Figli di un Dio minore Ristretti Orizzonti, 30 aprile 2015 Sono i figli delle persone detenute, e lo sono doppiamente i figli dei detenuti reclusi nel regime del 41 bis o nei circuiti di Alta Sicurezza. Da quando è arrivata la notizia della chiusura delle sezioni di Alta Sicurezza a Padova, in redazione ci sono giunte molte lettere di famigliari di detenuti. Quelle che seguono sono del figlio e della figlia di Giuseppe Scarlino. Noi le pubblichiamo, con la speranza che le cose vadano comunque diversamente da come temono Luciana e Vincenzo. Per ora i trasferimenti sono stati "congelati" dal Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, ed è in corso una attenta analisi delle posizioni delle persone detenute in Alta Sicurezza, che speriamo porti alla declassificazione di molti. E alla valorizzazione del percorso che queste persone stanno facendo, e che è importante per loro, per i loro figli, ma anche per la società, che il "recupero" dei "più cattivi" dovrebbe viverlo come un successo. E in proposito non ci stancheremo mai di ripetere un concetto espresso da Agnese Moro, figlia dello statista ucciso dalle Brigate Rosse: che non abbiamo il diritto di "buttare via" nessun essere umano. Il mio papà ha costruito un percorso positivo nell'Alta Sicurezza di Padova di Luciana Scarlino Si parla di rieducazione, di reinserimento... dove? quando? solo parole se poi tutto viene di colpo cancellato. Sono Luciana Scarlino, figlia di Giuseppe Scarlino, che si trova recluso nella Casa di reclusione di Padova. Scrivo questa lettera per sfogarmi, per esprimere una miriade di sentimenti misti che ha scatenato la chiusura del circuito di Alta Sicurezza della suddetta reclusione. Questa notizia ormai certa ha fatto perdere la serenità sia a mio padre che a noi tutti, Per noi già Padova è difficile da raggiungere per i costi del viaggio, il non potersi assentare dal lavoro già precario e in crisi nel basso Salento dove risediamo, a ciò si aggiunga che mia madre da poco è stata operata al seno per un tumore maligno, si può immaginare il mio stato di figlia e anche quello di papà, tenuto conto che mia madre è già sofferente di altre patologie. Chi ha preso la decisione di chiudere il circuito di Alta Sicurezza non considera il disagio, la sofferenza che causa sia dentro le mura che fuori. Sono, siamo persone con dei sentimenti, già la vita è stata dura privandoci dell'affetto e del sostegno reciproco per tanti anni... davvero non ci si abitua mai, anzi la sofferenza cresce sempre più. Il mio papa ha costruito un percorso positivo all'interno di quel carcere e in un attimo solo ancora una volta qualcuno cancella, distrugge quell'equilibrio raggiunto con sacrificio, perché mai? si parla di rieducazione, di reinserimento... dove? quando? solo parole se poi tutto viene di colpo cancellato, destabilizzando il detenuto e la sua famiglia. Non è giusto. Grazie per l'ascolto. Cambierà mai qualcosa in Italia per noi che abbiamo un cuore come tutti quanti? si può scindere il passato guardando solo al presente ed al futuro... o si è sempre e solo quello che si è stati in passato? Chiedo scusa del mio sfogo di Vincenzo Scarlino Probabilmente tra poco di mio padre "faranno un pacco postale... un semplice bollo e via, spedito in un'altra realtà carceraria". Mi chiamo Vincenzo Scarlino, sono il figlio di Giuseppe Scarlino, detenuto a Padova, e mi aggiungo allo sfogo che già ha espresso mia sorella Luciana riguardo il metodo che probabilmente useranno tra poco per mio padre ed altri detenuti, cioè "faranno un pacco postale... un semplice bollo e via, spedito in un'altra realtà carceraria!!!" Mi chiedo: e tutti gli sforzi fatti e il programma in corso di riabilitazione e reinserimento e di declassificazione, che fine faranno??? Dico questo perché Papà ha anche in valutazione la declassificazione dal regime A.S. al cosiddetto "Reparto comune" per attuare così un reinserimento, visti i suoi 30 anni e più di pena scontata. Lui sta giù ed abbastanza risentito di questa notizia, ed anche noi siamo preoccupati per la sua salute psicofisica e soprattutto morale (è un uomo di 66 anni!!). Mia madre sta già affrontando problemi di salute seri, e con questa circostanza sta ancora più male!!! È possibile dico io che nel 2015 ancora succedano gesti così incivili? "La civiltà di un popolo si misura dalle sue carceri", diceva Voltaire. La funzione rieducativa della pena, sancita solennemente dall'art. 27 della nostra Costituzione, dovrebbe significare una esecuzione della pena stessa attuata in maniera consona al rispetto della dignità del detenuto. Le condizioni delle carceri italiane, all'alba del 2015, sono indegne di un Paese come l'Italia, vera e propria culla della cultura. Rieducare il condannato? Come? Quando tutto avviene nell'indifferenza di un'intera classe politica, impegnata nelle sue solite magagne e del tutto insensibile a questo delicato tema. Giustizia: cancelliamo il 4bis O.P., è contro la Costituzione di Maria Brucale Il Garantista, 30 aprile 2015 Di qualunque condanna si tratti, è inammissibile una carcerazione non protesa alla riammissione in società. C'è una norma nell'ordinamento penitenziario che è stigmate, preclusione di speranza, mutilazione di rieducazione, negazione di umanità. C'è una norma che spezza ogni anelito dì cambiamento a coloro che sono stati condannati per una determinata categoria di reati, salvo che collaborino con la giustizia. C'è una norma che e incostituzionale e deve essere abrogata. E l'art. 4 bis dell'ordinamento penitenziario. E una nonna tarlata da stridenti contraddizioni rispetto al dettato costituzionale, scaturigine di indirizzi giurisprudenziali schizofrenici. I giudici di legittimità esprimono principi assoluti e inderogabili afferenti alla proiezione di ogni pena alla rieducazione del condannato per poi stravolgerli ineluttabilmente a fronte dello sbarramento cieco dei reati ostativi alla concessione di qualsivoglia beneficio intramurario ad eccezione della liberazione anticipata. Si impone, dunque, un adeguamento normativo della legislazione ordinaria a quella di rango costituzionale reso più cogente da imperativi comunitari che ricordano come sia inammissibile una carcerazione non protesa alla riammissione della persona detenuta nel tessuto sociale, alla aspirazione alla libertà, alla speranza di restituzione alla vita (Vinter c. Regno Unito). Occorre una visione costituzionalmente orientata dell'accesso alle misure alternative alla carcerazione attraverso verifiche del percorso compiuto dalla persona ristretta avulse da meccanismi mercimoniosi; una "valutazione della condotta complessiva - per usare le parole della Cassazione - che consenta di verificare che l'azione rieducativa svolta abbia condotto il detenuto ad una revisione critica della vita anteatta"; una valutazione che non radichi il giudizio sul compiuto ravvedimento del condannato a logiche auto od eteroaccusatorie che si scontrano con principi anch'essi di valore e rango costituzionale, ma adotti criteri personalistici ed esuli da logiche preconcette ed aprioristiche. "Nemo tenetur se detergere" è principio cui è improntato l'intero sistema ordinamentale e da esso trae sostanza la giurisprudenza di legittimità che con indirizzo costante afferma: "la concessione delle misure alternative alla detenzione non presuppone la confessione del condannato". Nessuno può essere coartato all'autoaccusa, ad affermare la propria responsabilità penale; nessuno può essere privato del diritto di professarsi innocente (magari perfino di esserlo!). É una tutela offerta dalla Costituzione e racchiusa nei principi di inviolabilità del diritto di difesa e di non colpevolezza posti a presidio della libertà - da intendersi come valore assoluto e preminente - ma anche del decoro e della reputazione del soggetto nel contesto in cui il vive. La correlazione tra aspirazione all'accesso ai benefici penitenziari e obbligatorio approdo a condotte auto ed etero accusatorie - quando non meramente delatorie - contrasta con violenza con i principi evocati e si pone in feroce contrapposizione con il diritto di qualunque soggetto, perfino condannato con sentenza definitiva, a proclamare la propria innocenza. La Corte Costituzionale ha offerto uno spunto di cambiamento, un segnale positivo affermando l'esistenza di "un criterio costituzionalmente vincolante" che impone di "escludere rigidi automatismi" nella materia dei benefici penitenziari, ossia divieti aprioristici all'accesso ai benefìci premiali e alle misure alternative al carcere tratti dal tipo di reato. Esiste, dunque, una vistosa separazione tra compimento del percorso rieducativo e collaborazione con la giustizia per cui è, deve essere, del tutto ammissibile che un percorso di reinserimento nel tessuto sociale possa dirsi compiuto anche in difetto di approdo alla scelta collaborativa. Nessun uomo può giungere al pentimento, quello autentico dell'anima, se non sarà mai perdonato. Nessuna spinta positiva esercita una pena che non ha fine né emenda. Il 4 bis è una norma che deve essere cancellata. Lo chiede la Costituzione, lo chiede la ragione. Giustizia: il concorso esterno mafioso e la difficoltà di legiferare su un reato che non c'è di Maurizio Tortorella Tempi, 30 aprile 2015 Il 14 aprile è arrivata la sentenza europea sul caso contrada. Intanto la politica, costituzionalmente chiamata a colmare la lacuna, continua a tacere. E quando non tace viene zittita dalla magistratura sindacalizzata, che ha interesse a conservare la piena discrezionalità. E da 30 anni che l'Italia si divide sul "concorso esterno in associazione mafiosa", il reato che non c'è. Non esiste perché nel Codice penale ci sono soltanto l'articolo 416 bis (varato nel 1982) che disciplina l'associazione mafiosa, e il 110, che tratta del concorso nel reato. Combinandoli tra loro, a partire dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, la giurisprudenza ha creato e via via definito la figura criminosa del concorso esterno mafioso. Ma è sempre mancato il passaggio legislativo, l'unico che avrebbe potuto stabilire tassativamente i confini dell'effettivo fiancheggiamento dell'associazione mafiosa. Che così continua a essere il reato che non c'è. Nel 1987 Giovanni Falcone, nelle ultime battute del maxiprocesso ter contro Cosa nostra, a Palermo, sollecitava una "tipizzazione" capace di reprimere le condotte grigie che indicava come "collusione e contiguità". Ma da allora non se n'è fatto nulla. Così i pubblici ministeri hanno continuato a fare un uso pieno e disinvolto del concorso esterno. Spesso tra le polemiche, colpendo politici di primissimo piano (da Giulio Andreotti a Giacomo Mancini, da Silvio Berlusconi a Calogero Mannino, da Marcello Dell'Utri a Renato Schifani...), e suscitando ogni volta il dubbio che proprio l'ambiguità della formulazione fosse funzionale a un suo uso di parte. Malgrado molti tentativi, il Parlamento non ha mai combinato nulla. Nel corso degli anni, deputati e senatori, di destra e di sinistra, hanno presentato proposte di legge. Senza successo. La lacuna però è grave e oggi è resa ancora più evidente dalla sentenza con cui la Corte europea dei diritti dell'uomo, il 14 aprile, ha stabilito che l'ex superpoliziotto Bruno Contrada, condannato nel 2007 proprio per concorso esterno, non meritasse il trattamento perché all'epoca dei fatti che gli furono contestati, tra 1979 e 1988, il reato "non era sufficientemente chiaro". Secondo la corte di Strasburgo lo sarebbe divenuto soltanto dopo una famosa sentenza della Cassazione, pronunciata a sezioni unite il 5 ottobre 1994, che per prima ha stabilito una prima tipizzazione coerente. Altre due sentenze delle sezioni unite sono venute nel 2002 e nel 2005 (su Calogero Mannino), ma hanno lasciato molte contraddizioni e ampi spazi d'incertezza. Intanto la politica, chiamata costituzionalmente a colmare la lacuna, continua a tacere. E anche quando non tace viene zittita dalla magistratura sindacalizzata, che ha tutto l'interesse a conservare la piena discrezionalità. Nel giugno 2001 Giuliano Pisapia, deputato di Rifondazione comunista, aveva presentato una proposta che introduceva nel Codice un articolo 378 bis: puniva con una pena da tre a cinque anni chi "favorisce consapevolmente con la sua condotta un'associazione di tipo malioso o ne agevola in modo occasionale l'attività". Formula semplice, efficace, pulita. E azzoppata. La "vergogna". È stata ripresentata, identica, nella scorsa legislatura da tre deputati del Pdl: nulla di fatto. Nell'agosto 2010 il governo Berlusconi si era impegnato a sostenerla, ma poi fu distratto da altre emergenze giudiziarie. Nel marzo 2013 ci ha riprovato Luigi Compagna, senatore liberale, riducendo la pena da uno a cinque anni. Ma il presidente del Senato Pietro Grasso, non per nulla ex procuratore nazionale antimafia, ha dichiarato che quella proposta era "una vergogna" (in quanto avrebbe favorito Dell'Utri) e "una fuga in avanti inopportuna". Così è stata ritirata. E il reato che non c'è è lì che ancora se la ride. Giustizia: quando il carcere preventivo è usato come un cannone contro i passerotti di Maurizio de Giovanni Il Mattino, 30 aprile 2015 Certe notizie sono come un indice lungo e nodoso puntato verso la luna. Sono concrete, dure e appassionanti; hanno risvolti umani dolorosi e danno a chi le legge una profonda pena, perché un po' ci si compenetra. Un po': non abbastanza. Per cui poi, naturalmente, si volta pagina e si cerca qualcos'altro per cui indignarsi, gioire, sorprendersi o incuriosirsi. E si dimentica quello che il dito indicava, o non lo si vede affatto. C'è qualcosa di acuto e terribile dietro la storia del pediatra genovese che non ha retto al dolore per la custodia cautelare imposta al figlio farmacista, e ha scelto di volare di notte da un ponte. Un fatto angoscioso e difficile, come purtroppo accade troppe volte al giorno in questa giungla che sono diventate le nostre città. Un suicidio: li vediamo accadere in diretta, dettati dalla crisi o dalla perdita di un amore, per una cartella di Equitalia o per la fine di un matrimonio. Alcuni tra noi sono solo più deboli degli altri, e più indifesi. Il pediatra genovese ci ha fatto tanta pena. Un padre innamorato che aveva già subito la perdita di una figlia, che vede una vita costruita con sacrificio e lavoro, con capacità e onestà, sgretolarsi all'improvviso. Un figlio farmacista sottoposto a custodia cautelare per qualcosa che, se è accaduta, è accaduta tre anni fa, per un pericolo di fuga che avrebbe avuto tre anni per concretizzarsi e non si è ovviamente concretizzato. Uno studio che si svuota di pazienti, perché le notizie vengono date e lette a grana grossa e un traffico di farmacia una mamma o a un papa mette paura, se è implicata la famiglia del pediatra di tuo figlio. La voce che gira veloce, perché a volte queste nostre tentacolari metropoli diventano piccoli, assurdi paesini dove il pettegolezzo è più veloce della banda larga. E la notte, la notte con le strade bagnate di pioggia, la notte che non promette un'alba. Il ponte, la moglie che esita, lui che la saluta e vola verso la pace. Con un biglietto dietro di sé: "la magistratura miope a volte uccide". Ci ha fatto tanta pena, sì: ma il pediatra che si toglie la vita è solo il dito. L'importante è la luna che indicava, prima del suo volo d'amore e di dolore. L'uso che in questo Paese si fa della custodia cautelare da molto tempo è oggetto di discussioni e polemiche; e solo da poche settimane il Parlamento ha approvato una riforma (che entrerà in vigorer8maggio) tutta ancora da scoprire e da