-Valdelsa - presenta molti rischi. Si tratta di una struttura nata per il reinserimento dei detenuti (ne ospita già 70 in regime di semilibertà che dovranno, non si sa come, convivere con i malati psichiatrici) dove il trasferimento dei 22 internati porterà sicuramente scompiglio e disagi per la sicurezza". Non una soluzione adeguata, quindi. E nemmeno largamente condivisa. "Da un opg si passerebbe ad una struttura carceraria che tutto è tranne che una Rems. Se la scelta sarà quella che si prospetta anche il personale penitenziario dovrà essere posto in mobilità. Si creeranno licenziamenti per tutto l'indotto privato che ruota intorno all'Opg. Oltre allo spreco di denaro, visto che poteva essere convertito l'Opg montelupino (recentemente restaurato con tutti gli standard sanitari e non penitenziari) in Rems, si assiste anche ad un concreto disagio di tutto il personale sanitario ed infermieristico. Professionisti la cui sorte lavorativa ancora oggi è in un limbo assurdo". Mantova: direttore di Castiglione delle Stiviere "il post-Opg non deve allarmare cittadini" Adnkronos, 3 aprile 2015 I cittadini non devono temere l'era post-Opg. È la rassicurazione di Andrea Pinotti, direttore di quello che oggi si chiama Sistema polimodulare di Rems provvisorie di Castiglione delle Stiviere (Mantova), ex ospedale psichiatrico giudiziario. "Il nuovo modello - spiega oggi in una nota - non deve allarmare la popolazione lombarda, che non è in pericolo. Continueremo a lavorare nella sicurezza delle persone e dell'ambiente, garantendo la dimissione degli autori di reato solo nel momento in cui il rischio di recidiva è diminuito in modo significativo o ormai assente". Questi i piani per la nuova fase che si è aperta sulla carta da due giorni, dopo che il 31 marzo è scaduta l'ultima proroga concessa alle Regioni per organizzarsi in vista del superamento degli Opg. A Castiglione sono in arrivo 57 nuove assunzioni. La Regione Lombardia ha dato il via libera al reclutamento di 39 infermieri, 7 psichiatri, 7 psicologi e 4 fra educatori e tecnici della riabilitazione. E intanto domani cominciano i primi trasferimenti di pazienti di altre regioni: 12 persone, destinate alle strutture del Lazio e dell'Emilia Romagna. Castiglione è al lavoro per strutturare le 8 Rems temporanee che saranno ospitate nell'ex Opg. Rems che diventeranno 6 a transizione compiuta, per un numero complessivo di 120 pazienti, ricorda la struttura in una nota. Le Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza, realtà da 20 posti letto affidate alle singole Regioni, concepite allo scopo di riportare i servizi psichiatrici e il territorio al centro dell'intervento terapeutico, cercando misure alternative all'internamento, cambiano gli scenari, sottolinea Pinotti: "Con la nuova normativa cambia il ruolo di questa struttura, non più punto di arrivo ma tappa di transito per il trattamento territoriale. L'obiettivo principale è offrire la migliore risposta terapeutica per riportare il paziente sul territorio in condizioni adeguate. Stiamo intervenendo sugli operatori, per uniformare le modalità di presa in carico all'interno del centro e all'esterno, così da evitare un distacco e mantenere, al contempo, la specificità del trattamento psichiatrico forense, riconosciuta come eccellenza a livello internazionale". Le Rems sono inserite in un complesso unico (‘Balloon Model') con la suddivisione in alta, media e bassa intensità, che va dall'accoglienza-diagnosi-acuzie (alta), allo specifico trattamento rispetto alla patologia (media), fino al ritorno sul territorio, passando eventualmente attraverso la comunità esterna (bassa). Questo percorso viene coniugato con un'offerta riabilitativa. Il progetto, assicurano da Castiglione, deriva dalle più rilevanti esperienze internazionali. L'Opg che ha operato nella cittadina lombarda, ricordano dal centro, è sempre stato considerato come "riferimento assistenziale e terapeutico-riabilitativo". La struttura mantovana è stata l'unica a gestione esclusivamente sanitaria, con caratteristiche alberghiere e di assistenza ospedaliere, assenza di guardie carcerarie e celle. I punti su cui hanno lavorato qui, spiegano i responsabili, sono: impostazione comunitaria dell'organizzazione ed elevato impegno terapeutico-riabilitativo offerto da medici psichiatri, psicologi, infermieri, oss, educatori, assistenti sociali, insegnanti di educazione fisica, oltre a varie figure di supporto (dagli autisti, ai portinai e così via). La struttura, si legge nella nota, "è immersa nel verde con ampi spazi aperti, piscina, campo da tennis-pallavolo, campo da calcetto. Si svolgono attività ludiche e lavorative remunerate - gestione del verde, piccola manutenzione, falegnameria, stamperia, sartoria - culturali e scolastiche". Mantova: l'addio all'Opg di Castiglione delle Stiviere porta anche 67 assunzioni di Francesco Romani Gazzetta di Mantova, 3 aprile 2015 Dall'altro ieri via alle prime "Residenze" provvisorie, quelle definitive fra anni. Il direttore Pinotti: "Restiamo polo europeo per la psichiatria forense". La targa all'ingresso è stata cambiata in tutta fretta ieri mattina. L'indicazione Ospedale psichiatrico giudiziario finisce nel dimenticatoio, superata per legge dalle Rems, residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza. Un lunga formula per dire che da oggi in avanti "l'orrore" dei manicomi criminali è un brutto ricordo del passato. Ma se il cambio negli altri Opg italiani sarà una rivoluzione, a Castiglione è per ora un ritocco di facciata, visto che le caratteristiche ospedaliere che la legge impone a tutti da ora in avanti qui sono una realtà consolidata che affonda le radici addirittura nel 1939, quando sorse su questa salubre collinetta a nord del centro e che guarda al Garda un ‘Manicomio per malati tisicì. Cinque anni dopo entrò la prima donna, Felicia, che aveva ucciso il marito in preda alla depressione. Queste due radici, impostazione ospedaliera e reparto femminile, hanno costituito da sempre le due peculiarità uniche in Italia dell'Opg castiglionese. Di nuove Rems, piccoli padiglioni da 20 posti, qui ne nasceranno sei nei prossimi anni per ospitare i lombardi malati di mente ed autori di reato. Il progetto lo sta curando Infrastrutture Lombarde per conto della