Giustizia: la Corte di Strasburgo rettifica "ai detenuti bastano meno di 3 metri quadri" di Giovanni Maria Jacobazzi Il Garantista, 29 aprile 2015 Paradossale pronuncia della Corte europea dei Diritti dell'Uomo su un caso croato. Smentita la sentenza Torreggiani: spazi stretti non più disumani, basta poter uscire un po' dalla cella. L'assist che non ti aspetti. Direttamente dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo. I giudici di Strasburgo, con la sentenza Mursic del 12 marzo scorso, spazzano via anni di battaglie a tutela dei diritti dei detenuti, mettendo una pietra tombale sul rimedio risarcitorio ex articolo 35 ter dell'Ordinamento penitenziario. Per l'Italia, con un sistema carcerario pessimo e sovraffollato, da sempre in cima a tutte le classifiche negative dei Paesi Ocse, è la manna dal ciclo. Da togliere il fiato al ministro Andrea Orlando che ad oggi, infatti, si è ben guardato da commentare il "regalo" della Cedu, senza il quale il nostro Paese avrebbe rischiato di pagare anche per quest'anno milioni di euro di risarcimenti per trattamenti degradanti. Ma facciamo un passo indietro. Nel dicembre del 2012, il detenuto croato Kristijan Mursic presentò ricorso alla Corte di Strasburgo lamentando scarse condizioni detentive per mancanza di spazio e di opportunità di lavoro. Mursic accusava il governo croato di averlo ristretto per undici mesi insieme ad altri sette detenuti in una cella, sporca e scarsamente accessoriata, di 18 mq incluso il bagno, e di non aver potuto svolgere attività lavorativa ed in generale attività ricreative e dì studio. Ma, a differenza della storica sentenza Torreggiani, che è richiamata tra la giurisprudenza, questa volta i giudici di Strasburgo capovolgendo i principi di distribuzione dell'onere della prova adottati in passato, hanno posto a fondamento della loro decisione le informazioni fornite dal Governo croato, non ritenendo credibili, perché non provate, le denunce di Mursic di scarsa igiene, cattiva alimentazione e mancanza di attività ricreative ed educative. Il Governo croato aveva sostenuto che Mursic, nelle celle dove era stato detenuto, aveva avuto a disposizione il "bagno separato, una adeguata ventilazione, aria e luce naturale nonché riscaldamento e acqua potabile". E che "per tre ore al giorno aveva potuto uscire dalla cella e, in aggiunta, aveva potuto usufruire della palestra, di un campo di basket e di badminton, del ping-pong ed aveva potuto prendere in prestito libri dalla biblioteca, guardare Tv e Dvd". Mursic, secondo il Governo croato, "aveva avuto a disposizione un letto singolo e le suppellettili (tavoli, letti e servizi igienici) che non gli avevano impedito di muoversi liberamente all'interno della cella, pur se talvolta, in effetti, aveva auto a disposizione uno spazio inferiore ai 3 mq". Il limite stabilito in precedenza per far scattare il risarcimento per trattamento detentivo inumano e degradante. Giustificazioni sufficienti per la Corte, per la quale è vero che Mursic si è trovato in condizioni non adeguate, ma "ciò è avvenuto per brevi periodi non consecutivi e anche nel periodo più consistente di 27 giorni consecutivi ha avuto comunque una sufficiente possibilità di movimento fuori della cella". I giudici di Strasburgo, in questo caso, si sono rifiutati di determinare quanti metri quadrati debba avere a disposizione un detenuto perché altri fattori assumono rilievo (la durata della detenzione, la possibilità di fare esercizio fuori dalla cella, le condizioni fisiche e mentali del detenuto), considerando sufficienti "tre ore al giorno fuori dalla camera di pernottamento, sebbene in aggiunta ad altre circostanze". Questo passaggio è, dunque, un elemento di novità rispetto alla giurisprudenza precedente della stessa Corte in cui il parametro era stato molto più esigenze. Nel richiamare, come detto la propria giurisprudenza, la stessa Corte ha ricordato che in alcuni casi (tra cui, appunto, il caso Torreggiani c. Italia) in cui il detenuto aveva a disposizione meno di tre metri quadrati