interpretare, dopo essere stata puntualmente secondarizzata rispetto a cose che si è preteso essere più urgenti o importanti. Come se potesse esistere qualcosa di più grave della libertà perduta, e della vita che non sarà mai più la stessa per molte, troppe persone. Per quella riforma il carcere dovrebbe essere un'extrema ratio, non la regola, e il pericolo di fuga, presupposto per l'arresto del farmacista, dovrebbe essere attuale, non superato. Le statistiche parlano, per il tribunale di Napoli, di circa il 40% di scarcerazioni a seguito di custodie cautelari chieste dal pm, accordate dal gip e smentite dal Riesame. Quattro su dieci messi fuori, senza scuse, perché nel corso delle indagini viene meno il presupposto della carcerazione preventiva. Quattro su dieci, quasi la metà, messi dentro con troppa fretta, per ammissione dell'altra parte della magistratura, quella giudicante. Il procuratore capo di Monza, competente per l'indagine che ha individuato il pericolo di fuga dopo tre anni per il figlio farmacista del pediatra suicida, ha tagliato corto: dicono tutti così. Questo è stato lo sbrigativo, terribile commento alla notizia della morte, e la risposta al biglietto. Siamo consapevoli del fatto che i magistrati fanno il proprio lavoro con onestà e rigore, tra mille difficoltà; ma non possiamo accettare quel commento. Non per la sua durezza, non per l'apparente mancanza di pietà, quanto perla fredda mentalità che dimostra, la lucida disponibilità all'errore in nome del fine. Qui non si è trattato, vorremmo dire al procuratore, di spuntare le armi per la lotta alle mafie o di mettere trafficanti internazionali di droga in condizioni di reiterare il reato. Qui si è trattato di contestare il pericolo di fuga a un uomo che ogni giorno, per tre anni, si era recato al lavoro nello stesso posto e alla stessa ora. Sarebbe bello se si ammettesse, per una volta, di aver usato il cannone per sparare a un passerotto; e che il passaggio del fascicolo di scrivania in scrivania per tre anni ha alla fine prodotto questo mostro giuridico che ha avuto, purtroppo, tragiche conseguenze. Ma, lo ripetiamo, il dito indicava la luna. E la luna parla della necessità di una differente, immediata rilettura dei termini e delle modalità con cui si possa utilizzare uno strumento terribile, in grado di togliere non solo la libertà ma la speranza, i sogni e la vita stessa. La luna parla di un retaggio che veniva da un tempo non più attuale, che imponeva differenti valutazioni sulla base dell'acquisizione di elementi che avveniva con ben altre, oggettive difficoltà. La luna parla di uno strumento che altrove, nella civile Europa, viene ben altrimenti utilizzato e con ben altra regolarità. La luna parla di un processo penale comunque vecchio, lungo e farraginoso, troppo spesso fallace e troppo spesso ghigliottinato dalla prescrizione, ma che nell'arco della sua durata geologica calpesta vite individuali e familiari che non sono mai più ricostruibili. E parla di serenità perdute per sempre. Piangiamo il triste volo di un pediatra onesto. Ma alziamo gli occhi per guardare la luna che egli ha indicato, prima di morire, attaccati alla speranza di una legge appena nata ma sulla quale vengono riposte aspettative fondamentali per la coltivazione di una moderna civiltà. Giustizia: morti da "manette facili", come il medico suicida per l'arresto ingiusto del figlio di Antonio Manzo Il Mattino, 30 aprile 2015 Il medico genovese che si è suicidato dopo l'arresto ingiusto del figlio farmacista oggi sarebbe ancora vivo se fosse già entrata in vigore la legge che rende più difficile la carcerazione preventiva. Perché non ci sarebbe stato nessun presupposto, secondo la nuova legge, per arrestare un cittadino inquisito, mai interrogato e per fatti che risalgono a tre anni fa. Approvata dal Parlamento il 9 aprile scorso, nello stesso giorno in cui un folle ha sparato all'impazzata nel tribunale di Milano, la legge che è passata sotto silenzio entrerà m vigore l'otto maggio prossimo. Il Parlamento ha fatto il suo dovere, ora spetterà ai magistrati applicare la legge contro gli abusi delle manette facili. In Italia dovrebbe esserci una inversione di tendenza sugli arresti facili con la carcerazione preventiva che a Napoli, ad esempio, secondo le stime del presidente della camera penale, Attilio Belloni, ha portato ingiustamente dietro le sbarre, nel 2012, ben 40 indagati su 100 poi scagionati dal tribunale del Riesame perché non dovevano essere arrestati. Con la nuova legge, per applicare una misura cautelare preventiva dovranno sussistere i principi del pericolo di fuga o la possibile reiterazione del reato, ma le circostanze del reato dovranno essere oltre che concrete anche attuali, oltre che prendendo in esame la biografia dell'imputato e i suoi comportamenti. Tutti presupposti inesistenti, ad esempio, per portare alla cattura del farmacista genovese e della moglie, nell'ambito di una inchiesta del 2012. Tre anni nei quali il farmacista Marco Ballario Menetto, dopo l'avviso di garanzia, non era stato neppure una volta interrogato, aveva continuato tranquillamente a svolgere il suo lavoro recandosi ogni giorno in farmacia e senza neppure un giorno di ferie all'estero, quindi non sospettabile di fuga. Non c'era, quindi, pericolo di fuga, ne la reiterazione del reato, ne l'attualità del reato stesso registrato in un rapporto investigativo del 2012. È bastato questo arresto ingiusto per indurre il papa, Francesco Menetto, medico genovese, pediatra molto noto, a scrivere sei parole, una sola frase, un testamento. "La magistratura miope a volte uccide". La parola, stavolta, non è stata futile e cangiante come per una convenienza difensiva perché quando il medico genovese ha deciso di uccidersi gettandosi da un ponte ha lasciato un biglietto scritto per protestare contro l'arresto del figlio e della nuora, da lui ritenuti ingiusti ed eccessivi. "Oramai dicono tutti così. E allora la magistratura non dovrebbe più indagare?" ha sbrigativamente commentato il procuratore della Repubblica di Monza, Corrado Carnevali, suscitando anche l'irritazione del vice ministro della giustizia, Costa. "Parole fuori luogo" ha commentato il vice di Orlando. Ieri Menetto è stato scarcerato. Le parole di Francesco Menetto, scritte nella notte tra domenica e lunedì scorso, dovrebbero passare alla storia giudiziaria italiana come le ultime scritte contro l'abuso della custodia cautelare. Non dovrebbe accadere più. Dovrebbe essere più difficile finire vittima di un arresto facile. "Dovrebbe, e ce lo auguriamo per la garanzia di diritti di libertà di ogni cittadino, impedire il ricorso disinvolto alle manette che è cosa diversa dal bloccare le indagini della magistratura", dice Lina Armonia, avvocato genovese che difende il farmacista figlio del pediatra suicida, arrestato insieme conia moglie Valentina Drago. Anche la moglie del medico aveva deciso di suicidarsi insieme con il marito ma è stata salvata in extremis dalla polizia arrivata sul ponte Monumentale al centro di Genova, dopo l'allarme lanciato da alcuni passanti. Ora la donna, ed è questa la ulteriore beffa della magistratura nella tragedia familiare di casa Menetto, è indagata per istigazione e agevolazione al suicidio del marito. Si giustificano in procura: il suicidio non sarebbe di "quelli lineari", come se potesse esistere una scorciatoia sghemba nell'ultimo tragico atto di togliersi la vita. La polizia indaga ora sulla moglie del medico suicida. In pratica, il pm sostiene che ad indurre al suicidio il marito sarebbe stata la moglie che si è salvata. Manette facili? "Giustizia miope", come ha scritto il medico genovese suicida? La legge contro l'abuso delle manette è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 23 aprile scorso, entrerà in vigore à 8 maggio prossimo. La detenzione sarà possibile solo quando sono concreti e attuali il pericolo di fuga, la ripetizione del reato o l'inquinamento delle prove, oltre che una valutazione della personalità del presunto reo e il contesto. Le misure interdittive, alternative al carcere, sono prolungate nella durata. L'obbligo di carcerazione preventiva si limita ai soli reati di mafia e terrorismo. Ma, soprattutto, la nuova legge prevede che vengano rafforzati gli obblighi di motivazione del giudice sulle richieste di carcere da parte del pubblico ministero: il magistrato dovrà spiegare nel dettaglio perché ha ritenuto necessaria la detenzione e trascurabili le argomentazioni della difesa. Agostino De Caro, avvocato, docente di procedura penale all'università del Molise e commissario nella commissione ministeriale di riforma del codice di procedura penale è anche uno dei difensori di Nicola Cosentino. Aggiunge: "Osservo, con criterio scientifico, chela custodia cautelare viene spesso utilizzata per spronare gli indagati alla collaborazione, indurii a confessioni, tenerli "dentro" come si usa dire, al di là della presenza o meno dei requisiti previsti dalla legge per privare un cittadino della sua libertà prima che venga celebrato un processo". In Italia nel 2012 sono finiti dietro le sbarre 25.777 imputati (200 persone in più di quelle che c'erano in piena Tangentopoli, nel 1992). Per molti il carcere preventivo ha rappresentato l'anticipazione della pena o è stato utilizzato, da parte degli inquirenti, per far confessare reati. Beniamino Migliucci, presidente dei penalisti italiani dice: "il problema non è individuare nemici ma sconfiggere culturalmente un clima tutto italiano. È come se l'agenda politica debba essere sempre nella mani della magistratura. Di qui anche una riforma virtuosa rischia di finire inapplicata, perché è un problema di responsabilità della giurisdizione". Giustizia: voleva levarsi la vita assieme al marito, ora è indagata per istigazione al suicidio di Angela Azzaro Il Garantista, 30 aprile 2015 La procura accusa la donna che è sotto choc in ospedale. Uno stimato medico di 65 anni che si è tolto la vita, un figlio che ha subito la gogna, una donna salva per miracolo, una famiglia distrutta. Ma ai magistrati non è bastato. E hanno lanciato una nuova provocazione, una sfida, per tastare quanto forte siano il loro potere e la loro arroganza. E hanno fatto quello che, mai e poi mai, avrebbero dovuto fare: indagare la moglie del pediatra genovese Francesco Menetto per istigazione e agevolazione al suicidio. La donna era con lui nel momento in cui Menetto ha deciso di farla finita, a Genova. Anche lei voleva fare altrettanto, ma poi ha vagato in stato confusionale. Lo avevano deciso per protestare contro la magistratura che aveva rovinato la vita a loro e soprattutto al figlio farmacista, accusato di traffico e dì riciclaggio di medicinali rubati. Il figlio era stato arrestato - un'incomprensibile custodia cautelare - e per il famoso pediatra era iniziato un incubo: le foto in prima pagina, l'isolamento e il lavoro, per cui era sempre stato stimato, che iniziava a mancare. Da qui la decisione di dire basta e di scrivere un biglietto inequivocabile: "Magistratura miope a volte uccide". La magistratura aveva una chance per smentire quel biglietto, mostrare che ha anche un volto umano e giusto. Poteva chiedere scusa, dire: abbiamo sbagliato. Invece ha risposto confermando quel biglietto. Il procuratore capo di Monza Carnevali, titolare dell'inchiesta in cui è coinvolto Marco Ballano Menetto, ha commentato liquidando il gesto e le accuse, con un "dicono tutti così" e rincarando la dose con poco sentite scuse. "Non rinnego quella frase - ha detto in un'intervista a Repubblica - noi magistrati siamo nel mirino". Ma la vera offesa, quella più arrogante, arriva ora con la decisione della procura di Genova di aprire un'inchiesta e di indagare anche la moglie del pediatra salva per caso. Diranno che è un atto dovuto, che lo fanno per garantire anche lei e stabilire la verità. Ma la verità è già sotto gli occhi di tutti: quella di una magistratura che si considera onnipotente e se qualcuno osa criticarla, sia pure levandosi la vita, si sente ferita nell'orgoglio. In questo Paese tutti possono essere criticati, accusati, messi al bando: ciò che non si può fare è criticare i magistrati. Loro sono onnipotenti, sono intoccabili, possiedono la verità assoluta. La decisione della procura di Genova di indagare la donna per istigazione al suicidio del marito è una provocazione per tanti motivi. In primo luogo perché aggiunge dolore al dolore: chiunque in una situazione del genere vivrebbe l'accusa come un peso ulteriore, come una messa all'indice che poco c'entra con lo stato di diritto e più con il giudizio divino. Ma è una provocazione anche perché risponde all'accusa rivolta alla magistratura, aumentando la dose di arroganza. Quando una persona si suicida, è quasi sempre impossibile stabilire se qualcuno o qualcosa ti hanno spinto a farlo. È una scelta complessa, dolorosa, che solo una forte semplificazione può far ricadere su un altro che non sia la persona che compie il gesto estremo. Ma in questo caso, il caso del pediatra e di sua moglie, pensare di attribuire la responsabilità alla donna rimasta viva, è pura follia. E come se l'accusassero di essersi salvata, di non essere riuscita all'ultimo momento a suicidarsi. Questa è la sua colpa: non essere morta anche lei. Ma alla procura di Genova si rendono conto di quello che stanno facendo? Giustizia: la nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati non condurrà ad abusi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 30 aprile 2015 Smorza le preoccupazioni il primo presidente della Cassazione Giorgio Santacroce: la nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati non condurrà ad abusi. A riprova c'è la prima pronuncia della Cassazione sulla materia che ha chiuso la porta a possibili utilizzi strumentali della riforma. Santacroce è intervenuto ieri al Salone della giustizia nell'ambito di un incontro organizzato dal Csm dedicato a un'analisi comparativa della diverse forme di responsabilità messe a carico della magistratura in alcuni dei principali ordinamenti giuridici occidentali. Santacroce ha sottolineato come anche la nuova versione della Legge Vassalli non deve allarmare i magistrati, "la sua applicazione tocca sempre all'autorità giudiziaria". E, a primo esempio, della capacità dei giudici di sterilizzare gli effetti distorsivi della riforma ha citato la sentenza della Cassazione che ha considerato, in linea peraltro con i precedenti, non automatica la sostituzione di un magistrato fatto oggetto di un'azione di responsabilità. Inoltre, ha avvertito Santacroce, lo stesso travisamento del fatto o delle prove, che molto ha fatto discutere come possibile leva per scardinare uno dei punti fermi dell'attività giurisdizionale, l'irresponsabilità nell'interpretazione delle norme, si può configurare solo in caso di dolo, con un argine chiaro rispetto a possibili forzature. Niccolò Zanon, giudice della Corte costituzionale, ha invece sottolineato, tra l'altro, le altre forme di responsabilità cui è tenuto il magistrato. A partire da quelle che chiamano in causa direttamente il Csm, ed è il caso delle misure disciplinari e dei criteri da seguire per quanto riguarda le valutazioni periodiche sulla professionalità magistrati ai fini degli avanzamenti in carriera. L'altro tema di giornata affrontato al Salone è quello del rapporto tra diritto ed economia, profilo non nuovo, ma che, dopo l'intervento del ministero della Giustizia Andrea Orlando martedì, è stato discusso ieri con un interlocutore a suo modo "particolare": l'ambasciatore degli Stati Uniti in Italia John Philips. Philips, senza