Regione. Tempo dai due ai tre anni. Nel frattempo la modalità di gestione sarà provvisoria. Nel senso che oltre ai 120 degenti previsti nelle sei Rems, oggi vi sono altri 100 ospiti "parcheggiati" a Castiglione perché le altre Regioni non sono pronte ad accoglierli. Una quarantina sono piemontesi, altrettante le donne di ogni regione. Proprio per seguire queste persone in più, la Regione bandirà nelle prossime settimane una gara per assumere 67 persone a tempo determinato: 39 infermieri, 7 psichiatri, 7 psicologi e 4 educatori. "Non potremo partire con le nuove Rems sino a che dovremo destinare gli spazi per accogliere le persone da fuori regione - spiega il direttore dell'Opg, il dottor Andrea Pinotti - . Ma quando sarà pronto, il progetto prevedrà quattro padiglioni dove oggi sorge l'attuale sezione femminile e due in quella maschile. Il cantiere avverrà in due tempi in modo da consentire il dislocamento in tutta sicurezza degli ospiti man mano che procederanno i lavori". I problemi aperti restano tanti. A partire dal fatto che i tribunali continuano ad inviare negli ex Opg persone alle quali, dopo una prima perizia psichiatrica, viene imposta una misura di sicurezza provvisoria. "Per questo da noi il turn over è alto - prosegue Pinotti -. Ma questo è un fatto positivo perché qui i pazienti psichiatrici autori di reato devono solo passare in transito, per ricevere cure specifiche adeguate. E per questo le dimissioni non devono fare paura perché il miglioramento della situazione psichiatrica va di pari passo con la diminuzione della pericolosità sociale, cioè la tendenza a ripetere reati". Non per nulla Castiglione è già oggi punto di riferimento per la psichiatria forense in Italia ed in Europa. E in questo senso Pinotti lancia una sorta di allarme: "Sino a pochi decenni fa le malattie psichiche erano di più facile catalogazione. Si trattava di psicosi come schizofrenia, depressione, maniacalità. Ma oggi tutto è cambiato e vediamo sempre più forme nuove come ragazzi giovani o giovanissimi, con marcati disturbi della personalità che sono antisociali, o narcisisti, o istrionici. Situazioni border line che sempre più da un lato devono raccordarsi con la psichiatria del territorio e dall'altro richiedono un aggiornamento degli operatori, cosa che da tempo stiamo facendo Perché le Rems non saranno punti di arrivo, ma di transito di persone che i servizi psichiatrici del territorio seguiranno prima e dopo". Piacenza: sospesa pubblicazione giornale dei detenuti, solidarietà da Assostampa e Fnsi di Daniele Ferro www.ossigeno.info, 3 aprile 2015 L'ha deciso il direttore del penitenziario. La giornalista responsabile del periodico: "La mia autonomia infastidiva". Solidarietà da Fnsi. Il Garante: "Grave lesione". Il direttore del carcere di Piacenza "Le Novate", Caterina Zurlo, ha sospeso il laboratorio di giornalismo che la giornalista Carla Chiappini coordinava all'interno del penitenziario. Di conseguenza, dopo undici anni di pubblicazione, il periodico Sosta Forzata non esce più nelle edicole della città. La decisione è stata comunicata alla giornalista agli inizi di gennaio, dopo che lei stessa, preoccupata da alcune indiscrezioni, aveva chiesto chiarimenti. Alla base del provvedimento ci sono contrasti tra il direttore Zurlo e la giornalista. "Da parte della direzione c'era la sensazione di una mia troppo forte autonomia - dice Chiappini a Ossigeno - ma io rivendico le decisioni sui contenuti del giornale, che in undici anni non mi sono mai stati contestati da nessuno. Così si limita la libertà dei detenuti, che attraverso il giornale avevano un canale di dialogo con l'esterno". L'Associazione stampa dell'Emilia-Romagna e la Fnsi hanno espresso solidarietà a Chiappini, definendo la sospensione di Sosta Forzata "improvvisa e immotivata". Il Garante dei detenuti di Piacenza ha detto che il provvedimento è una "grave lesione del diritto di espressione". Carla Chiappini è una giornalista pubblicista, componente di disciplina dell'Ordine dei giornalisti dell'Emilia-Romagna, di cui è stata vicepresidente. Da sempre lavora nell'ufficio stampa del Centro di servizio per il volontariato di Piacenza. Nel 2001 inizia a tenere un laboratorio in carcere (il penitenziario più problematico dell'Emilia-Romagna, come spiegato dall'agenzia Redattore Sociale): due anni dopo esce il primo numero di Sosta Forzata, il giornale dei detenuti che viene pubblicato, tre o quattro volte l'anno, in allegato al periodico della diocesi Il nuovo giornale. Grazie a questa collaborazione, Sosta Forzata ha una tiratura di 4.500 copie e si trova nelle edicole della città. Il periodico viene registrato come testata giornalistica nel 2006 e Chiappini ne diventa direttore responsabile. Grazie al giornale, circa venti detenuti hanno l'opportunità di riflettere sulla propria vita, raccontandola all'esterno. L'ultimo numero di Sosta Forzata esce nel dicembre scorso. A fine mese, Chiappini viene a sapere che il giornale probabilmente sarà sospeso, così, agli inizi del nuovo anno, scrive alla direzione del carcere e ottiene la conferma. Le ragioni del provvedimento, ufficialmente, rimangono sconosciute, ma la responsabile del carcere Zurlo, al quotidiano locale Libertà, dichiara che "un direttore di istituto per legge ha compiti di controllo e coordinamento […] anche a salvaguardia delle esigenze di sicurezza interna e sociale". Interpellata da Ossigeno, la direzione del carcere ha preferito non fornire ulteriori spiegazioni. "I rapporti tra me e Zurlo - precisa Chiappini - sono sempre stati corretti, ma certo non idilliaci. Non comprendo comunque il provvedimento di sospensione, perché io ho accettato sempre che fosse la direzione del carcere a scegliere quali detenuti potessero scrivere per Sosta Forzata, mentre in altri istituti dove c'è un giornale è chi gestisce il laboratorio a scegliere le persone, all'interno di una rosa di nomi presentata dalla direzione". "Riteniamo inaccettabile sospendere una redazione senza motivazioni", affermano l'Assostampa dell'Emilia-Romagna e la Fnsi in un comunicato diffuso il 25 marzo, ricordando il valore della Carta di Milano, che disciplina la deontologia per i giornalisti per le notizie su carceri e detenuti. "Ci uniamo a chi ha richiesto ai rappresentanti