di superficie, la condizione di sovraffollamento è stata considerata così grave da giustificare di per sé una valutazione di violazione dell'articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. La libertà di movimento, l'accesso alla luce naturale e all'aria, il tempo trascorso fuori dalla cella, la disponibilità di ventilazione, di adeguatezza dei mezzi di riscaldamento, la possibilità di utilizzare la toilette in privato, e il rispetto sanitario di base oltre ai requisiti igienici hanno, nel caso Mursic rappresentato una compensazione sufficiente alla detenzione in spazio insufficiente. Considerando che la palla al piede non è più prevista dal Settecento e che anche nelle carceri più disastrate d'Italia l'ora d'aria e la doccia gelata viene concessa, possiamo stare tranquilli. I diritti umani dei detenuti italici, anche se stipati come polli in batteria, sono rispettati. Così disposto dalla Cedu. Giustizia: FederSerd; misure alternative solo per il 15% dei detenuti tossicodipendenti www.quotidianosanita.it, 29 aprile 2015 "Revisione della legge sulle droghe e delle misure alternative alla detenzione del detenuto consumatore di sostanze in una risposta di sicurezza e di contenimento sociale dei costi". Questo l'appello della Federazione dei servizi di tossicodipendenza. D'Egidio: "Sono numeri allarmanti che dovrebbero indurre a modificare la normativa". "L'Italia è agli ultimi posti in Europa per numero di misure alternative. Secondo i dati della Relazione al Parlamento del 2014 solo circa 2.500 detenuti (cioè circa il 15% degli interi detenuti consumatori di sostanze) hanno potuto usufruire di misure alternative". Questo l'allarme lanciato da FederSerd nel corso del convegno "Carcere, droga e territorio" organizzato oggi a Roma. "Attualmente - ci ha spiegato il presidente di FederSerd, Pietro Fausto D'Egidio - circa il 30%, dei quasi 50.000 detenuti, sono consumatori di sostanze e la maggior parte di essi sono in carcere per aver commesso dei reati in qualche modo correlati all'uso di sostanze. Questa percentuale raggiunge circa il 50% fra i detenuti in attesa di giudizio". Il problema è che "in questi anni una serie di condizioni, legate in qualche misura a contesti normativi che andrebbero rivisti, ed a una mancanza di risorse e di investimenti, hanno fatto sì che in carcere siano stabilmente presenti circa 15.000 consumatori di sostanze, la maggior parte dei quali destinati a ricevere dei trattamenti inadeguati. Sono numeri allarmanti che dovrebbero sollecitare ad apportare modifiche normative". Numeri decisamente allarmanti che la Federazione vuole contribuire ad invertire anche perché investire sulle misure alternative vuol dire risparmiare. Secondo alcuni studi "è stimato come ogni dollaro speso nei trattamenti in carcere per i detenuti alcol/tossicodipendenti sia capace di diminuire di 7 dollari la spesa legata ai reati connessi con i problemi di alcol/tossicodipendenza. E la riduzione nella spesa legata ai reati commessi dai consumatori di sostanze, raddoppia se i programmi terapeutici consistono nelle cosiddette "misure alternative", cioè nello scontare la pena, per il detenuto alcol/tossicodipendente, in strutture riabilitative esterne al carcere". E il dato vale anche per l'Italia dove "i numeri dimostrano che mentre il tasso di recidiva nei detenuti che non hanno usufruito di misure alternative è del 68%, quello in coloro che ne hanno usufruito è del 18%". "Le ragioni di questa situazione - specifica D'Egidio - stanno in una cornice normativa che declina in maniera non scientificamente moderna i criteri per la certificazione di dipendenza, che non permette ai recidivi l'utilizzo delle misure alternative, che non distingue sul piano sanzionatorio il consumo delle diverse sostanze, che non permette programmi alternativi per i soggetti da dipendenza comportamentali e che non mette a disposizione risorse adeguate per programmi alternativi sul territorio. È per queste ragioni che chiediamo con forza una revisione della legge sulle droghe, ormai