molti eufemismi, ha spiegato che parte della sua missione è anche creare opportunità di investimento in Italia per le imprese americane, opportunità che però restano molto al di sotto di un potenziale che pure esiste. E a giocare contro ci sono due elementi che Philips ha messo in evidenza: la lentezza della giustizia civile e la paura della corruzione. Sulla lentezza l'ambasciatore ha evocato due precedenti dalla recente storia giudiziaria americana: la California, il cui Parlamento approvò una legge che prevedeva di non pagare i magistrati in ritardo nella formulazione dei provvedimenti giudiziari e la decisione delle corti federali di rendere pubblici i registri dei provvedimenti, svelando in questo modo i giudici più efficienti e quelli più negligenti. Semaforo verde da Philips alle misure approvate di recente per favorire l'utilizzo delle soluzioni alternative delle controversie, segnatamente mediazioni e arbitrati. Negli Stati Uniti, ha ricordato l'ambasciatore, il grado di soddisfazione delle parti che hanno fatto ricorso alla conciliazione è superiore a chi ha puntato sulla via giudiziaria. Giustizia: responsabilità civile dei magistrati, così la Suprema corte ha smentito l'Anm di Rinaldo Romanelli (Componente Giunta Unione Camere Penali) Il Garantista, 30 aprile 2015 La prima sentenza sulla riforma della legge "Vassalli" chiarisce che non si può brandire l'azione contro il giudice come un'arma impropria. Finalmente si è registrata la prima pronuncia della Corte di Cassazione relativa, anche se indirettamente, al nuovo regime introdotto dalla modificata legge sul "risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati". Anche i più incerti devono prendere atto che le strazianti grida di dolore che abbiamo dovuto udire nel corso di tutto l'iter parlamentare di approvazione del nuovo testo normativo - provenienti all'unisono dal Consiglio Superiore della Magistratura e dall'Associazione Nazionale Magistrati - secondo cui la magistratura sarebbe stata sotto attacco da parte della politica, erano del tutto infondate. Il culmine è stato raggiunto quando il Presidente di Anm è arrivato a dire che uno Stato che funzioni dovrebbe prendere a schiaffi i corrotti e accarezzare chi esercita il controllo di legalità ed invece in Italia accadrebbe il contrario. Un "capolavoro" comunicativo basato sulla strumentale alterazione della realtà normativa e sull'uso, ai fini di creazione del consenso, del diffuso sentimento di populismo penale. Contro il quale, non molto tempo addietro, ha fatto sentire la propria voce il Pontefice e che da queste pagine ha recentemente stigmatizzato anche l'Onorevole Violante. Abbiamo sentito ripetere che l'intangibile principio dell'autonomia nell'esercizio della giurisdizione sarebbe stato definitivamente infranto dall'eliminazione del filtro di inammissibilità e dall'introduzione del principio (peraltro declinato negli esatti termini imposti dalla Corte di Giustizia dell'Unione europea) in base al quale la grave violazione di legge ed il travisamento del fatto e della prova sono fonte di responsabilità dello Stato nei confronti del cittadino ingiustamente danneggiato. Né l'una né l'altra affermazione trovano la benché minima giustificazione nel testo della legge novellata, come peraltro più volte sottolineato dall'Unione delle Camere penali italiane in ogni sede, in primo luogo durante l'audizione tenutasi davanti alla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati. La sentenza numero 16924 della Sesta sezione penale della Suprema Corte, depositata il 23 aprile 2015 e resa in relazione a un'istanza di remissione del processo, fa giustizia delle azioni pretestuose, ma anche delle argomentazioni faziose di certa parte della magistratura, con tale chiarezza da imporre che il testo del passaggio nodale sia riportato senza sintesi che ne sviliscano il significato. La sentenza "Innanzitutto, il magistrato la cui condotta professionale sia stata oggetto di una domanda risarcitoria ex lege numero 117/1988 (la "vecchia" legge Vassalli, nda) non assume mai la qualità di debitore di chi tale domanda abbia proposto. Ciò per l'assorbente ragione che la domanda - anche dopo la legge numero 18/2015 (ossia il testo che ha recentemente riformato, appunto, la Vassalli, nda) - può essere proposta solo ed esclusivamente nei confronti dello Stato (salvi i casi di condotta penalmente rilevante, art. 13). Né la eventualità di una successiva rivalsa dello Stato nei confronti del magistrato, nel caso in cui quell'originaria azione si sia conclusa con la condanna dell'Amministrazione, muta la conclusione, perché i presupposti e i contenuti dell'azione di rivalsa sono parzialmente diversi da quelli dell'azione diretta della parte privata nei confronti del solo Stato (articolo 7; articoli 2 e 3). Il che, tra l'altro, impone di escludere che, anche nel caso di intervento del magistrato nel processo civile che la parte promuove ex lege 117/1988 (articolo 6), si instauri un rapporto diretto parte/magistrato, tale da condurre alla qualificazione del secondo in termini di anche solo potenziale debitore della prima. In altri termini, non solo la qualità di debitore si assume nel momento in cui viene riconosciuta la compiuta fondatezza della pretesa risarcitoria, e non prima, ma nel caso del sistema della legge 117/1988 il magistrato la cui condotta professionale è valutata nel processo civile non potrà mai assumere la qualità di debitore della parte privata". No a usi impropri La seconda parte della motivazione chiarisce poi che, se l'azione di responsabilità non è idonea a creare i presupposti per una ricusazione, tanto meno la promozione di plurime azioni (o di una sola che riguardi il provvedimento assunto da più magistrati) può determinare quelle "gravi situazioni locali, tali turbare lo svolgimento del processo" che comportano la remissione del processo, cioè lo spostamento della competenza ad altro distretto di Corte di Appello. In sostanza, i Giudici di legittimità affermano (e non avrebbero potuto fare diversamente, attesa la chiarezza dell'impianto normativo) che la proposizione di un'azione di responsabilità nei confronti dello Stato in forza della nuova disciplina non può mai determinare alcun effetto sul processo in corso, neppure laddove sia pienamente fondata. L'azione diretta nei confronti del magistrato non è, infatti, consentita; l'unica iniziativa può essere esperita nei confronti dello Stato. L'eventuale sentenza resa nel processo promosso dal cittadino che assume di aver subito un danno ingiusto nei confronti, appunto, dello Stato, non ha efficacia di cosa giudicata nel successivo giudizio di rivalsa che sarà promosso dallo Stato stesso nei confronti del magistrato "colpevole". Il magistrato, se lo ritiene, può intervenire nella causa promossa dal danneggiato, ma non è obbligato a farlo e peraltro, non ha alcun interesse ad agire in tal senso proprio perché l'esito della causa non gli sarà mai opponibile. I profili di responsabilità dello Stato e del magistrato sono differenti perché per il secondo è necessario che, oltre ad esserci stata manifesta violazione di legge o travisamento del fatto o della prova, la condotta sia stata determinata da "negligenza inscusabile". Quasi mai, dunque, ad una condanna a carico dello Stato farà seguito una condanna in via di rivalsa a carico del magistrato. Solo il magistrato il cui operato sia stato negligente, ma si badi, non di una negligenza qualunque si tratta, ma di una negligenza di tale gravità da doversi ritenere "inescusabile", sarà chiamato in giudizio dallo Stato a rispondere dei danni cagionati. Per completezza è sempre opportuno ricordare che in nessun caso il limite della rivalsa potrà superare complessivamente la somma pari alla metà dello stipendio netto annuo del magistrato in questione e ciò a prescindere dall'ammontare del danno che il suo provvedimento avrà determinato e dal numero dei danneggiati (somma peraltro coperta da una polizza assicurativa, con la conseguenza che l'esborso concreto a carico del danneggiante sarà pari a zero). In ogni caso, il magistrato non diviene mai debitore del cittadino danneggiato, intercorrendo ogni eventuale rapporto di debito esclusivamente con lo Stato, e non si determina, quindi, alcuna ragione di incompatibilità. L'autonomia è salva Tutte queste considerazioni, peraltro abbastanza ovvie - con buona pace di chi si è adoperato per strumentalizzare una riforma non solo sostanzialmente giusta ed equilibrata, ma obbligata dalla condanna subita dal Governo italiano davanti alla Corte di Giustizia dell'Unione europea - valgono in relazione all'introduzione di un'azione di danno fondata, meritevole di accoglimento e destinata a concludersi, quindi, con una condanna dello Stato ed eventualmente con una successiva azione di rivalsa. Verrebbe allora da chiedersi: come si fa ragionevolmente a sostenere che l'abolizione del filtro di inammissibilità dell'azione espone i magistrati ad azioni temerarie e strumentali e mina l'autonomia e l'indipendenza nell'esercizio della giurisdizione? Non è idonea a questo scopo neppure un'azione fondata, figuriamoci una manifestamente infondata che, nella vigenza della precedente disciplina, sarebbe stata destinata ad infrangersi sul filtro di inammissibilità. Smascherata già alla prima sentenza della Cassazione la pretestuosità delle argomentazioni di certa parte della magistratura militante, che ha cercato di bloccare la riforma solo perché ritiene intollerabile che il legislatore faccia il proprio mestiere senza chiedere il permesso a chi "esercita il controllo di legalità", resta però una considerazione da fare in merito alla possibilità di migliorare il nuovo testo della legge. L'articolato normativo prevede, in via generale, che l'azione di danno non possa essere promossa se non dopo aver esperito tutti i possibili mezzi di impugnazione del provvedimento viziato. Se si tratta di sentenze di merito, nulla quaestio, perché l'azione civile di danno potrà essere avviata solo a processo finito. Ma in relazione ai provvedimenti cautelari, siano essi personali o reali (come quello oggetto della sentenza della Cassazione di cui sopra si è detto), può verificarsi una contemporanea pendenza della causa di merito e dell'azione di danno. Come si è visto questa pendenza non condiziona mai l'autonomia del magistrato, ma potrebbe pregiudicare l'imputato. Quest'ultimo, infatti, può trovarsi costretto ad avviare l'azione entro tre anni dal giudicato cautelare, a pena di incorrere nel termine di decadenza, quando invece dovrebbe potersi difendere liberamente nel processo e valutare solo all'esito di esso se promuovere o meno un'azione di danno contro lo Stato. Sarebbe un bene, dunque, non per gli infondati timori di azioni strumentali e di inesistenti effetti condizionanti nei confronti dei magistrati, ma nell'interesse degli imputati, prevedere che il termine di tre anni di decadenza dall'azione decorra in ogni caso dal passaggio in giudicato della sentenza di merito. Se non altro la magistratura associata, clamorosamente smentita alla prima occasione utile dalla Cassazione, troverebbe il modo di appropriarsi della modifica sostenendo che è la conferma della luminosa verità dei propri strali e delle proprie urlate doglianze. Vogliamo forse privarci di questo spettacolo? Giustizia: intervista a Mario Rossetti "nelle nostre carceri la vergogna che non vediamo" di Enrico Novi Il Garantista, 30 aprile 2015 Parla Mario Rossetti, assolto dopo oltre 100 giorni di galera. L'ex manager Fastweb: il sistema penitenziario è criminogeno e se risulti innocente poi non lo scrive nessuno. "Ho dovuto scrivere un libro, per spiegare che mi hanno assolto. Un libro, capisce? Che ha avuto successo, e questo mi assicura un privilegio. Perché voi giornalisti fate il titolo in prima pagina solo quando una persona viene arrestata. Se l'assolvono mettete un trafiletto in cronaca". Mario Rossetti tiene molto alla sua "testimonianza civile". Vuole che la sua storia sia utile. Ex direttore finanziario di Fastweb, indagato nell'ambito dell'inchiesta Fastweb-Telecom Sparkle, è passato per un inferno durato quasi un anno tra carcere e domiciliari, prima di essere assolto, a ottobre 2013. Racconta tutto in "Io non avevo l'avvocato. Una storia italiana". Un memoriale in libreria da febbraio, scritto per Mondadori con il giornalista Sergio Luciano: vi ripercorre l'incredibile odissea di cui è stato vittima al pari di Silvio Scaglia. Come quest'ultimo, Rossetti è stato assolto da tutte le accuse. Ma ai pm la sentenza non è piaciuta. L'hanno impugnata e c'è un processo d'appello in vista, data da stabilire. "Resta l'esperienza del carcere, che non ti togli più di dosso". Impossibile, dice Rossetti: la condizione dei detenuti è "la vergogna di questo Paese". Se c'è del buono nella storia dei due grandi manager della telefonia, è dunque proprio nel lampo di verità che adesso possono restituire sulla vita dietro le sbarre. Siamo sempre a caccia di capri espiatori, in Italia, dottor Rossetti? Anche lei a un certo punto è stato intrappolato nella macchina del populismo penale? "Sa, a me interessa mettere a disposizione la mia testimonianza, voglio aiutare a riflettere su un caso concreto di giustizia. Far capire che un'accusa infondata e la detenzione possono capitare a tutti. Questo mi interessa. D'altronde il mio è il caso di chi alla fine riesce a ottenere giustizia proprio in Tribunale. Però...". Cosa? "Faccio molte presentazioni del libro, in questi giorni, ce n'è stata una al Senato. C'erano Luciano Violante e Francesco Nitto Palma. Entrambi hanno sollevato il tema a cui si riferisce lei, quello del populismo penale. È fuor di dubbio che ci sia una gran voglia in giro di vedere il potente di turno in difficoltà, è il sentimento avvertito dalla pancia del Paese". Lei, come Scaglia, aveva i requisiti per incarnare l'idea. "Però io e Scaglia non eravamo politici e io non avevo particolare notorietà. Certo l'inchiesta Fastweb-Telecom Italia Sparkle non sarebbe finita in prima pagina senza di noi, senza il coinvolgimento dei dirigenti di aziende telefoniche quotate, che proprio grazie a noi vennero coinvolte, tanto da rischiare il commissariamento". Lei ha retto bene il colpo. "Sì ma quello che hai vissuto, soprattutto l'esperienza del carcere, non te la togli più di dosso. Ci devi convivere, è un dato di fatto". A volte ha l'impressione di essere guardato come "quello là che hanno arrestato"? "Di sicuro molte persone non sanno che sono stato assolto. Sono ferme ai titoli di giornale del 2010, quelli che annunciavano il mio arresto. Quando ti mettono le manette vai in prima pagina, quando ti riconoscono innocente finisci in un trafiletto in cronaca". Noi giornalisti abbiamo un ruolo importante, insomma "Eh sì, siete il volano del sistema, per così dire. D'altronde il male fa sempre notizia, il bene mai". La sua innocenza è passata almeno nei circuiti professionali o quella distorsione la ostacola anche sul lavoro? "In ambito professionale puoi raccontare le cose anche personalmente. Certo, ci sono i paradossi. Come nel 2011, in occasione dell'offerta al pubblico delle azioni di una società quotata di cui ero amministratore delegato: in quanto tale ero garante del prospetto presentato agli investitori, ma ero anche fattore di rischio perché il processo non si era ancora concluso e avrebbero potuto rimettermi in galera. Se incontrasse uno dei magistrati che l'hanno accusata cosa gli direbbe? "Non avrei molto da dire. L'inchiesta è iniziata nel 2007, 7 anni dopo i pm hanno fatto appello contro l'assoluzione, la