del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria di convocare un incontro con le redazioni", prosegue il comunicato, facendo riferimento a un appello lanciato da Ristretti Orizzonti, redazione del carcere di Padova. Il Garante dei detenuti di Piacenza, Alberto Gromi, in un'intervista al quotidiano Libertà, ha definito la sospensione di Sosta Forzata una "grave lesione del diritto di espressione dei detenuti", sottolineando che il lavoro per il giornale permetteva alle persone recluse "una riflessione sulla propria vita che li porta a prendere consapevolezza del proprio reato". Per questo il Garante ha auspicato "una mediazione" che possa far tornare Sosta Forzata in edicola. Bologna: detenuti fanno lavori utili per il Comune, saranno impiegati in riordino archivio Ansa, 3 aprile 2015 Cinque detenuti del carcere di Bologna faranno lavori socialmente utili nei servizi della Cultura del Comune grazie ad un accordo che dà corpo alla legge 94 del 2013 e ad un'intesa del 2012 tra Anci e Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. Ma non si tratterà - come accade di solito in accordi di questo genere - di lavori di pulizia o manutenzione del verde: il primo dei cinque detenuti previsti dal protocollo lavorerà al riordino dell'archivio storico dell'assessorato. La casa circondariale di Bologna è da sempre all'avanguardia in attività per i detenuti. Sui 720-730 presenti ad oggi, 250 fanno attività scolastica (21 universitaria), ben 130 lavorano: 110 nei lavori domestici (come pulizia e cucina dentro il carcere), 12 nella azienda fondata nel carcere dai colossi del packaging Gd, Ima e Marchesini Group per produrre pezzi destinati alle tre aziende, 4 nel laboratorio per il riciclaggio degli elettrodomestici, altri 4 nel laboratorio "Gomito a gomito" che produce abiti e borse. Il detenuto scelto dal protocollo per i lavori socialmente utili uscirà in regime di lavoro esterno. L'intesa, per due anni ma rinnovabile, e l'impiego dovrebbe partire ad aprile, anche se la data esatta non è ancora stabilità poiché il provvedimento deve passare al vaglio del magistrato di sorveglianza. Il detenuto lavorerà due giorni a settimana, affiancato da una archivista che gli spiegherà le tecniche di catalogazione. Acquisirà così una competenza che potrà reimpiegare dopo nel riordino dell'archivio del carcere, ha spiegato la direttrice Claudia Clementi. I colleghi che lo seguiranno potranno essere invece impiegati in altri settori dell'assessorato alla Cultura. "Le istituzioni hanno il dovere di impegnarsi per l'applicazione di accordi che permettono al nostro paese di avanzare in una direzione che ci chiede l'Europa", ha detto l'assessore alla Cultura Alberto Ronchi, che si augura che altri dipartimenti del Comune partecipino al protocollo. Il riferimento è ovviamente al miglioramento delle condizioni detentive chiesto all'Italia, soprattutto dopo Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo dell'8 gennaio 2013. Grazie proprio alle misure deflattive della popolazione carceraria fatte dalla legislatore dopo la sentenza, a Bologna i detenuti sono scesi dal picco del 2013 di 1.200 detenuti ai 720-730 attuali, ma soprattutto si è invertita la proporzione tra persone in attesa di giudizio e definitivi, che ora solo circa il 60%. Sanremo (Im): "questo è il carcere più invivibile d'Italia", il Sappe lancia l'allarme www.riviera24.it, 3 aprile 2015 Ci sono poi molti detenuti con problemi mentali: "il carcere di Sanremo non deve essere trasformato in ospedale psichiatrico - specifica Lorenzo, che poi aggiunge - inoltre è presente nelle celle un detenuto di 200 chili ed uno molto anziano. "Noi stiamo denunciando a voce grossa che quello di Sanremo è diventato il carcere più invivibile d'Italia. Ogni giorno ci sono molti eventi critici". Non usa mezzi termini Michele Lorenzo, segretario nazionale de Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe) per descrivere la situazione del penitenziario matuziano di Valle Armea. Oggi il sindacalista era li per un incontro con il direttore della struttura Francesco Frontirrè, a seguito di una serie di "eventi critici" che funestano, sembra a scadenza quasi giornaliera, il carcere sanremese, i suoi detenuti e soprattutto gli agenti della Penitenziaria. Tra gli ultimi episodi più eclatanti si segnala poi il suicidio del pluriomicida Bartolomeo Gagliano, avvenuto il 22 gennaio scorso. Ci sono poi molti detenuti con problemi mentali: "il carcere di Sanremo non deve essere trasformato in ospedale psichiatrico - specifica Lorenzo, che poi aggiunge - inoltre è presente nelle celle un detenuto di 200 chili ed uno molto anziano, entrambi incompatibili con questo tipo di detenzione - prosegue il Lorenzo - Ogni giorno il nostro personale subisce aggressioni sia verbali che fisiche. Ultimamente due nostri colleghi sono stati ricoverati al pronto soccorso per lesioni. Abbiamo un aumento spropositato , e non ne capiamo ancora il perché, di questi eventi critici. La gestione della Polizia Penitenziaria è allo sbando, manca di punti di riferimento, e noi abbiamo chiesto un'ispezione ministeriale. Abbiamo chiesto al direttore di azzerare tutto, bisogna ripartire da zero. Mancano di tutte le dotazioni e i presidi per gestire i detenuti nonché per la sicurezza degli agenti. È inconcepibile che tutto ciò accada nel nel 2015". Asti: Sappe; evaso un detenuto genovese, non rientra dal permesso di 5 giorni Ansa, 3 aprile 2015 "Un detenuto italiano di 45 anni, originario di Genova, in permesso per 5 giorni non ha fatto rientro ieri nel carcere di Asti, dov'era ristretto per reati di droga, ed è quindi da considerarsi evaso". Ne da notizia il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "Questo è un evento che purtroppo si può verificare, anche se la percentuale dei detenuti ammessi a fruire di permessi all'esterno che non fa poi rientro è minima", commenta Donato Capece, segretario generale del SAPPE. Capece evidenzia infine che anche il grave episodio del mancato rientro del detenuto in carcere ad Asti è "sintomatico del fatto che le tensioni e le criticità nel sistema dell'esecuzione della pena in Italia sono costanti. E che a poco serve un calo parziale dei detenuti, da un anno all'altro, se non si promuovono riforme davvero strutturali nel sistema