vecchia di più di 25 anni, ed un adeguamento dell'ordinamento penitenziario ai cambiamenti strutturali che hanno visto finalmente entrare il SSN in carcere". Ma altra tegola sono le scarse risorse. "Assistiamo ormai da anni ad una contrazione delle risorse di personale a fronte di nuovi impegni e nuovi incarichi come per esempio sulle patologie legate al gioco d'azzardo. Il problema è che sappiamo quali sono le azioni da intraprendere ma ci mancano le persone che sono il fulcro nevralgico della nostra attività". E poi c'è anche il problema della frammentazione regionale: "Serve più coordinamento tra i servizi di tossicodipendenza e i tribunali di sorveglianza". Situazione critica anche sugli Opg. "Nonostante la chiusura i dati sono allarmanti: dei 1.072 internati che erano ristretti negli Opg al 31.12.14, più del 70% sono consumatori problematici di sostanze e di questi solo pochissimi hanno ricevuto dei programmi appropriati e specialistici sul territorio. Nella maggior parte dei casi sono state realizzate solo delle mere revisioni di programma o di attribuzione di presa in carico, quasi mai integrate e strutturate con i Ser.D". "In questo contesto - ha concluso D'Egidio - presentiamo oggi la Carta di Roma dei principi etici e scientifici per il trattamento del detenuto consumatore di sostanze. Il documento che è un vero proprio vademecum vuole essere uno sforzo di mettere nero su bianco quei principi fondamentali che dovrebbero guidare l'azione di tutti". Giustizia: Luciano Violante (Pd) "il Governo è schiavo del populismo penale, fa solo spot" di Errico Novi Il Garantista, 29 aprile 2015 Ha ragione il Papa. Il populismo penale c'è. Eccome. E i tentativi di combattere la corruzione con gli innalzamenti di pena sono una via inutile. Pensiamo a cose efficaci…". Luciano Violante va come al solito per le vie brevi. Non esita a manifestare le proprie perplessità su alcune scelte recenti di governo e Parlamento. E cioè sulle risposte "populiste", appunto, fatte nel campo dell'anticorruzione, con l'omonimo disegno di legge, e dei tempi del processo, con la riforma della prescrizione. Violante non dice quello che, peraltro, una parte della magistratura vorrebbe. Neppure sulla responsabilità disciplinare, sua particolare battaglia, che andrebbe affidata "a un'Alta Corte di giustizia". Intanto il centro del discorso di questo 25 aprile è stato proprio la lotta alla corruzione, anche per il Capo dello Stato. È davvero quello il nuovo nemico da cui liberarci, onorevole Violante? "Si. Ma credo che la corruzione sia presente in molti Paesi, se non in tutti. Da noi il fenomeno si associa a una sostanziale inefficienza della pubblica amministrazione. Questa è una negativa specificità italiana. L'inefficienza è spreco, e funge da moltiplicatore degli effetti negativi delle pratiche illecite". Come si disinnesca il corto circuito? "Di sicuro il problema della corruzione non si risolve con l'aumento delle pene, non è quello il rimedio. Nessun corrotto o corruttore si astiene dalle malversazioni perché la pena è alta. Semplicemente non pensa di essere preso, come il ladro. Si deve trovare un'altra strada. Qualche suggerimento da ascoltare, peraltro, mi pare di averlo sentito". A cosa si riferisce? "Al discorso pronunciato dal Papa nell'incontro con l'Associazione internazionale dei penalisti. In quell'occasione la critica al cosiddetto populismo penale è stata un sasso nello stagno. Il continuo inseguimento della pena, come soluzione di tutti i mali, può servire al massimo a raccogliere facili consensi. Servono tecniche di prevenzione. Che naturalmente vanno concepite in modo che non diventino oppressive". Viceversa nel disegno di legge anticorruzione il piatto forte apparecchiato da governo e Parlamento è proprio l'innalzamento delle pene. In più c'è l'allungamento a dismisura dei tempi di prescrizione dei reati. "Pene più alte per la corruzione, prescrizione più lunga… siamo sempre nell'ambito del populismo penale. Se la prescrizione di un reato come la corruzione propria viene