distanza tra me e loro è irriducibile". Casi come il suo e quello di Scaglia sono simboli di malagiustizia? "Non credo. Sono una persona normale, non credo di poter diventare un simbolo. Di simboli ce ne sono già troppi". Ha provato personalmente la durezza del carcere. "È la vergogna di questo Paese. Una situazione indecente in cui si oltrepassano i principi di umanità. Non per colpa degli agenti ma della situazione di fatto. Io ho vissuto il picco del sovraffollamento, eravamo al 160 per cento della capienza, a livello nazionale. Va ripensato tutto il sistema". Come? "Si cominci con la legalizzazione delle droghe leggere, invocata dalla direzione nazionale antimafia. Se ne avrebbe un grandissimo effetto di alleggerimento del sistema penitenziario, che così potrebbe essere restituito alla sua funzione rieducativa". Cosa l'ha indignata di più, della sua condizione di detenuto? "L'invivibilità: 9 persone con un solo bagno dove si cucinava, un solo lavandino per lavarti e cucinare. Tutto come se fosse la cosa più normale del mondo". Una vergogna che i radicali denunciano da sempre, inascoltati. "I radicali sono le persone più serie rispetto al tema delle carceri, ci entrano, lo vivono davvero. E vanno aiutati in questa battaglia. Perché le carceri che non funzionano ripropongono il problema all'infinito: se stai 3 o 6 mesi in cella senza che ti aiutino a imparare un mestiere, torni fuori e ricominci a fare le cose di prima. Se non hai l'occasione di vedere un'alternativa finisce così. Tra chi riesce a lavorare in carcere la percentuale di recidiva è molto più bassa". La maggioranza degli italiani tende a ritenere che chi finisce dentro sia un predestinato, secondo lei? "No, è che quello che succede dall'altra parte del muro non ci riguarda, finché non ci finiamo dentro. Eppure la questione chiave, dal punto di vista della sicurezza sociale, è quella delle 100mila persone l'anno che entrano ed escono di continuo dal carcere. Se riesci ad attuare vere politiche di rieducazione spezzi la catena delle recidive ed estingui le vere fonti di allarme sociale. C'è la questione del lavoro, e quella più generale del trattamento riservato ai detenuti. Il sistema penitenziario costa 3 miliardi l'anno, ma sa qual è la spesa per il vitto quotidiano di un detenuto? Tre euro e settanta. Colazione, pranzo e cena". Perché quel muro non viene giù, dottor Rossetti? "Ci ha provato un presidente della Repubblica, Napolitano, con il suo unico messaggio alle Camere. Ha chiesto l'amnistia e l'indulto. Non è successo niente. C'è sempre un'altra priorità a portata di mano utile a nascondere quella vergogna". Giustizia: Cassazione "qualifica" di mafioso anche senza prova dell'affiliazione rituale di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 30 aprile 2015 Corte di Cassazione - Seconda sezione penale, sentenza 17681/15. In attesa delle Sezioni Unite sugli affiliati "all'estero" delle associazioni mafiose (si veda Il Sole 24 Ore del 17 aprile scorso, ordinanza di rimessione n.15807), la stessa Seconda penale torna sul tema dell'appartenenza al sodalizio, presupposti e condizioni. L'occasione è il ricorso di un sospetto boss calabrese contro l'ordinanza - reiterata - di custodia cautelare dopo un primo annullamento con rinvio della Suprema Corte. Per la Cassazione (17861/15, depositata ieri) si può tranquillamente prescindere dalla prova dell'ingresso "formale" nel clan, bastando valorizzare gli elementi di prova "sostanziali che indicano l'utilizzo del metodo mafioso". Secondo la difesa del presunto boss, la procura reggina per chiedere - e ottenere - la misura cautelare aveva sottolineato la sola "evidente tensione a controllare l'area mercatale" oggetto dell'inchiesta "unitamente al riconoscimento della caratura criminale" del soggetto indagato "che origina dalle conversazioni intercettate". In sostanza, a giudizio degli inquirenti, i due presupposti dimostravano l'esistenza "di una attività di controllo del territorio che le mafie storiche hanno tradizionalmente utilizzato per gestire i loro interessi economici". Per la difesa, invece, in questo quadro mancherebbe del tutto la prova del legame tra l'indagato e gli altri appartenenti al sodalizio, oltre alla "consapevolezza di contribuire attivamente alla vita dell'associazione". In sostanza il Gip reggino avrebbe dedotto la qualifica di affiliato da semplici dati sociologici, ignorando i rituali di affiliazione. Ma proprio dal "rituale" parte la motivazione della Seconda, poiché "se presente, esso può sicuramente considerarsi indicativo della partecipazione; di contro non può tuttavia ritenersi esistente alcun automatismo tra l'affiliazione e la prova della partecipazione al sodalizio". Spazio allora a un ventaglio di considerazioni e valutazioni delle corti di merito, dalla commissione dei delitti/scopo ai facta concludentia, dall'investitura di "uomo d'onore" fino ai comportamenti tenuti nelle pregresse fasi di osservazione e prova, indizi da valutare congiuntamente nello specifico periodo considerato dall'imputazione. La struttura dell'articolo 416/bis del Codice penale, scrive il relatore, "consente di prescindere dal ricorso ad indici probatori che indicano l'ingresso "formale" nel sodalizio e consente invece di valorizzare elementi di prova "sostanziali" che indichino l'utilizzo del metodo mafioso finalizzata alla consumazione di reati fine o al controllo di attività economiche". E neppure è necessario che l'affiliato commetta specifici reati-fine, aggiunge poi la Seconda, "perché il contributo del partecipe può essere costituito anche dal semplice inserimento all'interno della compagine criminale, secondo modalità tali da poterne desumere la completa "messa a disposizione" dell'organizzazione mafiosa". Giustizia: "no al risarcimento per spamming senza la prova del danno patrimoniale" di Antonino Porracciolo Il Sole 24 Ore, 30 aprile 2015 È quanto afferma il Tribunale di Perugia (giudice Ilenia Micciché) in una sentenza dello scorso 24 febbraio. La controversia trae origine dalla richiesta di ristoro dei danni avanzata da un uomo nei confronti di un'associazione privata, che per diversi mesi gli aveva trasmesso alcune e-mail non richieste. L'attore ha esposto che l'invio era contrario al Codice della privacy, mancando il suo consenso preventivo al trattamento dei dati personali. Ha quindi sostenuto che lo spamming gli aveva provocato danni patrimoniali, consistiti nel pagamento del costo telefonico della connessione a internet, nell'intasamento delle relative funzioni e nella perdita del tempo necessario alla lettura e all'eliminazione dei messaggi indesiderati. Inoltre, il fatto gli aveva causato anche danni non patrimoniali, dovuti "all'intrusione non autorizzata nella propria sfera di riservatezza". Così ha chiesto la condanna dell'associazione al pagamento di 3mila euro. Nel respingere la domanda, il giudice di Perugia osserva, innanzitutto, che il danno da spamming è quello che deriva da comunicazioni elettroniche a carattere commerciale non sollecitate. Tuttavia, il danno in questione si può risarcire - si legge nella sentenza - solo se "ne sia offerta in giudizio rigorosa prova, in coerenza con il generalissimo principio posto dall'articolo 2697 del Codice civile". Il Tribunale ricorda quindi che il risarcimento del danno patrimoniale è ammesso solo se ricorre "un pregiudizio economicamente valutabile e apprezzabile", non "meramente potenziale o possibile" ma "connesso all'illecito in termini di certezza o, almeno, con un grado di elevata probabilità". Sicché, in difetto di più specifiche deduzioni, il risarcimento chiesto dall'attore non si può fondare sul "generico richiamo a costi di connessione, a non comprovati fenomeni di intasamento delle funzioni internet" o a dispendio di tempo e denaro. Inoltre, il danno non patrimoniale - prosegue la sentenza - è risarcibile in caso di "lesione di specifici valori della persona integranti diritti costituzionalmente tutelati e, dunque, inviolabili". Di conseguenza, non si possono indennizzare - aggiunge il Tribunale, richiamando la sentenza n. 26972/2008 della Cassazione - "i pregiudizi consistenti in disagi, fastidi, disappunti, ansie e in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana". Nel caso esaminato, l'attore aveva prodotto 15 e-mail provenienti della convenuta, senza però provare un concreto danno. Né - conclude il giudice - "il tempo occorrente per cancellare i messaggi di posta elettronica in questione assurge a pregiudizio serio", trattandosi di "un mero fastidio". Giustizia: pena di morte; a Papa Francesco il premio di "Abolizionista dell'Anno" Ansa, 30 aprile 2015 Nessuno tocchi Caino ha deciso di conferire il Premio "L'Abolizionista dell'Anno" a Papa Francesco. Il Premio è assegnato ogni anno alla persona che, più di ogni altra, si è distinta per l'impegno a favore dell'abolizione della pena di morte e dei trattamenti disumani e degradanti. "Le ragioni della scelta - spiega l'associazione - risiedono nel fatto che Papa Francesco, il cui Pontificato è stato inaugurato dall'abolizione dell'ergastolo e dall'introduzione del reato di tortura nell'ordinamento dello Stato del Vaticano, si è pronunciato in modo forte e chiaro non solo contro la pena di morte, ma anche contro la morte per pena e la pena fino alla morte". Il riferimento è soprattutto alla "lezione magistrale" rivolta ai delegati dell'Associazione Internazionale di Diritto Penale, lo scorso 23 ottobre, quando Bergoglio ha definito l'ergastolo come "una pena di morte nascosta", che dovrebbe essere abolita insieme alla pena capitale e ha considerato l'isolamento nelle cosiddette "prigioni di massima sicurezza" come "una forma di tortura". Con il conferimento del Premio, Nessuno tocchi Caino "riconosce al Santo Padre il valore prodigioso delle sue parole, sulle quali intende impegnarsi per tradurle in iniziative concrete verso il superamento definitivo di punizioni e trattamenti anacronistici, sempre più necessarie e urgenti se si considera il contesto attuale della pena capitale nel mondo di cui le recenti esecuzioni in Indonesia sono l'ultimo aberrante esempio di uno Stato che diventa Caino". Giustizia: caso Lonzi; a 12 anni dalla morte in carcere continua la ricerca della verità di Carlo Da Prato www.avantionline.it, 30 aprile 2015 "La Procura di Livorno… morte naturale già detto, infarto detto. Questa volta devo vedere cosa decide il Gip". Questa è una delle tante frasi che possiamo estrapolare dai comunicati che Maria Ciuffi, madre di Marcello Lonzi, lancia sui social network nella speranza di sensibilizzare l'opinione pubblica o semplicemente per condividere un doppio dolore: la perdita drammatica di un figlio e l'intollerabile muro di gomma sollevato dalla ragion di Stato. Dopo la mobilitazione del 26 novembre scorso davanti al tribunale di Livorno per scongiurare la definitiva archiviazione del caso (presenti Rita Bernardini, segretaria di Radicali Italiani, l'Associazione per l'iniziativa Radicale Andrea Tamburi di Firenze, Irene Testa, segretaria dell'Associazione Il Detenuto Ignoto, una delegazione territoriale del Psi e tanti altri manifestanti) torno nuovamente ad occuparmi della vicenda perché tra pochi giorni il Gip sarà chiamato a pronunciarsi di nuovo sulla morte di questo ragazzo, avvenuta in circostanze drammatiche 12 anni fa nel carcere di Livorno mentre stava scontando una condanna a 9 mesi per tentato furto. "L'istituzione che doveva condannare ha scelto la via più breve, insabbiare. Non si muore di infarto con otto costole rotte, due denti rotti, mandibola, polso e sterno fratturati e due buchi in testa di cui uno tocca il piano osseo. Penso che guardando le foto, anche il più sprovveduto si può rendere conto che mio figlio è stato picchiato" fa notare la madre di Lonzi. Il Gip dunque dovrà decidere se le immagini che mostrano il corpo senza vita di Lonzi ferito e insanguinato e le fratture rilevate dai medici legali nelle varie autopsie che si sono susseguite negli anni sono compatibili o meno con la versione ufficiale di quel decesso, che lo attribuisce a cause naturali. "Questo non è infarto, ma omicidio di Stato" ammonisce Maria Ciuffi. "E chi sbaglia deve pagare… Nessuno mi restituisce mio figlio, ma devono smettere di uccidere nelle carceri italiane. Altrimenti diciamo che in Italia la pena di morte esiste". Se alziamo l'ottenebrante velo dell'ipocrisia troveremo il concetto medioevale di giustizia ancora applicato da insensati aguzzini che ricordano i boia-scheletri e i loro patiboli del Trionfo della morte, uno dei dipinti più spaventosi della storia della pittura, dove Pieter Bruegel Il Vecchio ci ammonisce nichilisticamente che non solo la morte è inevitabile e spietata (ad ogni livello della società, alta o bassa che sia), ma è anche perversamente creativa. Uno scenario inaccettabile se calato dentro una cornice impreziosita da intagli realizzati dal sacrificio di chi ha conquistato una Repubblica libera e democratica. E reso ancor meno accettabile dal fatto che molti dei responsabili di gravi violazioni dei diritti umani sono sfuggiti alla giustizia grazie alla mancanza di strumenti idonei per prevenire e punire efficacemente i reati. Sono emersi molti casi che chiamano in causa la responsabilità delle forze di polizia e, purtroppo, continuano a emergere, senza che vi sia stata una risposta adeguata da parte delle istituzioni. Per fermare queste violazioni e a beneficio del ruolo centrale della polizia nella sua funzione di protezione dei cittadini, è urgente colmare le lacune esistenti al più presto. Un buon deterrente sarebbe quello di approvare tempestivamente la legge che introduce il reato di tortura in Italia e che questa soddisfi tutti gli standard internazionali che il nostro Paese si è più volte impegnato a osservare. "Credo che combattere contro lo stato per quasi 12 anni non sia stato affatto facile; per questo ho smesso di votare, di credere nelle istituzioni e nella giustizia". Perché morire in un luogo che la civiltà illuminista ha preposto in tutta la sua funzione riabilitativa e rieducativa è una sconfitta che ricade pesantemente sulle coscienze istituzionali, che in questo modo tradiscono i propri cittadini negando il fondante principio dello stato di diritto. "Vivo con 287 euro al mese di pensione di invalidità dimostrabili, - racconta la madre di Lonzi - devo pagare tutte le spese processuali, ma pur saltando alcuni pasti non ci riesco. Ci sono voluti tanti soldi per gli avvocati. Ne ho cambiati tre. Non ricordo più quanti ne ho spesi. Posso dire che quel poco di oro che avevo, l'ho venduto. Per la sola riesumazione della salma di Marcello ci sono voluti tremila euro per il medico legale, più 500 euro di rimborsi spese ogni volta che veniva a Livorno , ma fu importante perché vennero fuori altri elementi che portavano al pestaggio. Proprio in questi giorni la Procura di Livorno mi ha recapitato le spese processuali per un ammontare di 700 euro, pena l'attivazione del pignoramento. Veloci nel chiedermi i soldi, lenti perché mio figlio abbia giustizia. Ho chiesto ieri all'avvocato di scontarli in carcere, in primo luogo perché non li ho e in secondo luogo perché è paradossale dover pagare chi sta insabbiando la morte di mio figlio". La lampada di Diogene si muove tra i gelidi palazzi dei Tribunali, rovista nei meandri delle macchinazioni, nei baratri delle archiviazioni in cerca non solo della verità insabbiata, ma anche di quella dignità in grado di vestire di nuova luce l'uomo del nostro tempo, che si forma attraverso la mediazione delle istituzioni con cui entra