Giustizia: toghe e politica, la fine della rissa si chiama garantismo di Anna Rossomando (Commissione Giustizia Pd) Il Garantista, 2 aprile 2015 La chiave per uscire dall'impasse nei rapporti tra giustizia e politica deve essere ricercata in un'autentica cultura delle garanzie e della legalità. Garantismo non vuol dire impunità, ma osservanza del principio di legalità, prima, dopo e durante il processo. Non può esserci il primato della legalità senza regole e garanzie, e il diritto è il limite alla politica intesa come mero potere. Nell'era della velocità con cui i titoli corrono e scorrono non solo sui giornali, ma ancora prima sui circuiti televisivi e sulla rete, ci si interroga su quanto conti, in tema di giustizia, per il legislatore la pressione dell'opinione pubblica che si forma e si esprime in gran parte sui media. Io penso che la politica debba orientare la pubblica opinione piuttosto che seguirne le suggestioni del momento, dare delle risposte ai problemi della vita reale e quotidiana dei cittadini, seguendo i propri principi e ideali. Uno di questi è che la "presunzione di non colpevolezza" deve essere rispettata non solo al momento della pronuncia di una sentenza ma anche e soprattutto durante l'iter processuale. È qui che è chiamato in causa il ruolo dell'informazione e dell'opinione pubblica, che spesso tendono a emettere sentenze ben prima dei tribunali. Se lo slittamento delle sentenze di colpevolezza dalle aule giudiziarie alle pagine dei giornali (sia chiaro, non è in discussione il diritto di cronaca) è fenomeno che non riguarda soltanto l'Italia, da noi è però aggravato dalla lentezza dei processi. Abbiamo giustamente mandato in soffitta la ex Cirielli intervenendo sulla prescrizione, ma la ragionevole durata del processo resta un obiettivo primario. Abbiamo fatto questa e altre riforme perché rispetto agli ultimi 20 anni della storia italiana, segnati dallo scontro tra politica e giustizia e da molte norme manifesto, il clima è cambiato, consentendo di affrontare alcune pressanti riforme, attese da anni. Riforme per "fare" i processi e non per evitarli, per dare efficacia alle decisioni. Penso ad esempio ad alcune prime misure adottate, come la "messa alla prova" o l'archiviazione per tenuità del fatto che mirano a concentrare la risorsa del processo laddove è più necessaria. Penso anche all'auto-riciclaggio, alla modifica del 416 ter e al ddl anticorruzione appena varato dal Senato. E poi la riforma della custodia cautelare (in dirittura d'arrivo, ma qui nessuno conta i giorni per approvarla). Molto resta ancora da fare, per riformare il processo, renderne celeri i tempi, e al contempo preservare le tutele e le garanzie a difesa delle parti, in particolare di quelle più deboli; un'occasione importante sarà il provvedimento che stiamo ora esaminando in commissione Giustizia alla Camera sul processo penale. Nell'insieme, sono riforme strutturali cui corrispondono una visione e scelte precise. E se lo stato della giustizia è lo specchio della condizione di un paese e della sua civiltà, la politica deve saper avere una visione, ascoltare e decidere. Con la sua autonomia e con uno sguardo più lungo di quello della notizia del giorno. Per tornare al rapporto tra politica e giustizia, penso che fin dai tempi di Tangentopoli il dibattito politico sia stato fortemente attraversato dalle vicende legate alla giustizia. La questione principale, oggi ancora oggetto di discussione, riguarda il rapporto tra i poteri dello Stato e il loro equilibrio. Occorre respingere ogni tentativo di sottrarre la politica al controllo di legalità invocando la legittimazione del voto popolare, nonostante vi sia stato chi abbia preteso di essere esente dal controllo del suo operato perché legittimato direttamente dal popolo. Ma questo impone innanzi tutto alla politica di esercitare la sua responsabilità su comportamenti, anche non penalmente rilevanti ma non per questo meno importanti sul piano dell'etica pubblica. Etica pubblica, dunque, e non facili moralismi. Solo così si può, e io penso che si debba, difendere e distinguere lo spazio della necessaria autonomia e discrezionalità degli atti politico-amministrativi. Su queste scelte il controllo è giustamente esercitato democraticamente con il voto. Mentre l'esercizio della giurisdizione deve prescindere dal consenso, assicurando così l'indipendenza e l'autonomia della magistratura a tutela dell'uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, d'altro canto il consenso da solo non consegna alla politica una legittimità senza vincoli, altrimenti si riproporrebbe un conflitto tra democrazia e libertà che era stato già risolto con lo stato di diritto. La chiave dunque per uscire dall'impasse nei rapporti tra giustizia e politica deve essere proprio ricercata in un'autentica cultura delle garanzie e della legalità. Garantismo non vuol dire impunità, ma osservanza del principio di legalità, prima, dopo e durante il processo. Primato della giurisdizione e della politica non possono essere alternativi. Non può esserci il primato della legalità senza regole e garanzie, e il diritto è il limite alla politica intesa come mero potere. Ma qual è il limite alla giurisdizione? Certamente il rispetto del principio di stretta legalità, nel senso di un rigoroso controllo della legalità all'interno dello strumento processuale. Di questo controllo è presidio la cultura delle garanzie. E se la legalità può essere la strategia vincente di una democrazia moderna, le garanzie e il rispetto delle stesse ne sono le condizioni indispensabili per la sua realizzazione. C'è però un altro limite che incontra la giurisdizione, o meglio c'è uno spazio molto ampio che spetta alla politica, nel quale essa motiva la sua autorevolezza e il suo giusto primato. Autonomia nelle scelte quando si scrivono le leggi e quando si amministra la cosa pubblica; qui c'è la responsabilità della politica verso i cittadini. Trasparenza e partecipazione nei processi decisionali, insieme al voto, sono lo strumento di controllo democratico. In un'epoca in cui i luoghi delle decisioni davvero determinanti per i destini delle persone sono sempre più spesso "altri" rispetto alle istituzioni elettive, riaffermare l'autonomia e l'autorevolezza della politica con la P maiuscola, credo non sia banale. Giustizia: stop propaganda forcaiola, ripristinare stato di diritto e diritto a giusto processo di Luigi Amicone Tempi, 2 aprile 2015 Vanno ripristinati lo stato di diritto e il diritto a un giusto processo, la diffusione delle intercettazioni (tutte) va vietata fino al dibattimento. Mentre da Napoli suona la campana per D'Alema, il ministro della Giustizia rassicura il circo mediatico-giudiziario. "Sulle intercettazioni non ci sarà bavaglio". Dall'avanti tutta al "tutta indietro" dopo che un ministro non indagato ha dovuto dimettersi per proteggere i suoi figli dallo stillicidio di origliamenti, "penalmente irrilevanti", ma dai quali si sarebbe dovuto difendere sine die. Perché il governo si rimangia il rimedio a una pratica da regime di colonelli? D'altra parte quando il circo vuole mettersi il bavaglio, il bavaglio se lo mette. Eccome. Tant'è che, eliminato un ministro, fa calare il silenzio (per adesso) sull'inchiesta (la terza) che annunciava la rivelazione di "uno scenario devastante di corruzione sistemica". Eppure nelle redazioni dei giornali ce ne sono a iosa di intercettazioni. Il "testimone attendibile", Giulio Burchi, è uomo Pd. E di uomini Pd (lato minoranza) le carte sono piene di chiacchiere. Non solo. Nelle migliaia di informative e intercettazioni, ci sono cose pesanti. C'è odore di mafia e di massoneria. Altro che le parole di Lupi e duemila euro dietro una libreria, ad oggi unico riscontro alle presunte mazzette versate dalla coppia Incalza-Perotti (in cambio di ben 25 miliardi di lavori pubblici!?). Non saremo noi che, per dispetto, suggeriremo polveroni politicamente orientati. Però, siccome sappiamo che lo sfascismo fondato sul ciclo dei rifiuti si nutre della raccolta differenziata delle intercettazioni. Siccome abbiamo precisa contezza del lavaggio del cervello operato su un'opinione pubblica ormai istruita a pensare di risolvere i problemi con un "sono tutti corrotti, tutti in galera", a Renzi e al suo ministro consigliamo vivamente di non accontentarsi che passi ‘a nuttata. Sono cose molto semplici a farsi e non occorrono grandi rivoluzioni. Si può perfino soprassedere su una inutile (vedete che anche noi abbiamo ripensamenti?) legge di responsabilità civile che nella sostanza nulla cambia della legge precedente. Mentre è indispensabile ripristinare lo Stato di diritto e il diritto a un processo giusto. La pubblicazione delle intercettazioni - tutte le intercettazioni - va vietata fino a che le carte processuali siano in tavola e accusa e difesa si trovino davanti a una corte. Allo stesso modo occorre separare le carriere dei pm, sia da quelle dei giudici sia da quelle dei giornalisti. Terzo, stanno infilando una dietro l'altra leggi che favoriscono i corrotti e la corruzione della giustizia: dalla Severino alla riforma della prescrizione, tutto sembra concepito per mettere sotto minaccia il buon senso e all'ingrasso la propaganda. Lo ha detto Nordio, procuratore che ha fatto pulizia al Mose, "è dal tempo di Tacito che più una Repubblica è corrotta più moltiplica le leggi contro la corruzione". Ora, finché avrà le ambasciate americana e tedesca che gli offrono affetto ed empatia, Renzi starà sereno. Ma è solo questione di tempo. Perché o cambia il sistema della democrazia manomessa, oppure, giocoforza, ce n'è per tutti, il sistema si mangerà anche Renzi e i suoi. Giustizia: pubblicazione delle intercettazioni, una gogna da evitare per gli indagati di Domenico Ciruzzi (Vicepresidente Unione Camere Penali) Il Garantista, 2 aprile 2015 "La gente ha il diritto di sapere". È questa l'affermazione - ingannevole ed in linea con l'ancor più stupido slogan "intercettateci tutti" - sovente utilizzata per giustificare lo scempio delle migliaia di trascrizioni di intercettazioni telefoniche gettate in pasto all'opinione pubblica. La gente ha diritto di sapere, è vero; ma il diritto alla conoscenza - perché sia effettivo - necessità di due pre-condizioni imprescindibili: la pluralità delle fonti informative ed il rispetto delle regole di acquisizione della notizia. La pubblicazione di stralci di intercettazioni telefoniche viola entrambe le precondizioni citate, atteso che privilegia esclusivamente una fonte informativa (quella accusatoria) ed è effettuata in palese violazione delle norme del codice di rito. In questi anni, la violazione del segreto d'indagine, divenuta ormai avvilente consuetudine, rischia di produrre paralleli effetti devastanti, sia sul piano strettamente processuale e sia sotto il profilo politico-sociale: gli elementi raccolti utilizzando le tecniche invasive (intercettazioni, perquisizioni, sequestri...) proprie del processo penale, "tecniche" che costituiscono un'eccezione alle garanzie di libertà del cittadino, e che la Carta Costituzionale "tollera" in via residuale esclusivamente al fine di rinvenire elementi di reità per gravi fatti in danno della collettività, vengono contestualmente propalate dai media. Tale immediata divulgazione produce gli stessi effetti devastanti di una sentenza definitiva in danno di un singolo indagato o di un intero ambiente famigliare o sociale senza alcuna possibilità di contraddittorio e di preventiva verifica giurisdizionale. Nella prassi giudiziaria, il perfetto sinallagma Pm-cronista, può produrre, dunque, anche sorprendenti inversioni di ruoli e funzioni. Attraverso tali repentine inversioni di ruolo, il cronista, "utilizzando" i poteri eccezionali del Pm, a quest'ultimo riservati in via esclusiva e al cronista rigorosamente vietati, riporta sulla stampa fatti anche non penalmente rilevanti attinenti alla sfera privata delle persone, nonostante i molteplici divieti sia generali che specifici. Il meccanismo descritto non soltanto non viene confutato ma sembra essere addirittura teorizzato da giornalisti prestigiosi che hanno sostenuto perfino la necessità di violare le norme del codice penale al fine di smascherare il potente che infrange anche soltanto le regole comportamentali. Sul punto - al fine di evitare ipocrisie che imperversano nel dibattito contemporaneo - occorre evidenziare come il divieto di pubblicare stralci di intercettazioni telefoniche debba valere non soltanto (come è ovvio che sia) per i soggetti non indagati ma ancor di più per i soggetti nei cui confronti si stanno svolgendo le indagini. Ed invero, per entrambi (indagati e non indagati) vige il medesimo diritto alla privacy ed alla reputazione; per le conversazioni dei soggetti indagati vi è, addirittura un quid pluris che impone il divieto di pubblicazione delle intercettazioni: la pubblicazione anzitempo di stralci di conversazioni produrrà effetti fuorviami e mistificatori nella ricerca della verità processuale. Pare in questa sede opportuno evidenziare, sia pure in sintesi, gli effetti accusatori devastanti e sovente fuorvianti che producono le selezioni a senso unico di spezzoni di intercettazioni telefoniche propalate sui media i quali, a loro volta, compiono un'ulteriore selezione che privilegia i dati sensazionalistici e più "allarmanti", in ragione della specificità del linguaggio proprio dei media. Tali selezioni di estrapolazioni di conversazioni intercettate, una volta propalate ed ingigantite dai media, diventano per l'opinione pubblica e sovente per gli stessi soggetti processuali (testimoni, persone informate sui fatti, giudici del riesame...) improprie e fuorvianti "certezze legali privilegiate". Fin quando non si sarà compresa pienamente l'ontologica differenza tra la "pubblicità del processo", costituzionalmente protetta, ed il fuorviante principio della cosiddetta "trasparenza" invocato ed agitato dai media (e da chi processualmente i media usa), continueremo ad assistere impotenti a devastanti inquinamenti probatori, indotti dallo stesso circuito mediatico-giudiziario. La pubblicità del processo consiste nel consentire il "controllo" di ogni snodo processuale, rispettando il ruolo e le competenze di ciascuna parte in causa, avendo fiducia nel meccanismo delle deleghe di specifiche competenze. In tal modo, il cronista eviterebbe il rischio di trasformarsi, da "cane da guardia" delle inchieste giudiziarie, in "cagnolino da salotto" delle Procure. È opportuno precisare, al fine di evitare strumentali fraintendimenti, che non si auspica certamente l'oblio dell'informazione, a cui viceversa occorre sempre fornire adeguata protezione. Ciò che si evidenzia invece - e che dovrebbe essere la "stella polare" della riforma in itinere - è che tale trasparenza informativa deve prodursi rispettando le "regole eccezionali" e necessarie che blindano il processo penale come "percorso protetto" sia pure per un periodo di tempo contenuto, affinché avvenga prima almeno un minimo di contraddittorio, altrimenti vi sarà inevitabilmente "disinformazione". Una parte della storia giudiziaria degli ultimi decenni testimonia che la riduzione delle garanzie e del controllo giurisdizionale in ragione delle emergenze succedutesi nel tempo - terrorismo, criminalità organizzata, criminalità politico-economica, immigrazione, dissenso sociale, inficiando e stravolgendo le regole del giusto processo, causa sovente non soltanto indicibili ed ingiuste sofferenze per il singolo cittadino inquisito ma anche effetti mistificatori sul piano politico-sociale, inducendo la collettività a percepire false rappresentazioni della realtà. Trasparenza, dunque, ma nella sicurezza assoluta che tale delicatissimo percorso, che contempla metodi invasivi consentiti in via eccezionale esclusivamente all'autorità giudiziaria procedente, e non agli organi d'informazione, possa snodarsi senza inquinamenti di sorta. Giustizia: più pubblici ministeri come Nordio, meno come Woodcock di Tiziana Maiolo Il Garantista, 2 aprile 2015 Pubblici ministeri in cerca di pubblicità e di un titolo del telegiornale: andrebbe vietata la pubblicazione dei loro nomi. Se il Parlamento avesse approvato, ai tempi della Prima Repubblica, la proposta di legge del deputato Dc Carlo Casini che vietava la pubblicazione del nome e della foto dei magistrati requirenti, forse il signor John Henry Woodcock oggi farebbe un altro mestiere. E nessuno, neppure il Presidente del consiglio, saprebbe chi sono i signori Raffaele Cantone e Nicola Gratteri. Ma in molti conoscerebbero Carlo Nordio, non tanto nella sua veste di Procuratore aggiunto di Venezia, ma per le sue pubblicazioni di diritto e il suo contributo nella riforma del codice di procedura penale. Il Pubblico Ministero sarebbe riportato nel suo alveo naturale, che è quello di essere un soggetto "impersonale", come tale intercambiabile e impermeabile alla tentazione del selfie quotidiano. Se così stessero le cose, non sarebbe necessario l'allarme che proprio il Procuratore Nordio lancia oggi allo stesso Presidente del consiglio: attento alle intercettazioni, attento a uno strumento che, da mezzo di ricerca della prova, sembra esser diventato una "bastarda" prova in sé. E l'uso che ne viene fatto una vera "porcheria". Fa un decreto legge, lo stuzzica, fallo con coraggio e modifica la situazione, prima che ti si ritorca contro. La vicenda di Massimo D'Alema, che occupa le prime pagine dei giornali e le aperture dei Tg a causa di intercettazioni a strascico in cui viene sillabato il suo nome, dovrebbe essere fonte di preoccupazione, dopo l'analoga vicenda che ha portato alle dimissioni coatte del ministro Lupi. E se domani toccasse proprio a Renzi? Se un perversa nemesi storica si stesse già esercitando, nel rimbalzo dal nemico della sinistra Berlusconi fino al nemico interno alla stessa sinistra D'Alema per arrivare ai vertici dello Stato? Se chi oggi di intercettazioni fruisce non si trovasse domani a perire delle stesse? Succede anche nelle rivoluzioni, e quella francese ne è un esempio plastico, che il metodo usato, il sangue, in genere produca altro sangue, quello degli stessi insorti. Perché non potrebbe capitare anche in piccole cose come il rapporto complice tra un premier e i suoi Pm? Se questo succederà, sarà perché l'amministrazione della giustizia è oggi una sorta di piramide capovolta, con al vertice la dittatura non solo dei magistrati politici, ma anche e soprattutto dei vanitosi, degli incompetenti, dei foto-telegenici, degli inutili spacconi, di quelli che non ne azzeccano una e che in azienda sarebbero licenziati, ma di cui nessun Csm va mai a misurare la produttività, cioè il numero delle cause vinte. Sono i Pubblici Ministeri dell'apparire, la cui attività prevalente pare essere quella di stare seduti in poltrona con il registratore acceso a raccogliere voci a strascico in attesa del nome che ingolosisce. Il nome può essere quello di Silvio Berlusconi o di Tony Renis o Elisabetta Gregoraci, senza differenza alcuna. Tranne nelle conseguenze e nell'uso politico che altri ne possono fare. Quel che conta è la lampada accesa sulle prime pagine dei giornali e i Tg della sera: che tutti sappiano chi è il castigamatti in grado di ripulire l'Italia da tutti questi immorali e corrotti. Quel che conta è solo quel che succede il primo giorno, l'inizio, mai la fine, cioè il processo e la sentenza. Il Maestro dei castigamatti è il Pm Woodcock, che rese famosa nel mondo la città di Potenza, da cui si dipartirono inchieste fondamentali come la "Vip-gate" del 2003 con 78 persone coinvolte, o la "Vallettopoli" del 2006 o il "Somalia gate" ( tutte finite in nulla ), fino al paradosso dell'arresto di Vittorio Emanuele di Savoia, trascinato in ceppi, di notte, dal lago di Como fino alla Basilicata con imputazioni assurde e al quale oggi dobbiamo ripagare il torto subito con un risarcimento per ingiusta detenzione. Per non parlare della "madre di tutte le inchieste per corruzione internazionale", quella condotta da Napoli per le fregate lanciamissili destinate al Brasile e che hanno fatto perdere all'industria italiana una commessa miliardaria. Woodcock è un grande fornaio che sforna intercettazioni a getto continuo. L'ultima su Massimo D'Alema, mentre Gatto Silvestro Renzi si lecca i baffi, ennesima violazione dell'articolo 15 della Costituzione che dovrebbe proteggere l'inviolabilità delle nostre conversazioni, potrebbe diventare però una buccia di banana. O meglio, come dice Carlo Nordio - che ha condotto l'inchiesta sul Mose senza che una sola intercettazione uscisse sui giornali - in una sua nota sul Messaggero, diventare un pericolo per "chi maneggia questo strumento abominevole per alimentare il coccodrillo nella speranza che esso mangi il proprio avversario, senza sapere che alla fine il coccodrillo mangerà anche lui". Giustizia: ecco la riforma del Codice penale tracciata dal pm antimafia Gratteri di Beatrice Borromeo Il Fatto Quotidiano, 2 aprile 2015 È difficile decidere quale sia la proposta che farà innervosire di più i criminali, tra quelle presentate dalla commissione guidata da Nicola Gratteri per modernizzare la giustizia penale. Basti pensare