penitenziario e dell'esecuzione della pena nazionale". Roma: il Papa in visita nel carcere di Rebibbia, scambio di abbracci con i detenuti Il Mattino, 3 aprile 2015 Papa Francesco è andato in visita alla casa circondariale Nuovo Complesso Rebibbia di Roma dove, nella chiesa "Padre Nostro", celebrerà la messa "in coena Domini" del Giovedì Santo, inizio del Triduo Pasquale. Durante la cerimonia il pontefice ha compiuto il rito della lavanda dei piedi a sei detenuti e sei detenute, per metà stranieri. I dodici a cui il Papa ha lavato i piedi durante la messa sono due detenute nigeriane (una del nido), una congolese, due italiane e un'ecuadoregna, e inoltre un detenuto brasiliano, un nigeriano e quattro italiani. Nella chiesa il Papa ha incontrato 150 donne detenute (comprese 15 mamme con bambini) e 150 detenuti. Papa Francesco, nel cortile del carcere romano di Rebibbia, ha salutato e baciato uno ad uno i detenuti che lo attendevano a centinaia. Il Papa ha stretto le mani dei detenuti, li ha abbracciati, ha scambiato con loro baci sulle guance e parole di conforto e di incoraggiamento. Ad accompagnarlo lungo la transenna è stato il cappellano di Rebibbia, don Pier Sandro Spriano, da cui è partito l'invito per la visita accolto dal Pontefice, che gli ha parlato delle situazioni e delle provenienze di alcuni dei reclusi. I detenuti si sono mostrati molto sorridenti e hanno spesso applaudito il Papa. "W papa Francesco. Benedici chi non c'è più", con una foto e la scritta "Davide". Il Papa ha benedetto un cartellone con la foto di un detenuto scomparso, mostratogli dai reclusi che ha salutato. Tra scene di grande affetto, i reclusi - tra cui molti stranieri - hanno anche gridato "Viva il Papa". "Grazie per la calorosa accoglienza. Grazie tante", ha detto il Papa salutando i detenuti incontrati nel cortile. Fuori dalla chiesa Francesco ha salutato anche il personale della Polizia Penitenzieria, il personale amministrativo e i volontari. Ad accogliere il Papa, oltre al cardinale vicario di Roma Agostino Vallini, c'erano anche i cappellani del carcere don Pier Sandro Spriano, don Roberto Guernieri, padre Moreno Versolato e don Antonio Vesciarelli. Il papa è entrato poi in processione nella chiesa "Padre Nostro" del carcere per celebrare la messa. Entrando, è stato subito circondato dall'affetto dei detenuti presenti, che lo hanno avvicinato per salutarlo, toccarlo, stringergli le mani. Concelebrano con il Papa, tra gli altri, il cardinale vicario di Roma, Agostino Vallini, e l'arcivescovo Angelo Becciu, sostituto presso la Segreteria di Stato. Il polo penitenziario di Rebibbia ospita circa 2.100 detenuti, di cui 350 donne. Francesco è il terzo Papa che si reca in visita al carcere di Rebibbia, dopo Giovanni Paolo II il 27 dicembre 1983 (quando ebbe un colloquio con il suo attentatore Alì Agca) e Benedetto XVI il 18 dicembre 2011. "Pregate perché Dio lavi le mie sporcizie". "Anche io ho bisogno di essere lavato dal Signore: e per questo pregate, durante questa messa, perché il Signore lavi le mie sporcizie, perché io diventi più schiavo di voi, più schiavo nel servizio alla gente, come è stato Gesù". È quanto ha detto papa Francesco ai detenuti di Rebibbia nell'omelia della messa col rito della lavanda dei piedi. "Io laverò oggi i piedi di dodici di voi, ma in questi fratelli e sorelle ci siete tutti voi, tutti, tutti, tutti quelli che abitano qui. Voi rappresentate loro", ha detto il Papa. Durante l'omelia, Francesco ha spiegato quanto fece Gesù con i discepoli, "che non capivano", lavare loro i piedi. "In quel tempo - ha ricordato - questo era un'abitudine, perché la gente quando arrivava ad una casa aveva i piedi sporchi di polvere del cammino. Non c'erano i sampietrini in quel tempo - ha scherzato - e c'era la povere del cammino e all'entrata della casa all'ospite gli si lavava i piedi". "Ma questo non lo faceva il padrone della casa - ha proseguito -, lo facevano gli schiavi, era lavoro di schiavi e Gesù lava come uno schiavo i nostri piedi, i piedi dei discepoli, e per questo dice a Pietro "ciò che io faccio tu ora non lo capisci". È tanto l'amore di Gesù che si è fatto schiavo per servirci, per guarirci, per pulirci". "Oggi in questa messa - ha spiegato ancora il Papa - la Chiesa vuole che il sacerdote lavi i piedi di dodici persone, memoria dei dodici apostoli. Ma nel cuore nostro dobbiamo avere la certezza, dobbiamo essere sicuri che il Signore quando ci lava i piedi, ci lava tutti, ci purifica. Ci fa sentire un'altra volta il suo amore". "Nella Bibbia - ha aggiunto - c'è una frase, nel profeta Isaia, tanto bella: "ma può una mamma dimenticarsi di un suo figlio? Se una mamma si dimenticasse del suo figlio io mai mi dimenticherò di te". Così è l'amore di Dio per noi". Il Pontefice ha anche ricordato che "Gesù ci amò, Gesù ci ama, ma senza limite, sempre fino alla fine. L'amore di Gesù per noi non ha limiti. Sempre di più, sempre di più. Non si stanca di amare, con nessuno, ama tutti noi, al punto di dare la vita per noi. Sì dare la vita per noi, sì dare la vita per tutti noi, dare la vita per ognuno di noi, e ognuno di noi può dire dà la vita per me, ha dato la vita per ognuno con nome e cognome, e il suo amore è così, personale". "L'amore di Gesù non delude mai - ha concluso il Papa rivolto ai detenuti -. Perché lui non si stanca di amare, come non si stanca di perdonare, non si stanca di abbracciarci". Droghe: Bernardini (Radicali); 50 piante cannabis su mio terrazzo ma nessuna reazione Adnkronos, 3 aprile 2015 "Ho cinquanta piante di marijuana sul terrazzo ma nessuno mi arresta. È strano in un Paese che ha nelle carceri tante persone che hanno fatto molto meno in questo campo", ironizza Rita Bernardini, segretaria dei Radicali italiani, a margine della presentazione alla stampa di un disegno di legge del Movimento 5 Stelle per la legalizzazione della coltivazione di canapa limitata a 4 piante per uso personale. "Ieri abbiamo cominciato la quarta azione di disobbedienza civile - spiega Bernardini - e sul mio terrazzo sono state piantate oltre 50 piante. L'abbiamo fatto con l'associazione "La piantiamo" che da anni si batte per l'accesso ai farmaci cannabinoidi. La cosa incredibile è che nei miei confronti non succede nulla. È passato più di un anno da quando