quotidianamente, inevitabilmente in contatto. L'augurio è che ben presto la lotta di Maria Ciuffi, dallo spessore titanico se pensiamo al pesantissimo risvolto economico e psicologico, possa sfociare in un regolare processo. "Ogni volta che suona il telefono il mio pensiero corre al mio avvocato che mi dice: "Maria, hanno deciso. Si va a Livorno in procura". Speriamo bene" auspica la donna. Padova: spesi 4,2 milioni di €, ma nell'azienda per i detenuti non ne lavora neppure uno di Nicola Cesaro Il Mattino di Padova, 30 aprile 2015 L'Ipas Società Cooperativa ha ricevuto un finanziamento regionale di 4,2 milioni di euro per realizzare un'attività di reinserimento sociale che di fatto non è mai partita. Doveva dare lavoro ad almeno trenta detenuti, ex carcerati e disoccupati over 50. Per questo aveva ottenuto 4,2 milioni di euro dalla Regione attraverso uno specifico fondo di rotazione. Oggi, a distanza di tre anni e mezzo da quel finanziamento, la struttura c'è - si trova in zona industriale e la gestisce la Ipas, Società cooperativa di Padova - ma di detenuti al lavoro non c'è nemmeno l'ombra. Ed emerge un forte legame con il progetto da 3,4 milioni di euro di Nervesa della Battaglia finito recentemente nell'occhio del ciclone: là doveva nascere una fattoria didattica destinata a impegnare ragazzi disabili, oggi in realtà c'è una birreria alla moda. I detenuti? A fine 2011 la Regione Veneto, con un bando firmato dall'allora assessore Remo Sernagiotto, aveva finanziato con 50 milioni di euro una serie di progetti destinati all'integrazione lavorativa dei disabili e degli emarginati nel territorio veneto. A Monselice erano finiti 4,2 milioni euro, indirizzati alla Ipas Società Cooperativa di Padova, realtà che ha sede in via Svezia e che è presieduta da Moreno Lando. L'iniziativa prevedeva di riqualificare un capannone di 3.500 metri quadri in via Umbria e di destinarlo a luogo di lavoro per detenuti, ex detenuti e over 50 senza domicilio o in condizioni di emergenza sociale. Secondo il progetto, i lavoratori sarebbero stati impegnati in attività manuali e di logistica, in particolare di stoccaggio e picking. Il nuovo centro di via Umbria doveva essere pienamente operativo nell'estate 2012. Oggi, in realtà, ci lavorano dalle 4 alle 8 persone (attualmente solo quattro) e nessuna di queste è un detenuto: "Mancano le commesse ed è impossibile far lavorare più persone di queste" si difende Lando "Ho inviato 29 offerte commerciali ad aziende padovane, ma di fatto ho stipulato contratti solo con 8. Due sono tra l'altro realtà stagionali, e quindi con un volume di lavoro limitato. Le altre mi garantiscono solamente attività di stoccaggio, quando in realtà sono le attività manuali e di assemblaggio che richiederebbero maggiore mano d'opera". I lavoratori impegnati arrivano dalle liste di disoccupati over 50 fornite dal Comune di Monselice: "Difficilmente un giudice può assegnarci dei detenuti con la carenza di lavoro. Il coinvolgimento dei carcerati è possibile solo se c'è continuità lavorativa, che di fatto oggi manca". Lando, peraltro, ricorda che lo stanziamento regionale di 4,2 milioni di euro arriva da un fondo di rotazione e che la somma va restituita entro 25 anni: "Ho già pagato una rata e dovrò pagarne un'altra a breve. È nel mio interesse far lavorare a pieno regime questa realtà". Ieri mattina in zona industriale è arrivata anche la troupe di "Striscia la Notizia" e un servizio dedicato all'Ipas di via Umbria è andato in onda in prima serata. Strani legami. Il progetto di Monselice, come anticipato, è nato assieme a di quello di Nervesa della Battaglia (Treviso). L'iniziativa trevigiana era stata finanziata con la stesso fondo di rotazione attraverso la stessa delibera di giunta, la 2517 del 29 dicembre 2011. Nel Trevigiano erano finiti 3,4 milioni di euro, destinati alla cooperativa Cà della Robinia. Il progetto di Nervesa era stato protocollato in Regione il 20 ottobre 2011, quello di Monselice il 7 novembre. A Nervesa la situazione attuale è ancora più paradossale di quella di Monselice: con quei 3,4 milioni di euro si sarebbe dovuta realizzare una fattoria didattica animata da lavoratori disabili. Qualche giorno fa, nei locali destinati alla fattoria, è stata invece inaugurata una birreria. I titolari del nuovo pub hanno affittato i locali dalla cooperativa Cà della Robinia. Il funambolico cambio di destinazione ha fatto scattare una serie di controlli da parte degli uffici regionali. I finanziamenti concessi a Monselice e Nervesa erano i tre più importanti del bando regionale del dicembre 2011: al primo posto c'erano i 5,12 milioni di euro destinati all'Athena Società Cooperativa Sociale di Vigo di Cadore - realtà che peraltro ha come presidente lo stesso Lando dell'Ipas - per un progetto a Laggio di Cadore (Belluno) che pure lì è rimasto monco, anzi non è proprio partito. Ritardi, carenza di commesse e impedimenti vari: sarà, ma si parla pure sempre di 12,7 milioni di euro pubblici. Salerno: Radicali; i detenuti della Sezione AS peggio dei maiali, vivono in meno di 3 mq www.salernonotizie.it, 30 aprile 2015 Certo che il Direttore Martone ha ragione, quando dice che i detenuti di Alta Sicurezza fanno bene a fare notare in una lettera al quotidiano "La Città" che vivono al disotto dei 3 mq. di spazio vitale in cella, ma come egli sa benissimo la sentenza n. 53012 della Corte di Cassazione del 19 dicembre 2014 nel merito recita testualmente, ogni detenuto ha diritto a tre metri quadrati calpestabili, escludendo quindi il letto, l'armadio e il lavabo, questi i requisiti minimi dello "spazio vitale" per ogni cella in carcere, tali da evitare la violazione dell'art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, vale a dire i trattamenti inumani e degradanti, richiamandosi alla altrettanto famosa sentenza pilota "Torregiani" della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo. Pensare che la frettolosa giurisprudenza d'emergenza della Suprema Corte non tiene in considerazione la normativa europea che sancisce il Diritto per ogni uomo ad avere 7 mq. di spazio vitale in cella. Purtroppo se andiamo bene riserviamo ai detenuti la metà dei metri quadrati previsti dalla stessa norma comunitaria per i maiali d'allevamento in gabbia. Chiedo urgentissimamente alla Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Salerno la dr.ssa Maria Antonia Vertaldi, responsabile dell'esecuzione penale, di precipitarsi a Fuorni con strumento idoneo, tale da misurare qual è lo spazio vitale disponibile per ogni detenuto in cella, così da verificare se sia violato o meno l'art. 3 della Convezione Europea dei Diritti dell'Uomo". Lo scrive in una nota Donato Salzano segretario Radicali Salerno Ass. "Maurizio Provenza". Trento: nuovo direttore Pappalardo "ricominciamo da un carcere aperto alla comunità" L'Adige, 30 aprile 2015 "Il carcere, un mondo tradizionalmente chiuso, deve essere aperto alla comunità, farsi conoscere, interagire con le altre realtà e chiedere aiuto". Lo ha detto il direttore in missione in reggenza della Casa circondariale di Spini di Gardolo, Valerio Pappalardo. "Quando si ha a che fare con l'uomo non si hanno sempre risposte di tipo matematico, quindi c'è la necessità di approfondire lo studio sulla personalità", ha aggiunto Pappalardo sottolineando come "la struttura carceraria non antonomasia non è un luogo felice, ma grazie agli operatori stiamo realizzando opportunità comportamentali positive". Il direttore, 49 anni di Catania con esperienze nelle carceri della Sicilia con detenuti di matrice mafiosa, ha poi annunciato l'apertura il prossimo 2 maggio di una sezione protetta nella Casa circondariale di Trento: posta al primo e al secondo piano dell'istituto di Spini di Gardolo, potrà ospitare un massimo di 80 detenuti provenienti dalle carceri del Triveneto, soprattutto da quello di Verona. A Trento arriveranno detenuti per reati di pedofilia. La capienza dell'istituto di pena di Spini di Gardolo resterà invariata in quanto verrà trasferito in altre carceri il numero di detenuti corrispondente agli arrivi, ha assicurato Pappalardo. In merito ai due suicidi avvenuti nel 2014 a distanza di pochi giorni, il direttore ha evidenziato che "sono riconducibili a fattori personali e non a deficienze strutturali o a problemi di rapporto con il personale". "A Trento vengono rispettati i parametri di vivibilità dettati dall'Unione europea", ha sottolineato Pappalardo il quale ha peraltro detto che "occorre perfezionare la vivibilità della struttura. Nelle celle i fori per il riciclo dell'aria potrebbero potenzialmente essere utilizzati a scopi autolesionistici, per cui provvederemo al più presto ad installare delle reti". A proposito del suo futuro a Trento, Pappalardo ha detto che è sua intenzione restare ma sarà il ministero a decidere. Volterra (Pi): individuata Residenza per 22 ex detenuti dell'Opg, l'apertura entro luglio www.quinewsvolterra.it, 30 aprile 2015 Per l'onorevole Gelli (Pd) "la scelta di Volterra è una buona soluzione che risolve definitivamente la chiusura di Montelupo". "La conferma da parte della Regione Toscana di realizzare una Rems, residenza per l'esecuzione della misura di sicurezza detentiva, nei locali dell'ex ospedale psichiatrico di Volterra è una buona notizia che premia la qualità di questa proposta". Così Federico Gelli, deputato e responsabile sanità del Pd commenta così l'approvazione della Giunta Regionale toscana di una delibera che chiude definitivamente l'ipotesi Solliccianino come soluzione dopo la chiusura dell'Opg di Montelupo. Al padiglione Morel dell'ospedale volterrano, lo ricordiamo, sorgerà una struttura per detenuti psichiatrici che necessitano di sorveglianza intensiva. Come si legge nella nota dell'onorevole "la Rems di Volterra avrà 22 posti e sarà attiva da luglio; accanto a questa saranno realizzate 6 Rems intermedie per 48 posti in varie parti della Toscana d'accordo con il magistrato di sorveglianza". E anche Volterra ha già, sempre al Morel, da aprile una struttura residenziale intermedia da 12 posti per detenuti psichiatrici che non necessitano di sorveglianza intensiva. "La sede di Volterra per la storia che rappresenta e le strutture, sicuramente da recuperare ma idonee, è il luogo ideale per la cura dei pazienti dell'ex ospedale psichiatrico di Montelupo, oltre a garantire un adeguato livello di sicurezza così come richiesto - aggiunge il deputato democratico. Il fatto che poi la Regione ha specificato che l'edificio di Volterra sarà pronto ed adeguato entro luglio ci conforta contro la malaugurata ipotesi di rischio commissariamento". Cagliari: Sdr; inadeguati locali carcere di Uta per osservazione psichiatrica giudiziaria Ristretti Orizzonti, 30 aprile 2015 "I locali del Centro Clinico della Casa Circondariale di Cagliari-Uta non sono adeguati al servizio di osservazione psichiatrica giudiziaria. Lo sostengono i Medici della Sezione Assistenza Intensiva che, in una lettera inviata ai vertici della Azienda Sanitaria Locale n.8, mettono in evidenza le difficoltà per far fronte alle richieste dei Magistrati". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell'associazione "Socialismo Diritti Riforme", facendo osservare come "le scelte attuate dai progettisti del Villaggio Penitenziario, ubicato nell'area industriale di Macchiareddu, a 20 chilometri dal capoluogo di regione, ed in particolare gli esigui spazi riservati ai pazienti ricoverati, considerando che la struttura ospita già oltre 500 detenuti, facciano emergere sempre nuove difficoltà di gestione, impongano adeguamenti e ristrutturazioni con spese aggiuntive nonché la riorganizzazione dei servizi medico-diagnostici". "I locali per l'osservazione psichiatrica giudiziaria - evidenzia il responsabile della sezione Assistenza Intensiva (nuova denominazione dei Centri Clinici penitenziari) Luciano Fei - devono avere determinate caratteristiche tra cui strutture e arredamenti atti alla limitazione di lesioni fisiche in caso di agitazione psico-motoria o atti autolesionistici. La capacità ricettiva del Sai è di 22 posti letto, numero verosimilmente esiguo rispetto alle esigenze di un penitenziario ormai prossimo ad un funzionamento a regime con previsione di 700/800 detenuti; insufficiente anche in considerazione che il Sai è una struttura di livello sanitario superiore non presente nelle altre strutture penitenziarie regionali per cui fa e farà sempre più fronte a richieste di ricovero provenienti dagli altri Penitenziari. La destinazione di due camere per l'osservazione psichiatrica giudiziaria significa la riduzione di 4 posti di degenza". "La struttura Sai risulta di pertinenza e gestione della Asl, mentre l'osservazione psichiatrica giudiziaria rientra tra i compiti di più stretta competenza del Ministero della Giustizia, per cui potrebbero verificarsi - conclude la lettera inviata anche al Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria nonché al Provveditore regionale, al Magistrato di Sorveglianza, al Direttore dell'Istituto di Cagliari-Uta e al Comandante della Polizia Penitenziaria - dei conflitti di competenza all'interno della struttura". "Sarebbe insomma necessario - conclude Caligaris - garantendo la presenza del personale medico pluridisciplinare e infermieristico realizzare un Reparto di Osservazione dislocato in appositi spazi con stanze singole opportunamente attrezzate. Resta però il dubbio di come sia possibile progettare una struttura penitenziaria con più padiglioni per 640 posti regolamentari articolati in 15 sezioni e ritenere che siano sufficienti 22 posti letto, gli stessi del vecchio Buoncammino, per degenti in acuzie. In che modo si potrà ora intervenire è un interessante rebus". Modena: intesa con gli Enti locali, detenuti "fuori" dal carcere al servizio della collettività Adnkronos, 30 aprile 2015 Un'intesa sottoscritta da organizzazioni del terzo settore, enti locali, e Ministero della Giustizia promuove percorsi di volontariato da parte di persone in esecuzione penale Favorire l'attivazione di percorsi di volontariato rivolti a persone in esecuzione penale o sottoposte alle misure di sicurezza. In altre parole, promuovere per quei detenuti che per legge ne possono usufruire, la possibilità di impegnare il loro tempo in attività di volontariato presso enti locali o associazioni, in un'ottica di restituzione e servizio per la collettività. È questo l'obiettivo del Protocollo d'intesa a cui sono giunti la direzione della Casa circondariale S. Anna, l'Ufficio Esecuzione penale esterna (Uepe) del Ministero della Giustizia, la Provincia di Modena, i Comuni di Modena e di Castelfranco, le organizzazioni che rappresentano il mondo del volontariato, cioè l'Associazione Servizi per il volontariato (Asvm) e il Forum provinciale del Terzo Settore. Duplice la finalità dell'intesa firmata oggi, 29 aprile in Municipio, da Gian Carlo Muzzarelli in qualità di presidente della Provincia, dall'assessora al Welfare Giuliana Urbelli per il Comune di Modena, dall'assessora al volontariato Maurizia Cocchi Bonora per il Comune di Castelfranco, dalla presidente di Asvm Manuela Carta, dal portavoce del Forum provinciale Albano Dugoni, dalla direttrice di Uepe Patrizia Tarozzi e dalla quella del Sant'Anna Rosa Alba Casella. Da una parte, il protocollo intende promuovere una forma di attività ripartiva a favore della collettività, un'attività che per il detenuto e la persona in esecuzione penale esterna ha anche valore riabilitativo; dall'altra, favorire la nascita di una rete in grado di accogliere quelle persone che hanno aderito al progetto, anche in vista del loro