alla modifica della prescrizione che, invertendo la tendenza del passato (leggi "salva- Previti"), non sarà più uno strumento utilizzato per eludere le condanne, dato che smetterà di decorrere dopo la sentenza di primo grado. Non sono da meno l'introduzione del reato di auto-riciclaggio, l'informatizzazione della macchina giudiziaria e la riorganizzazione del sistema penitenziario, che verrà accentrato in un unico "Corpo di Giustizia" alle dipendenze del Guardasigilli. Gli obiettivi della commissione sono ambiziosi: garantire la ragionevole durata dei processi e ripristinare l'effetto deterrente delle pene. Per farlo, la commissione ha schiacciato il tasto "update", partendo da riforme tanto urgenti quanto ovvie eppure mai concretizzate prima. Ecco alcune delle principali novità delle oltre 250 pagine della relazione che, da qualche giorno, è al vaglio del premier Renzi, del sottosegretario Delrio e del ministro della Giustizia Orlando. La prescrizione "non-salva-più-Previti" L'Italia è una Repubblica fondata sulla prescrizione, stando ai dati: negli ultimi dieci anni, spiega il ministero, oltre un milione e mezzo di processi sono finiti nel nulla perché non hanno rispettato i limiti di tempo. La novità più rilevante presentata dalla commissione riguarderà proprio questo istituto: seguendo il modello tedesco, il decorso della prescrizione verrà interrotto "con la formulazione dell'imputazione" (cioè la richiesta di rinvio a giudizio), e cesserà dopo la sentenza di primo grado. A fronte di questa modifica, per tutelare l'imputato, si prevede un "rimedio compensativo non pecuniario" in caso di lentezze eccessive. Ecco come: "In tali ipotesi il processo rappresenta già in sé una sofferenza, che deve essere dunque dedotta - in fase esecutiva - dalla pena ritenuta di giustizia". Il giudice stabilirà l'ammontare dello sconto. Il rimedio è parallelo e alternativo rispetto a quello (pecuniario) già previsto dalla legge Pinto sull'eccessiva durata dei processi, "al quale coerentemente il condannato non avrà la possibilità di accedere". Il decorso della prescrizione viene poi sospeso in vari casi, per esempio "tra la richiesta di autorizzazione a procedere e l'accoglimento della stessa, quando si verifica la sospensione del processo penale per ragioni di impedimento delle parti e dei difensori ovvero su richiesta dell'imputato o del suo difensore". Stop all'auto-riciclaggio dei colletti bianchi Tra i tasselli fondamentali c'è l'introduzione del reato di auto-riciclaggio. Se ne parlava da anni e presto il quinto comma dell'articolo 648 del codice penale potrebbe cambiare così: "Chiunque, dopo aver commesso taluno dei delitti contro la pubblica amministrazione, o che comunque offendono interessi finanziari della Pubblica amministrazione o dell'Unione europea, o delitti in materia tributaria, societaria o fallimentare (...), compie operazioni che determinano la trasformazione, il trasferimento o il reimpiego in attività economiche di denaro, azioni, quote, diritti o valori mobiliari comunque denominati provenienti dai delitti anzidetti, in modo tale da ostacolare l'accertamento della relativa origine delittuosa, è punito con la reclusione fino a 8 anni e con multa da euro 2.000 a euro 10.000". Copie (quasi) solo digitali: è il processo 2.0 L'informatizzazione, giura la commissione, è una delle proposte che avrà l'impatto maggiore sul taglio di costi e tempi del processo. Il rilascio delle copie degli atti, in futuro, avverrà quasi solo su supporto informatico, con il cartaceo che verrà utilizzato solo in casi residuali. Questa modifica, assieme all'introduzione del processo penale telematico, mira anche a far fronte all'endemico della carenza di personale negli uffici giudiziari. Se il giudice cambia le prove restano Si propone poi di modificare il regime di assunzione della prova, per evitare che - come accade oggi - basti il trasferimento o l'impedimento del giudice del dibattimento perché l'intera istruttoria debba essere rinnovata. Con un enorme spreco di tempo e denaro pubblico e un alto rischio di inquinamento delle prove. Proprio questa situazione - sostiene il pool - è una delle "cause fondamentali della dilatazione della durata dei procedimenti". La soluzione è semplice: le prove dichiarative assunte in dibattimento saranno videoregistrate e dunque utilizzabili anche dal successivo giudice che emetterà la sentenza. L'udienza preliminare diventa un super-filtro Perché il giudice decida se accogliere o meno la richiesta di rinvio a giudizio -sostiene la commissione -deve avere accesso a informazioni più complete già durante l'udienza preliminare. Questa fase processuale verrà dunque potenziata, così da incarnare sempre più la sua funzione di filtro. La novità più significativa è la possibilità di assumere le prove, come l'esame in contraddittorio di testimoni e periti, già durante l'udienza preliminare. In sostanza, il giudice avrà più elementi per decidere un eventuale proscioglimento. Ma se dovesse decidere per il rinvio a giudizio, le prove acquisite nell'udienza preliminare entrerebbero automaticamente nel fascicolo del dibattimento, senza inutili ripetizioni. Dopo il rinvio a giudizio, fino a tre giorni prima della data fissata per il dibattimento, le parti potranno presentare memorie per replicare alle richieste di prova degli avversari. L'obiettivo è concentrare la discussione sull'ammissione delle prove nella prima udienza dibattimentale "attraverso il pre-confezionamento dei temi su cui verterà" il contraddittorio delle parti. Un freno ai ricorsi "inammissibili" Uno dei principi più trascurati nella prassi è quello della "immediatezza- concentrazione" dei processi. Gratteri, in attesa di una necessaria riforma più approfondita, propone: 1. Un ampliamento delle decisioni in camera di consiglio (a porte chiuse), in particolare per le contravvenzioni (i reati meno gravi) e i delitti puniti con la sola pena pecuniaria, con l'incentivo del non pagamento delle spese processuali qualora le parti non chiedano di partecipare; 2. La possibilità della "dichiarazione d'inammissibilità" per evitare l'inutile inoltro degli atti al giudice d'appello e di Cassazione; 3. Verrà poi eliminata la facoltà per l'imputato di presentare personalmente ricorso in Cassazione, atto di particolare tecnicità che non appare espressione del diritto di autodifesa dell'indagato, ma costituisce anzi uno dei momenti più qualificanti della difesa tecnica. L'obiettivo è l'abbattimento dei ricorsi alla Suprema Corte (e per evitarne l'uso dilatorio, viene suggerita anche l'introduzione di un'imposta). Sì alle intercettazioni ma pubblicarle è vietato La commissione considera le intercettazioni come "lo strumento investigativo più importante nella lotta alla criminalità", e prevede novità che interessano sia le guardie che i ladri. Da un lato si disciplinano le "intercettazioni epistolari e le intercettazioni di comportamenti tramite ripresa video (...) da effettuare in luoghi riservati o di privata dimora". Quest'ultimo è "uno strumento già legittimato dalla Corte costituzionale", un "mezzo di ricerca della prova atipico, subordinato alla sola autorizzazione del pubblico ministero", mentre la proposta affida la decisione al giudice. Quanto alle intercettazioni epistolari "attraverso cui vi è la possibilità di prendere cognizione del contenuto della corrispondenza in forma clandestina, con il successivo recapito della stessa al destinatario, senza procedere al sequestro", si tratta di "strumento assimilabile a tutti gli effetti alle intercettazioni di comunicazioni orali - diversa è solo la forma con cui si esprimono gli interlocutori - sicché vi è una perfetta conformità alle prescrizioni costituzionali dal punto di vista del difficile bilanciamento fra obbligatorietà dell'azione penale e diritti alla riservatezza". Dall'altro lato, però - e qui le polemiche non mancheranno - ci sarà un notevole potenziamento delle garanzie dell'intercettato, tutelato con una nuova fattispecie di reato: "Pubblicazione arbitraria delle intercettazioni", punito in modo particolarmente severo con la reclusione da due a sei anni e la multa da 2.000 a 10.000 euro. Il divieto rivolto all'autorità giudiziaria è inedito e destinato a incassare consensi bipartisan, anche se potrebbe cozzare con la praticità: "In qualsivoglia richiesta o provvedimento (a eccezione delle sentenze) non può essere inserito il testo integrale delle intercettazioni, a meno che la riproduzione testuale dell'intera comunicazione intercettata non sia rilevante ai fini della prova". La volontà di preservare la privacy degli intercettati riguarda dunque sia giudici e pm sia i cronisti, cui verrà vietata l'illecita divulgazione dei dati raccolti dalle cimici. C'è poi un dettaglio di particolare rilievo. Nella disciplina degli ascolti "è abrogato il riferimento alla attività criminale in corso di svolgimento quale presupposto per l'esecuzione delle intercettazioni (...) in luoghi di privata dimora". La ratio è sottoporre tutte le tipologie di reato al medesimo regime giuridico, dato che già oggi per molti reati gravi, primi fra tutti quelli di criminalità organizzata, il requisito della "consumazione domiciliare" non è richiesto. Più spazio al rito abbreviato e al patteggiamento Non si possono ridurre i tempi dei processi senza incentivare il ricorso ai riti alternativi. La commissione, per favorire l'utilizzo del giudizio abbreviato (nel quale la sentenza arriva in udienza preliminare, con una riduzione della pena di un terzo), mette sul tavolo un aumento dello "sconto di pena" anche per le contravvenzioni (questa via, per i reati minori, è di solito ignorata). Si intende poi dilatare l'arco temporale entro il quale l'imputato può richiedere il patteggiamento: un più ampio "periodo di riflessione" dovrebbe avere effetti favorevoli soprattutto nei maxi-processi alla criminalità organizzata. Si suggerisce poi di ampliare lo spettro dei reati patteggiabili mentre, per il giudizio immediato (in cui si va al dibattimento saltando l'udienza preliminare), si propone di allargare il campo applicativo dell'immediato cautelare anche ai latitanti. La ratio è semplice: se l'imputato sottoposto a misura restrittiva (carcere o domiciliari) ha diritto a un processo celere, deve valere anche per chi si è sottratto alla cattura. Videoconferenza per i mafiosi L'introduzione della videoconferenza nei processi a detenuti in regime di alta sicurezza, "irrinunciabile" per la commissione, permetterebbe (secondo le prime stime) di abbattere tempi e costi del 40-50 per cento con un risparmio per lo Stato circa 70 milioni di euro all'anno. Parteciperanno al processo, come regola, solo in videoconferenza, così da rendere "la gestione dei procedimenti penali più efficiente e spedita, coniugando tale esigenza con quella di evitare continui trasferimenti di imputati detenuti per gravi reati", riducendo così costi e rischi di fuga di detenuti in regime di alta sicurezza. Allo stesso modo, anche ai collaboratori di giustizia verrà permesso di partecipare a distanza, limitando la presenza fisica ai soli casi in cui sia strettamente necessaria. Pene più severe per i reati ambientali Dagli anni Ottanta il traffico illecito di rifiuti è uno dei principali settori in cui le mafie ricavano profitti enormi. Eppure la tutela penale dell'ambiente è ancora del tutto inefficace. Gratteri propone l'aumento delle pene per il traffico; la trasformazione di contravvenzioni in tema di rifiuti in delitti (più gravi); l'introduzione della confisca dei profitti illeciti dei reati ambientali; la previsione di aggravanti specifiche, dell'associazione a delinquere finalizzata alla commissione di tali reati e di pene aggiuntive nei casi in cui l'equilibrio naturale del suolo, delle acque o dell'aria venga compromesso in modo rilevante. Più ampio il ricorso alle intercettazioni, oggi escluse. Colpire clan mafiosi e terroristi transnazionali In materia di criminalità organizzata e terrorismo, la squadra di Gratteri intende intervenire sull'aggravante della transnazionalità (oggi si applica soltanto a uno dei casi che qualificano il reato transnazionale). Operazioni sotto copertura contro corrotti e riciclatori La commissione è intervenuta in materia di operazioni sotto copertura, ritenendo che la crescente professionalità dei colletti bianchi contro e dentro la pubblica amministrazione (unita all'esponenziale lievitazione di questi reati) imponga un massiccio intervento normativo per stare al passo con le tecnologie criminali. L'idea è di estendere la disciplina delle operazioni sotto copertura a un tassativo elenco di reati contro la pubblica amministrazione, e anche ai conseguenti reati di ricettazione, riciclaggio e reimpiego dei relativi proventi. In parallelo, si prevede di allargare la sfera dei soggetti legittimati ad assumere il ruolo di "persona interposta", al fine di permettere all'autorità responsabile dell'investigazione di poter scegliere, fra una platea di professionisti, quelli che più si adattano alla peculiarità del ruolo. Punire il voto di scambio anche senza intimidazioni Oltre a suggerire l'aumento delle pene per molti reati mafiosi, la commissione ha voluto concentrarsi sullo scambio elettorale politico-mafioso. Si propongono due modifiche dell'articolo 416-ter del codice penale, che oggi punisce non il semplice accordo politico-elettorale del candidato, bensì quello in quello in cui il gruppo malavitoso si impegna ad attivarsi nei confronti del corpo elettorale con le modalità intimidatorie. La risposta punitiva dello Stato è necessaria anche negli altri contesti. La commissione intende poi equiparare la pena per la condotta di scambio elettorale politico-mafioso - particolarmente grave - a quella prevista per la partecipazione all'associazione di stampo mafioso. Oggi la pena è "da 4 a 10 anni" e verrebbe sostituita dalla reclusione "non inferiore a 10 anni". Con buona pace dei criminali, che non potranno più nemmeno sperare nella lentezza dei processi. Giustizia: primo sì alla legge anticorruzione, pene più severe e falso in bilancio di Dino Martirano Il Corriere della Sera, 2 aprile 2015 Sul difficile campo del Senato la maggioranza ha vinto (165 voti favorevoli, 74 contrari, 13 astenuti) e ha portato a casa il primo tempo della legge anticorruzione (il testo ora passa alla Camera), che reintroduce il reato di falso in bilancio e inasprisce le pene per la corruzione ma anche per l'associazione mafiosa ("Un passo avanti che aspettavamo da tempo" ha detto l'Anm). Hanno votato a favore Partito democratico, Alleanza Popolare e Sel, contro Forza Italia e Movimento Cinque Stelle, astenuta la Lega. "Abbiamo rischiato e abbiamo vinto", sintetizza il ministro della Giustizia Andrea Orlando (Pd): "Sapevamo che c'erano posizioni diverse e dunque sono molto soddisfatto per un risultato per un traguardo che non era scontato". Raggiante il Guardasigilli, entusiasta il presidente del Consiglio: "Contro il malaffare ce la stiamo mettendo tutta, grazie sentito ai senatori del Pd e degli altri partiti che hanno votato il testo". Poi a Fi e ai grillini: "Fare ostruzionismo e un inganno che forse funziona il tempo di un click". Matteo Renzi ha dunque auspicato che ora la Camera approvi in tempi rapidi il ddl anticorruzione e il Senato la legga sulla prescrizione: "Saremo più che rapidi", ha assicurato Orlando. Eppure, al Senato, il governo ha di nuovo rischiato. In mattinata c'è mancato davvero poco che la maggioranza andasse sotto proprio sulla reintroduzione del reato per il falso in bilancio. Lo scrutinio segreto, le assenze e una generale sottovalutazione del rischio hanno determinato una vera situazione di pericolo quando sono stati posti in votazione gli emendamenti all'articolo 8: quello di Giacomo Caliendo (Fi), che prevedeva più elasticità nelle valutazioni e nelle stime da presentare al giudice per giustificare i bilanci, è stato respinto per un pugno di voti: cinque per l'esattezza. La scena poi si è ripetuta anche sulla votazione dell'articolo su falso in bilancio: approvato per appena quattro voti. In altri tempi sarebbe scattato l'allarme generale. Invece, il massimo conoscitore dei numeri e degli umori del Senato, Paolo Naccarato (Gal), cresciuto alla scuola di Cossiga, dice che "Renzi deve stare sereno perché il Senato non lo tradirà mai: più aumenta il pericolo per il governo, più arrivano truppe di rinforzo per sostenerlo". Nel merito del testo anticorruzione il vice ministro della Giustizia Enrico Costa (Ap) parla di "tassello fondamentale per cementare ulteriormente l'alleanza di governo". Si vedrà quando in aula al Senato arriverà la legge sulla prescrizione che i centristi di Alfano vorrebbero ridimensionare in senso garantista. Ma sul complesso degli interventi in materia di etica pubblica è stato il presidente dei senatori dem a contestualizzare il voto con la "fase" che sta vivendo il Paese: "Questa legge è certamente utile ma da sola non basta davvero. Davanti a un indebolimento dello Stato è necessario ristabilire un ambiente pubblico capace di asciugare l'acqua in cui sguazza la corruzione… Apprendiamo ogni giorno l'esito di nuove inchieste in cui sono coinvolti politici, amministratori - anche del nostro partito - magistrati, uomini delle forze dell'ordine, esponenti della Chiesa. Il bubbone della corruzione ci obbliga a un'analisi di verità. L'imperativo etico di battere la corruzione non può dunque esaurirsi qui". Senza fondi neri la corruzione nuota in cattive acque e questo, ha aggiunto Zanda non senza vis polemica "avrebbe meritato il voto del M5S che invece ascolta i referendum della rete". Andrea Cioffi (M5S), che aveva parlato in precedenza, era già indirizzato su un'altra linea: "C'è un'epidemia di corruzione che non può essere curata con l'aspirina. Ci vuole l'accetta. Metaforicamente parlando, ovviamente". Giustizia: sì del Senato al Ddl anticorruzione, riforma per il falso in bilancio di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 2 aprile 2015 "Ce la stiamo mettendo tutta", esulta, via Facebook, Matteo Renzi, dopo il sì del Senato al pacchetto anticorruzione. "Siamo - prosegue il premier - quelli che hanno affidato a Raffaele Cantone la guida dell'Anac, quelli che con il decreto Madia hanno previsto i commissariamenti per gli appalti pilotati come nel caso dell'Expo e del Mose. Lo avevamo promesso a dicembre, lo ripetiamo sempre, chi ruba paga e restituisce fino all'ultimo centesimo". Infine, una stoccata ai 5 Stelle: "Chi è eletto nel Parlamento, se davvero vuole combattere il malaffare, esercita il proprio ruolo, scrivendo, discutendo, migliorando e infine approvando le leggi che contrastano la corruzione. Fare ostruzionismo e dire sempre di no - avverte il presidente del Consiglio - è un inganno che forse funziona il tempo di un click ma che gli elettori sanno sempre riconoscere". Critiche da parte di Forza Italia che ha votato contro quella che ha definito una "norma propaganda e incostituzionale". Sì da Alleanza popolare che subito ha alzato la posta chiedendo una riforma della giustizia. No, invece, dai grillini. Loro che avevano chiesto - e non ottenuto - il Daspo per politici corrotti e l'introduzione dell'agente provocatore anche per i reati contro la pubblica amministrazione, alla fine, dopo le consultazioni on line, hanno deciso per il no. Nel merito, il disegno di legge, che adesso passa alla Camera, ha un evidente filo conduttore, al netto della revisione strutturale del falso in bilancio: l'aumento generalizzato delle sanzioni per i principali reati contro la pubblica amministrazione. A partire dalla corruzione propria per finire a quella in atti giudiziari, non trascurando l'induzione indebita, il peculato e la corruzione impropria. Ma nel segno di una maggiore severità vanno anche le misure sul licenziamento del pubblico dipendente oggetto di condanna o la sospensione dall'esercizio della professione oppure, ancora, l'allungamento dell'interdizione a contrattare con la pubblica amministrazione. Pene più severe anche per chi commette il reato di associazione mafiosa, si arriva a 26 anni. Per coloro che fanno parte di un'associazione mafiosa formata da tre o più persone la reclusione va da 10 a 15 anni (ora 7-12); da 12 a 18 (ora 9-14) per i promotori, gli organizzatori e coloro che dirigono l'associazione mafiosa; se l'associazione è armata, da 12 a 20 (ora 9- 15); per chi è al comando da 15 a 26 anni (ora 12 - 24). Altro cardine del testo approvato dal Senato è poi l'irrigidimento sulle misure pecuniarie. Due esempi: il patteggiamento viene condizionato al alla avvenuta integrale restituzione del prezzo del reato, mentre, con il giudizio di condanna, per alcuni delitti considerati più gravi, sarà ordinato il pagamento di una somma di denaro di importo pari all'ammontare di quanto ricevuto dal pubblico ufficiale o dall'incaricato di pubblico servizio (figura quest'ultima che adesso viene espressamente innestata anche nella concussione). Come pure si mette un nuovo paletto alla concessione della sospensione condizionale della pena, subordinandola a forme di riparazione pecuniaria a favore dell'amministrazione danneggiata. Dai più impegnati magistrati