ho fatto la consegna a Foggia di circa 142 grammi di cannabis coltivati sul mio terrazzo. Ho consegnato il filmato alla procura della Repubblica, naturalmente autodenunciandomi. Sono andata dopo un anno, a febbraio scorso, a chiedere se fossi stata iscritta nel registro degli indagati e mi hanno detto di no", dice Bernardini ricordando di aver cominciato a fare disobbedienza civile dal 1995. Purtroppo, dice Bernardini, "del tema non si parla nonostante la stessa Direzione nazionale antimafia si sia pronunciata, con dati concreti, a favore della legalizzazione. Questa notizia non ha avuto spazio ma avrebbe potuto scatenare un dibattito". Mondo: "impiccalo più in alto"… sempre di più i condannati a morte di Damiano Aliprandi Il Garantista, 3 aprile 2015 Nell'ultimo anno sono state decise almeno 2.500 esecuzioni capitali: ma in molti paesi i numeri sono coperti da segreto. Crescono le condanne a morte nel mondo. A denunciarlo è Amnesty International attraverso un rapporto che riguarda l'uso giudiziario della pena di morte nel periodo che va da gennaio a dicembre 2104. Come negli anni precedenti, le informazioni sono state raccolte da diverse fonti, inclusi dati ufficiali, informazioni provenienti dagli stessi condannati a morte nonché dai loro familiari e rappresentanti legali, rapporti di altre organizzazioni della società civile e i resoconti dei mezzi di comunicazione. Amnesty International riporta esclusivamente esecuzioni, condanne a morte e altri aspetti legati all'uso della pena di morte, come commutazioni o proscioglimenti, che possono essere ragionevolmente confermate. In molti paesi i governi non rendono pubbliche le informazioni riguardo il proprio uso della pena di morte, rendendo molto difficile confermare tali dati. In Bielorussia, Cina e Vietnam i dati relativi alla pena di morte sono classificati come segreto di stato. Durante il 2014 sono state poche o nulle le informazioni su alcuni paesi - in particolare Eritrea, Malesia, Nord Corea e Siria, a causa delle pratiche statali restrittive e/o della instabilità politica. Pertanto - si legge nel rapporto - i dati di Amnesty International sull'uso della pena di morte sono da considerar- si valori minimi. Nel 2014 Amnesty International ha registrato le esecuzioni in 22 paesi, lo stesso numero del 2013. Almeno 607 esecuzioni hanno avuto luogo nel mondo, un calo di quasi il 22% rispetto al 2013. Come in anni precedenti, questa cifra non comprende il numero di persone messe a morte in Cina, dove i dati sulla pena di morte sono coperti dal segreto di stato. Almeno 2.466 persone sono state condannate a morte nel 2014, un aumento del 28% rispetto al 2013. Questo aumento è dovuto in larga parte a picchi estremi di condanne a morte in Egitto e Nigeria, dove i tribunali hanno inflitto condanne di massa contro decine di persone in alcuni casi. Un numero allarmante di Paesi che hanno usato la pena di morte nel 2014 lo hanno fatto in risposta a minacce reali, o percepite come tali, alla sicurezza dello stato e alla sicurezza pubblica, poste dal terrorismo, dalla criminalità o dall'instabilità interna. La Cina ha usato la pena di morte come strumento di repressione nella campagna "Colpisci Duro" che le autorità hanno definito come risposta contro il terrorismo e la criminalità violenta nella regione autonoma uighura dello Xin-jiang. Durante l'anno, sono state messe a morte almeno 21 persone per tre distinti attentati, mentre tre persone sono state condannate a morte in un processo pubblico di massa tenutosi in uno stadio, di fronte a migliaia di spettatori), c'è l'Iran (289 le esecuzioni rese note dalle autorità e almeno 454 non riconosciute), seguito dall'Arabia Saudita (con almeno novanta esecuzioni), l'Iraq (con almeno 61 condanne eseguite) e gli Stati Uniti, dove le persone giustiziate sono state 35 (quattro in meno rispetto al 2013). Arabia Saudita, Corea del Nord e Iran, tra le altre cose, sono i governi hanno continuato a usare la pena di morte come strumento per sopprimere il dissenso politico. Fra quelli che Amnesty definisce "i falsi motivi" addotti dai governi per l'utilizzo della pena capitale, infatti, ci sono la sicurezza interna, la lotta al terrorismo e il contrasto alla criminalità comune. In un quadro di una generale, seppur graduale diminuzione del ricorso alla pena di morte, a parte gli esempi in controtendenza di Egitto e Nigeria, le esecuzioni sono riprese in paesi quali Pakistan (dopo l'orribile attacco dei talebani contro una scuola di Peshawar. E nei primi mesi del 2015 è stato registrato un alto livello di esecuzioni) e Giordania, in cui fino al 2013 erano vigenti delle moratorie (proprio a dicembre la Giordania ha posto fine a una moratoria che durava da otto anni mettendo a morte 11 condannati per omicidio nel dichiarato intento di porre fine a un'ondata di criminalità). Sempre nel rapporto, Amnesty dichiara che non ci sono prove che la pena di morte sia un deterrente migliore contro la criminalità di una condanna al carcere. Quando i governi presentano la pena capitale - si legge sempre nel rapporto - come una soluzione alla criminalità o alla mancanza di sicurezza, essi non solo stanno ingannando la gente ma i stanno perdendo tempo nel prendere i provvedimenti necessari per realizzare l'obiettivo dell'abolizione della pena di morte riconosciuto nel diritto internazionale. Molti degli stati che mantengono la pena di morte hanno continuato ad usarla contravvenendo al diritto e agli standard internazionali. Processi iniqui, "confessioni" estorte con la tortura o altri maltrattamenti, l'uso della pena di morte contro minori e contro persone con disabilità psichiche o intellettivi e per reati diversi dall'omicidio "volontario" hanno continuato caratterizzare in modo preoccupante l'uso della pena di morte nel 2014. Il rapporto però conclude con una nota positiva. Nonostante tutto, il mondo continua a progredire verso l'abolizione. Ad eccezione dell'Europa e della regione dell'Asia centrale, dove la Bielorussia - il solo paese della regione dove vengono messi a morte i condannati - ha ripreso le esecuzioni dopo una interruzione di 24 mesi Amnesty International ha documentato sviluppi positivi in tutte le regioni del mondo. La regione dell'Africa subsahariana ha fatto speciali progressi, con 