reinserimento sociale. A prevedere la possibilità di impiegare i detenuti in attività di volontariato a favore della collettività sono diversi articoli presenti nel corpo della normativa penitenziaria, e tra questi la recente legge 10 del 21 febbraio 2014. Già dal 2013 il volontariato modenese e il Ministero della Giustizia attraverso Uepe, l'Ufficio che ha il compito di favorire il reinserimento sociale dei condannati, hanno in essere una convenzione che consente ai detenuti di impegnarsi presso alcune associazioni di volontariato: Auser, Portobello, Porta Aperta, Gruppo Carcere Città, Csi Volontariato, Gruppo volontari Crocetta, Porta aperta al carcere e Insieme in quartiere per la città. Nel 2012, in occasione del terremoto, sono stati 8 i detenuti impegnati nelle terre del cratere insieme con gli altri volontari. Oggi con il Protocollo, già recepito dalla Giunta del Comune di Modena e da quella di Castelfranco, i territori su cui insistono le strutture di detenzione e di lavoro, viene sancito l'impegno in tal senso di tutti i soggetti. In particolare, il Comune di Modena si impegna a individuare le risorse idonee e gli ambiti di attività in cui i detenuti e le persone in esecuzione esterna possono prestare volontariato, oltre che a sostenere il progetto dei singoli attraverso interventi individuali, come il trasporto o la mensa. Per il Comune di Castelfranco le attività a carattere volontario si svolgeranno essenzialmente nell'ambito della manutenzione di verde, aree e patrimonio pubblico. Asvm e Forum provinciale terranno invece costantemente aggiornato l'elenco delle organizzazioni del terzo settore disponibili ad accogliere i detenuti, collaborando a individuare gli ambiti di intervento anche a seconda delle attitudini delle persone coinvolte. Queste ultime individueranno per ogni persona inserito nel progetto, un referente che lo affianchi nell'inserimento, lo supporti e mantenga i rapporti con l'Ufficio Esecuzione penale esterna e con la Casa circondariale che, da parte loro, dovranno favorire l'attivazione dei progetti. Napoli: a Secondigliano "trattamenti di favore" per Nicola Cosentino, 4 custodie cautelari www.casertanews.it, 30 aprile 2015 Nella mattinata di ieri, nell'ambito di un'articolata indagine coordinata da questa Procura della Repubblica, i Carabinieri del Reparto Operativo - Nucleo Investigativo di Caserta, unitamente al Nic della Polizia Penitenziaria, hanno eseguito un'ordinanza di custodia cautelare emessa dal Gip del Tribunale di Napoli nei confronti di 4 indagati (3 in carcere e 1 all'obbligo di dimora nel comune di residenza), ritenuti responsabili, a vario titolo di concorso in corruzione per atti contrari ai doveri d'ufficio, in quanto assunti in violazione di disposizioni dell'ordinamento penitenziario. L'indagine è il naturale prosieguo del contesto investigativo che ha già portato all'arresto dell'ex Sottosegretario di Stato e deputato Nicola Cosentino in data 3 aprile 2014. Le indagini relative alle custodie cautelari eseguite questa mattina dai Carabinieri del Reparto Operativo - Nucleo Investigativo di Caserta, sono state coordinate e dirette dai Sost. Proc. Dott. Fabrizio Vanorio e Dott. Alessandro D'Alessio, nonché dal Procuratore Aggiunto Giuseppe Borrelli e dal Procuratore Capo Giovanni Colangelo. Il Gip del Tribunale di Napoli che ha emesso le misure restrittive è la Dottoressa Isabella Iaselli. Ecco il testo della nota stampa diffusa dalla Dda di Napoli: "Sulla base di attività tecniche e dinamiche, accertamenti testimoniali e documentali, il Gip, allo stato degli atti, ha valutato positivamente nell'ordinanza la sussistenza dei seguenti fatti: il citato ex parlamentare, prima e soprattutto dopo il suo arresto, ha intrecciato rapporti con agenti del Corpo della Polizia Penitenziaria tali da permettergli di ottenere trattamenti di favore durante la sua detenzione nel carcere di Secondigliano (Na); alcuni agenti della Polizia Penitenziaria, illecitamente remunerati attraverso somme di denaro o assunzioni di propri parenti, facevano pervenire al detenuto messaggi dei congiunti del Cosentino o comunque provenienti dall'esterno, recapitavano al detenuto beni ed utilità varie, contravvenendo a quanto imposto dalla prevista normativa carceraria e consentivano talvolta all'ex politico di muoversi addirittura liberamente all'interno dell'istituto carcerario durante le ore notturne; gli incontri (ne sono stati censiti 36, monitorati e filmati) con un cognato del Cosentino, mediante i quali uno dei poliziotti penitenziari riceveva i documenti ed i beni da far giungere fraudolentemente nell'istituto di pena, avvenivano presso un distributore di carburanti sito nelle vicinanze dell'abitazione dell'agente nel comune di Succivo (Caserta), dove, al termine dell'attività investigativa, si è proceduto ad effettuare anche un riscontro in data 21 marzo 2015, che ha permesso di acquisire utili ed ulteriori elementi a supporto della tesi investigativa; in taluni casi, peraltro, l'assistente della P.P. ed il cognato del Cosentino, dopo essersi contattati utilizzando un linguaggio criptico, si sono incontrati presso la citata area di servizio senza procedere a scambi di cose o documenti, dunque all'evidente fine di scambiarsi messaggi verbali riservati; un ulteriore riscontro investigativo si è avuto all'esito della perquisizione disposta, sempre il 21 marzo 2015, all'interno della cella dell'Istituto di pena di Napoli-Secondigliano dove si trovava detenuto il Cosentino, il quale veniva trovato in possesso di 30 tipologie di oggetti di cui non è consentito il possesso e di 12 tipologie di oggetti in sovrappiù rispetto a quanto consentito dal regolamento; l'agente di Polizia penitenziaria sottoposto a misura cautelare è risultato altresì in contatto con familiari di altri detenuti affiliati a clan camorristi dell'area napoletana". Dei provvedimenti emessi dal Gip, tre sono di custodia in carcere e saranno eseguiti nei confronti dell'ex deputato (allo stato già detenuto e, a causa di tali vicende, già trasferito nel carcere di Terni), di suo cognato e di un poliziotto penitenziario, mentre l'obbligo di dimora sarà notificato alla moglie di Nicola Cosentino. Persone destinatarie dell'ordinanza: Cosentino Nicola, detenuto in custodia cautelare per altro procedimento presso la Casa circondariale di Terni; Esposito Giuseppe, 53 anni; Vitale Umberto, 43 anni, Ordinanza di custodia cautelare in carcere; Esposito Maria Costanza (detta Marisa), 50 anni, Ordinanza impositiva della misura cautelare dell'obbligo di soggiorno nel comune di residenza. Monza: rissa tra detenuti durante la lezione di teatro in carcere, ferito un agente di Riccardo Rosa Corriere della Sera, 30 aprile 2015 Insulti e poi botte tra una dozzina di carcerati di nazionalità italiana, marocchina e albanese. Il ferito ha una prognosi di 10 giorni. Un agente di polizia penitenziaria è stato ferito mentre cercava di sedare una rissa scoppiata nel carcere di via Sanquirico di Monza. L'episodio è avvenuto mercoledì mattina, durante l'ora di teatro cui stavano partecipando una dozzina di carcerati di nazionalità italiana, marocchina e albanese. A un tratto, quando la lezione stava terminando, fra quattro di loro sono prima volati insulti, poi spintoni e infine pugni e calci. Gli agenti presenti sono subito intervenuti per riportare la calma, ma uno di loro, un agente di 30 anni, ha avuto la peggio ed è stato trasportato al pronto soccorso dell'ospedale San Gerardo di Monza con alcuni lividi e una distorsione a un dito della mano destra. La prognosi è di 10 giorni. A rendere noto il fatto è stato Donato Capace, del sindacato autonomo di polizia penitenziaria (Sappe), secondo il quale "la rissa tra detenuti a Monza è sintomatico di una emergenza penitenziaria che permane nonostante tutto. I poliziotti sono riusciti a sedarla in tempo e mi auguro che vengano premiati per l'ottimo intervento operativo". Le cause che hanno scatenato la rissa non sono state chiarite. Molto probabilmente le ragioni sono da ricercare in vecchie ruggini legate alla vita carceraria o in sgarbi avvenuti fuori dalle mura della prigione. "Non so come si possa parlare di emergenza superata - aggiunge Capece - visto che a Monza si sono contati, nei dodici mesi del 2014, 125 episodi di autolesionismo, 13 tentati suicidi sventati in tempo dalla polizia penitenziaria, un suicidio, 22 colluttazioni e 71 ferimenti". Oltre all'agente ferito al dito, altre quattro agenti sono stati medicati nel pronto soccorso del carcere per lievi ferite o escoriazioni. "Noi facciamo del nostro meglio per limitare e contenere i detenuti - prosegue Domenico Benemia, segretario regionale Uil della polizia penitenziaria -. Purtroppo, la situazione è così critica che può scapparci di mano". Verona: stato di agitazione della Polizia penitenziaria, chiesto un incontro al Prefetto di Alessandra Vaccari L'Arena, 30 aprile 2015 Due ore e passa di assemblea, di confronto anche tra rappresentanti di tutte le organizzazioni sindacali. Due ore in cui c'era da decidere la strategia da adottare nei prossimi giorni. Si sono ritrovati ieri pomeriggio i rappresentanti sindacali della polizia penitenziaria con il personale fuori dall'orario di servizio. Ancora in stato di agitazione. "Da fuori non sono facili da capire le ragioni della nostra protesta", ha detto Daniela Ferrari della Cisl-Fns, "rischia di essere strumentalizzata, liquidata con un "i poliziotti non vogliono l'umanizzazione del carcere". Non è così. Siamo convinti che meglio stanno i detenuti, meglio lavoriamo noi. Ma non si possono cambiare le disposizioni senza mettere in sicurezza il personale", aggiunge Ferrari. L'assemblea ha deciso la prosecuzione ad oltranza dello stato di agitazione con astensione dalla mensa di servizio e dal bar degli agenti. Poi si chiede un incontro urgente con il prefetto. Gli agenti sono decisi a scendere in piazza, per le strade della città per spiegare direttamente ai cittadini quale sono le loro criticità. E quindi chiedono un incontro con i vertici del dipartimento centrale dell'amministrazione penitenziaria. Ne hanno già avuto uno con l'amministratore veneto, ma secondo loro ha tergiversato troppo, preso tempo. E qui di tempo non ce n'è più. È lunga la lista di quello che secondo gli agenti non funziona. Si tratta di richieste molto tecniche come le ferie del personale e nuovo assetto organizzativo, del frazionamento delle unità operative interne e interessi legittimi stabiliti dalle graduatorie. E anche del ripristino del preesistente modello della sorveglianza generale con conseguente rivisitazione del coordinamento delle unità operative; ripristino delle cosiddette valvole di sfogo per prevenire e/o arginare il fenomeno di alienazione e stress lavorativo correlato degli operatori del servizio a turno; maggiore facoltà di cambi turno tra il personale; maggiore elasticità, trasparenza e uniformità sulla concessione di congedi straordinari per motivi familiari o per esami/visite specialistiche. È quasi un mese che la polizia penitenziaria è in stato di agitazione, da quando un detenuto aveva appiccato il fuoco in sezione costringendo i poliziotti a far evacuare una sezione con 150 persone. E una dozzina di agenti erano rimasti intossicati. Trani: "Ripartiamo dalla pasta", in carcere progetto che tocca il cuore oltre che il palato www.lostradone.it, 30 aprile 2015 Dopo due esperienze vissute con le detenute del Carcere Femminile di Trani, il progetto di riqualificazione sociale "Ripartiamo dalla pasta" - pensato ed ideato da Granoro e Factory del Gusto, con il prezioso contributo del Presidio del Libro di Corato - arriva al Penitenziario Maschile di Trani. Il percorso formativo, giunto alla terza edizione, fonde cibo e letteratura al fine di stimolare nei detenuti la ricerca di un rapporto più consapevole con l'ambiente, la natura, le tradizioni e il sociale ed offrire maggiori opportunità di reinserimento nella società, favorendo l'acquisizione di competenza, professionalità e qualità nel settore del food e in quello pastario. Presenti all'incontro la Direttrice del penitenziario dott.ssa Bruna Piarulli, l'amministratore delegato Granoro, dott.ssa Marina Mastromauro, l'amministratore della Factory del Gusto Salvatore Turturo, il direttore ufficio detenuti e trattamento ufficio regionale dott.ssa Rosa Musicco, la responsabile area trattamentale dott.ssa Elisabetta Pellegrini, il direttore U.E.P.E. (Ufficio Esecuzione Penale Esterna) di Bari dott.ssa Paola Ruggieri ed il vicario della diocesi di Trani, Barletta e Bisceglie, don Savino Giannotti. La dott.ssa Musicco dichiara che questo modello di detenzione integrato con le politiche attive del lavoro e sociali del territorio di riferimento non solo responsabilizza il detenuto, ma ristabilisce un equilibrio nella sua gerarchia valoriale, attivando un graduale processo di inclusione ed integrazione sociale e lavorativa. La dott.ssa Ruggieri sottolinea quanto sia importante per i detenuti acquisire nuove competenze professionali per poter diventare potenziali risorse per le aziende produttive del territorio e la dott.ssa Pellegrini aggiunge che queste esperienze possono rappresentare una efficace strategia di prevenzione della recidiva e un'importante occasione per promuovere la cultura della legalità. La dott.ssa Mastromauro afferma che "questo progetto tocca il cuore oltre che il palato". Un viaggio attraverso il cibo e la letteratura che permetterà ai detenuti di colmare quel vuoto di cultura, sentimenti e ricordi, recuperare un più forte legame con il quotidiano ed un contatto con il mondo esterno, riscoprendo il piacere del fare, semplicemente preparando un piatto. Turturo spiega che il progetto sarà riservato ai detenuti del penitenziario tranese, si articolerà in 6 lezioni teoriche e pratiche e avrà la finalità di formare i detenuti sul processo di lavorazione industriale della pasta secca di semola dura (alimento consumato quotidianamente in tutta Italia). Creare una formazione specializzata in campo alimentare, costruire una conoscenza accademica più approfondita sul tema dell'alimentazione permetterà ai detenuti di accrescere il loro "sapere per saper fare". Un prezioso alleato completerà questo percorso, il Presidio del Libro che offrirà ai detenuti la possibilità di leggere alcuni stralci tratti da saggi e libri dedicati all'alimentazione, selezionati dalla responsabile di questa istituzione, la prof.ssa Angela Pisicchio. Tanti i libri che allieteranno i carcerati, tra cui "Lunari di Puglia" di Lavermicocca, che guida il lettore alla scoperta della nostra terra attraverso l'ambiente e la storia, la cultura e il gusto, "I racconti della pentola" di Stagnani che racconta aneddoti su sagre e modi di cottura tipici della nostra tradizione, "Il segreto del gelso bianco", un romanzo che si dipana tra la Murgia pugliese, gli Stati Uniti e la città di Torino, per poi passare a "Ce se mange iòsce? Madonne ce ccrosce" di Signorile e "Storie di semi" di Shiva che invita i lettori ad imparare a conoscere "i semi della rovina" (si riferisce ai semi moderni geneticamente modificati, prodotti e venduti da multinazionali) e tornare ai "semi della speranza". Fermo (Ap): studenti nella Casa circondariale, un faccia a faccia con i detenuti Corriere Adriatico, 30 aprile 2015 Un incontro importante, emozionante, significativo, due ore per ascoltare storie e per capire il mondo come va. È la seconda occasione che si presenta per gli studenti dell'Itcg Carducci Galilei, già lo scorso anno una classe è entrata nella Casa circondariale di Fermo per incontrare