contro la corruzione e dall'Anm era stato poi sollecitato un intervento premiale a favore dei collaboratori di giustizia. Già previsto nel disegno di legge presentato dall'attuale presiedente del Senato Piero Grasso, lo sconto è stato poi, in Aula, ulteriormente aumentato potendo arrivare adesso da un terzo alla metà della pena prevista. Rafforzate poi le prerogative dell'Autorità anticorruzione, alla quale dovranno, ogni 6 mesi, confluire nuove informazioni fornite dalle stazioni appaltanti e da parte dei pubblici ministeri quando decideranno di esercitare l'azione penale per i reati di corruzione. All'Autorità sono poi affidati, innalzando il tasso di trasparenza, nuovi poteri di controllo sui contratti di appalto sinora secretati. Non è passata poi la proposta di introdurre in maniera specifica l'impiego di agenti provocatori con il compito di azioni sotto copertura per fare emergere l'attività criminale. Sulla prescrizione, infine, il disegno di legge va letto in parallelo con la riforma più generale votata dalla Camera (e adesso al Senato), nella quale si agisce sui termini congelandoli in caso di condanna, ma, per corruzione propria e impropria e in atti giudiziari, è previsto un aumento della metà. Se fossero in vigore entrambi i disegni di legge, la corruzione verrebbe prescritta non prima di 15 anni, come ipotesi base (10 più 5), a fronte degli attuali 12 (8 più 4). Giustizia: ddl anticorruzione, approvato lo spot del "tutti in galera" di Errico Novi Il Garantista, 2 aprile 2015 E i forcaioli dem sono pure delusi: sul falso in bilancio volevano di più, ma i singoli articoli passano a stento. Lo spottone alla fine è fatto. La legge anticorruzione è servita. Con tanto di guarnizione per buongustai: la punibilità totale o quasi per il falso in bilancio. È il vero colpo che passa nell'aula del Senato in un'ultima, convulsa giornata di votazioni sul provvedimento firmato da Grasso. Viene approvata in prima lettura una modifica decisiva all'attuale codice: l'eliminazione delle soglie di non punibilità. E cioè di quei limiti, calcolati sull'esercizio di bilancio e sul patrimonio dell'azienda, che impedivano a un magistrato di mettere nei guai amministratori vittime di stime sbagliate. Al voto finale le cose vanno relativamente lisce: 165 sì, 74 no, 13 astenuti. Con il Pd ci sono Area popolare (quindi anche l'Ncd) e gli altri minori della maggioranza. Forza Italia, insieme con i senatori di Gal, è l'unica a dire no in nome dell'argine all'isteria forcaiola. Il Movimento Cinque Stelle vota contro perché non è ancora abbastanza. La Lega, nel dubbio, si astiene. Nonostante la spinta forcaiola imposta da Renzi al ministro della Giustizia Orlando, e nonostante l'estremismo ultra giustizialista dei fiduciari del premier, Lumia e Casson, che fino all'ultimo propongono emendamenti per far passare un falso in bilancio ancora più severo, la maggioranza stenta parecchio sui singoli articoli. Incidenti che non impediscono al premier di dichiarare con il solito tweet che anche questa è "la volta buona". Ma è emblematico quanto accade su uno dei passaggi chiave del provvedimento, l'articolo 8. Quello che introduce la reclusione da uno a cinque anni "per coloro che commettono il reato di falso in bilancio nelle società non quotate": passa con 124 voti favorevoli, 74 no e 43 astensioni (che a Palazzo Madama valgono come voto contrario). A fronte di una soglia di maggioranza fissata a quota 120, a Forza Italia sarebbero bastati soltanto cinque voti per battere il governo ed evitare la galera a chi compila male un documento contabile. Gli ottimisti renziani come la parlamentare che presiede la Commissione Giustizia nell'altro ramo del Parlamento, Donatella Ferranti, suggeriscono di leggere con attenzione il passaggio che ridefinisce il reato e dicono che colpirà solo gli imbroglioni veri. Pia illusione. L'arma nelle mani dei pm ora come ora è carica e pronta a sparare. Con una pena massima di 5 anni e con le novità introdotte proprio a Montecitorio sulla prescrizione, i responsabili di un'azienda possono stare sotto processo per una posta di bilancio sbagliata anche una decina d'anni. Poi è vero, dopo 5-6-10 anni riusciranno probabilmente a dimostrare che quell'errore non era stato commesso "al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto", per citare l'articolo 8, né "in modo concretamente idoneo ad indurre altri in errore". Ma dopo essere rimasti sotto scacco per anni ed essersi fatti, se non il carcere (che grazie al decreto di giugno fino a 5 anni non scatta) sicuramente un bel po' di domiciliari. Forza Italia coglie la confusione nella maggioranza. Ma non riesce ad approfittarne. Nonostante il gran da fare che si dà Giacomo Caliendo: è lui a proporre un emendamento attenuativo, sempre sul falso in bilancio, che non passa per cinque voti. Anche grazie ad alcuni berlusconiani che spariscono: si tratta, per la cronaca, di Bonfrisco, Cardiello, Fazzone, Floris, Galimberti, Ghedini, Minzolini e Verdini. Non solo dissidenti anti-renziani, dunque: anche uno come Ghedini che, in quanto avvocato, dovrebbe sapere di cosa si sta parlando. Sei e soprattutto Cinque Stelle urlano addirittura al compromesso, all'annacquamento. E questo, in particolare, per la distinzione tra società quotate e quelle che non lo sono, prevista peraltro già ora nel codice civile. Nel caso delle prime le pene per falso contabile vanno da un minimo di 3 a un massimo di 8 anni di carcere. Con un aggravio sulla responsabilità contabile, che vale anche per le aziende minori ma che, per chi è in Borsa, si traduce in sanzioni pecuniarie fino all'equivalente di 600 quote. Nel caso delle società non quotate invece, la pena massima di 5 anni di galera, che comunque non è uno scherzo, evita almeno l'uso delle intercettazioni. Cosa che appunto fa scandalizzare i grillini - ma anche i dem Lumia e Casson. Poi, altro scandalo per i forcaioli, nel caso di "fatti di lieve entità" il massimo viene fissato in 3 anni di carcere (minimo 6 mesi). Aree di non punibilità non ce ne sono. Ma almeno alla lieve entità viene associato il principio della "particolare tenuità del fatto". È applicabile a condizione che il fatturato non superi i 300mila euro, e determina la possibilità per il giudice di archiviare il caso. Salumieri e parrucchieri che cercano di risparmiare sul commercialista sono quasi salvi. Ma i grillini in aula protestano: avrebbero voluto in galera pure loro. Giustizia: torna il reato di Falso in bilancio, sanzioni fino a 8 anni di carcere per le Spa di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 2 aprile 2015 "Non è un mistero che si trattasse di una materia delicata", tira un sospiro di sollievo il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, dopo il voto della mattina. E poi, nel pomeriggio, incassato il via libera al complesso del disegno di legge, è un po' più trionfalista: "Abbiamo rischiato e abbiamo vinto. Sapevamo di correre dei rischi in questo passaggio, ma abbiamo deciso di andare avanti lo stesso". Di certo la riforma del falso in bilancio, messa a punto con grande fatica e dopo lunghe mediazioni, ha rischiato di naufragare sull'ultimo ostacolo e sul caso più spinoso. Ieri mattina, infatti, la norma del disegno di legge che ridisegna il reato per le società non quotate è stata approvata con soli 4 voti di scarto: 124, rispetto ai 121 necessari. Se fosse saltata, a venire compromesso sarebbe stato tutto l'intervento che proprio nell'occhio di riguardo per le medie e piccole imprese trova un punto qualificante. In sintesi, infatti, il disegno di legge prevede una diversa rilevanza penale a seconda delle dimensioni e della quotazione o meno delle società. Con una novità comunque importante: non è più contemplata un'area di totale irrilevanza penale, come avviene tuttora per le violazioni al di sotto delle soglie o di limitata rilevanza penale quando la violazione è sanzionata come contravvenzione. La proposta messa in campo punisce invece sempre, ma con misure diverse, le condotte, a titolo di delitto. Partendo dall'alto, infatti, la sanzione più elevata, sino a 8 anni di carcere (tetto assoluto nell'Unione europea, visto che nel Regno Unito, mercato finanziario non paragonabile certo al nostro, il carcere può scattare fino a un massimo di 7 anni) è riservata al falso in bilancio commesso nelle società quotate. Nessuna chance per sanzioni ridotte o cause di non punibilità. Nel caso delle non quotate invece la disciplina è assai più articolata: la pena base è prevista da un minimo di un anno a un massimo di 5, ma misure ridotte, da 6 mesi a 3 anni, sono previste per fatti di lieve entità, tenuto conto, tra l'altro, delle dimensioni della società e delle modalità della condotta. In linea di massima, poi, le medesime pene ridotte si applicano alle piccolissime società, quelle che stanno al di sotto dei limiti dimensionali previsti dalla Legge fallimentare e, in questo caso, la procedibilità è a querela. Al perimetro delle società non quotate è poi espressamente contemplata l'applicazione della nuovissima causa di non punibilità, in vigore proprio da oggi, per tenuità del fatto (quando l'offesa è lieve e la condotta non abituale). Causa di non punibilità che, nel caso del falso in bilancio, il giudice potrà decidere di applicare tenuto conto espressamente dell'entità del danno provocato a soci, creditori e destinatari della comunicazione sociale. Quanto alla condotta, non è esiste una distinzione rilevante tra quotate e no. Nel caso delle non quotate, la struttura del delitto riguarda la falsa esposizione o l'omissione di fatti materiali rilevanti. In questo modo, fa notare il ministero della Giustizia nella relazione, "l'incriminazione mutua il criterio di selezione dei "fatti materiali", già riportata nell'articolo 2638 Codice civile per il delitto di "Ostacolo all'esercizio delle funzioni dell'autorità pubblica di vigilanza" e ben si inquadra in una fattispecie criminosa riferita a società non quotate la cui dimensione di esercizio non assume il medesimo rilievo e non diffuse tra il pubblico". Nel caso invece delle società quotate la formulazione distingue l'esposizione di "fatti materiali" non rispondenti al vero dall'omissione di "fatti materiali rilevanti", ritenendo che le società quotate nel mercato azionario richiedono una disciplina più rigorosa di formazione di bilancio proprio per la dimensione pubblica rivestita. Ampio poi il ventaglio dei potenziali autori del reato (amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili, sindaci e liquidatori) e potenzialmente indeterminati i documenti nei quali l'esposizione o l'omissione può trovare posti: si fa infatti riferimento ai bilanci e alle relazioni, ma poi si chiude con la nozione di "altre comunicazioni sciali dirette ai soci o al pubblico". Rispetto alla versione attuale del Codice civile, viene cancellata quasi completamente la procedibilità a querela, il riferimento alla necessità del danno per le non quotate, il reato sarà sempre di pericolo, il grave nocumento al risparmio come condizione per l'applicazione della sanzione più elevata alle non quotate. Ma soprattutto vengono cancellate le tanto contestate soglie di rilevanza penale, a favore del recupero di maggiori margini di discrezionalità da parte dell'autorità giudiziaria. Giustizia: la "tenuità del fatto" non garantisce l'indagato di Caterina Malavenda Il Sole 24 Ore, 2 aprile 2015 Il varo del decreto legislativo che introduce la non punibilità di alcuni reati per particolare tenuità del fatto (in vigore da oggi) pone alcuni interrogativi sulle conseguenze, in particolare per l'interessato. Certo, se si tratta di soggetto manifestamente colpevole, la possibilità di evitare una condanna è un risultato apprezzabile, specie se riduce i tempi del processo. E se tale soluzione interverrà all'esito del dibattimento, avrà l'imprimatur di un giudice, all'esito del contraddittorio fra accusa e difesa. Così non è quando il nuovo istituto viene applicato, concluse le indagini preliminari, in base al novellato articolo 411 del Codice di procedura penale, sulla scorta di presupposti che il decreto non individua. Di norma, infatti, quando il Pm non ha raccolto elementi di prova sufficienti per sostenere l'accusa chiede l'archiviazione; se, al contrario, li ha acquisiti, chiede il rinvio a giudizio, previo il deposito degli atti. Sulla scorta dei medesimi elementi, ora potrà richiedere l'archiviazione, ove ritenga che il danno o il pericolo siano esigui e la condotta posta in essere con modalità tali da rendere tenue il fatto per cui sta procedendo. Chiederà, dunque, l'archiviazione ai sensi dell'articolo 131 bis Cp, ma senza aver prima depositato gli atti, che l'indagato conoscerà solo dopo la notifica della richiesta e senza essere intervenuto nella fase di acquisizione degli elementi di prova o aver reso interrogatorio. Pensando di chiedere l'archiviazione per tenuità del fatto, peraltro, è possibile che le indagini non vengano neppure approfondite, se il Pm si è convinto che gli elementi di prova raccolti sarebbero sufficienti per sostenere l'accusa in dibattimento e chiedere l'archiviazione per tenuità del fatto. Quali strumenti ha l'indagato per evitare che il Gip l'accolga, così di fatto sancendo la sua "colpevolezza" e quali le conseguenze, ove il Gip dovesse accoglierla, sono profili che il decreto non affronta in modo soddisfacente. Certo, è previsto che l'indagato, come la persona offesa, possa opporsi alla richiesta di archiviazione, ma la norma prevede solo che, opponendosi, indichi "le ragioni del dissenso rispetto alla richiesta". Ma potrà, per esempio, integrare il materiale probatorio, raccolto solo dall'accusa fino a quel momento, e chiedere al Gip di considerare i nuovi elementi, visto che il Codice dà questo potere solo al Gup e che, ai sensi dell'articolo 127 Cpp, le parti possono depositare solo memorie? Ma se non ritiene di accogliere la richiesta, perché non ravvisa la sussistenza del fatto, neppure in forma tenue, quale provvedimento potrà adottare? E potrà archiviare motu proprio, in difetto di formale richiesta? È improbabile, visto che il novellato articolo 411 Cpp prevede solo che, ove dissenta dal Pm, gli restituisca gli atti, disponendo nuove indagini o l'imputazione coattiva. Invece, se il Gip si convinca della fondatezza della richiesta, l'indagato non potrà far nulla per avere un processo vero e proprio, come accade, ad esempio, ove si opponga al decreto penale di condanna. L'obiezione è scontata, visto che, in questo caso, non di condanna si tratta, bensì di provvedimento di segno opposto, favorevole perché esclude la condanna, per un fatto, però, che si intende accertato, senza le garanzie del dibattimento e senza contraddittorio. La sussistenza del fatto-reato "tenue", dunque, verrà sancita per decreto motivato, non impugnabile, se non in Cassazione e per meri profili formali. E se è vero che le conseguenze di tale provvedimento sono attenuate, posto che esso non fa stato nel giudizio civile per il risarcimento del danno - questa potrebbe essere una buona ragione per l'opposizione della persona offesa - ma è previsto che venga iscritto sul certificato penale dell'indagato, nel quale per il resto vengono annotate solo sentenze passate in giudicato. È, dunque, l'unico provvedimento giudiziario, fra quelli indicati dal Dpr 313/2002, emesso senza le garanzie del processo vero e proprio. Ma, si è obiettato, non costituisce precedente in senso tecnico. Quindi l'annotazione sarebbe priva di effetti diversi da quello di consentire al giudice, che dovesse successivamente processarlo, di accertare se l'interessato abbia già goduto di quella causa di non punibilità. Il casellario giudiziale, infatti, è lo strumento che permette al giudice di formulare giudizi prognostici per l'applicazione delle misure cautelari, per la concessione della condizionale, per la valutazione della recidiva e della personalità del reo ed ora anche per valutare la concedibilità della nuova causa di non punibilità. Tuttavia, il certificato penale (articolo 28 del Dpr 313/2002e Dm dell'11 febbraio 2004), è integralmente accessibile, oltre che all'interessato, anche alle Pa e ai gestori di pubblici servizi, quando è necessario per l'esercizio delle loro funzioni e tale accesso, salvo modifiche normative, permette di conoscere anche le iscrizioni non menzionabili, quindi anche quella relativa al provvedimento, emesso ai sensi dell'articolo 131 bis Cp. E allora, alle già indicate criticità, si aggiunge quella di una indesiderata, ma inevitabile pubblicità, sia pur limitata a precise ipotesi, di un provvedimento irrinunciabile e non impugnabile, in quanto apparentemente del tutto favorevole per l'interessato. Giustizia: propaganda anticorruzione… giornali e tv che spasimano per la gogna facile di Renzo Rosati Il Foglio, 2 aprile 2015 Sul Sole 24 Ore di ieri spiccava un titolone a sei colonne: "Solo 226 i corrotti in carcere". L'incipit: "Non è proprio che le carceri italiane scoppino di detenuti per corruzione…". Che peccato, sarebbe bello se le patrie galere scoppiassero di più di quanto già non facciano. Dunque anche l'organo degli imprenditori si mette un po' al vento manettaro che torna a soffiare, tra procure e grandi media nazionali, proprio mentre passa al Senato la legge anticorruzione. Un mood dal quale aveva pur preso le distanze su alcune parti, tipo invitare a distinguere per il falso in bilancio la "colpa" dal "dolo". D'altra parte SkyTg24 martella gli abbonati con il "counter on air di giorni, ore e minuti" da quando l'allora semplice senatore Pietro Grasso presentò il famoso testo di legge; counter mixato agli spot di "1992", la fiction Sky su Mani pulite. E riecco il sostituto procuratore Henry John Woodcock, quello di Vallettopoli e di Vipgate ("ramo d'indagine di Inail-petrolio", secondo l'intestazione del fascicolo), e con lui le intercettazioni a gogò sul vino di Massimo D'Alema, per ora: ma non si dovevano limitare lo spionaggio telefonico e lo spiattellamento sui giornali? Su questo il 24 Ore infila la testa sotto la sabbia. Eppure su un altro quotidiano, il Giornale, l'ex numero uno di Finmeccanica Giuseppe Orsi racconta i quattro anni da indagato per finanziamenti alla Lega ricavati da una tangente indiana: tutto archiviato dal gip di Busto Arsizio "in quanto l'ipotesi non ha trovato riscontro investigativo". E non è molto lontana l'assoluzione dopo un anno di carcere per Silvio Scaglia, fondatore di Fastweb, per l'ipotizzata connection telefonica con la malavita comune. Né quella in Cassazione di Alfredo Romeo, l'imprenditore di Global Service, dopo 79 giorni a Poggioreale su tre anni chiesti da Luigi De Magistris, fondando sull'inchiesta farlocca la carriera di sindaco di Napoli, mentre si suicidava l'assessore Giorgio Nugnes. Che pensa di Orsi il 24 Ore, che pensava allora dei molti Scaglia, Romeo, Nugnes: li voleva al gabbio? E che pensa della solitaria battaglia di Luigi Manconi, senatore del Pd, che da una vita combatte gli abusi carcerari, tanto a danno dei vip quanto dei poveri cristi e spesso finiti in tragedia senza notizia, che ieri ha votato contro l'innalzamento delle pene ("mera propaganda"), isolato e inevitabilmente tacciato di berlusconismo? Prodigo di utilissimi raffronti con gli altri paesi evoluti - su produttività, privatizzazioni, conti pubblici, tutte cose per le quali vale il famoso appello "Fate presto" - il giornale della Confindustria non sottopone agli stessi test la qualità della nostra giustizia, penale e civile. Eppure la demolizione sempre in Cassazione di quattro gradi di giudizio per il delitto di Perugia (se non vogliamo citare il Rubygate) dicono pure qualcosa. Ma i giornali che propugnarono l'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti ora trovano nuovi filoni di caccia nelle fondazioni che l'hanno sostituito; né scafatissimi cronisti giudiziari battono ciglio se la mafietta di Roma nord tra campi rom e benzinai si trasforma in "Mafia Capitale"; se la raccomandazione sfocia in "disegno corruttivo". Il tutto per finire magari nel nulla. Massì, perfino Renzi purtroppo pare convinto: un Cantone al giorno toglie il medico di torno. Giustizia: anticorruzione, alzare le pene un trucco per alimentare il processo mediatico di Claudio Cerasa Il Foglio, 2 aprile 2015 Il presidente del Consiglio Matteo Renzi, come ha ammesso con trasparenza il prossimo ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio in un libro appena uscito per Marsilio, per il modo in cui riesce a penetrare, usando le parole giuste, non solo nella testa ma anche nella pancia degli elettori, sotto molti aspetti si può considerare un populista puro, e non c'è dubbio che per essere un buon politico, per farsi capire e apprezzare e persino per riformare, sia necessaria oggi una buona dose di sana demagogia. Il populismo di Renzi da un po' di tempo a questa parte si intreccia però con un'altra forma di demagogia che non ci sembra sana, tutt'altro, e che ci pare birichina e persino pericolosa. Potremmo chiamarlo così: il populismo penale. Ormai è un tratto preciso del renzismo di governo e la regola suona più o meno in questo modo: la via migliore per