46 esecuzioni registrate in tre paesi rispetto alle 64 esecuzioni in cinque paesi del 2013. Il numero di esecuzioni registrate in Medio oriente e nella regione dell'Africa del Nord è diminuito del 23 per cento circa. Nelle Americhe, gli Stati Uniti d'America sono il solo paese che mette a morte i condannati, ma le esecuzioni sono diminuite dalle 39 del 2013 alle 35 del 2014, il che segnala una diminuzione costante delle esecuzioni nell'arco degli ultimi anni. Lo stato di Washington ha imposto una moratoria delle esecuzioni. Si sono registrate meno esecuzioni nella regione dell'Asia-Pacifico, Cina esclusa, ed è iniziato il dibattito sull'abolizione della pena di morte nelle Fiji, in Corea del Sud e in Tailandia. Mondo: l'Onu denuncia "la tortura non sdegna più, per sicurezza e lotta al terrorismo" di Andrea Scutellà La Repubblica, 3 aprile 2015 Secondo il Relatore speciale dell'Onu sulla tortura, altre pene e trattamenti inumani, crudeli o degradanti, Juan Ernesto Mendez, "le preoccupazioni legate alla sicurezza e al terrorismo" hanno affievolito la condanna dell'opinione pubblica mondiale. Le pratiche proseguono anche nei paesi occidentali: Usa in testa. In Italia a 25 anni dalla ratifica della Convezione di New York, la legge sulla tortura è bloccata alla Camera. Un testo "devitalizzato" secondo il primo firmatario Luigi Manconi. Correva l'anno 1976 quando Juan Ernesto Mendez fu arrestato dal regime militare argentino. Il generale golpista Jorge Videla riteneva che fosse un crimine difendere in tribunale i diritti dei prigionieri politici. Mendez restò in carcere per 18 mesi e fu torturato dalla forza pubblica. Nel 1978, l'anno successivo al suo rilascio, in Argentina si sarebbero giocati i mondiali della vergogna, sotto il silenzio complice della comunità internazionale. Per Amnesty International Mendez fu il primo prigioniero di coscienza. "Investigare, perseguire, punire". Oggi, dopo il servizio nella squadra legale di Human Rights Watch, Mendez è Relatore speciale dell'Onu sulla "tortura e altre pene o trattamenti inumani, crudeli o degradanti". Stende il suo sguardo sulle prigioni di tutto il mondo, parla con i detenuti, esamina i segni sulla loro pelle, annota le pratiche più violente. "Dopo tutti questi anni - risponde alla nostra mail - siamo ancora lontani dall'abolire la tortura nel mondo. Una delle aree in cui registriamo le maggiori criticità nell'attuazione delle chiare ed esistenti norme internazionali è quella dell'obbligo di investigare, perseguire e punire la tortura". Dolore fisico e mentale. Certo, prima di indagare bisogna mettersi d'accordo. Che cos'è, infatti, tortura? C'è differenza tra tortura e trattamenti inumani, crudeli o degradanti? "La definizione di tortura nel diritto internazionale allude a "il dolore e la sofferenza, sia fisica che mentale". Ne consegue che la tortura psicologica è proibita dal diritto internazionale, ed è definita da atti che infliggono dolore mentale o la sofferenza di una certa intensità". La tortura si nasconde anche in punizioni come l'isolamento, considerate legittime "per mantenere l'ordine nelle carceri o, nel caso di protezione di alcuni detenuti", ma che attraversano il confine dei trattamenti inumani, crudeli o degradanti, quando vengono applicate "ai bambini (sotto i 18 anni), alle persone con qualsiasi disabilità mentale e alle donne con bambini. Per gli adulti sani, invece, accade se l'isolamento è prolungato o indefinito". Misurare la sofferenza. Da qui la ricerca di un'impossibile unità di misura di un'esperienza necessariamente personale, basata sulla percezione del singolo detenuto. "L'isolamento diventa tortura quando il dolore e la sofferenza è più intensa che per le punizioni crudeli, un fatto che dipende anche dall'esperienza soggettiva della vittima. Casi di decenni di isolamento, come abbiamo visto negli Stati Uniti, certamente sono trattamenti inumani e, in alcuni casi, tortura". Non ci può essere, però, secondo Mendez, un indice che permetta di misurare il grado di tortura presente in una nazione. "Sarebbe molto difficile fare confronti, perché le pratiche che sono ritenute tortura o trattamento inumano possono variare notevolmente. Così si dovrebbe confrontare, per esempio, il water-boarding con l'isolamento, o con la pena di morte per decapitazione o folgorazione". Le "indisponibili" prigioni a stelle e strisce. Il requisito base per il rispetto dei diritti umani dei prigionieri è la piena accessibilità delle carceri agli ispettori Onu. Alla presentazione del suo ultimo "Rapporto sulla tortura e altre punizioni inumane, crudeli o degradanti" il Relatore speciale ha denunciato con forza l'atteggiamento ostile degli Usa in risposta alla sua richiesta di visitare le prigioni federali. "Nel mio ultimo contatto con il Dipartimento di Stato mi è stato risposto che le prigioni federali sono indisponibili. Ho cercato chiarimenti, invano. Secondo le norme applicabili alle visite delle campagne delle Nazioni Unite, devo essere in condizione di decidere da me quali strutture visitare. Quindi la decisione di impedirmi l'ingresso in un'intera categoria di edifici non sarebbe accettabile". L'inaccessibile Guantánamo. Il colmo dell'indisponibilità si raggiunge con il centro di detenzione di Guantánamo, chiuso in diretta mondiale da Barack Obama nel 2009 e che ancora, tuttavia, continua ad essere operativo. "Quello che so della situazione a Guantánamo - spiega il Relatore - lo ho appreso dalle fonti pubblicate. Ho cercato di visitarlo da quando sono diventato Relatore speciale. Nel 2012 ho ricevuto un invito dal Dipartimento della Difesa, ma in termini che ho dovuto declinare: mi hanno proposto un briefing da parte delle autorità carcerarie e la visita di alcune parti della prigione. Nessuna conversazione con i detenuti sarebbe stata permessa: né monitorata, né non monitorata". Termini radicalmente differenti da quelli di un mandato stabilito dal Consiglio dei diritti umani per tutte le missioni dei Relatori speciali. "Così ho rifiutato, anche se continuo a richiedere una visita in condizioni accettabili". L'Italia non ha una legge sulla tortura. "Ogni Stato parte prende provvedimenti legislativi, amministrativi, giudiziari ed altri provvedimenti efficaci per impedire che atti di tortura siano