la redazione de "L'Altra chiave news", il giornale realizzato da alcuni dei detenuti. Si tratta di un progetto che la scuola porta avanti per educare i ragazzi alla legalità, dietro il coordinamento del professor Roberto Cifani e il grande supporto del preside Roberto Capponi. Quest'anno è toccata alla V B Afm, i ragazzi sono entrati intorno alle 9,30 a dare loro il benvenuto la direttrice del carcere, Eleonora Consoli, il comandante della polizia penitenziaria Nicola Defilippis, il responsabile dell'Area trattamentale Nicola Arbusti. E poi i detenuti, che si sono raccontati con onestà, a fatica, ripercorrendo le tappe della loro vita e riaprendo antiche ferite. Hanno parlato di droga e delle facili scorciatoie che si prendono quando le strade sembrano tutte chiuse, delle porte del carcere che quando si chiudono pesano una tonnellata sulle spalle, di figli che crescono lontani, di mogli che sopportano e poi qualche volta se ne vanno perché non riescono più a perdonare. Qualcuno si è emozionato, ha guardato agli studenti come fossero i figli, ha raccomandato di non inseguire sogni sbagliati ma di impegnarsi sempre per raggiungere obiettivi più alti. I ragazzi hanno seguito con gli occhi sbarrati e il cuore aperto, hanno fatto domande e hanno voluto soprattutto sapere dei sentimenti, della sofferenza, del pentimento, se c'è. In mano il nuovo numero della rivista "L'Altra chiave news", il quinto realizzato finora e completato proprio in questi giorni. Una gara di solidarietà ha consentito la realizzazione della rivista, impaginata da Sergio Esperide, bravissimo grafico, che non ha voluto nulla in cambio e stampata in edizione speciale dalle Grafiche Fioroni con la consueta maestria, in 500 copie, in modo del tutto gratuito. "Un grande ringraziamento da parte di tutti noi, ha sottolineato la direttrice Consoli, per il clima di solidarietà che si è acceso attorno a questa nostra esperienza che ci consente di far sentire la nostra voce fuori, i detenuti si raccontano e cercano dentro di loro le ragioni per ripartire e ricostruirsi". Il preside Capponi ha parlato con la voce rotta dall'emozione: "È per noi molto significativo questo progetto che ci consente di arrivare dritti al cuore dei ragazzi, parliamo di legalità con la voce dei protagonisti, con grande emozione e nel corso di incontri che nessuno di noi dimenticherà. Per me è l'ultimo anno, l'anno prossimo andrò in pensione ma sono sicuro che questo progetto andrà avanti perché è troppo importante". Isernia: domani al via il mercatino della Pastorale carceraria diocesana www.isernianews.it, 30 aprile 2015 Appuntamento con la solidarietà venerdì 1 maggio, in occasione dei festeggiamenti nella parrocchia di San Giuseppe Lavoratore a San Lazzaro. Venerdì primo maggio, presso la piazza Achille Palmerini d'Isernia, l'Ufficio della pastorale carceraria della diocesi di Isernia-Venafro organizzerà la quinta edizione del mercatino "Dreams in jail" (sogni in carcere). Verranno messi in vendita dei manufatti artigianali realizzati dai detenuti della casa circondariale pentra. Quella di quest'anno, però, sarà un'edizione davvero speciale. Il responsabile della pastorale carceraria, l'avvocato Paolo Orabona, assicura, infatti, che, in via eccezionale e per la prima volta, all'evento parteciperanno due detenuti in permesso premio che avranno la possibilità di esporre i propri lavori e quelli dei loro compagni. Il mercatino farà da cornice ai festeggiamenti della parrocchia di San Giuseppe Lavoratore di San Lazzaro, in onore del santo patrono. Lo scopo principale dell'iniziativa non è tanto la vendita degli oggetti, quanto quello di dare la possibilità a coloro che stanno compiendo un cammino di riabilitazione di condividere la loro presenza nella vita della città e affermare il loro processo di riscatto sociale. Milano: per inaugurazione Expo la Turandot in diretta a San Vittore, Opera e Bollate Adnkronos, 30 aprile 2015 Del Corno: "Contenti di condividere con i detenuti uno dei momenti più prestigiosi per la città" Filippo Raffaele Del Corno Cultura Politiche della Cultura. Dalla Scala a San Vittore, Opera e Bollate: la Turandot, in scena il 1° maggio al Teatro alla Scala, verrà seguita in diretta dai detenuti della Casa Circondariale di San Vittore e delle Case di Reclusione di Opera e Bollate. L'iniziativa, realizzata grazie alla collaborazione tra l'assessorato alla Cultura del Comune di Milano, la Sottocommissione consiliare Carceri, l'Amministrazione Penitenziaria e le Direzioni degli Istituti di Pena milanesi, consentirà a centinaia di detenute e detenuti di assistere all'opera che segnerà l'inizio dell'Esposizione universale. "Con l'inaugurazione di Expo 2015 - dichiara l'assessore alla Cultura Filippo Del Corno - il mondo punterà gli occhi su Milano. E l'esecuzione della Turandot alla Scala sarà uno dei momenti più prestigiosi. Siamo molto contenti, come peraltro già avviene per la Prima del 7 dicembre, che i detenuti possano condividere questo momento così importante per la nostra città". "La Sottocommissione Carceri che presiedo - aggiunge il consigliere comunale Alessandro Giungi - è stata lieta di contribuire alla realizzazione di questa iniziativa, dando una piccola mano ai soggetti coinvolti e confermando attenzione agli eventi culturali e teatrali che riguardano le tre carceri milanesi". "La proiezione in diretta della Turandot davanti a un pubblico misto di persone detenute, operatori del carcere e ospiti esterni - sottolinea Alessandra Naldi, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Milano - rappresenta un nuovo e importante momento per vedere realizzato ciò che affermiamo da tempo: il carcere è un pezzo di Milano, deve comunicare ed essere permeabile dall'esterno, deve avere una sua centralità in tutti gli eventi importanti che coinvolgono la nostra città. Come succederà la sera del primo maggio e come avverrà nei prossimi mesi con Expo". Presso la Casa Circondariale di San Vittore, anche grazie al contributo dell'Associazione Quartieri Tranquilli, la proiezione avverrà all'interno del panottico del Carcere, alla presenza di circa 160 persone, mentre all'interno del primo raggio sarà possibile visitare un'esposizione di prodotti gastronomici, frutto dell'impegno della popolazione reclusa e di diverse cooperative e associazioni legate al contesto penitenziario. Per quanto riguarda la Casa di Reclusione di Opera, la proiezione si terrà nel Teatro dell'Istituto alla presenza di una parte dei detenuti, di docenti e volontari che prestano il loro servizio ad Opera e di diversi rappresentanti del Terzo Settore. Anche per la Casa di Reclusione di Bollate, la proiezione, aperta a detenute, detenuti, volontari e ospiti esterni, avverrà nel Teatro dell'Istituto. Nuoro: così tra i monti della Barbagia si è realizzato il sogno di Eduard di Luca Fiori La Nuova Sardegna, 30 aprile 2015 Il sogno di Eduard si è realizzato tra i monti della Barbagia. Boschi e distese di verde che passo dopo passo gli ricordano Mlloja Shkoder, la regione dell'Albania di cui è originario suo padre. "Per anni guardavo fuori dalla cella - racconta durante il tragitto - e sognavo di fare un camminata da uomo libero. Non avrei mai pensato che il mio sogno potesse realizzarsi proprio qui in Sardegna". La terza tappa del Cammino della Visitazione, il pellegrinaggio organizzato dal capitolo sardo della Confraternita di San Jacopo di Compostella in collaborazione con la diocesi di Nuoro e l'amministrazione penitenziaria, è stata finalmente baciata dal sole. I pellegrini sono partiti alle 9 del mattino dal monte Gonare (dove hanno trascorso la notte) e alle 14 in punto, con gli zaini in spalla, hanno fatto ingresso a Nuoro sotto gli sguardi stupiti dei passanti. Dopo la pioggia e il freddo di ieri, a Eduard e compagni la giornata di oggi è sembrata un dono del cielo. Eduard, 36 anni di Lezhe in Albania, è uno degli 11 detenuti di Mamone e Badu ‘e Carros che hanno ottenuto un permesso premio di una settimana per partecipare a un progetto già sperimentato con successo in altre regioni d'Italia. "È un'esperienza indimenticabile - spiega Eduard mentre cammina con gli altri pellegrini verso Nuoro - in questi giorni ho incontrato delle persone eccezionali che non dimenticherò mai". Dopo la cena di ieri sera a base di gnocchetti al sugo e pecora bollita, sapientemente cucinati dalle mani di Matteo Pirisi, un pellegrino di Sarule amico della Confraternita, la lunga camminata di oggi è sembrata una passeggiata. I boschi e le valli della Barbagia stamattina a qualche pellegrino più esperto hanno ricordato alcuni tratti del Cammino più famoso: quello per Santiago di Compostela, il tragitto che attraversa diverse regioni della Spagna e si conclude in Galizia. Quello che Eduard, inspirato da quest'esperienza, sogna un giorno di poter percorrere da uomo libero. "Mi piacerebbe andare a piedi a Santiago - dice - e se Dio vuole prima o poi lo farò". Stasera mercoledì 29 alle 19 i pellegrini riceveranno l'abbraccio della città di Nuoro in cattedrale. Alla cerimonia saranno presenti le autorità dell'amministrazione penitenziaria, quelle civili e religiose. Domani giovedì 30 si riprende a camminare: per la quarta tappa i pellegrini sono attesi a San Francesco di Lula. Immigrazione: Presidente Commissione Europea Juncker "sbagliato stop Mare nostrum" di Carlo Lania Il Manifesto, 30 aprile 2015 Juncker: "L'Europa deve fare la sua parte". Approvata risoluzione per smistare i rifugiati. Parlare di un'inversione di rotta è presto, ma le cose forse cominciano a cambiare. E anche se ci sono voluti più di 900 disperati morti affogati al largo delle coste libiche, alla fine l'Europa sembra voler guardare alle tragedie del Mediterraneo con occhi e - si spera - una volontà diversa rispetto al passato. "Chiudere Mare nostrum è stato un grave errore costato vite umane", ha detto ieri il presidente della commissione europea Jean Claude Junker parlando a Strasburgo nella plenaria dedicata dall'europarlamento all'immigrazione. Parole decisamente impensabili solo qualche mese fa e che oggi suonano come un'accusa alle scelte del governo italiano che alla missione della nostra Marina militare ha ostinatamente voluto mettere fine. Ma Junker non ha risparmiato critiche neanche al consiglio europeo, definendo "immediate" ma "insufficienti" le misure adottate la scorsa settimana per far fronte all'emergenza dettata da quanti cercano asilo in Europa. Concetti rafforzati dall'aula con l'approvazione a stragrande maggioranza - 449 sì, 130 no e 93 astenuti - di una risoluzione presentata da socialisti, liberali, popolari e Verdi con cui si chiede alla commissione di avviare una missione di search and rescue, di ricerca e salvataggio dei migranti nel canale di Sicilia finanziata dall'Ue e di mettere mano al regolamento di Dublino III stabilendo delle quote obbligatorie di divisione dei richiedenti asilo tra i 28. Ma anche di allargare il raggio di azione di Frontex, oggi inchiodata sulla linea della 30 miglia marine. "L'Europa deve fare la sua parte con azioni di solidarietà condivisa", ha concluso Junker ricordando come l'Italia sia stata lasciata sola per troppo tempo. La fortezza Europa si sta dunque aprendo? Dirlo oggi è a dir poco prematuro. Sicuramente sia il parlamento che la commissione stanno esercitando il proprio potere per fare pressioni sul consiglio europeo perché si adottino nuove strategie nei confronti dei migranti. E certamente molti dei contenuti espressi ieri finiranno nella nuova agenda sull'immigrazione che il commissario Ue Dimitri Avramopoulos presenterà il prossimo 13 maggio. Ma per ora questo è tutto. Resta infatti da superare lo scoglio più grande, rappresentato dal consiglio europeo in cui trovano voce gli interessi dei governi nazionali e che da sempre si oppongono a una più equa divisione dei richiedenti asilo. Non è a caso ieri il vicepresidente dell'europarlamento Gianni Pittella ha sottolineato come la risoluzione approvata metta la palla nelle loro mani: "Con questo testo - ha detto - il parlamento sfida tutti i paesi membri e li mette di fronte alle loro responsabilità". Va detto che per ora i segnali in arrivo dal consiglio europeo sono tutto meno che incoraggianti. "È necessario lottare contro i trafficanti e distruggere i barconi agendo secondo il diritto internazionale, ma il modo migliore per salvare le vite è fare in modo che quelle persone non salgano mai su quale imbarcazioni", ha spiegato il presidente del consiglio Donald Tusk aprendo il dibattito sull'immigrazione e mettendo subito in chiaro come, per gli Stati, l'importante sia bloccare i migranti alla partenza aiutando "i Paesi di origine a controllare le frontiere". Come si vede due linguaggi completamente opposti. Prosegue intanto la missione di Federica Mogherini alla ricerca di consensi internazionali a un'azione contro gli scafisti. Ieri era all'Onu, a New York, dove ha rivisto il segretario generale Ban Ki-moon con il quale si è incontrata due giorni fa a Roma (e che si è detto contrario sia a un'azione militare in Libia che all'affondamento dei barconi). "Non esiste una bacchetta magica", ha spiegato l'Alto rappresentante per la politica estera dell'Ue. "Le proposte che stiamo elaborando prevedono anche operazioni di polizia" per il contrasto al traffico di esseri umani. Mogherini cerca il consenso dei membri del consiglio di sicurezza (ha già parlato con il ministro degli Esteri russo e oggi sarà in Cina). "Dobbiamo lavorare sulla prevenzione dei viaggi della morte prima ancora che le persone entrino in Libia" ha proseguito, aggiungendo di voler avere, tramite il mediatore dell'Onu Bernardino Leon, contatti diretti anche con le varie fazioni libiche. Droghe: ho in casa 50 piante di marijuana ma nessuno mi arresta… come mai? di Rita Bernardini Il Garantista, 30 aprile 2015 "Mi dichiaro in arresto!", questa è la frase che pronunciò Emma Bonino il giorno che si autoconsegnò alle forze dell'ordine nel lontano 1975. Accadde la domenica del 15 giugno quando era in pieno svolgimento la campagna radicale per la legalizzazione dell'aborto, con i radicali che disobbedivano in ogni parte d'Italia alle norme del codice Rocco sulla integrità della stirpe. Allora il regime, a seguito degli arresti del dott. Conciani, di Spadaccia e di Adele Faccio, avrebbe volentieri fatto a meno di questa quarta carcerazione che rischiava di provocare - e provocò - una valanga di firme in calce al referendum radicale e socialista per la depenalizzazione dell'aborto. Ma di fronte a quella "monella" che inseguiva la polizia per farsi arrestare, nulla potettero le forze dell'ordine anche perché nei confronti di Emma pendeva un bel mandato di cattura. Il regime - e includo in esso, mi si perdoni, anche una parte della magistratura e quasi il 100 per cento dei media - ha via via imparato a neutralizzare le nostre disobbedienze civili facendo finta di niente. Fregandosene della flagranza di reato e del principio costituzionale dell'obbligatorietà dell'azione penale. Ne sa qualcosa Marco Pannella che solo una volta riuscì a farsi arrestare per violazione delle leggi proibizioniste sulla cannabis e che ancora due giorni fa a Radio Carcere ha chiesto di rendere effettiva, in proposito, l'obbligatorietà dell'azione penale. La mia, per esempio, è stata un'escalation: oggi le piante di marijuana che coltivo sul mio terrazzo per donarle ai malati dell'associazione LapianTiamo, sono oltre 50. Si tratta della IV disobbedienza civile in tre anni. Per le precedenti, nulla è accaduto. Come mai? Esiste una sorta di impunità per i radicali? O si tratta, più