nutrire la pancia affamata dell'elettore indignato - visibilmente provato da un fatto di cronaca che ha turbato le coscienze dell'opinione pubblica - è quella di dare una risposta di origine penale. Ovvero: più pene per tutti. Ieri è successo di nuovo, è successo pochi giorni dopo un altro aumento di pene (quelle relative all'omicidio stradale), è successo con due testi approvati al Senato ed è successo sia per il falso in bilancio sia per la legge anticorruzione, e in entrambi i casi la rivoluzione della maggioranza renziana è stata una e solo una: aumentare le pene. Si potrebbe dire, a voler essere pignoli, che, specie per la corruzione, le pene esistono già, sono anche alte, prevedono da tempo la reclusione fino a 15 anni o 20 anni se vi sono annessi altri reati e che il modo migliore per combattere la corruzione (lo ricordava bene Carlo Nordio, magistrato, ieri sul Messaggero) non è alzare le pene ma combatterla alla radice, snellendo la macchina burocratica. Si potrebbe dire tutto questo e molto altro. Ma il punto importante ci sembra diverso ed è questo: per combattere un reato occorre che sia garantita la certezza della pena e non occorre l'introduzione di nuove sanzioni che, senza certezza della pena, faranno la fine di un palloncino bucato. "Negli ultimi decenni - ha detto con merito Papa Francesco a ottobre 2014 durante un intervento all'Associazione internazionale del diritto penale - si è diffusa la convinzione che attraverso la pena pubblica si possano risolvere i più disparati problemi sociali, come se per le più diverse malattie ci venisse raccomandata la medesima medicina". Per carità: bene impegnarsi contro la corruzione, figuriamoci, ma sarebbe bene farlo senza sottovalutare un aspetto importante: che giocare con il populismo penale è un modo come un altro per offrire cartucce al circuito del processo mediatico. Ne vale la pena? Giustizia: in Gazzetta Ufficiale Regolamento composizione dei Garante diritti dei detenuti Public Policy, 2 aprile 2015 Pubblicato in Gazzetta ufficiale il Regolamento recante la struttura e la composizione dell'ufficio del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. Il regolamento, in attuazione all'articolo 7 del dl 23 dicembre 2013, n. 146, il cosiddetto Svuota-carceri e stabilisce che l'ufficio del Garante avrà sede presso il ministero della Giustizia e si avvarrà di un organico di 25 unità di personale messo a disposizione dallo stesso dicastero. La predisposizione della pianta organica sarà affidata alla valutazione del Garante stesso, di concerto con il guardasigilli e sentite le organizzazioni sindacali. Il Garante definisce gli obiettivi da realizzare e si occuperà del coordinamento con i Garanti territoriali che hanno competenza per tutti i luoghi di privazione della libertà, compresi i Cie e le comunità terapeutiche, e potranno contribuire, attraverso incontri strutturati, sia a individuare gli aspetti sistemici di non funzionamento, sia alla redazione di raccomandazioni da inviare alle relative autorità nazionali o regionali. Il provvedimento entra in vigore il 15 aprile. Giustizia: Relazione del Copasir "nell'operazione cd. Farfalla Sisde e Dap fuorilegge" di Aaron Pettinari e Francesca Mondin www.antimafiaduemila.com, 2 aprile 2015 Il Comitato: "Non esiste perché fallì". Intervento anche su vicenda Flamia. I soggetti coinvolti nell'operazione Farfalla avrebbero agito "sconfinando la legge sui servizi allora vigente, che è stata interpretata "in modo strumentale e arbitrario". Ci sono anche queste dichiarazioni nella relazione del Copasir presentata oggi al Senato sulle operazioni Farfalla e Rientro, le iniziative promosse tra il 2003 ed il 2004 dal Sisde, all'epoca diretto da Mario Mori, e dal Dap, diretto invece da Gianni Tinebra, che avevano il fine di raccogliere informazioni da boss detenuti in regime di carcere duro. Se da una parte viene sottolineato come tale operazioni non avessero portato ad un nulla di fatto, in particolare per l'operazione Farfalla vengono evidenziati alcuni comportamenti impropri. Si legge nel documento che "Pur non rientrando nei compiti di questa indagine, risulta evidente che il Dap ha svolto un ruolo non consono alle sue prerogative e fuori dal perimetro assegnato - ruolo assimilabile a quello di una vera e propria struttura parallela di intelligence - con l'ulteriore aggravante di una carenza professionale di ricerca informativa e di una carenza organizzativa nel rapporto con i fiduciari e con il Sisde". Il Protocollo Farfalla e il rapporto d'amicizia Il documento del Comitato di controllo dei servizi segreti, che ha avviato l'indagine l' 8 ottobre 2014 per poi concluderla il 10 febbraio 2015, passa un bel colpo di spugna su indagini ancora in corso (dallo stesso protocollo Farfalla al caso Flamia), rivisitando anche il lavoro svolto dalla Commissione antimafia (al termine del quale il vice presidente Fava accusò apertamente funzionari dei Servizi di aver mentito sull'inesistenza del Protocollo, ndr) basandosi sulle 21 audizioni effettuate e le 300 pagine di documenti acquisiti tra Ministero, Procure, Dap e Servizi. "Nel corso del 2004 - si legge ancora nella relazione - si programmò e iniziò la cosiddetta operazione Farfalla con l'obiettivo di raccogliere informazioni, tramite il Dap, da detenuti che, sentendosi abbandonati dalle proprie famiglie o dalle organizzazioni criminali di appartenenza, avrebbero potuto manifestare la disponibilità a fornire informazioni di natura fiduciaria subordinata a dei vantaggi anche di natura economica per sè stessi o per i loro parenti. Per svolgere tale compito - prosegue la relazione -, salvo che il soggetto commetta reati, l'intelligence nasconde sempre la fonte fiduciaria; pertanto, il detenuto si sarebbe sentito protetto e nel contempo avrebbe aiutato gli investigatori e la giustizia, senza correre particolari pericoli per sé e per i suoi familiari. Sulla base di elementi conoscitivi acquisiti dai dipendenti del Dap sui comportamenti di alcuni detenuti, furono individuati, di intesa tra Dap e Servizi, otto soggetti di varia estrazione, ristretti in carceri diverse e sottoposti a regime detentivo differenziato, sei dei quali in regime di 41-bis, come potenziali informatori per l'operazione in corso sulla base di atteggiamenti e comportamenti intra-carcerari, comunicazioni epistolari con l'esterno e aggregazione all'interno del carcere. I termini dell'operazione, trattati a voce tra i dirigenti del Sisde e del Dap, furono sintetizzati in un unico appunto datato 24 maggio 2004, in cui si fissarono i criteri, i nominativi e le procedure del rapporto". Nell'appunto, acquisito dal Copasir, i criteri consistono nei seguenti punti: "l'esclusività e riservatezza del rapporto", "l'apprezzamento delle reali potenzialità informative dei detenuti contattati", la previsione del pagamento di "compensi a cura del personale del Servizio, in direzione di soggetti esterni" sulla base della "produzione a ragion veduta", la "canalizzazione istituzionale delle risultanze informative a cura del Servizio" e la pianificazione ed attuazione di adeguata "penetrazione informativa intramuraria, eventualmente supportata da concomitante e concordata azione del Dap", che preveda l'orientamento di pre-individuati fiduciari verso i menzionati contesti di interesse. Inoltre vi è anche un documento, acquisito dalla procura di Palermo che indaga su questi rapporti, in cui figura scritta una lista di nomi dei boss che sarebbero stati avvicinati dopo aver ricevuto una prima "disponibilità di massima a fornire informazioni". In cambio di cosa? Semplice, un "idoneo compenso da definire". E i nomi sono tutti eccellenti. Dal boss di Brancaccio Fifetto Cannella, condannato all'ergastolo per la strage di Via d'Amelio, a Vincenzo Boccafusca, quindi Salvatore Rinella ed il catanese Giuseppe Maria Di Giacomo. Quest'ultimo di recente avrebbe rilasciato alcune dichiarazioni sulla reale identità di Faccia da Mostro. Ma ci sono anche il camorrista Modestino Genovese e lo ‘Ndranghetista Antonino Pelle. "In un altro breve appunto informale - si legge ancora nella relazione, datato 21 luglio 2003, si evidenziano le esigenze del Servizio in relazione all'operazione. Tra queste compare la realizzazione dei contatti con i detenuti ‘al fine di sviluppare autonome e mirate azioni di intelligence, non intaccate da ulteriori interessi da parte di altri organismi". Per il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato in questo modo la polizia penitenziaria, invece di informare la magistratura, avrebbe informato il Sisde. Mori, da parte sua, ha negato questa interpretazione. Ma legge, puntualizza la relazione, stabilisce che notizie di reato "dovevano essere trasmesse comunque all'autorità giudiziaria da parte degli operatori di polizia giudiziaria del Dap, primi ed unici ascoltatori dei detenuti all'interno delle carceri italiane". Secondo quanto raccolto nelle audizioni del Copasir "L'operazione farfalla si sarebbe chiusa per l'infondatezza dei presupposti, per la difficoltà di stabilire un rapporto fiduciario con i carcerati individuati e in particolare per l'impercorribilità di un'operazione caratterizzata da un'attività di contatto intermediata da personale del Dap privo di specifica formazione. Secondo i responsabili dell'epoca, i detenuti Buccafusca, Cannella, Rinella, Genovese, Angelino, Pelle, Di Giacomo e Massaro, gli otto carcerati individuati per l'operazione nel documento del 24 maggio 2004, non sono mai divenuti dei fiduciari del Sisde". Secondo il Copasir se "dal punto di vista giudiziario l'operazione ‘Farfallà non ha condotto ad alcuna condanna (nel documento ci sono riferimenti alla sentenza della Procura di Roma del 13 febbraio 2015 di non luogo a procedere per prescrizione nei confronti del dottor Leopardi e alla mancata acquisizione di nuove prove al processo d'appello Mori-Obinu a Palermo, ndr) né ad altra sanzione, dal lato della vigilanza vanno ricordati la vaghezza e l'accentramento nella figura del Direttore della governance del Servizio e la struttura amicale data dal generale Mori all'operazione. Mori e Obinu, da una parte, Tinebra e Leopardi, dall'altra, erano stati colleghi ed avevano collaborato a Caltanissetta e poi, una volta ritrovatisi a Roma ai vertici del SISDE e del Dap, avevano ricostruito un gruppo di lavoro che operava con modalità di funzionamento che sfuggivano alle norme e che tutt'ora rimangono sconosciute anche a causa dei "non so", "non mi ricordo" e "nulla di scritto". È emerso inoltre che di questa operazione "non vi sarebbe stata alcuna specifica informativa destinata all'Autorità politica pro tempore". I due ministri dell'epoca Giuseppe Pisanu (Interno) e Roberto Castelli (Giustizia), ascoltati dal Comitato, hanno riferito di non essere stati informati, con il primo che ha anche segnalato "all'interno del Dap era stata costituita, a mia totale insaputa, una centrale di ascolto che intercettava i mafiosi". Inoltre, parlando del ruolo di Tinebra a capo del Dap la relazione evidenzia come questi esca oscurato da un secco "non so e non sapevo" e da una frase, riferita in sede di audizione: "Il direttore si deve accontentare di farsi raccontare il succo, dare una delega e sorvegliare che tutto vada bene, e pregando Iddio che tutto vada bene". Secondo il Comitato "Negli anni a seguire - si legge nella relazione finale - vi è stato un erroneo convincimento riguardo l'operazione Farfalla in merito all'esistenza di un segreto di Stato sul carteggio e sugli atti operativi". Non solo. Poiché lo scambio informativo tra Sisde e Dap è avvenuto per la maggior parte tramite comunicazioni date a voce, non codificate e non protocollate non è stato rispettato l'articolo 6 della legge 801 del 1977, secondo cui "Il ministro per l'interno, dal quale il Sisde dipende, ne stabilisce l'ordinamento e ne cura l'attività sulla base delle direttive e delle disposizioni del presidente del Consiglio dei ministri" e ancora "il Sisde è tenuto a comunicare al ministro per l'Interno e al Comitato esecutivo per i Servizi di informazione e sicurezza (Cesis) tutte le informazioni ricevute o comunque in suo possesso, le analisi e le situazioni elaborate". E poi si aggiunge che "l'assenza di riscontri documentali e la gestione poco trasparente dell'attività ha giustificato ricostruzioni e letture dietrologiche di deviazioni, calibrate ad una trattativa tra lo Stato e la criminalità". Operazione Rientro e vicenda Flamia Per il Copasir sia l'operazione Rientro che il caso Flamia sono due operazioni che, almeno per quanto riguarda l'atteggiamento dei Servizi segreti, sono state compiute "nei percorsi della legge". In particolare nelle conclusioni è scritto che per quanto concerne l'operazione "Rientro" "rivelata un insuccesso, fermo restando le valutazioni relative all'operato del Dap, su cui del resto il Comitato non ha specifiche competenze, si può affermare che il personale del Servizi ha agito secondo le regole e applicando correttamente le procedure previste". I dubbi in merito "sono circoscritti all'operato del Dap e del suo dirigente, il dottor Leopardi", mentre "per la parte di competenza del Servizio, può essere considerata una normale operazione con i corretti passaggi e le opportune verifiche". Per la vicenda Flamia si sottolinea come, rispetto alle due precedenti, "si inscrive all'interno di un quadro normativo profondamente mutato, a seguito dell'entrata in vigore della legge n. 124 del 2007, che ha prodotto una disciplina più rigorosa e definita. In tale contesto la collaborazione della fonte fiduciaria ha contribuito alla realizzazione di importanti risultati investigativi nella lotta alla criminalità organizzata. Le risultanze dell'indagine consentono di affermare che, anche in questo caso, il personale dei Servizi abbia agito nel rispetto della normativa di riferimento". Poco importa se lo stesso uomo d'onore di Bagheria, che per anni ha avuto rapporti con i servizi, abbia ammesso di avere ricevuto le visite in carcere di importanti agenti dell'intelligence anche dopo aver deciso di collaborare con la magistratura. Sulla questione il direttore dell'Aisi (che dal 2007 ha preso il posto del Sisde), Arturo Esposito, ha riferito: "Ho letto sui giornali di un finto avvocato che avrebbe contattato il Flamia in carcere. Dovrei pensare a un dipendente che, agendo a titolo personale, sarebbe riuscito a superare i controlli carcerari commettendo un'inspiegabile pazzia. È interesse dell'Agenzia che l'autorità giudiziaria faccia piena luce su questo episodio, certo, come sono, che non possa trattarsi di personale dell'Aisi". Una vicenda che, al di là delle considerazioni del Copasir, resta tutta da chiarire. Giustizia: il Ministro Orlando; su chiusura Opg stop a polemiche e paure ingiustificate Ansa, 2 aprile 2015 "Ringrazio Napolitano per lo stimolo e la costante attenzione che ci ha permesso di arrivare a dei risultati che non sono ancora quello auspicati, perché rimangono molte cose da fare, ma tutti i percorsi cominciano da qualche parte". Lo ha detto il ministro della Giustizia Andrea Orlando, intervenendo a un evento sugli Opg in Senato. "Credo che alla soddisfazione di essere il ministro che ha avviato la chiusura degli Opg si aggiunga una preoccupazione, un rammarico, per una propaganda che si scarica su persone indifese e fatta di polemiche in questo caso ingiustificate", ha aggiunto il Guardasigilli. "Chiedo a tutte le forze politiche - ha proseguito - che quello che dovrebbe essere un dato di orgoglio non si trasformi in un'ennesima polemica, la paura che viene agitata è solo la paura di noi stessi. Altro elemento di rammarico è che non ho sentito abbastanza reazioni a quelle posizioni". "Superare gli Opg è anche un modo per riconciliarci con noi stessi - ha concluso il ministro - e dobbiamo manifestare grande soddisfazione per la cosa in sé e per quanto riguarda la pericolosità e la presenza di rischi per la collettività vorrei ricordare che chi viene dimesso è sottoposto a un'attenta valutazione da parte del medico e a una valutazione sulla cessata pericolosità da parte del magistrato". Grasso: chiusura Opg ripristina diritti umani La chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari consente "di ripristinare diritti umani sinora disattesi", unitamente alla norma che "stabilisce che sia le misure di sicurezza che i ricoveri nelle Rems, le Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza sanitaria, non possano protrarsi oltre il limite massimo fissato per la pena detentiva prevista per il reato commesso". Lo ha affermato il presidente del Senato, Pietro Grasso, intervenendo alla proiezione del film "Il viaggio di Marco cavallo". "Con ciò -ha detto ancora la seconda carica dello Stato, proprio all'indomani dello stop agli Opg- si è inteso abolire i cosiddetti ‘ergastoli bianchì, una realtà inaccettabile per un Paese che si voglia definire civile. Si è voluto porre termine ad una situazione in cui i malati, a differenza dei comuni detenuti, oltre che della libertà, erano privati anche della speranza in un futuro". "Nel corso del tempo, si sono resi sempre più evidenti - ha sottolineato Grasso sempre in riferimento agli Opg - i limiti di questi istituti nell'assolvere alle funzioni ad essi demandate: oltre a quella, appunto, di sicurezza detentiva, la cura, la riabilitazione e il reinserimento delle persone internate. Le carenze negli interventi terapeutici, l'inaudito degrado delle strutture e, in generale, le indegne condizioni di vita dei malati al loro interno - testimoniate anche da un'indagine parlamentare - hanno fatto sì che si avviasse un processo di dismissione degli Opg, definiti luoghi fatiscenti, caratterizzati da condizioni umane e igieniche al limite della decenza e dichiarati illegittimi dalla Corte costituzionale già nel 2003". "Le Rems serviranno a garantire assistenza soltanto ai soggetti dichiarati non dimissibili, dovendosi evitare, però, che si trasformino in mini manicomi regionali. C'è ancora molto da fare perché la sicurezza e la salute delle persone coinvolte siano tutelate in modo concreto ed efficace. Non solo in termini di strutture. È necessario un diverso approccio alla malattia mentale - ha concluso il presidente del Senato - che sposti l'intervento pubblico dall'obiettivo del controllo sociale dei malati di mente alla tutela, alla promozione della salute e alla prevenzione dei disturbi mentali, da una presa in carico limitata al ricovero ospedaliero ad una basata su servizi territoriali di assistenza disponibili ventiquattr'ore su ventiquattro". D'Ambrosio Lettieri (Fi): su Opg sfida ancora tutta da vincere "Prendiamo atto con favore che il Governo ha inteso non prorogare ulteriormente la data di chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari", ma "la vera sfida deve ancora cominciare ed è ancora tutta da vincere" per Luigi d'Ambrosio Lettieri, capogruppo di Forza Italia in Commissione Igiene e Sanità del Senato. "Quello che poteva e doveva essere un new deal - commenta in una nota - rischierebbe di essere solo un titolo senza contenuti, se non si dovesse affrontare la realtà con onestà intellettuale e non si dovesse dire chiaramente che le difficoltà non sono affatto superate, non solo perché le Rems (Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza) non sono disponibili nella maggior parte delle regioni, praticamente inadempienti, ma anche perché c'è una sfida superiore da vincere: la costruzione di un nuovo sistema che implichi una rivoluzione culturale ed etica nell'approccio alla psichiatria giudiziaria, per offrire servizi adeguati che non siano Opg in scala minore". "L'ennesima proroga" alla chiusura dei 6 Opg italiani "sarebbe stata oltremodo indecorosa, come lo era anche lo scorso anno quando il gruppo dei senatori di Fi - ricorda l'esponente azzurro - ha deciso di astenersi sul provvedimento del Governo relativo al terzo rinvio. Allo stop alla proroga si è giunti, come anche lo stesso presidente Grasso ha affermato oggi, grazie alla mobilitazione di tanti che si sono impegnati, dentro e fuori il Parlamento, perché fosse cancellata una vergogna nazionale". Concluse d'Ambrosio Lettieri: "Lo stop al balletto indecente delle proroghe è, dunque, un fatto per cui ci siamo battuti. Ma non è il punto dirimente, neanche un traguardo. C'è ancora molta strada da fare". M5S: chiusura Opg solo sulla carta, siamo in alto mare "Chi dice che a partire da oggi gli Opg sono solo un ricordo, afferma il falso. In diverse regioni italiane le strutture di accoglienza per i detenuti con problemi psichiatrici, le Rems, non ci sono ancora e, come nel caso del Veneto, i progetti per la realizzazione delle strutture sono addirittura in alto mare. La realtà è che, dopo aver rimandato più volte, la chiusura degli Opg è stata scelta una data inadeguata solo per evitare inutilmente il commissariamento". Lo affermano i deputati del Movimento 5 Stelle. "Assistiamo a una propaganda risibile da parte di diversi politici - si legge nella nota - che parlano degli Opg come di un problema ormai risolto. Purtroppo non è così: in assenza di strutture alternative, probabilmente molti di quei detenuti continueranno ad essere