compiuti in un territorio sotto la sua giurisdizione". Così recita l'articolo 2, al primo comma, della Convenzione di New York del 1984 contro "la tortura e altre pene o trattamenti inumani, crudeli e degradanti". Un trattato a cui l'Italia ha aderito nel 1989 e che, tuttavia, non ha trovato ancora asilo nel nostro diritto. "Tutti gli stati che hanno firmato la Convenzione - spiega Mendez - sono obbligati a modificare la loro legislazione penale per rendere la tortura un crimine punibile in conformità alla sua gravità (in genere paragonabile ad un semplice omicidio)". Il testo "devitalizzato" e bloccato alla Camera. In realtà un testo di legge, a prima firma del presidente della Commissione Diritti Umani del Senato Luigi Manconi, c'è. Ha iniziato il suo complesso iter il 22 luglio 2013 è stato approvato nella camera alta del Parlamento il 5 marzo, da allora, però, giace nei polverosi cassetti della Camera dei deputati. Inoltre, per ammissione dello stesso Manconi, si tratta di una legge "devitalizzata" da un emendamento approvato in fase di discussione "che prevede la reiterazione degli atti di violenza, cioè il fatto che debbano essere ripetuti perché si dia la fattispecie della tortura" e che vede il reato non come "proprio ma comune, quindi imputabile a qualunque cittadino e non solo ai titolari di funzione pubblica", a differenza di quanto previsto dai trattati internazionali. Le condotte omissive, inoltre, non sono perseguibili. La responsabilità dei pubblici ufficiali. "La definizione nella Convenzione richiede anche che la tortura sia commessa da un pubblico ufficiale o di una persona che agisce sotto la tolleranza o l'acquiescenza di un pubblico ufficiale. Certo se i paesi che aderiscono vogliono criminalizzare anche le condotte private possono farlo, purché resti la punibilità per i pubblici ufficiali", spiega Mendez. L'articolo 1 della Convenzione lega la punibilità delle condotte alle sofferenze inflitte "da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito". Anche l'omissione, dunque, dovrebbe rientrare tra le fattispecie punibili. "Dobbiamo recuperare la condanna per la pratica". Secondo Mendez si può sradicare la tortura dal mondo. "Non è impossibile, ma è certamente difficile", spiega il Relatore speciale. "In primo luogo abbiamo bisogno di recuperare la condanna universale per la pratica che abbiamo in qualche modo perso, per via delle preoccupazioni delle nostre culture legate alla sicurezza, alla paura del crimine o del terrorismo". "Un importante esempio - prosegue Mendez - di un paese che ha recentemente attuato provvedimenti che sembrano avere un impatto misurabile è la Georgia. La tortura nelle carceri (non come interrogatorio) era dilagante in Georgia meno di tre anni fa, e nella mia recente visita (Marzo 2015) ho visitato molte prigioni e intervistato molti detenuti. Mi hanno confermato che i maltrattamenti da parte delle guardie carcerarie non hanno più avuto luogo". Certo, sussistono ancora "singoli casi" di tortura. Ma la rotta tracciata, secondo Mendez, è quella giusta. Haiti: dossier della Caritas "una luce di speranza in carceri disumane" Luciano Zanardini La Stampa, 3 aprile 2015 Il dossier di Caritas Italia "Se questo è un detenuto" è un viaggio nelle prigioni dove ogni diritto viene negato. Anche qui la Chiesa porta avanti percorsi di umanizzazione. "Dormono per terra un'ora e poi devono fare spazio agli altri, il luogo è molto sporco, di notte non si può andare in bagno e c'è solo un secchio, molte volte il cibo non è nutriente, le malattie non vengono curate e chi ha l'Aids non riceve medicinali. Viene da piangere, sono vite disumane". Le parole di monsignor Pierre Andrè Dumas, vescovo di Anse-à-Veau/Miragoane, si inseriscono in un contesto, quello di Haiti, che paga ancora il conto del terremoto del 2010: non è un caso che il Paese latinoamericano più povero sia anche quello con le condizioni carcerarie peggiori. In coincidenza con la visita di papa Francesco al carcere romano di Rebibbia, Caritas italiana ha pubblicato il dossier "Se questo è un detenuto", un viaggio nell'inferno delle prigioni di Haiti. Lì si registra uno tra i livelli più alti di degrado e di tortura. Anche in questa situazione disumana la Chiesa riesce a portare avanti un accompagnamento spirituale, a cercare di umanizzare il carcere. "La presenza di un cristiano lì dentro - spiega Dumas - è già una parola di speranza. È la tenerezza di Dio che si trasmette. Dobbiamo andare incontro all'uomo com'è e accoglierlo. Bisogna far vedere che ogni uomo ha una storia sacra rispetto a Dio: nessuno sbaglio può eliminare questa dimensione, questo valore". Secondo il Vescovo, presidente della Commissione episcopale nazionale Giustizia e Pace, è importante mettere l'accento sull'esperienza del carcere come recupero di umanizzazione invece di insistere sull'aspetto punitivo. "Il vero problema è il sistema: si mette in prigione la persona e poi la si dimentica. Le celle - descrive monsignor Alphonse Quesnel, presidente della Commissione episcopale nazionale della Pastorale penitenziaria - sono inumane, nemmeno gli animali potrebbero viverci". Il caso più lampante è quello del penitenziario nazionale di Port-au-Prince, che, costruito per ottocento persone, ne ospita circa 4.400 (ottobre 2014): 250 uomini vivono in una cella edificata per 52 persone. Purtroppo la realtà caraibica non è lontana da quello che avviene altrove: sovraffollamento, sistema giudiziario lento, carcerazione preventiva prolungata, sproporzione tra il reato e la pena, carenza di condizioni ambientali dignitose… Il Dossier Caritas snocciola i numeri della situazione carceraria in Europa e nel mondo. Non si ferma all'analisi e alla denuncia, ma descrive anche le esperienze e le proposte. Se guardiamo all'Istituto di pena di Port-au-Prince, Caritas ha sostenuto, in sinergia con la pastorale penitenziaria, la nascita nell'agosto 2014 di corsi di taglio e di cucito, di falegnameria e di calzoleria, di pittura e di altre attività: le trecento persone che accedono ai programmi, poi, a loro volta, possono insegnare quanto appreso. Nel progetto è prevista una distribuzione dei prodotti nel mercato cittadino: al senso di utilità dato dalla capacità manuale si aggiunge la possibilità di percepire piccole