semplicemente, di una volontà pervicace di metterli a tacere silenziando anche i problemi per i quali si battono come quello del proibizionismo. Se penso che pochi giorni fa mi ragazzo di 25 anni è stato condannato a un anno di reclusione per aver coltivato 4 piantine di marijuana per alleviare il dolore di sua madre gravemente malata, mi viene di dare un consiglio a tutti i coltivatori "domestici": dite che lo fate in adesione alla disobbedienza civile radicale e consegnate alle forze dell'ordine quella parte della relazione 2015 della Direzione Nazionale Antimafia (organo della Procura generale presso la Corte di Cassazione) che si esprime chiarissimamente per la legalizzazione della marijuana, proprio come fanno da quarant'anni i radicali. Indonesia: carceri e corruzione, io ho visto l'inferno di Rosaria Talarico Il Fatto Quotidiano, 30 aprile 2015 Juri Angione ha trascorso sette anni da detenuto: "con la droga fanno affari in molti, la pena capitale non fa giustizia". Ne conosceva 6. Degli 8 fucilati in Indonesia Juri Angione, 35 anni da Orbetello, sei li conosceva bene. Di alcuni di loro era proprio amico, come può esserlo chi per sette anni è stato detenuto nello stesso carcere. Di prigioni indonesiane Juri ne ha cambiate tre da quando fu arrestato nel 2004 all'aeroporto di Bali. Durante un controllo doganale, cuciti all'interno della borsa contenente le sue tavole da surf, trovarono circa cinque chili di cocaina purissima. Secondo le severe leggi indonesiane in materia di traffico di stupefacenti, rischiava anche lui la pena di morte. Dallo scorso giugno è libero: ora racconta al Fatto gli anni trascorsi in tre diverse carceri indonesiane; il primo è Kerobokan sull'isola di Bali a pochi chilometri di distanza dalle spiaggia di Kuta beach, gettonatissima dai surfisti di tutto il mondo. In quella stessa prigione si trovavano i due australiani Andrew Chan e Myuran, Rodrigo. Angione ha una sua interpretazione delle pene capitali per le accuse di traffico di stupefacenti in Indonesia: "Lo fanno per soldi, non perché odiano la droga. Si rivendono i carichi che sequestrano, so anche dove: e se c'è la pena di morte il prezzo sale perché il rischio è più alto". Juri parla dalla Spagna, adesso lavora in un bar a Barcellona dove si è trasferito dopo il rilascio. "La polizia speciale antidroga, la Bnn, va direttamente dal presidente, non gli serve mandato di perquisizione, vanno dritti dove vogliono". Ripensando ai suoi amici Juri dice che prova rabbia "più che altro mi dispiace tanto per loro: erano tutti giovani, sono proprio incazzato con gli indonesiani. Non è come Singapore dove seguono la strada della pena di morte ma sono puliti, non hanno alcuna corruzione. In Indonesia invece ti usano come un burattino per i loro giochi politici". Juri racconta anche della corruzione dilagante in carcere e nei tribunali, in cui l'onestà di un intermediario può decidere della tua vita o della morte, o degli anni che sconterai in galera. Lui stesso è riuscito a scontarne dieci, invece dell'ergastolo, grazie a questo sistema, ovvero la ricerca di un tramite con il tribunale: "Tutti hanno provato la strada che ho preso io, purtroppo alcuni non ce l'hanno fatta. C'è chi si è intascato i soldi andandosene in India con la moglie invece di darli al giudice: un detenuto invece di due anni è stato condannato a dodici, un altro si è fatto sette anni perché la notte prima della consegna del denaro il suo amico è morto per un'overdose di cocaina e viagra e i soldi sono rimasti in banca senza che si potessero prendere. Adesso è libero come me". Il carcere superaffollato di Giacarta è ormai un ricordo, così come quello della jungla in un'isola adibita a galera dove non arrivava niente: unica consolazione, si riusciva a fare il bagno in mare. Fino al massimo della beffa: Juri ha pagato viaggio e albergo alla polizia dell'immigrazione che lo ha scortato dalla prigione all'aeroporto: "Se alla mia liberazione fosse venuto qualcuno dell'ambasciata italiana non si sarebbero permessi di chiederlo". Le reazioni internazionali alla fucilazione avvenuta due giorni fa dei detenuti condannati per traffico di droga sono state molto forti: a parte la condanna di Amnesty International, il primo ministro australiano Tony Abbott - due suoi connazionali sono stati giustiziati - ha annunciato che l'ambasciatore in Indonesia sarà ritirato "per consultazioni". Indonesia: critiche internazionali a Jakarta dopo esecuzione di 8 persone per narcotraffico di Emanuele Giordana Il Manifesto, 30 aprile 2015 Canberra ritira l'ambasciatore. La legge indonesiana punisce allo stesso modo chi traffica e chi consuma. Il giorno dopo l'esecuzione di otto condannati per narcotraffico, una marea di durissime reazioni travolge l'Indonesia della linea dura sulle droghe. Alla mezzanotte di martedì sette stranieri e un indonesiano, tra i nove che aspettavano nel braccio della morte (all'ultimo la filippina Mary Veloso è stata risparmiata), sono andati davanti al plotone di esecuzione. E ieri mattina le loro bare bianche erano già nella terra rossiccia di Cilacap, a Giava. "Noi rispettiamo la sovranità indonesiana ma, deplorando quel che è successo, non possiamo considerarlo un atto qualsiasi", tuona il premier australiano Tony Abbott e ritira l'ambasciatore. È il seguito a una mossa simile da parte di Brasilia ma che, nel caso dell'Australia, ha peso ben maggiore. È il vicino più potente, una pronta cassa se ci sono necessità, un partner economico di primo livello. Abbott si era già fatto ben sentire per il caso di Andrew Chan e Myuran Sukumaran, i due australiani giustiziati sodali della cosiddetta banda "Bali Nine", un gruppo di narcotrafficanti arrestati all'aeroporto di Denpasar nell'aprile del 2005 mentre tentavano di far passare 8,3 chili di "bianca" in rotta per l'Australia. Ce ne sono altri sette della banda nelle galere indonesiane - tutti australiani - ma solo per Andrew e Myuram è stata decisa la pena di morte. Con molti se e molti ma e non solo di carattere umanitario: un loro ex legale ha rivelato di un maneggio di soldi che avrebbe dovuto riservare loro un trattamento di favore. Ma il tribunale si è rifiutato di indagare i magistrati. Con l'Australia i rapporti son così tesi che la corda rischia di spezzarsi. Prima dell'esecuzione la titolare degli Esteri Julie Bishop aveva minacciato, pur senza entrare nei dettagli, "conseguenze", ma proprio ieri il vice presidente Jusuf Kalla ha risposto senza tante cerimonie. Ha ricordato che anche l'Indonesia ha ritirato una volta il suo ambasciatore (nel 2013 per una vicenda di spionaggio) e che a perderci in una crisi tra i due paesi sarebbero gli australiani, che vendono per 1,7 miliardi mentre comprano per soli 547,3 milioni. Un modo assai poco diplomatico di calmare le acque. Joko Widodo, il neo presidente riformista che gode di un largo consenso basato sul suo passato di buon amministratore pubblico, non ha voluto ascoltare né le suppliche di Abbott né le pressioni di Brasilia né l'appello di Ban ki-moon o le polemiche sollevate da Amnesty International. Quanto alla Nigeria, poca audience per i quattro trafficanti che sono evidentemente pesci piccoli. Per non parlare di Zainal Abidin bin Mahmud Badarudin, 50 anni, nazionalità indonesiana, arrestato nel 2000 con in casa 59 chili di erba: tanta roba certo, ma solo marijuana. A difenderlo solo un silenzio ingombrante come quello che ha circondato i nigeriani, corrieri di droghe pesanti. Il problema in Indonesia è proprio che la differenza tra droghe non esiste e, peggio ancora, anziché mirare a ridurre il danno investendo in sanità pubblica, la legge punisce allo stesso modo chi traffica e chi consuma. E quando le leggi sono così dure è facile riempire le galere, diffondere Hiv, arrivare alla pena capitale e rientrare nell'odioso novero dei Paesi che ancora la praticano. Cosa ha spinto Widodo a tenere il punto è una domanda senza risposta: la giustificazione - come ha detto in un'intervista ad Al Jazeera - è che questa è l'unica via per combattere un'emergenza che vede 4,5 milioni di persone in cura per disintossicarsi e un altro milione e mezzo che non è in grado di essere curato. Pugno di ferro dunque e un'indicazione precisa alla magistratura che oggi lo spalleggia come, a esecuzione terminata, ha spiegato il procuratore generale Muhammad Prasetyo: "Lo abbiamo fatto per salvare il paese dal pericolo delle droghe. Non vogliamo inimicizia con le nazioni da cui provengono i trafficanti ma dobbiamo però combattere i crimini che commettono". Ormai però i nemici son tanti: Australia, Brasile, Nigeria e forse anche la Francia. Parigi si sta dando da fare per salvare Serge Atlaoui, condannato a morte per traffico di stupefacenti e che, almeno per questo giro, l'ha scampata. Lo stesso Hollande si è fatto sentire. Mentre la stampa d'oltralpe ricorda che anche Jakarta ha i suoi scheletri nell'armadio, come quando - aprile 2014 - il governo ha pagato 1,7 milioni di euro a una famiglia saudita perché accordasse il perdono a un domestico che aveva ucciso il suo padrone. Ma Widodo in aprile non era ancora in carica: c'era ancora l'ex generale Susilo Bambang Yudhoyono che aveva scelto di cambiare rotta rispetto al precedente governo di Abdurrahman Wahid che aveva invece deciso che il nodo droghe doveva essere trattato come un problema sanitario, non certo criminale. Un brutto passo indietro seguito anche da Joko Widodo. Stati Uniti: la Corte suprema discute su costituzionalità del farmaco per l'iniezione letale di Alessandra Baldini Ansa, 30 aprile 2015 Iniezione letale "alla sbarra" negli Usa: il dibattito su un metodo di esecuzione apparentemente "umano e indolore" ha creato una spaccatura nella Corte Suprema. È la prima volta in quasi un decennio che i tutori della Costituzione rimettono in discussione gli ingranaggi della macchina della "morte di stato". Una scelta obbligata, dopo che esattamente un anno fa un condannato a morte in Oklahoma ha sofferto una orrenda agonia sul lettino del boia. Il verdetto è atteso a giugno. Sul piatto della Corte il ricorso di tre detenuti che dovrebbero essere messi a morte nei prossimi mesi. L'ottavo emendamento della Costituzione americana vieta ogni punizione considerata "inusuale e crudele": i detenuti sostengono invece che atroci sofferenze sono inevitabili quando gli stati sono costretti a improvvisare perché le case farmaceutiche hanno boicottato la pena di morte interrompendo la fornitura di farmaci testati. Senza chiara indicazione su come si pronuncerà Anthony Kennedy, il giudice che usualmente fa da ago della bilancia tra destra e sinistra (secondo il New York Times, ha condiviso lo scetticismo dell'ala pro pena di morte) le due fazioni della Corte hanno preso posizioni divergenti. Il conservatore Sam Alito ha accusato i liberal di "aver montato una guerriglia contro la pena capitale", mentre il collega Antonin Scalia ha accusato il "movimento abolizionista" di pressioni sulle case farmaceutiche per evitare che farmaci più idonei venissero consegnati ai penitenziari con bracci della morte. Tutt'altra aria a sinistra: senza un sedativo adeguato, ha detto la giudice Elena Kagan, il farmaco che causa la morte paralizzando il cuore dà la sensazione di "venir bruciato vivo da dentro". La collega Sonia Sotomayor ha replicato all'avvocato dell'Oklahoma Patrick Wyrick che "non crederà una parola di quanto da lui sostenuto, a meno di verificarlo lei stessa". Il dibattito ha coinciso con l'anniversario dell'esecuzione di Clayton Lockett, la cui lunga agonia sul lettino dell'iniezione attirò un anno fa sugli Stati Uniti l'attenzione del resto del mondo. Lockett aveva impiegato 43 minuti per morire: nel suo caso, proprio a causa del boicottaggio, lo stato aveva usato il midazolam, un sedativo mai testato veramente come anestetico in casi di pena capitale e che anzi, in altre esecuzioni l'anno scorso, in Ohio e Arizona, ha provocato morti prolungate e potenzialmente dolorose. Stati Uniti: la Clinton per riforma giustizia "basta arresti di massa degli afroamericani" Adnkronos, 30 aprile 2015 La candidata presenta a New York le sue proposte per cambiare un sistema che punisce in modo sproporzionato gli afroamericani ed entra nel vivo del dibattito in corso sul rapporto tra le comunità afroamericane e la polizia. Ieri in un tweet ha detto che la morte di Freddie Gray è una tragedia che esige risposte. Da Ferguson a Baltimora, negli Usa l'incubo delle rivolte razziali. Il sistema della giustizia americano ha bisogno di riforme radicali tese soprattutto a "mettere fine all'era dell'incarcerazione di massa" degli afroamericani. Così Hillary Clinton, che oggi presenta alla Columbia University di New York le sue proposte per una riforma, entra nel vivo del dibattito in corso sul rapporto tra le comunità afroamericane, la polizia e in generale gli organismi giudiziari, argomento di drammatica attualità dopo la rivolta di Baltimora e la lunga scia di giovani afroamericani uccisi dalla polizia. Nel suo discorso l'ex segretario di Stato parla della necessità di cambiare un sistema che punisce in modo sproporzionato gli uomini afroamericani, secondo quanto hanno anticipato dalla sua campagna elettorale. Tra i cambiamenti suggeriti l'introduzione di programmi che permettano la libertà vigilata ed i programmi di riabilitazioni per i detenuti tossicodipendenti, maggiori aiuti per i detenuti con problemi psichiatrici e pene alternative per i condannati per reati minori. La riduzione di pene eccessivamente severe, soprattutto per i crimini minori legati alla droga, è quanto mai necessaria soprattutto perché sono i neri più che i bianchi ad essere puniti con sentenze eccessive, come sono loro ad essere presi di mira dalla polizia, dirà ancora la Clinton. Toni ed argomenti che confermano come la candidata democratica stia cercando di ottenere il sostegno dell'ala più liberal del partito - che non è mai stata così entusiasta della sua nuova candidatura - e soprattutto delle minoranze, in primo luogo quella afroamericana. Già ieri su Twitter aveva detto che la morte di Freddie Gray, deceduto il 19 aprile a seguito di una grave lesione alla spina dorsale riportata durante l'arresto, "esige risposte". Ed poi in un altro evento a New York aveva condannato i disordini e le violenze a Baltimora, tornando a parlare della "tragica morte di un altro giovane afroamericano" : "dobbiamo ristabilire l'ordine e la sicurezza, ma dobbiamo anche guardare a quello che dobbiamo fare per riformare il sistema". C'è comunque chi sottolinea come la retorica della Clinton sulla criminalità sia cambiata radicalmente dagli anni 90 quando il marito Bill Clinton nel 1994 firmò la legge che molti considerano all'origine dell'aumento vertiginoso del numero di afroamericani e latinos incarcerati. La stessa ex first lady nella sua precedente corsa per la Casa Bianca nel 2007 lo ammise, ricordando però che allora il tasso di criminalità era molto più alto e questo spinse "il Congresso ad inasprire le pene ed aumentare la costruzione di prigioni". Dal 1980 al 2008 il numero degli incarcerati in America si è quadruplicato, da circa 500mila a 2,3 milioni di persone, un milione dei quali afroamericani che hanno un tasso di incarcerazione sei volte superiore a quello dei bianchi. Insieme agli ispanici formano il 58% della popolazione carceraria, secondo una scheda pubblicata sul sito della Naacp. E negli anni scorsi è stato calcolato che un uomo afroamericano su 3 si può aspettare di finire in prigione nella sua vita, contro le statistiche dei ispanici, uno su sette, e dei bianchi, uno su 17.