ospitati negli Opg e, dunque, riceveranno un'assistenza assolutamente inadeguata. Oggi già c'è chi parla del fatto che, dopo l'uscita dalle Rems, i pazienti ex internati saranno presi in carico dai presidi psichiatrici di zona delle Asl, ma di fronte al fatto che molte Rems non esistono, queste affermazioni sono di facciata e propagandistiche". "Sul fronte della sicurezza - concludono i deputati pentastellati - dobbiamo infine segnalare come desti più di una preoccupazione la posizione degli operatori sanitari, i quali operano e opereranno nelle Rems, direttamente a contatto con soggetti dichiarati pericolosi. Una situazione molto delicata, questa, che è stata sottolineata già nei mesi precedenti da associazioni ed esperti del settore". Giustizia: gli agenti penitenziari devono pagarsi pure la branda di Claudia Osmetti Libero, 2 aprile 2015 Pagare per poter svolgere (al meglio) il proprio lavoro. Gli agenti di Polizia penitenziaria devono corrispondere agli istituti carcerari nei quali prestano servizio una somma mensile per poter usufruire degli alloggi all'interno delle caserme. Il motivo? Essere sempre reperibili, in tempi brevi, qualora sia necessario . Intendiamoci, un canone non esorbitante, circa 40 euro al mese (la cifra esatta dipende dalla metratura). Ma tant'è: sui secondini grava anche questo onere. Economico. Certo, non tutti sono tenuti a metter mano al portafoglio. I più fortunati, quelli cioè che lavorano poco distante dalla propria casa, possono evitare di pagare l'alloggio dentro il carcere. Ma gli altri - la maggioranza - che prestano servizio spesso in regioni distanti da quelle di origine, finiscono per farlo. Al punto che Rino Raguso, vice segretario dell'Osapp, sindacato della polizia penitenziaria, la definisce "obbligatorietà di fatto". La misura è stata inserita in una circolare del ministero della Giustizia del febbraio scorso: la concessione ha durata quadriennale ed è rinnovabile allo scadere per altri quattro anni. Un contratto d'affitto in piena regola, insomma, come quelli privati. Con la sola particolarità che riguarda alloggi dentro le carceri. E vale solo per gli agenti. In servizio. Il documento targato via Arenula si rifà alla legge sugli alloggi del 2006 (decreto numero 314, per la precisione) e a dirla tutta è un documento che tra gli addetti ai lavori circola con scadenza ciclica. Da una manciata di mesi, però, le varie amministrazioni penitenziare hanno iniziato a batter cassa. Autonomamente. Già, perché titolari di questo diritto di riscossione sono proprio gli istituti carcerari. Così è successo che l'interpretazione della circolare non è stata ovunque conforme, e le diverse strutture hanno applicato la norma con scadenze differenti. In alcuni casi sono stati chiesti addirittura gli arretrati, con la scusa che la norma d'appoggio risale a 9 anni fa. Prigione che vai, fattura che trovi. Qualche esempio? Nella sola Lombardia non ci sono due carceri con lo stesso regime. La casa di reclusione di Vernano (Brescia) ha presentato il conto a partire dal 2007, quindi mettendo in nota anche gli anni passati. A San Vittore (Milano) il canone d'affitto casermato è datato 2014, mentre al carcere di Opera (sempre nel milanese) è scattato solo a gennaio di quest'anno. Ma ancora: a Bollate (in provincia di Monza e Brianza) si inizia a far cassa dal febbraio 2015, alla casa circondariale di Vigevano dal novembre dell'anno scorso. E dire che gli alloggi in questione "non sempre sono in condizioni ottimali di vivibilità", rimarca Raguso. Spesso "sui muri sono presenti muffe, perdite d'acqua e umidità". Ma poco importa: anche in quei casi le amministrazioni penitenziarie pretendono il pagamento. "Non sarebbe previsto, ma viene richiesto lo stesso". Come a dire: tutto fa cassa. Giustizia: l'ex magistrato Edoardo Mori "le indagini in Italia non le sa fare più nessuno" di Lanfranco Caminiti Il Garantista, 2 aprile 2015 Edoardo Mori, magistrato in pensione dopo essere stato prima giudice istruttore, poi gip e infine al tribunale della libertà e che adesso gestisce il sito earmi.it dove raccoglie, fra l'altro, errori e orrori delle indagini scientifiche, dice: "I pm che chiedono una perizia alla Scientifica o al Ris sono come quelli che sulla salute di un congiunto chiedono informazioni al portantino". Marco Morin, fra i maggiori esperti mondiali di balistica: "A volte sono più fondate le ipotesi investigative elaborate dai poliziotti della Digos delle perizie prodotte dai loro colleghi della Scientifica". Giuseppe Fortuni, docente di Medicina legale a Bologna con quattro decenni di esperienza sul campo: "Nonostante tutte le tecniche scientifiche d'indagine si trovano meno colpevoli di prima". Già. Il clamore suscitato dalla sentenza di assoluzione di Amanda e Raffaele non è solo un risvolto della canea giustizialista che vuole il sangue, a ogni costo. È, piuttosto, lo sgomento di lasciare impunito un delitto, di lasciare una vittima senza una qualche giustizia. È una sconfitta dell'accusa, più che una vittoria della difesa, e la differenza non è da poco: non sono innocenti, sono non condannabili. I giudici dichiarano che sulla base delle prove raccolte non sono in grado di accertare una verità. Ovviamente, hanno fatto bene, in questo caso, a scegliere di non condannare senza la certezza di un giudizio. E hanno fatto male a chiudere ogni possibilità di revisione del processo. Per deciderlo, tutto dev'essere ormai così compromesso da non lasciare speranza di accertare alcunché. Come è stato possibile che in otto anni di processi nessuno si fosse reso conto che le prove valevano meno di niente? Viene da pensare, a esempio, che la condanna di Alberto Stasi - anche lui in un'altalena di sentenze - per l'omicidio di Chiara Poggi sia basato su una raccolta di prove ancora più labili di quelle che non sono bastate a condannare Amanda e Raffaele. Viene da pensare che le polemiche su Bossetti e il caso Yara siano ben più che un pregiudizio innocentista o anti-magistratura. Viene da pensare che l'aleatorietà del giudizio - "la Cassazione che smentisce se stessa", come è stato detto per Knox e Sollecito - dipenda troppo dalla casualità del giudice cui sei affidato. Dai caratteri del giudice cui sei affidato. Questa però non è la perfettibilità umana dell'indagare e del giudicare. Questo è un pasticcio. L'abilità e la competenza giuridica, la capacità e l'acume di un avvocato come di un pubblico ministero fanno certo la differenza: questo è il principio per cui si dovrebbe garantire a ogni cittadino di avere un'adeguata difesa e non consentirla solo a chi può permettersi di pagare i principi del Foro e i migliori periti. Ci eravamo convinti però - ci avevano convinti però - col nuovo processo e il dibattimento e queste cose qua che tutta la giurisprudenza del mondo, tutta la sapienza giuridica venisse sempre più ancorata al rigore della prova scientifica. Che non fossimo ancora al tempo del processo Bebawi, quando marito e moglie si accusarono l'uno contro l'altra di avere ucciso l'amante di lei e la giuria incapace di dire chi fosse stato davvero il colpevole - se lui, lei o insieme - li mandò assolti entrambi. Due colpevoli di troppo - scrisse Oriana Fallaci. Non ce la bevevamo più, pensavamo. Due colpevoli di troppo sono diventati pure Amanda e Raffaele - uno c'è, è Rudy Guede, nella nuova figura di reato del "concorso da solo". Un colpevole basta e avanza, evidentemente. Non c'entra niente l'abbuffata di telefilm e fiction in cui le squadre dei forensic, la polizia scientifica, con un capello ritrovato in un sifone di lavello o una scheggia d'un faro d'automobile, risalgono all'assassino e al complotto che sta preparando una strage. Fiction, certo. C'entra solo che dalla fisiognomica di Lombroso, che pure nella sua orribile deformazione puntava a rendere scientifica la criminologia, pensavamo di avere fatto dei passi avanti nella tecnologia e nelle tecniche, nell'analisi di una scena del crimine, nella raccolta delle prove. Invece, così non è. Le figure chiave nella soluzione dei delitti rimangono il pentito e l'intercettazione. Ma pentito e intercettazione sono figure ricorrenti nelle associazioni criminali, non nei delitti "qualunque". Pentito e intercettazione sono elementi "passivi" di un'indagine, e non a caso estremamente problematici. Il pentito confessa le cose più turpi, che servono all'indagine del magistrato, per i suoi scopi, che possono essere una pena ridotta, un cambio di identità, la distruzione di un clan nemico, una qualche vendetta. L'intercettazione, a parte tutte le questioni legate alla loro legittimità e ai loro abusi, ha limiti evidenti: si conversa, si cazzeggia, uno può ingigantire una cosa, per mille motivi, per darsi peso, per pavoneggiarsi, per incutere timore o rispetto, oppure minimizzarli, uno può dire una cosa solo per vedere l'effetto che fa sull'interlocutore, e così via. L'intercettazione non prova un bel niente, proprio come un pentito non prova un bel niente. Non sono fatti inoppugnabili, incontrovertibili, anzi sono sempre reversibili. Nella lotta alle cosche e ai clan, spesso possono consentire chiavi di lettura, possono servire a incrociare dati, a sovrapporre cose apparentemente lontane, proprio perché ci si trova di fronte fenomeni complessi e segreti. Non è così per gli omicidi. Il carattere "passivo" degli elementi-chiave di questi anni - intercettazioni e pentiti - ha finito col produrre una sorta di pigrizia intellettuale nelle indagini, una sorta di "pigrizia investigativa". Se si ripercorrono alcuni dei casi più clamorosi e controversi della cronaca "nera" di questi anni, si rimane sconcertati dalla mole di errori nelle indagini. Ora sembra che il Dna risolva tutto, e investigatori e giudici si siano "impigriti", convinti di avere in mano lo strumento risolutivo. Il Dna è uno straordinario strumento di indagine, ma solo se si seguono rigorose metodologie, dal primo istante delle indagini; se gli investigatori scientifici arrivano dopo altri, si è già creato un inquinamento della scena del crimine, spesso non più controllabile. A esempio, nel caso Anna Maria Franzoni e del delitto di Cogne si susseguirono oltre venti sopralluoghi nella casa del delitto ma solo dopo che per casa c'era stato un gran viavai di persone. Ancora nel caso di Cogne, le indagini non hanno mai portato al ritrovamento dell'arma del delitto. Si è ipotizzato che si trattasse di un mestolo di rame, di una piccozza da montagna, di un pentolino del tipo usato per bollire il latte o di altri oggetti, ma non è mai stata raggiunta alcuna certezza. L'arma del delitto, malgrado le approfondite ricerche non è mai stata trovata. Il professor Carlo Torre, cui era stata affidata inizialmente dalla famiglia Lorenzi la consulenza medico-legale passò diversi giorni nel laboratorio dell'Istituto di Anatomia di Torino per studiare i diversi modi in cui gli schizzi di sangue avessero potuto macchiare il pigiama azzurro ritrovato sul letto del piccolo Samuele. Per concludere, che - contrariamente a quanto sostenuto nelle indagini, che ipotizzavano se lo fosse sfilato dopo il delitto - l'assassino non poteva indossare quel pigiama macchiato di sangue. Per un motivo molto semplice: se quell'indumento fosse stato indossato da chi ha ucciso il bimbo di Cogne sarebbe stato sì sporco di sangue ma le tracce ematiche si sarebbero deformate nel momento in cui fosse stato sfilato. E così non era. Nel caso di Marta Russo i laboratori della polizia avevano scambiato una particella di ferodo di freni, ampiamente diffuse nell'aria di Roma, per un residuo di sparo e su di esso avevano costruito tutta la tesi accusatoria. Per non parlare della traiettoria del proiettile ricostruita sulla base di un solo punto e che, guarda caso, passava proprio per dove era stato trovato il residuo fasullo. Il 7 agosto 1990 in via Poma viene ritrovato il corpo di Simonetta Cesaroni. È stata immobilizzata a terra, qualcuno si è messo in ginocchio sopra di lei e l'ha colpita con un oggetto o le ha battuto la testa contro il pavimento facendola svenire. Poi, l'assassino ha preso un tagliacarte e ha iniziato a pugnalarla a ripetizione. Simonetta viene lasciata nuda, con il reggiseno allacciato, ma calato verso il basso, con i seni scoperti. Su uno dei capezzoli c'è una ferita che sembra un morso. Non vengono analizzati eventuali ritrovamenti di saliva attorno al capezzolo, posto che quella escoriazione sia dovuta a un morso. Dopo Pietrino Vanacore, portiere del palazzo, e Federico Valle, nipote di uno dei residenti, nel 2007, l'ex-fidanzato di Simonetta, Raniero Busco, viene formalmente indagato. Sono passati diciassette anni dal delitto. Nel 2009 il pubblico ministero chiede il rinvio a giudizio di Busco. Il giudice decide di ascoltare i cinque consulenti che hanno eseguito la perizia sull'arcata dentaria di Busco e il confronto tra l'arcata dentaria dell'imputato e il morso al capezzolo del seno sinistro di Simonetta Cesaroni. Viene anche convocato il consulente tecnico di Raniero Busco. I cinque periti del pubblico ministero - tra i quali un capitano del Ris - espongono i risultati della loro analisi sull'arcata dentaria di Raniero Busco e dimostrano, anche attraverso prove fotografiche, la perfetta compatibilità tra i segni del morso sul capezzolo del seno sinistro di Simonetta Cesaroni e i denti dell'imputato. Il giudice ascolta anche la relazione del consulente nominato dalla difesa di Busco, che ritiene la lesione sul capezzolo della vittima come compatibile solo con l'azione di un morso laterale per il quale non è possibile giungere a alcuna attribuzione; evidenzia pure che le incisioni dentali di Busco, se di morso si tratta, sarebbero state completamente differenti, escludendo quindi che sia lui l'autore della lesione sul capezzolo. Il giudice accoglie la richiesta del pubblico ministero e rinvia a giudizio Raniero Busco. A gennaio 2011, al termine del processo di primo grado, Raniero Busco viene riconosciuto colpevole dell'omicidio di Simonetta Cesaroni e condannato a 24 anni di reclusione. A aprile 2012, al termine del processo di secondo grado, Busco viene assolto dall'accusa del delitto Cesaroni per non aver commesso il fatto. La Procura ricorre in Cassazione e nel febbraio 2014 Busco viene definitivamente assolto. Morso, tracce di Dna, sangue mischiato, perizie sballate, tutto un pasticcio. Il delitto resta senza colpevoli; Simonetta rimane senza giustizia. Garlasco: nel settembre 2007 viene inviata alla procura di Vigevano una "relazione preliminare" che contiene l'accertamento sui pedali di una bicicletta di Alberto Stasi: è stato individuato un profilo genetico riconducibile, al di là di ogni ragionevole dubbio, alla vittima, secondo il Ris di Parma. Su quei pedali c'è il sangue di Chiara Poggi. Se ne convince anche il Pubblico Ministero incaricato dell'indagine, che, sulla base di quella relazione, dispone il fermo di Stasi. È il 24 settembre del 2007, quaranta giorni dopo il delitto. Il giorno seguente, il reparto scientifico dell'Arma manda una "nota tecnica" sugli esami del giorno prima: i risultati sono stati comunicati "senza procedere a ulteriori accertamenti". Un giorno dopo la consegna della relazione tecnica la posizione del Ris si fa più sfumata: il profilo genetico relativo alla vittima è solo "con elevata probabilità riconducibile a sangue". Passano altri due giorni e il 27 settembre il consulente tecnico della difesa di Stasi invia le sue osservazioni alla Procura: le analisi del Ris non dimostrano la presenza di emoglobina, quindi non si può parlare di sangue. Il gip considera "insufficienti" gli indizi raccolti e scarcera Stasi. Come si sa, i vari processi hanno poi finito per condannare definitivamente Stasi, e la bicicletta e i suoi pedali - forse non quella, forse non quelli - sono risultati poi determinanti. Più sconcertante era stato il fatto che una settimana dopo il delitto la salma di Chiara Poggi fosse stata inaspettatamente riesumata. I tecnici della scientifica devono obbligatoriamente prendere le impronte digitali sul cadavere per effettuare l'esclusione con quelle raccolte sulla scena del crimine. Era però successo che nei momenti immediatamente successivi alla scoperta del delitto nessuno lo aveva fatto. E parliamo adesso di uno dei casi più recenti e ancora aperti, l'uccisione di Yara Gambirasio e l'accusa nei confronti di Massimo Bossetti. Il Dna che ha portato in carcere Bossetti è stato estratto dal Ris da una traccia mista scoperta sugli slip di Yara. È una traccia mista, perciò va separata: da una parte Yara, dall'altra Ignoto 1. Gli esperti stimano che quella traccia sia composta per quattro quinti dal materiale biologico (forse sangue) di Ignoto 1 e solo per un quinto dal sangue di Yara. Succede però che il perito nominato dal pubblico ministero scopre e certifica che le proporzioni sono invertite: quella traccia sono per quattro quinti di Yara e solo per un quinto di Ignoto 1. Forse non cambia nulla per Bossetti. Il Ris ha proceduto con l'estrazione del Dna nucleare, quello che individua con la massima precisione solo un individuo nel mondo e quel Dna nucleare, estratto dagli slip di Yara, combacia con quello di Massimo Bossetti. È lui Ignoto 1. Viene però esaminato e riesaminato il Dna mitocondriale, quello cioè che trasmette all'individuo le informazioni genetiche da parte materna. E qui, misteriosamente, Bossetti scompare. Anzi, compare proprio un'altra persona, mai individuata. Chi è? Il problema vero è un'altra scoperta del perito del pubblico ministero: l'originaria traccia di Dna nucleare che ha portato all'identificazione di Massimo Bossetti sembra esaurita. Quindi, posto che Bossetti non compare nel Dna mitocondriale estratto dalla traccia degli slip, resta in piedi la prova del Dna nucleare. Se si volesse ripeterla in sede processuale non sarebbe però piùpossibile. E questo, per Bossetti, può cambiare le cose. Non sono un esperto di giudiziaria, non ho mai letto una sola carta processuale dei casi riportati, e mi sono limitato a riprodurre quanto spulciato nelle cronache, il che andrebbe di sicuro tarato. Peraltro qui non si vuole dare la croce addosso a nessuno. Ci sono stati tanti casi in cui le perizie sono state determinanti per accertare la verità. Basta però qui riportare le parole dell'ex generale Luciano Garofano, a lungo responsabile del Ris di Parma, e "volto noto" di tante trasmissioni televisive: "La polizia giudiziaria ha fatto passi di gigante nella tecnica del sopralluogo e negli esami di laboratorio ma molto resta da fare. Sulla scena del crimine dovrebbero andare solo specialisti puri che non abbiamo". Suona come una responsabile constatazione, piuttosto che una voce dal sen fuggita. E allora perché non li rifondiamo questi laboratori, perché non li formiamo meglio questi esperti, questi tecnici, questi periti? Perché consideriamo ogni perizia come fosse una pistola fumante e non qualcosa che va analizzato, considerato, soppesato, riscontrato attraverso altri mezzi di investigazione? Perché si è talmente impigrita l'indagine, affidandosi esclusivamente a elementi tecnici la cui ponderabilità è quasi sempre controversa? Cosa fanno i pubblici ministeri, i passacarte dei laboratori scientifici? Cosa fanno i pubblici ministeri, per sapere della salute di un congiunto chiedono informazioni al portantino? Io credo sia questo il vero problema. La sentenza Knox-Sollecito a me non dà alcun sollievo: qualcuno deve dare conto a Meredith Kercher. Giustizia: caso Aldrovandi; Carlo Giovanardi può essere processato. L'ok del Senato di Eleonora Martini Il Manifesto, 2 aprile 2015 "Quella foto che ha fatto vedere la madre è una foto terribile, ma quella macchia rossa dietro è un cuscino. Gli avevano appoggiato la testa su un cuscino. Non è sangue, ma neanche la madre ha detto che è sangue e neanche lo può dire, perché non è così". Parole sprezzanti riguardanti la fotografia del cadavere del povero Federico Aldrovandi disteso su un lettino dell'obitorio che molti lettori del manifesto ricorderanno, pronunciate nel marzo 2013 ai microfoni di Radio 24, da Carlo Giovanardi. Una frase che - così ha deciso ieri la Giunta per le Immunità di Palazzo Madama di cui lo stesso Giovanardi fa parte - non ha nulla a che vedere con le attività parlamentari dell'allora senatore Pdl, ma è stata declamata in diretta radiofonica in un botta e risposta con il conduttore de "La zanzara", Giuseppe Cruciani, in qualità di semplice cittadino. Perciò come tale può essere sottoposto a giudizio. Di qui il voto favorevole - espresso dai membri della Giunta del Pd, di Sel e del M5S con l'opposizione di Forza Italia, Gal, Ncd e Lega - all'autorizzazione a procedere richiesta dai giudici di Ferrara nei confronti del senatore Ncd-Ap, accusato di diffamazione aggravata dalla signora Patrizia Moretti, la madre del diciottenne morto nel 2005 a seguito delle percosse subite durante l'arresto per le quali sono stati condannati in via definitiva quattro poliziotti. A quegli agenti, obbligati per altro la settimana scorsa dalla Corte dei conti a risarcire lo Stato pagando una somma complessiva che supera i 560 mila euro, andò la solidarietà non solo del senatore che a