somme di denaro. Caritas italiana si fa garante del sostegno legale di un centinaio di detenuti e forma operatori con il compito di visitare le famiglie per informarle sul processo e per stimolare alla riconciliazione l'ambiente familiare. Resta lettera morta il Vangelo di Matteo ("Ero in prigione e veniste da me"): molti, come commenta padre Andrè Paul Garraud (direttore della Commissione episcopale nazionale della Pastorale penitenziaria), "sono abbandonati, non hanno niente. Le famiglie sono sole, lontane. I figli sono abbandonati, malati, magari non possono andare a scuola o non hanno cibo". E quando escono, non trovano lavoro. È la storia di Blanc Kervens, 27enne, arrestato all'età di 20 anni e rilasciato dopo cinque mesi: trascorreva anche due giorni in piedi senza mangiare; oggi porta sul corpo i segni dei colpi di mazza da baseball ricevuti e le inevitabili conseguenze psicologiche. Le carceri sono lo specchio di una nazione, ma anche là dove la dignità umana viene calpestata si intravede una luce di speranza. La Pastorale penitenziaria porta ascolto, conforto, e, una volta al mese, l'eucaristia; donano anche beni materiali: sapone, dentifricio, medicinali, scarpe… Molto si gioca sull'educazione come sperimenta nel mondo la Comunità Sant'Egidio con le scuole della pace: "Fornire - osserva Alessandro Gnavi, responsabile di Sant'Egidio ad Haiti - a 30mila minori un sostegno scolastico e un'educazione alla pace e alla coesistenza, è un lavoro particolarmente importante in Paesi dove si afferma una violenza generalizzata, perpetrata soprattutto da bande giovanili, e rappresenta quindi un grande lavoro di prevenzione". Stati Uniti: 30 anni nel braccio della morte da innocente, scarcerato a 59 anni Agi, 3 aprile 2015 Ha scontato 30 anni in carcere, nel braccio della morte, ma era innocente. Anthony Ray Hinton sarà finalmente libero domani, all'età di 59 anni, dopo essere stato imprigionato nel 1985 con l'ingiusta accusa di aver ucciso due uomini. Lo processarono per rapina e omicidio di due titolari di un ristorante sebbene non vi fossero testimoni o impronte digitali sulla scena del crimine. L'anno dopo un altro ristorante fu rapinato e il suo proprietario ferito da colpi d'arma da fuoco. Fu lui a identificare Hinton, anche se al momento del reato quest'ultimo si trovava a 24 km di distanza dal ristorante derubato. Ma Hinton è nero, hanno affermato i suoi legali, e questo particolare razziale ha giocato un ruolo di non poco conto nel fornire un "esempio da manuale dell'ingiustizia". La polizia andò in casa della madre e lì trovo la pistola dell'uomo. Poi affermò che l'arma era stata utilizzata in tutti e tre i crimini. Quella stessa pistola è stata analizzata, trent'anni dopo, da altri esperti, tra cui un ex agente del Fbi: in realtà non aveva nulla a che fare con quei reati. Lo scorso anno, il nuovo processo, che a restituito l'onore all'uomo ma non il tempo passato in galera. Lituania: procura riapre l'indagine sul carcere segreto della Cia nel Paese La Presse, 3 aprile 2015 La Lituania ha riaperto un'indagine penale sulle accuse secondo cui funzionari della sicurezza di Stato avrebbero aiutato la Cia a gestire una prigione segreta nel Paese. Lo annuncia un portavoce della procura generale in un'e-mail inviata a Reuters. I procuratori avevano chiuso l'indagine quattro anni fa, ma hanno deciso di riaprirla dopo che l'anno scorso il Senato Usa ha pubblicato i dettagli relativi a una struttura segreta della Cia, senza fornirne la localizzazione, che coincideva con le notizie relative a un sito in Lituania. Attivisti per i diritti umani e avvocati che si occupano degli uomini imprigionati dalla Cia sostengono che la Lituania, stretto alleato Usa, facesse parte di una rete globale di siti segreti utilizzati dalla Cia per trattenere e interrogare sospetti di al-Qaeda dopo gli attacchi dell'11 settembre del 2001. Le autorità della Lituania non hanno mai riconosciuto di avere ospitato una prigione della Cia e il governo Usa non ha mai rivelato dove si trovassero le strutture, ammettendone però l'esistenza e ammettendo che in alcuni casi i detenuti siano stati torturati. Stati Uniti: lo Stato paga l'operazione per cambiare sesso di un detenuto www.direttanews.it, 3 aprile 2015 Gli Stati Uniti sono un paese dove tutto è possibile e soprattutto dove possono convivere molteplici modi di pensare. Non solo, ma essendo uno Stato federale, possono convivere anche tante leggi e decisioni giuridiche diverse, talvolta di segno opposto. Mentre il Paese è percorso da una forte discussione sui diritti degli omosessuali che vede da una parte, con in testa il presidente Barack Obama, chi lotta per l'ampliamento dei diritti dei gay fino al matrimonio, e dall'altra chi lotta per togliere diritti alle coppie dello stesso sesso, come recentemente accaduto in Indiana, arriva ora una notizia che farà senz'altro discutere. Infatti un giudice federale ha ordinato al Dipartimento correzionale della California di provvedere all'intervento chirurgico per il cambiamento di sesso di un detenuto transessuale. Il giudice della Corte distrettuale statunitense Jon Tigar a San Francisco ha stabilito poche ore fa che negare la riassegnazione chirurgica del sesso al cinquantunenne Michelle-Lael Norsworthy (nome di nascita è Jeffrey Bryan Norsworthy) viola i suoi diritti costituzionali e perciò ha disposto che lo Stato della California (e quindi i contribuenti) debba pagare per tale intervento. Secondo fonti ufficiali, l'intervento potrebbe costare ai cittadini californiani quasi 100.000 dollari. Il detenuto transessuale ha 51 anni ed è stato condannato per omicidio nel 1987. Il giudice nel suo dispositivo ha scritto: "Michelle-Lael Norsworthy si identifica in una donna dal 1990. Tutti gli elementi raccolti dimostrano che l'unico trattamento medico adeguato per la sua disforia di genere sia l'operazione chirurgica per il riassegnamento del sesso da farsi il prima possibile". La richiesta di tale operazione era stata negata in passato dal Dipartimento correzionale che ora potrebbe fare ricorso contro la decisione del giudice federale. A meno di clamorosi dietrofront l'operazione si farà a breve nell'ospedale più vicino al carcere in cui è detenuta Michelle-Lael (al secolo Jeffrey Bryan Norsworthy).