questo punto - se il voto verrà confermato dall'Aula di palazzo Madama - dovrà rispondere in dibattimento delle sue parole, ma anche di un sindacato di polizia che organizzò una manifestazione sotto le finestre dell'ufficio comunale di Ferrara dove lavora Patrizia Moretti. Intanto contro la decisione della Giunta si sono subito scagliati il presidente dei senatori di Area popolare Ncd-Udc Renato Schifani, e gli amici Fabrizio Cicchitto, Roberto Formigoni e Gabriele Albertini, sodali immancabili di tante crociate del senatore Giovanardi, che parlano di "persecuzione di opinioni, discutibili ma legittime", e bollano il voto espresso da uno "schieramento politicista aprioristico e ultra giustizialista" come "un atto di servilismo nei confronti di un settore della magistratura". Ma la Giunta, spiega la vicepresidente Stefania Pezzopane "ha ritenuto, senza entrare nel merito della questione perché non è di nostra competenza farlo, che il provvedimento di indagine dovesse andare avanti". "Dopo un'attenta analisi, attraverso una disamina dei fatti, con audizioni e producendo di tutto questo anche una memoria - aggiunge la senatrice democratica - non abbiamo ritenuto di riconoscere in questo caso l'insidacabilità dell'opinione del parlamentare perché non è stata riscontrata un'evidente corrispondenza tra l'attività parlamentare del senatore e la dichiarazione resa extra moenia in quel contesto". Giovanardi però non chiede scusa e polemizza con i suoi colleghi senatori perché, dice, "la giunta ha deciso in circa mezz'ora, in assenza mia e di colleghi come D'Ascola o Buemi che aveva chiesto la cortesia di poter intervenire sulla questione, invece il problema è stato risolto in mezz'ora con una maggioranza schierata Pd-M5S". Lettere: la chiusura degli Opg? è un pesce d'aprile di Riccardo Arena www.ilpost.it, 2 aprile 2015 La legge ha fissato per il 31 marzo la scadenza per la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari. Ovvero il carcere per i pazzi. Gli ex manicomi criminali. Ora, visto l'estremo degrado di questo istituti, c'è chi parla di data storica o di momento di grande civiltà. Bravi. Ma pensate forse che dal 1° aprile cambierà tutto e che l'orrore degli Opg scomparirà d'incanto? No. Non è così e basta leggere il testo della legge per capire che c'è poco da gioire. E infatti la legge sugli Opg prevede, più che una chiusura tout court, un graduale superamento degli Opg. Un superamento che si verificherà (forse) attraverso il graduale ricovero degli internati in strutture alternative, chiamate Rems e che dovrebbero essere realizzate dalle Regioni. Il punto è però che non sappiamo quanto durerà questo graduale superamento degli Opg. Un anno, 5 anni, 10 anni? Non è dato saperlo. Un'incertezza dovuta anche dal fatto che non sappiamo quanto tempo le Regioni impiegheranno ad aprire queste famose Rems. E dunque, vi chiederete: "E allora cosa cambierà con questa legge?" Poco o nulla e questo perché le Rems disponibili sono assai poche e in quelle poche regioni dove sono state realizzate queste Rems ci potranno andare solo gli internati che hanno un programma terapeutico, mentre gli altri resteranno negli Opg. Morale, come è accaduto per la legge sulle donne detenute con i loro bambini, quella sugli Opg è una legge bellissima sulla carta, ma la cui applicabilità concreta resta incerta e difficile. Lettere: cosa resta degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari di Dario Stefano Dell'Aquila e Antonio Esposito La Repubblica, 2 aprile 2015 Gli Opg resteranno aperti per chi, oggi, vi è ancora internato in attesa della presa in carico delle Asl con progetti terapeutici individualizzati (Ptri) o dell'apertura delle Rems. Questo per la riluttanza all'adozione dei Ptri e perché in alcune regioni, come il Veneto, non si è provveduto neppure a definire un piano d'azione. Qui in Campania, dove sono previste 2 Rems per una spesa prevista superiore ai 2,5 milioni di euro (a Calvi Risorta e a San Nicola Baronia), ancora devono cominciare i lavori. Ecco allora spuntare, da noi come altrove, le cosiddette pre-Rems. In Campania ne saranno aperte tre, l'unica completamente dedicata a questa funzione sarà a Roccaromana, località Statigliano, con 20 posti letto (perché non è stata individuata come Rems?). Le altre due utilizzeranno parti di strutture già attive, una Rsa di Mondragone (8 posti letto), una struttura residenziale intermedia a Bisaccia (10 posti letto). Restano ancora da chiarire le modalità di gestione e funzionamento, costi, personale impegnato, programmi trattamentali. Le pre-Rems, dunque, saranno destinate in via provvisoria ai nuovi internamenti di cittadini campani per i quali la magistratura disporrà misure di sicurezza detentive. Se l'universo delle Rems, per molti, prefigura null'altro che mini Opg, in cui la psichiatria assume un ruolo pienamente custodialistico, nel frattempo si vanno strutturando nelle carceri nuove articolazioni psichiatriche destinate ai detenuti, fino a oggi inviati in Opg, con disturbo psichico sopravvenuto (art. 148 del codice penale) o a cui debba essere accertata l'infermità psichica. In Campania sono già operative quelle delle carceri di Santa Maria Capua Vetere e Pozzuoli, cui si aggiungeranno Secondigliano, Benevento, Sant'Angelo dei Lombardi e Salerno. Luoghi che, all'interno di istituti detentivi già carichi di complesse problematiche, non solo difficilmente potranno assolvere a funzioni di cura, ma, soprattutto, rischiano di trasformarsi in spazi contenitivi, se non addirittura punitivi, dei casi più problematici. L'accento normativo al ricorso a misure alternative all'internamento, già previste ma poco utilizzate, corre il rischio di scontrarsi con nuove forme di istituzionalizzazione e privatizzazione della presa in carico della sofferenza mentale, in comunità gestite da un privato sociale che, troppo spesso, ripropone logiche e prassi manicomiali. In ogni caso, quella dei progetti individualizzati è configurata dalla legge come la via maestra da perseguire. Bisognerebbe allora riconoscere o determinare modelli teorico-operativi di riferimento e definire delle precise modalità di monitoraggio, che al momento mancano. Non vengono meno, però, la possibilità di essere internati per il tentato furto di una merendina, la sospensione delle garanzie processuali a seguito di una perizia di infermità mentale, la reiterazione di un dispositivo che definisce i folli come un corpo estraneo all'insieme sociale, costretto a logiche, norme e stabilimenti speciali. Il superamento dell'Opg va salutato e rivendicato come il risultato di una lunga lotta di civiltà. Ma quando anche gli ultimi internati potranno lasciare le sue mura e quei cancelli davvero chiuderanno. Emilia Romagna: dall'orrore dell'Opg a una vera casa, la nuova vita di 14 ex internati di Maria Gabriella Lanza Redattore Sociale, 2 aprile 2015 Siamo entrati nella Casa degli svizzeri, la "residenza per l'esecuzione di misure di sicurezza detentive dove saranno ospitati parte dei detenuti dell'ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia. Stanze con bagno, tv, ping pong e niente sbarre alle finestre. Dopo anni di rinvii, ieri gli Opg, gli ospedali psichiatrici giudiziari, sono stati formalmente chiusi. I 741 detenuti verranno trasferiti gradualmente nelle Rems, le residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza detentive: dei veri e propri luoghi di cura gestiti interamente da personale medico dove si punta al reinserimento nella società del paziente. La prima ad essere inaugurata, il 27 marzo, è stata la "Casa degli svizzeri" a Bologna, un'antica abitazione colonica completamente ristrutturata che accoglierà 14 malati psichiatrici provenienti dall'opg di Reggio Emilia. "Il nostro obiettivo è ridurre la loro pericolosità sociale", spiega il direttore Claudio Bartoletti in una nostra intervista video. "Non ci saranno guardie né sbarre alle finestre, anche se l'intera struttura sarà sorvegliata 24 ore su 24". La Rems, immersa nel verde, ha al suo interno una sala dove svolgere attività ricreative, una cucina e uno studio ambulatorio. Ci sono libri, una tv, un tavolino da ping pong e un bigliardino. Le stanze sono singole o doppie e tutte sono dotate di un bagno personale. I detenuti saranno seguiti da una equipe di 52 persone composta dapsichiatri, psicologi, infermieri, operatori socio-sanitari, terapisti della riabilitazione, educatori e assistenti sociali. In Emilia Romagna è stata aperta anche la struttura di Casale di Mezzani, in provincia di Parma, dove saranno ospitate 10 persone. Entrambe le residenze però sono provvissorie: nel 2016 dovrebbe aprire quella definitiva a Reggio Emilia. La chiusura dei sei ospedali psichiatrici giudiziari presenti in Italia è frutto di un lungo percorso iniziato nel 2011 con l'istituzione di una commissione al Senato guidata da Ignazio Marino. Muri cadenti, malati abbandonati nella sporcizia e senza cure e 360 detenuti da dimettere: questo il risultato dell'inchiesta testimoniato da video e foto. Accanto a persone che avevano compiuto crimini efferati, c'era anche chi era stato condannato per reati minori, ma non era più uscito dall'opg: sono i cosiddetti ergastoli bianchi. Oggi le Rems hanno l'obiettivo di superare la logica degli ospedali giudiziari che l'ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, aveva definito: "un esempio di estremo orrore, indegno di un paese appena civile". Come spiega Bartoletti: "abbiamo chiamato il nostro progetto "Anche quando è più difficile". Sarà una impresa non semplice, ma siamo convinti che attraverso cure adeguate le persone possono essere riabilitare socialmente". Abruzzo: manicomi giudiziari, Regione in ritardo sullo smantellamento di Romana Scopano Il Centro, 2 aprile 2015 Quattro mesi di tempo per studiare progetti alternativi Sirolli (Stop Opg): "No alla Rems di Ripa Teatina". "L'Abruzzo è fermo sulla questione degli Opg". Da ieri, in attuazione della legge 81, sono definitivamente chiusi gli ospedali psichiatrici giudiziari. Non ci saranno più ingressi e dovrà essere avviato un programma di dimissione dei pazienti ancora ospitati. Secondo il comitato Stop Opg, a cui ha aderito anche la Cgil dell'Aquila, la nostra regione è in ritardo, come altre in Italia, e starebbe anche utilizzando in maniera sbagliata i fondi a disposizione. Ci sono 120 giorni di tempo per attivare progetti alternativi, compresi percorsi di riabilitazione e reinserimento dei cosiddetti internati. "L'Abruzzo è in sofferenza rispetto al problema della salute mentale", ha spiegato Alessandro Sirolli, referente del comitato Stop Opg, "e pur avendo bisogno di fondi per attuare la legge 81, sta impiegando i 4,8 milioni trasferiti dallo Stato per abbattere e ricostruire la Rems, la residenza per l'esecuzione delle misure di sicurezza, di Ripa Teatina, che però sarà pronta solo nel 2018. Nel frattempo, la Rems provvisoria di Guardiagrele è bloccata, visto che si attende il pronunciamento del Tar sulla sospensiva, rinviato al 24 maggio. E non ci sono atti ufficiali neanche sulle dimissioni dei pazienti "dimissibili" dall'Opg di Aversa". Le strutture sanitarie sorvegliate dovrebbero accogliere nelle regioni di appartenenza i pazienti psichiatrici che hanno commesso reati, internati finora negli ospedali psichiatrici giudiziari. L'Abruzzo ne dovrebbe ospitare 13, di cui 5 sono stati già giudicati dimissibili. Per gli altri 9 va valutato il grado di pericolosità sociale. Sirolli, ex direttore del Centro diurno psichiatrico dell'Aquila, sta attuando la staffetta del digiuno, per richiamare l'attenzione delle istituzioni: alla forma di protesta hanno partecipato ieri anche Umberto Trasatti, segretario provinciale della Cgil, e Loretta Del Papa, della segreteria Spi-Cgil. Insieme hanno ribadito la contrarietà alla politica messa in atto dalla Regione - avviata dalla giunta Chiodi e proseguita con D'Alfonso - che prevede la costruzione della Rems di Ripa Teatina: "Le risorse dovrebbero invece essere indirizzate ai servizi pubblici già esistenti", secondo Sirolli, "che vanno sostenuti e riqualificati. Per alcuni pazienti possono essere attivate misure di sicurezza, come la libertà vigilata, in alternativa all'internamento Calabria: sulla chiusura degli Opg la Regione rischia di essere commissariata di Emilio Quintieri (Radicali Italiani) Ristretti Orizzonti, 2 aprile 2015 È sempre la solita storia. Ci dobbiamo sempre distinguere in maniera negativa. Nonostante tutto il tempo avuto a disposizione la Regione Calabria non ha attivato nei tempi previsti le strutture alternative per gli internati ed ora rischiamo, come il Veneto, di venir commissariati dal Ministero della Salute. Lo afferma Emilio Quintieri, esponente dei Radicali Italiani. La chiusura ufficiale degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg) sarebbe dovuta avvenire ieri 31 marzo 2015 ma, ad oggi, nessuno di questi luoghi di "estremo orrore", come ebbe a definirli il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ha chiuso i battenti come previsto dalla Legge n. 81/14. E la colpa è da ascrivere anche all'inerzia delle Regioni come la Calabria - prosegue Quintieri - che non avendo le Residenze per le Misure di Sicurezza (Rems) non permette la chiusura di questi vergognosi ed indecenti manicomi criminali. In particolare, nel caso specifico, l'Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto in Provincia di Messina ove sono internati 31 pazienti calabresi, 5 dei quali non sono stati riconosciuti idonei dalla Magistratura di Sorveglianza per essere dimessi perché ritenuti ancora "socialmente pericolosi" sulla base delle relazioni fatte dai Medici Penitenziari. La Regione Calabria aveva individuato due strutture ove ospitare i detenuti psichiatrici, una nel Comune di Santa Sofia d'Epiro in Provincia di Cosenza, la cui attivazione sarebbe prevista per il 1 luglio 2015 e l'altra nel Comune di Girifalco in Provincia di Catanzaro, in un ex Manicomio, della quale al momento si disconosce la data di presunta attivazione ed ognuna in grado di ospitare 20 internati. Per queste strutture lo Stato ha devoluto alla Regione circa 7 milioni di euro (6.572.522,28 euro) e, nello specifico, 682.522,28 euro per quella di Santa Sofia d'Epiro (con un ulteriore spesa del 5% della Regione di 35.922,23 euro) e 5.890.000,00 euro (con un ulteriore spesa del 5% della Regione di 310.000,00 euro) per quella di Girifalco. Per questi motivi, nel frattempo, la Regione Calabria, ha chiesto alle Regioni limitrofe, di poter ospitare gli internati calabresi non dimissibili. In tal modo, aggiunge l'esponente radicale, viene reso vano il principio della riforma che sancisce la territorialità della misura e della cura e quindi il superamento delle vecchie logiche manicomiali. Qualcuno considera gli internati come "pacchi postali" ma ci si dimentica che sono esseri umani ed hanno bisogno anche della vicinanza e dell'affetto dei propri familiari che, nella stragrande maggioranza dei casi, specie per questioni di natura economica, non possono raggiungere gli Istituti posti lontano dalla Calabria. A confermare le dichiarazioni del radicale calabrese anche il Direttore dell'Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto Dott. Nunziante Rosania, originario di Salerno, specializzato in criminologia clinica e in psichiatria e perfezionatosi in psicoterapia e psicanalisi "Per ora non chiudiamo perché non sapremmo dove mandare gli internati pugliesi, calabresi e lucani che non hanno strutture pronte nelle loro Regioni". Un ulteriore problema è costituito dal fatto che l'Opg di Barcellona Pozzo di Gotto non potrà più accogliere quei soggetti provenienti anche dalla Calabria che, nelle more, dovessero essere arrestati dalle Forze dell'Ordine e ritenuti incapaci di intendere e di volere da parte della Magistratura oppure quei soggetti autori di reati riconosciuti affetti da vizio parziale di mente che dopo aver terminato la pena ordinaria debbono essere internati per l'esecuzione della misura di sicurezza. "Di sicuro non potranno rientrare in Opg e io non posso mettermeli in tasca" conclude il Direttore. Ed in Calabria, prosegue Quintieri, non abbiamo nemmeno dei Reparti Penitenziari di Osservazione Psichiatrica eccetto quello, insufficiente, esistente all'interno della Casa Circondariale di Reggio Calabria. Da tempo, ne avrebbe dovuto essere aperto un altro presso la Casa Circondariale di Catanzaro ma né questo Reparto né il Centro Diagnostico Terapeutico è stato aperto e reso funzionante e non se ne comprendono i motivi determinando l'invio dei detenuti per l'osservazione psichiatrica o per la cura di altre patologie negli Istituti Penitenziari attrezzati posti fuori dalla Calabria (Livorno, Napoli Secondigliano, etc.). Ed è provato che gli allontanamenti dei detenuti dal nucleo familiare, specie nei momenti di fragilità psichica, possono risultare del tutto destabilizzanti per gli stessi e comportare atti auto ed eterolevisi anche gravi di tipo suicidario. Come Radicali - conclude Emilio Quintieri - chiediamo alla Regione Calabria, di attivarsi per l'apertura immediata delle strutture residenziali di Santa Sofia d'Epiro e Girifalco al fin di evitare ulteriori disagi ai cittadini calabresi pazienti/internati ed ai loro congiunti e per evitare la pessima figuraccia del commissariamento da parte del Governo affinché provveda in via sostitutiva a dare attuazione a quanto stabilito dal Parlamento. Lombardia: ex Opg Castiglione delle Stiviere "temiamo troppi arrivi, rischio implosione" Adnkronos, 2 aprile 2015 Il vice direttore, situazione fluida con molte incognite su pazienti regioni non pronte. Non più Opg, ma "Sistema polimodulare di Rems provvisorie". A Castiglione delle Stiviere (Mantova) si è già consumata l'operazione "cambio targhe". Il resto è tutto in itinere. "Una situazione fluida", la definisce il vice direttore Enrico Vernizzi. E delicata. Sebbene le attività preparatorie all'era post ospedali psichiatrici giudiziari qui siano partite da tempo, sono tutti in attesa di sapere, con il fiato sospeso, quali saranno le evoluzioni dei prossimi giorni, ammette Vernizzi. L'incognita è in particolare sui nuovi arrivi: "Siamo un po' sul chi va là per via di notizie incontrollate secondo cui, non essendo ancora pronte le Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza in molte Regioni, con gli altri Opg che si devono svuotare, si potrebbe pensare di mandare i pazienti a Castiglione", struttura che già nelle vesti di Opg era a stretta conduzione sanitaria e ora non chiude di fatto i battenti, ma ospiterà prima le Rems provvisorie per poi diventare sede delle definitive. "Questo provocherebbe l'implosione di Castiglione", assicura Vernizzi all'Adnkronos Salute. Un'ipotesi così estrema non dovrebbe concretizzarsi, riflettono dalla Regione. Ma certo è che Castiglione potrebbe essere meta per diversi pazienti di altre regioni. E pare che richieste in questa direzione già ne siano arrivate. Oggi i pazienti a Castiglione sono 225, domani il numero potrebbe già cambiare, diminuire ma anche aumentare. "In teoria siamo già alla soglia massima - spiega Invernizzi - Nei mesi scorsi, raggiunta quota 220 ci dichiaravamo al limite superiore, ai livelli di guardia. Se il numero dovesse crescere ancora saremmo oltre le nostre possibilità attuali. Certo in passato abbiamo raggiunto anche i 330 ospiti, ma in quel modo si lavora, brutto dirlo, sulla quantità più che sulla qualità". E lo spirito della legge che prevede il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari è un altro. Questi saranno anche giorni di partenze, per esempio delle 65 donne ospitate a Castiglione: per 9 è già arrivata la comunicazione del trasferimento, destinazione Lazio (Rems di Pontecorvo), e 3 andranno in Emilia Romagna. I pazienti che sono in carico alla Lombardia sono in tutto 165, compresi quelli che rientreranno in questi giorni dall'ex Opg dell'Emilia Romagna. Castiglione ha anche in carico una quarantina di pazienti maschi del Piemonte che, è già noto, non sarà pronto con le Rems prima del 1 settembre. "Siamo in una fase di passaggio - sottolinea Vernizzi - L'Opg di Castiglione è stato l'unico a conduzione strettamente sanitaria e questo ci ha agevolato come Lombardia nell'avvio delle Rems. Qui non abbiamo aspettato il 31 marzo", data di scadenza dell'ultima proroga concessa alle Regioni. "Quando mesi fa abbiamo capito che non ci sarebbero stati altri rinvii abbiamo cominciato ad attrezzarci, nonostante i fondi statali" previsti dalla legge "siano stati sbloccati solo alcuni giorni fa. Presto dunque sarà possibile mettere mano alla situazione anche da un punto di vista strutturale". Sulla carta "si prevede di radere al suolo le strutture esistenti perché non adattabili al modello Rems e il programma definitivo è di procedere con la ricostruzione di 6 Rems, in vista di un target di 120 pazienti". Altre 2 Rems, nei piani della Regione, dovrebbero nascere in futuro a Limbiate. Ma attualmente le Rems provvisorie previste a Castiglione sono 8, ognuna da 20 posti per un totale di 160 pazienti. "La Lombardia, considerato che è consentito alle Regioni più piccole e con meno pazienti di associarsi, ha già acconsentito e firmato convenzioni per ospitare i pazienti di Liguria e Valle d'Aosta". La situazione attuale però resta "difficile da decifrare", osserva Vernizzi. Al momento a Castiglione, assicura il vice direttore, "una Rems è di fatto già attiva e fungerà da accoglienza e osservazione iniziale dei pazienti appena giunti". I nuovi assegnati, dunque, che non si sa a che ritmo arriveranno. "Ci aspettiamo partenze, ma temiamo anche arrivi da regioni non pronte con le Rems. Se si sale sopra i 20 si dovrebbe accelerare la diramazione verso altre 3 Rems". Fra le note positive c'è il fatto che "negli ultimi tempi c'è stato un incremento delle dimissioni per effetto della sensibilizzazione delle magistrature e dei servizi sociali locali, più disponibili ad accogliere misure di sicurezza alternative". E c'è anche il pensiero che "forse si sarebbe dovuto cominciare prima". Sulla destinazione dei pazienti, fa notare Vernizzi, "è il Dap che decide. Noi non abbiamo l'autorità per dire no. Possiamo prendere in mano il telefono o scrivere per comunicare eventuali difficoltà. Entro certi limiti potremmo ancora accogliere. Certo se i pazienti continueranno ad aumentare l'avvio delle Rems non sarà agevolato. Fermo restando che il processo di organizzazione delle nuove strutture non si arresta. La progettazione qui va avanti, come anche le procedure d'appalto, la formazione e anche l'assunzione annunciata di varie figure professionali da psichiatri a infermieri". A parte la pre-Rems già attiva, "gli altri reparti in attesa di ristrutturazione da qualche settimana si stanno attrezzando per la suddivisione dei pazienti in base a diagnosi affini. In alcuni casi si comincia a smistare virtualmente gli ospiti, dove possibile i trasferimenti si stanno già facendo. L'idea è di risolvere la situazione attuale di commistione di persone con situazioni diverse". Firenze: detenuti in fermento per l'arrivo di 22 internati gravi dall'Opg di Montelupo di Sandro Addario www.firenzepost.it, 2 aprile 2015 Il previsto trasferimento di 22 internati gravi dall'Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo all'Istituto Mario Gozzini di Firenze, la struttura a custodia attenuata più nota come "Solliccianino", sta creando fermento e preoccupazione tra gli stessi detenuti della struttura penitenziaria. Dopo la decisione della Regione Toscana, il tam tam è corso veloce tra le celle del Gozzini, tanto che oggi 1 aprile gli stessi detenuti hanno preso carta e penna e consegnato alla Direzione del carcere una lettera aperta, da trasmettere al Garante dei detenuti di Firenze Eros Cruccolini. La preoccupazione maggiore riguarda le possibilità di "convivenza" - pur in ambienti separati - tra detenuti che stanno seguendo un percorso di riabilitazione che può portare anche alla semilibertà e soggetti affetti da patologie psichiatriche gravi. Tanto più che sembra che per "far spazio" ai 22 di Montelupo, qualche decina dei 90 detenuti di Solliccianino dovrà far ritorno in un carcere "ordinario". Resta aperto anche il problema su chi dovrà sorvegliare gli internati: la Polizia Penitenziaria o personale delle Asl? Con quali costi? "Siamo i detenuti dell'Istituto Mario Gozzini - scrivono nella loro lettera - e abbiamo appreso dai giornali e dalle TV che questa struttura verrà convertita ad uso sanitario per la detenzione di soggetti con patologie psichiatriche (anche gravi) dell'Opg di Montelupo Fiorentino. Siamo sinceramente preoccupati dal momento che questo istituto è nato 25 anni fa come primo carcere a custodia attenuata in Italia allo scopo di seguire e sostenere i progetti delle persone detenute. Si sottolinea poi che il Mario Gozzini (meglio conosciuto in citta come Solliccianino) ospita anche un reparto dove confluiscono detenuti per concludere la pena in semilibertà". "La nostra preoccupazione - dicono i detenuti - riguarda l'eventuale cambio di destinazione dell'attuale struttura ad uso totalmente psichiatrico e quindi la domanda che ci poniamo è: come finirà il nostro percorso di riabilitazione nella società se verremo abbandonati e trasferiti in altre carceri? Qualcuno tra noi, mentre si trovava in altri Penitenziari, era diventato depresso e non vedeva più il futuro, mentre qui ha ricominciato a sperare". "L'Istituto - prosegue la lettera - non è preparato all'accoglienza di detenuti con patologie psichiatriche e riconvertirlo a questo scopo comporterà sicuramente un costo ulteriore per Ia società. Ci teniamo a far presente che al momento in questa struttura siamo circa 90 detenuti di cui alcuni in semilibertà e quindi già avviati verso un concreto reinserimento esterno. Tutti gli altri sono occupati durante la giornata in corsi scolastici e di formazione professionali ed in laboratori di tipo culturale e varie attività lavorative". "A questo punto - concludono i detenuti - ci sentiamo trattati come "merce di scambio" e non come esseri umani che hanno commesso degli errori ma cercano di riprendere in mano la loro vita. Ci sembra che chi ha pensato a questa nuova destinazione per l'Istituto Gozzini voglia privarci di quei pochi diritti che la nostra condizione ci consente. Pertanto desideriamo che la nostra situazione ed i nostri pur fragili diritti non vengano sottovalutati chiedendo a chi di dovere di riflettere bene sui percorso che ha intrapreso". Avellino: Opg chiusi, l'Irpinia si prepara agli arrivi degli ex internati di Livio Coppola Il Mattino, 2 aprile 2015 Lavoriin corso in Irpinia per ospitare i detenuti degli ex Opg. Con aprile si è avviata la riforma del Ministero della Giustizia che, di fatto, porterà alla chiusura di tutti gli ospedali psichiatrico giudiziari. In Campania sono due (Aversa e Napoli), e in queste ore si è avviata la procedura di trasferimento, ovviamente, graduale, di tutti i condannati che vi risiedevano. In provincia di Avellino nei prossimi giorni ne arriveranno al massimo 10, nella struttura intermedia di Bisaccia, mentre a fine maggio aprirà la vera e propria residenza (Rems) di San Nicola Baronia, che contribuirà con 20 posti al superamento definitivo degli ospedali. Dal momento in cui il Ministero della Giustizia ha annunciato il varo operativo della riforma, ossia due giorni fa, si era montata un po' di confusione nelle diverse province, chiamate tutte con nuove strutture a contribuire alla chiusura di Opg ormai da tempo considerati desueti e, in alcuni casi, non umani per le condizioni di detenzione di persone che, avendo ricevuto condanne con tanto di certificazione di infermità mentale, necessitano di trattamenti specifici. L'Irpinia, però, recependo il piano di superamento studiato dalla Regione, ha risposto positivamente dando inizio a tutte le opere necessarie a garantire nuova ospitalità innanzitutto ai residenti della provincia che vivevano negli Opg (circa una decina, secondo le ultime statistiche), con la possibilità di dare spazio anche a soggetti di altra provenienza, ma sempre in base a quanto stabilito da Regione e Asl. In tal senso, il primo plesso ad aprire i battenti sarà la Sir (struttura intermedia di residenza) inserita nell'ex ospedale Di Guglielmo di Bisaccia. "Le prime persone che l'Irpina sarà chiamata a gestire in seno al superamento degli Opg saranno trasferite nei prossimi giorni a Bisaccia - dove sono in corso dei piccoli aggiustamenti per garantire il funzionamento dell'ala dell'edificio destinata a questa nuova funzione - spiega il commissario dell'Asl Avellino Mario Ferrante. Va premesso che i detenuti arriveranno gradualmente dopo la valutazione dì ogni singolo caso (per tipologia dì reato commesso e di patologia psichiatrica). A Bisaccia potranno arrivarne al massimo 10, ma non è detto che si raggiunga questo numero". Bisaccia sarà una sistemazione temporanea, riservata soprattutto ai detenuti con minore grado di pericolosità, al contempo nel carcere di Sant'Angelo dei Lombardi sarà in funzione un'articolazione ad hoc, sempre di 10 posti, dove potranno trovare posto le persone condannate per ireati più gravi. Il tutto, però, è funzionale al vero e proprio superamento degli Opg, che avverrà con l'apertura delle Rems, residenze che rappresentano la nuova dimensione di vita del detenuto psichiatrico, e che saranno attrezzate per garantire cure e vivibilità, connesse ovviamente alla necessità di scontare la pena. L'Irpinia avrà la sua Rems a San Nicola Baronia, con inaugurazione prevista alla fine di maggio: "I lavori nella ex Rsa di San Nicola inizieranno oggi e abbiamo programmato di terminarli in due mesi - spiega ancora Ferrante - anche in questo caso parliamo di un edificio in buone condizioni, per il quale saranno necessari pochi accorgimenti. Allo stesso tempo è in corso la gara per affidare i servizi interni alla residenza e integrare le risorse umane che l'azienda ha già destinato ai servizi penitenziari". Dunque per la prima volta l'Irpinia contribuirà al sistema penitenziario psichiatrico. Per Ferrante non c'è da preoccuparsi: "Le criticità possono esserci ma siamo attrezzati per affrontarli, questa riforma può incutere timori più adirsi che a farsi. Il territorio si è fatto trovare più pronto di altri, l'importante sarà applicare la legge in modo puntuale ed efficiente". Cagliari: il carcere di Uta fa acqua da tutte le parti, la denuncia dell'On. Pili (Unidos) di Damiano Aliprandi Il Garantista, 2 aprile 2015 Il nuovo carcere di Uta comincia a fare acqua da tutte le parti. Non è un modo di dire perché il nuovo complesso penitenziario sardo sembra "fare acqua" nel vero senso della parola. A denunciarlo è il deputato e leader sardo di Unidos, Mauro Pili, pubblicando fotografie e un video che sembrano lasciare poco spazio all'immaginazione. In particolare, si vede una stanza con due estintori circondati da carta bagnata e da un recipiente, oltre a una bottiglia d'acqua capovolta che scende dal tetto. E non mancano delle abbastanza chiare macchie proprio sul soffitto, tipiche di infiltrazioni d'acqua. Pili così denuncia: "Lo scenario che si presenta nella struttura appena aperta costata 95 milioni di euro è qualcosa di surreale. In queste ultime settimane di pioggia la principale occupazione dentro la struttura è stata quella di tamponare l'avanzata delle perdite. È l'ennesima dimostrazione della superficialità con la quale si è operato in occasione dell'apertura del carcere di Uta". Poi il leader di Unidos continua: "Il Dap l'ha aperta senza alcun tipo di collaudi e soprattutto negando qualsiasi tipo di verifica degli stessi documenti. Ha imposto a tutti gli uffici pubblici l'apposizione della segretezza di atti autorizzativi, compresa la verifica dell'iter di collaudi". E conclude, annunciando anche un'interrogazione parlamentare: "Tutto questo avviene con la vergognosa copertura della situazione da parte della direzione dello stesso carcere, che continua a stare in silenzio su quanto sta avvenendo e anzi a negare l'evidenza di queste immagini". Da ricordare che il carcere di Uta attualmente a regime, ospiterà - assieme al carcere di Sassari -tutti i detenuti del 41 Bis, attualmente dislocati su tutto il territorio italiano. La proposta di concentrare i detenuti a regime speciale nelle due carceri fa discutere e va a scontrarsi con le parole del dottor Roberto Piscitello - direttore generale dei detenuti e del trattamento presso il Dap -ascoltato il giungono scorso dalla Commissione straordinaria dei diritti umani presieduta dal senatore Luigi Manconi. Così Piscitello disse durante l'audizione: "Nell'assegnazione della misura si evita l'assembramento in pochi istituti di soggetti che facciano parte della medesima associazione o di organizzazioni fra loro contrapposte. E si evita che soggetti di grande spessore criminale siano ristretti nello stesso istituto. I soggetti in 41 bis sono detenuti rigorosamente in celle singole. Come tutti i detenuti hanno diritto a colloqui e momenti socialità con altri detenuti, in gruppi non superiori a quattro". Alla notizia dell'imminente trasferimento dei detenuti sottoposti al regime duro, ha alzato la voce sempre il deputato Mauro Pilli: "La commissione antimafia deve occuparsi immediatamente dello scellerato progetto del Dap di trasferire in Sardegna oltre 200 capimafia". Lecce: caos nell'appalto mensa del carcere, la nuova azienda non ha assunto tutti www.lecceprima.it, 2 aprile 2015 Marconi group, vincitrice della gara bandita dall'amministrazione penitenziaria, non intenderebbe rispettare la clausola sociale. Sit-in presso Borgo San Nicola. Ugl, Cgil e Uil: "Applicati contratti minori, a Lecce 4 persone su 8 sono rimaste fuori. Inaccettabile". Una nuova vertenza sindacale si profila all'orizzonte e questa volta riguarda gli istituti penitenziari regionali. I sindacati Ugl, Cgil e Uil hanno voluto accendere un faro sui disagi che si starebbero verificando, in queste ore, all'interno del servizio mensa delle carceri pugliesi. Così questa mattina hanno organizzato un sit-in di protesta all'ingresso della Casa circondariale di Lecce. Il dito è puntato contro la nuova ditta che è subentrata nella gestione del servizio, Marconi group srl di Isernia, rea di non aver rispettato la clausola sociale nel cambio d'appalto. Quella stessa clausola, cioè, che mira alla salvaguardia dei livelli occupazionali e retributivi ad ogni passaggio di testimone negli appalti pubblici, così come sancito dalla normativa nazionale che disciplina la materia. E così come è stato previsto anche dal principale contratto nazionale di categoria, firmato dalle organizzazioni sociali maggiormente rappresentative. La nuova società, invece, stando alla denuncia dei sindacalisti, avrebbe deciso di applicare un contratto di categoria "minore", siglato da sindacati autonomi. E ciò per mantenere la possibilità di assorbire solo una parte dei lavoratori già impiegati sull'appalto, anziché tutti. "Marconi ha selezionato solo una parte del personale che, invece, può vantare un'esperienza ventennale nel settore. Ed è la prima volta che succede: il Consiglio di Stato si era già espresso in proposito, in occasione dell'ultimo capitolato d'appalto, quando ha ammonito l'amministrazione carceraria ad affidare il servizio alla seconda ditta vincitrice della gara pubblica, condannandola anche al risarcimento dei danni per il mancato guadagno della società in quel frangente di tempo - precisa Maurizio Lezzi di Ugl. E ciò proprio perché la prima classificata non aveva applicato la clausola sociale". E ancora: "Marconi ha lasciato alcuni lavoratori fuori, ed altri dentro, tutto a sua discrezione. A Lecce ne ha assorbiti la metà, quindi 4 su 8, e su scala regionale appena 18 su 42. In questo modo non sta rispettando neppure le norme previste dal bando di gara formulato dal committente, cioè dal provveditorato regionale dell'amministrazione penitenziaria". La ditta, stando a quanto riferito dallo stesso sindacalista, non si sarebbe neanche presentata al tavolo istituito, in proposito, dall'assessore regionale al Lavoro, Leo Caroli. E oggi gli agenti degli istituti penitenziari avrebbero ricevuto per pranzo un cestino, anziché una pietanza cucinata "perché la nuova società non è ancora pronta per partire con il servizio", puntualizza Lezzi. I sindacati intendono quindi inchiodare l'azienda al rispetto della clausola sociale e si dicono pronti ad impugnare legalmente i contratti già sottoscritti con una parte del personale. In più chiedono all'amministrazione carceraria di intervenire per garantire la piena applicazione delle norme previste dal bando di gara. Vasto (Ch): quindici internati della Casa Lavoro di Torre Sinello puliscono le spiagge Il Centro, 2 aprile 2015 Sono iniziati nello scorso fine settimana gli interventi di pulizia delle spiagge invase da cumuli di rifiuti depositati sulla battigia dalle violenti mareggiate. Ad occuparsi della loro rimozione è una vera e propria task force formata dagli operai della Pulchra, la società mista pubblico-privata che vede il Comune socio di maggioranza, e da una quindicina di internati della Casa Lavoro di Torre Sinello. Insomma, i turisti che durante le feste di Pasqua arriveranno a Vasto per trascorrere qualche giorno di vacanza, troveranno i lidi puliti e in ordine. Un biglietto da visita importante per una località turistica. "Le mareggiate invernali hanno accumulato sulle spiagge della riserva quantitativi enormi di rifiuti", dice Alessia Felizzi, della Cogecstre, la cooperativa di Penne che ha in gestione l'oasi costiera, "i quindici internati che in questi giorni stanno raccogliendo il materiale spiaggiato a Punta Penna, a Mottagrossa e negli altri lidi del parco costiero, sono alle prese con un lavoro faticoso: polistirolo ovunque ridotto in piccoli frammenti, grossi quantitativi di materiale ingombrante, bidoni, boe e pneumatici. Il Comune di Vasto provvederà allo smaltimento di quanto raccolto. Ringraziamo il direttore, Massimo Di Rienzo, l'educatore Lucio Di Blasio e le guardie della Casa Lavoro per l'impegno nell'organizzazione e tutti i volontari", conclude Felizzi. Soddisfatto anche l'assessore Marco Marra. "Stiamo facendo il possibile affinché i vastesi e i primi turisti in arrivo a Pasqua trovino le spiagge pulite dai rifiuti", commenta il delegato ai Servizi e alle riserve, "tutti gli operai del Comune sono al lavoro. L'unico rammarico sono la palme della riviera: ci eravamo impegnati ad abbattere le piante infestate dal punteruolo rosso e a sostituirle prima di Pasqua, ma gli uffici sono ancora alle prese con la gara. Per le feste pasquali non si fa in tempo", conclude l'assessore. Risale al 12 marzo la delibera con cui la giunta comunale impegnava la spesa di 72mila euro per il taglio e lo smaltimento delle palme attaccate dal terribile insetto asiatico che ha fatto strage delle rigogliose chiome. Sono in tutto 120 le piante malate, di cui 80 alla Marina e 40 in altre zone della città. Verranno eliminate e sostituite con le palme Washington. Ragusa: ex detenuto Salvatore Saitto vincitore del premio letterario "Goliarda Sapienza" di Giuseppe La Lota Corriere di Ragusa, 2 aprile 2015 L'iniziativa voluta dal presidente del Consiglio Iacono e patrocinata dal Comune, ha visto la partecipazione del sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri: "I detenuti devono poter lavorare in carcere e fuori per una piena riabilitazione". Dentro una cella esplode quanto di manicheo coabita nell'animo umano: il bene e il male guidati da istinti che segnano e cambiano per sempre la vita di una persona. Henri Charrière, sopravvissuto ai lavori forzati nella Guyana Francesce dell'isola del Diavolo, con il best seller "Papillon" ha fatto la sua fortuna economica e sociale vivendo da uomo libero e onesto fino alla morte nel 1973. Nel volume "Racconti dal Carcere", curato dalla giornalista, scrittrice, autrice e conduttrice radiofonica Rai Antonella Bolelli Ferrera, edito Rai, che raccoglie 26 storie scritte da detenuti-partecipanti al Premio "Goliarda Sapienza" (quinta edizione), c'è uno spaccato di vita che si legge d'un fiato e che ti lascia senza respiro. Il lavoro letterario svolto da Antonella Bolelli, con la collaborazione di intellettuali e professionisti del calibro di Elio Pecora, Giancarlo De Cataldi, Erri De Luca, Federico Moccia, lo scrittore che ha incatenato l'amore a Ponte Milvio fino a contagiare persino il più vecchio dei 3 ponti di Ragusa, Massimo Lugli, inviato di cronaca nera di Repubblica, e l'attore e regista Carlo Verdone, per citare i più noti, è stato presentato dentro l'auditorium del carcere di contrada Pendente a Ragusa. Moderatore, il capo ufficio stampa del Comune Pino Blundo. Un evento fortemente voluto e patrocinato dal presidente del Consiglio Giovanni Iacono, che ha subito coinvolto l'amministrazione comunale, il sindaco Federico Piccitto e l'assessore ai Servizi sociali Salvatore Martorana. Un evento che non ha lasciato indifferente neanche il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri, giunto a Ragusa con un volo destinazione Comiso e ricevuto dal prefetto Annunziato Vardè e dal presidente Iacono. L'evento "Cultura per la Legalità - Raccontare il disagio" si è articolato in due giornate. Il 30 pomeriggio nel carcere di Ragusa, alla presenza di decine di detenuti che hanno parlato della loro condizione personale davanti al sottosegretario, e il 31 mattina nell'aula Magna D'Arrigo dell'Istituto Fabio Besta. "Da questo incontro - ha detto Antonella Bolelli - spero di ricevere molti racconti dai detenuti di Ragusa per la sesta edizione del premio. Produciamo libri e la Rai realizza pure qualche cortometraggio, tutto senza fini di lucro, i proventi di questi lavori servono a migliorare le condizioni carcerarie". "Questi che si raccontano - riflette Elio Pecora sui lavori letterari presentati- sono uomini e donne onesti: se nudità e onesta consistono nell'arrivare a mostrarsi in quel che si è, insieme delusi, disperati, e pure ancora affacciati all'attesa. Forse soltanto per consegnarsi per una vicinanza che vale una restituzione". Grande disponibilità da parte della Direzione del carcere, il direttore Giovanna Maltese, il comandante del personale penitenziario Chiara Morales, la responsabile dell'Area trattamentale Rosetta Noto. Il regista e attore Gianni Battaglia ha arricchito l'emozione dell'evento recitando da par suo alcune poesie di forte impatto emotivo. Ma il clou si è avuto con la testimonianza diretta di Salvatore Saitto, che la mamma chiamava Rore, il vincitore del premio con il racconto "Così mi nasceva la solitudine", tutor lo scrittore Erri De Luca. Saitto ha 64 anni, napoletano verace, capelli bianchi, un volto scavato da sofferenza e diversi anni di carcere. Rore non è il solito detenuto finito dentro per reati comuni, ha da poco conseguito la maturità scientifica ed è iscritto al terzo anno di Giurisprudenza, quando viene contagiato dalla politica del ‘68 e degli anni di piombo: accusato di essere collaboratore marginale del Brigate rosse, associazione a banda armata. Finì a Fossombrone, i primi 9 mesi in isolamento. "Dobbiamo parlare alle persone che ci vogliono bene- dice Saitto rivolto agli altri detenuti- anche se siamo delinquenti. Ci siamo fatti strappare il sole dalla pelle. Il reato è anche istigato dalla società, se fossimo stati più tranquilli. Giusto che paghiamo le colpe commesse, ma a un certo punto mi sono detto: in carcere non voglio più tornare. Ho fatto il lavapiatti a Ischia, passando facilmente dall'euforia alla depressione. Amici, riprendiamoci il sole, non vale la pena spendere un solo giorno della nostra vita in un carcere. Soffro sapendo che io stasera uscirò e voi ritornerete nelle vostre celle". Il sottosegretario alla Giustizia Cosimo è molto pragmatico nell'affrontare il tema della condizione carceraria. Ascolta il parricida che ha ammazzato il padre perché probabilmente picchiava la madre; quello che rivendica l'innocenza dall'accusa di detenere marijuana, il senegalese presunto scafista che trasportava disperati affermando di non saperlo. "Conosco meglio le carceri da sottosegretario- dice- che da magistrato. La novità è che stiamo dando attenzione al lavoro nelle carceri. Su 200 carceri in Italia, abbiamo finanziato 600 progetti, qualcosa avrà anche Ragusa. Chi lavora in carcere senza retribuzione potrà usufruire sconti di pena. Aspettiamo che le imprese facciano convenzioni con il carcere per assumere beneficiando di forti sgravi fiscali". Il sottosegretario ha giudicato fattibile la proposta di mettere a disposizione dei detenuti che vogliono lavorare le strutture immobiliari confiscate alla mafia. "Meglio farle fruttare qualcosa che lasciarle morire abbandonate". Riguardo al decreto svuota carceri, il sottosegretario Ferri si ritenuto soddisfatto dei risultati: "Abbiamo ridotto a 50 mila unità i detenuti, rispetto alle 65 mila di prima senza ricorrere ad amnistia e indulto". Il vice ministro ha detto anche di essere favorevole all'"ergastolo della patente" in caso di omicidi della strada, tema molto sentito dopo alcune sentenze della Cassazione favorevoli ai pirati della strada che si sono macchiate di stragi. Roma: Papa Francesco in visita a Rebibbia, in carcere torna la speranza Radio Vaticana, 2 aprile 2015 Papa Francesco si reca nel pomeriggio nel Carcere di Rebibbia a Roma, presso la Chiesa del "Padre Nostro", per celebrare la Messa "in Coena Domini", durante la quale laverà i piedi ad alcuni detenuti e detenute della vicina Casa circondariale femminile. Sull'attesa nell'istituto di detenzione Fabio Colagrande ha sentito Daniela De Robert, volontaria a Rebibbia, presidente dell'associazione VIC volontari in carcere della Caritas di Roma. R. - L'attesa è molto forte. Sicuramente è un'attesa gioiosa tra tutti, in particolare naturalmente, tra quei 300 che potranno partecipare alla Messa, 150 uomini e 150 donne che verranno dal vicino carcere femminile; è un'attesa che coinvolge un po' tutti, perché è un ennesimo segnale di Papa Francesco, un segnale molto forte di vicinanza con questa periferia che è il mondo del carcere; un segnale di attenzione che cambia sensibilmente la vita delle persone. D. - C'è un magistero particolare di Papa Francesco dedicato ai detenuti, riassumibile nella frase detta recentemente nel carcere di Poggioreale a Napoli: "Nessuno può dire io non merito di essere carcerato". Cosa significa? R. - Significa moltissimo, e - mi permetto di dirle - in continuità anche con gli altri due pontefici, Giovanni Paolo II che incontrò la persona che gli sparò con un gesto di perdono fortissimo; Benedetto XVI che scelse di incontrare i detenuti, parlare dialogare con loro nello stesso carcere di Rebibbia, e Papa Francesco che da sempre dice: "Non giudichiamo, perché siamo tutti sulla stessa barca in qualche modo". Ricordo quando lui incontrò i cappellani delle carceri e raccontò di queste sue telefonate con i detenuti e disse: "Quando metto giù il telefono mi chiedo perché loro sono lì e io no". È un modo di dire: "Non siete diversi da noi, non siete il male, non siete le persone che dobbiamo allontanare. Siamo tutti uguali con destini diversi, con scelte diverse, con peccati forse anche diversi, ma il giudizio non serve". E non giudicare in un mondo dove si è costantemente giudicati - durante il processo, quando si sta in carcere, quando si esce si diventa ex-detenuti, comunque persone da condannare - è un messaggio che scalda il cuore, ed è un messaggio importante anche per la comunità cristiana che non sempre pensa che quel fare visita ai detenuti sia un po' alla pari con il far visita ai malati. D. - Cosa significa vivere la Settimana Santa in carcere? Immagino che anche detenuti non credenti stiano attendendo la visita del Papa … R. - Sì, la spiritualità, la domanda di spiritualità è un aspetto molto forte della vita in carcere quando si ha anche più tempo per pensare, per stare con se stessi, un tempo vuoto che spesso è riempito dalla riflessione. C'è una domanda di spiritualità, ci sono esigenze comuni; spesso anche i detenuti non cristiani, di altre religioni, vengono alla Mesa perché comunque è uno spazio di preghiera e di forte condivisione. Per tutti il messaggio del Papa è questo: "Ero in carcere e siete venuti a trovarmi". Siamo un unico popolo, siamo un'unica comunità. Venerdì scorso abbiamo celebrato, sempre nella stessa chiesa, la Via Crucis insieme a don Enrico Feroci, il direttore della Caritas diocesana, che aveva portato in carcere la Croce di Lampedusa. Quel condividere sofferenze diverse è stato un momento importante. D. - Giovedì il Papa incontrerà anche le detenute; anche mamme con bambini. Ricordiamo che per le donne detenute spesso c'è una sofferenza in più, quella della separazione dai figli … R. - La separazione dai figli per le donne è devastante. È un dolore immenso, lo vivono anche gli uomini naturalmente, ma per una donna essere separata dai figli vuol dire vivere moltissimo, un senso di colpa, vuol dire sentirsi cattive madri, sentirsi abbandonate dai figli. Verranno tutte le donne del nido con i loro bambini tra zero e tre anni; saranno in prima fila nella chiesa, ma simbolicamente con il Papa ci saranno in quel momento tutti i figli e tutte le figlie troppo violentemente e troppo profondamente separati dai genitori per il carcere. D. - Giovedì sera, quando il Papa lascerà il carcere di Rebibbia dopo la celebrazione di questa Santa Messa nella Cena del Signore cosa lascerà? R. - Lascerà speranza, una solitudine meno profonda. Lascerà il senso di non esser proprio gli ultimi della Terra, lascerà forse la voglia di cambiare grazie a questo gesto, lascerà la sensazione di essere uomini e donne come gli altri e di avere diritti come gli altri, ma anche doveri come gli altri. Libri: "Carcere, giustizia e società nell'Italia contemporanea", la punizione spettacolare di Vincenzo Scalia Il Manifesto, 2 aprile 2015 L'ultimo numero di "Democrazia & diritto", è dedicato a "Carcere, giustizia e società nell'Italia contemporanea": esiste una via d'uscita alle derive securitarie dell'homo videns? Sin dagli albori della modernità, l'universo carcerario costituisce il prisma attraverso il quale le trasformazioni politiche, economiche e sociali si scompongono e assumono una fisionomia leggibile. Il paradigma disciplinare, il trattamento degli anormali e l'approccio rieducativo costituiscono tappe fondamentali del governo dei conflitti, del governo delle classi pericolose, in relazione con le modifiche qualitative che interessano la società capitalista. L'ultimo numero della rivista Democrazia & diritto, intitolato "Carcere, giustizia e società nell'Italia contemporanea" (pp. 174, Franco Angeli), si prefigge lo scopo di fornire una mappa delle trasformazioni della società italiana odierna attraverso il carcere, avvalendosi del contributo di studiosi ed esperti provenienti da vari background: sociologi, giuristi, esponenti dell'associazionismo, provano a delineare le tendenze che riguarderanno il rapporto tra pena e società nel nostro paese. Muovendosi tra le macerie lasciate dal ventennio securitario, gli autori si muovono su tre piani. Oltre a ricostruire la genealogia del punitivismo contemporaneo, cercano di predire l'effetto che produrranno i nuovi interventi deflattivi, finendo per porsi la vexata quaestio congenita agli studiosi dell'universo penitenziario: esiste una via di uscita dal carcere come strumento di sanzione dei comportamenti illegali? Parafrasando a rovescio un modo di dire riferito all'economia, ad un primo sguardo possiamo affermare che la polmonite che ha colpito gli Usa, nel contesto penitenziario, ha causato all'Italia soltanto un raffreddore. Infatti, se oltreoceano si assiste ad una parabola inflattiva, che dal 1973 al 2003 ha fatto schizzare il numero dei detenuti da 100mila a 4 milioni di unità (senza contare i detenuti in esecuzione penale esterna), le patrie galere, più o meno nello stesso periodo, hanno "solamente" raddoppiato i loro ospiti, passando dai 25 mila del 1990 agli oltre 60 mila di venti anni dopo. In realtà, a mettere in relazione l'aumento della popolazione detenuta coi cambiamenti sociali degli ultimi venti anni, le lacerazioni prodotte dall'uso della carcerazione sul tessuto sociale italiano risaltano in tutta la loro gravità. Due terzi della popolazione detenuta sono dovuti alla legislazione criminogena sugli stupefacenti e sulle migrazioni, aggravate dai pacchetti sicurezza approvati dai governi espressioni di diverse maggioranze politiche. Il panico morale seguito a Tangentopoli è scaturito nell'approvazione di un provvedimento che eleva la maggioranza qualificata per approvare le amnistie da due terzi a quattro quinti, rendendo impossibile varare quei provvedimenti di amnistia che consentivano, periodicamente, di riportare il carcere a livelli minimi di vivibilità. Lo stesso indulto dell'estate del 2006, ha provocato non pochi. travagli presso l'opinione pubblica, diffondendo la convinzione, smentita dai dati, che i 30mila detenuti che avevano fruito del beneficio stessero per ridurre il Paese a un Far West contemporaneo. L'Italia ha seguito le tendenze punitiviste sviluppatesi a ridosso del neo-liberismo, con la sfera penitenziaria sovraccaricata del governo delle trasformazioni sociali e dei conflitti che producono. Il carcere è diventato lo strumento di incapacitazione collettiva per eccellenza, dove i gruppi sociali marginali vengono depositati per fornire una rassicurazione posticcia a un corpo sociale sfilacciato dalla precarietà dilagante e disorientato dalla fine delle grandi narrazioni. Inoltre, abbiamo prodotto una peculiarità tutta nostra, in quanto il ventennio berlusconiano ha assurto a figura paradigmatica dello spazio pubblico l'homo videns, orientato verso il consumo, la soddisfazione di desideri a breve termine, quindi evocatore di misure esemplari più nella loro carica sensazionalista che nella loro efficacia pratica. La cultura punitivista entra in crisi in questi anni di recessione, trascinandosi dietro il tramonto definitivo delle prospettive rieducative. Si fanno strada altri tipi di provvedimenti deflattivi, e la possibilità di applicare a più ampio raggio misure alternative alla detenzione. Tuttavia, rimane il problema della centralità della punizione nel diritto penale contemporaneo, e la necessità di superarla in modo originale, senza intaccare le prerogative connesse alla tutela dei beni individuali e collettivi. Questo passaggio, sostengono gli autori, non può essere figlio di progetti riformisti dall'alto. Se il carcere è connaturato alla repressione statale e allo sfruttamento capitalista, è a partire dalla messa in discussione dei rapporti di forza esistenti che bisogna muoversi. Peccato che manchi una prospettiva articolata di mutamento radicale, e che invece si stia facendo strada un nuovo panico morale, sotto le spoglie del terrorismo mondiale. Mondo: Chiara Sangiorgio (Amnesty); perché la pena di morte non ha forza deterrente Metro, 2 aprile 2015 Condanne di massa in Egitto e Nigeria hanno condotto a una brusca impennata delle sentenze di morte lo scorso anno, secondo Amnesty International. Nel suo rapporto annuale sulla pena capitale nel mondo, l'organizzazione per i diritti umani afferma che il numero di condanne a morte registrato lo scorso anno è cresciuto di 500 unità rispetto al 2013, affermando che le misure punitive sono esplose "in un contesto di conflitti interni e instabilità politica". Tuttavia ci sono state meno esecuzioni rispetto all'anno prima e molti Paesi hanno adottato misure verso l'abolizione della pena di morte. Metro ha parlato con Chiara Sangiorgio, esperta per Amnesty di pena di morte in Occidente. Quali sono le ultime novità in materia di pena di morte nei paesi occidentali? "L'Europa è una regione quasi completamente priva di esecuzioni, tranne che per l'ultimo giustiziere solitario, la Bielorussia. L'anno scorso, la Bielorussia ha giustiziato almeno tre persone dopo una moratoria di 24 mesi. Nelle Americhe, gli Stati Uniti restano il solo Paese ad effettuare esecuzioni, ma per fortuna c'è stato un movimento costante di allontanamento dalla pena di morte negli ultimi anni. L'anno scorso, 35 persone sono state messe a morte negli Stati Uniti, rispetto a 39 nel 2013 e un altro Stato - Washington - ha avviato una moratoria ufficiale sulle esecuzioni. Va anche detto che tra gli Stati che ancora utilizzano la pena di morte Florida, Missouri e Texas hanno rappresentato l'80% di tutte le esecuzioni degli Stati Uniti l'anno scorso". Perché la pena di morte è ancora in uso in Paesi democratici come gli Stati Uniti? "Ci sono molte ragioni per cui i politici ancora giustificano la pena di morte, ma nessuna di esse è valida. L'anno scorso, c'è stata una tendenza dei leader di tutto il mondo - compresi gli Stati Uniti - a dipingere le esecuzioni come metodo per contrastare i tassi di criminalità. Ma questi leader stanno facendo un cinico gioco politico populista, oppure stanno ingannando se stessi; non vi è alcuna prova che la pena di morte sia un deterrente più efficace che una pena detentiva. In realtà, più uccisioni da parte del governo alimenteranno solo un ciclo di violenza, senza affrontare le vere cause della criminalità". Quali sono i metodi di esecuzione più utilizzati nei Paesi occidentali? "In Bielorussia - l'unico paese in Europa ad eseguirla ancora - i prigionieri vengono messi a morte con un colpo ravvicinato alla nuca. Negli Stati Uniti, l'iniezione letale è il metodo utilizzato nella grande maggioranza delle esecuzioni negli ultimi anni. Tuttavia, i regolamenti dell'Ue in materia di esportazione dei farmaci necessari per le iniezioni letali hanno fatto sì che molti stati americani abbiano faticato per portare a termine le esecuzioni - o hanno dovuto ricorrere a sostanze "inusuali" o "non approvate", aggiungendo i problemi che abbiamo visto con il ricorso a procedure pasticciate con alcuni sviluppi orribili verificatisi lo scorso anno. Pochi giorni fa lo Stato dello Utah ha annunciato che avrebbe proceduto ad esecuzioni per fucilazione quando le sostanze per le iniezioni letali non siano disponibili. Ma qualunque sia il metodo, la pena di morte è una punizione crudele, brutale e obsoleta. Esortiamo le autorità americane ad approfittare della carenza di prodotti chimici per adottare misure per abolire la pena di morte, invece di tentare di risolvere l'irrisolvibile". Quali sono i reati più frequenti commessi in Occidente che portano alla pena di morte? "Sia in Bielorussia che negli Stati Uniti, a essere condannati a morte sono in schiacciante maggioranza i detenuti per omicidio. Tuttavia, in molti altri paesi in tutto il mondo le persone vengono condannati a morte per reati che non raggiungono la soglia dei "reati più gravi", che sono i soli reati per i quali la pena di morte può essere imposta ai sensi del diritto internazionale. Nel 2014, le persone sono state condannate a morte anche per crimini che comprendono reati economici, commettere adulterio, o anche "stregoneria" e "magia" in Arabia Saudita". Diceva che la pena di morte non ha più valore deterrente di una pena detentiva? "Uno studio che ha confrontato i tassi di omicidio in Hong Kong e Singapore, che hanno entrambi una dimensione simile della popolazione, per un periodo di 35 anni a partire dal 1973 ha rilevato che l'abolizione della pena di morte in Hong Kong e l'alto tasso di esecuzione in Singapore a metà degli anni 1990 ha avuto un impatto minimo sui livelli di omicidio. Negli Stati Uniti, il tasso medio di omicidi per gli stati che utilizzano la pena di morte è più alto rispetto a quelli che non lo fanno". Quali sono le ultime vittorie nella lotta contro la pena di morte? "A livello globale, le esecuzioni sono scese di quasi il 22% rispetto all'anno prima. Molti governi hanno fatto piccoli ma concreti passi verso l'abolizione della pena di morte. Suriname e Madagascar sono molto vicini a farlo, e le richieste di abolizione sono pendenti dinanzi agli organi legislativi in ??diversi altri paesi. Con il sostegno popolare per superare la pena di morte, questa punizione aberrante sta lentamente ma costantemente diventando storia passata. Ciò è particolarmente evidente se si considera la tendenza di lungo termine - lo scorso anno 22 paesi in tutto il mondo hanno condotto esecuzioni, ma due anni fa erano quasi il doppio (41). Quando le Nazioni Unite sono state create nel 1945, soltanto otto paesi avevano abolito la pena di morte, ma oggi 140 paesi hanno abbandonato questa punizione per legge o almeno nella pratica". Quando, secondo lei, negli Stati Uniti si fermeranno le esecuzioni? "È difficile prevedere un intervallo di tempo, ma non c'è dubbio che vi sia un chiaro allontanamento dalla pena di morte nel paese, e un calo del sostegno pubblico. C'è stato un calo costante di esecuzioni e condanne a morte in America negli ultimi dieci anni. Dal 2007, altri sei Stati hanno abolito la pena di morte completamente, e l'anno scorso solo sette stati l'hanno eseguita. Lo Stato di Washington ha imposto una moratoria sulle esecuzioni l'anno scorso e la Pennsylvania lo ha seguito quest'anno. La nostra speranza è che questi siano solo i primi passi per la completa abolizione". Quali sono i possibili passi che si potrebbero fare per evitare la pena di morte? "Ci sono passi importanti che gli Stari potrebbero adottare immediatamente. Negli Stati Uniti, per esempio, la pena di morte continua ad essere attuata nei confronti delle persone con disabilità mentali e intellettive, in chiara violazione del diritto internazionale. Diversi altri paesi della regione mantengono ancora la pena di morte legale, anche se in pratica le esecuzioni non vengono effettuate. In molti di questi paesi vi è un vero movimento verso la piena abolizione, non da ultimo nei Caraibi". Egitto: il governo ordina ispezione di sette prigioni per presunte torture Nova, 2 aprile 2015 Il procuratore generale egiziano, Hisham Barakat, ha ordinato l'ispezione urgente di sette prigioni. Secondo il quotidiano "al Masry al Youm" la disposizione è stata presa dopo la decisione di indagare sulle torture di alcuni detenuti nel carcere di Abu Zaabal, nel governatorato di Qalubia. Il Consiglio nazionale egiziano per i diritti umani (Enhcr) ha chiesto l'apertura dell'inchiesta, dopo che una delegazione ha incontrato cinque detenuti che hanno detto di essere stati picchiati. La visita nel carcere è stata decisa dopo una denuncia presentata dal giornalista incarcerato Ahmed Gamal Ziyada, che sosteneva di essere stato torturato. L'Enhcr ha affermato, in un suo report, che i prigionieri vengono picchiati, non hanno accesso ai servizi igienici e hanno poco cibo e acqua potabile. Le autorità hanno chiesto di incontrare 12 prigionieri, ma sono stati autorizzati a parlare sono con cinque. Yemen: al Qaida assalta carcere e libera oltre 300 detenuti Ansa, 2 aprile 2015 Al Qaida nella penisola arabica (Aqpa) ha assaltato un carcere nello Yemen e ha liberato oltre trecento detenuti, tra cui uno dei suoi leader. Lo ha riferito una fonte della sicurezza di San'a. L'assalto è avvenuto nella prigione centrale di Moukalla, nel sudest del Paese. "Un dirigente di Aqpa, Khaled Batarfi, in carcere da oltre quattro anni, figura tra gli oltre trecento detenuti che sono riusciti a evadere dal carcere centrale di Moukalla", nella provincia di Hadramout, attaccata prima dell'alba dai combattenti della rete estremista, ha dichiarato questa fonte.