portato fino a venti anni sa cosa succede? Che nel 2035 nessuno riterrà che quel fatto di vent'anni prima meriti ancora di essere perseguito, nessuno ne percepirà più la gravità. Sono manifesti per tranquillizzare l'opinione pubblica. Piuttosto che ad alzare le pene e a dilatare la prescrizione pensiamo ai meccanismi di prevenzione. Proviamo a individuare quei punti che, se colpiti, fanno saltare il meccanismo delle pratiche corruttive". L'Authority di Cantone ora può commissariare le imprese "sospette" o anche singoli appalti ad esse aggiudicati. È la strada giusta? "Le tecniche per prevenire la corruzione dovrebbero seguire il percorso di ricerca adottato contro la mafia: le si mette a punto dopo una serie di tentativi. È inevitabile. Come sarà inevitabile che alcuni rimedi si riveleranno inadeguati. Francamente credo occorra verificare dopo un tempo ragionevole se procedure come quelle citate siano sufficienti. Alcune potrebbero non esserlo, anche se si tratta di misure in sé positive. Ma sa come dicono gli inglesi: il budino si giudica dopo averlo assaggiato. Diciamo che in questo caso sarà necessaria una prova di almeno un altro anno e mezzo". Adesso il dibattito sulla giustizia pare molto condizionato dall'urgenza del consenso. "In particolare sulle proposte anticorruzione mi pare di assistere a una dinamica assimilabile, anche da questo punto di vista, al dibattito sulla mafia: a parole tutti vogliono combattere il fenomeno, poi sui rimedi emergono sempre dei distinguo. Forse è fisiologico, ma le distinzioni affiorano solo quando si arriva al dunque". Si riferisce alle tensioni nate sulla riforma del falso in bilancio? "Sì, e però vorrei aggiungere che in questo caso mi trovo d'accordo con la scelta di colpire quei comportamenti. Da una parte le alterazioni contabili consentono di tenere da parte riserve di nero. Dall'altra, il fatto che la correttezza dei bilanci delle imprese italiane possa essere dubbia scoraggia gli investitori stranieri". Torniamo al processo. Allo stato non si intravedono interventi per rendere più rigorosi i termini temporali delle indagini. L'iscrizione della notizia di reato resta un evento lasciato all'arbitrio del pm. "Perché i processi siano veloci c'è bisogno che si comincino a prevedere cancellieri e segretari in servizio anche oltre le colonne d'Ercole delle ore 14. Se non si trovano le risorse per pagare gli straordinari, e a quell'ora il funzionario lascia il giudice e l'udienza, si alza e va via, è chiaro che per finire il processo ci vuole il doppio del tempo. Prima di pensare a norme stratosferiche, meglio assumere un po' di funzionari amministrativi in più o pagare gli straordinari a quelli che ci sono. Aiuterebbe a risolvere i problemi più di tanti noiosi dibattiti sulla durata delle indagini". Vero. Però è nella fase preliminare che la maggior parte dei processi va in prescrizione: circa il 70 per cento, calcolato sul totale dei reati che si estinguono per decorrenza dei termini. "Non conosco questo dato. Ma è giunto il momento di una discussione seria sulle indagini preliminari. Non credo che ci siano abusi particolari, ma un buon sistema di governo consiste nell'applicare le norme per 5 o 6 anni e poi vedere com'è andata, se gli obiettivi sono stati raggiunti. E credo che la magistratura, l'avvocatura e gli studiosi, con molta serenità, possano avviare questa discussione. Se no, paradossalmente, stiamo sempre dentro una sorta di processo pregiudiziale a carico dei magistrati. D'altra parte può darsi che una parte dell'ordine giudiziario sconti un eccesso di presenza, e che appunto qualcuno compia abusi, ma sappiamo che non si tratta della maggioranza. Ma tutti sono danneggiati". A proposito di processi ai giudici, da tempo lei propone di assegnare la loro valutazione disciplinare a un'Alta Corte di giustizia, separata dal Csm. Pare invece che al massimo ci saranno nuove regole per la sezione interna al Consiglio superiore. I cui componenti non potranno far parte di altre commissioni. "Credo sia una soluzione inadeguata: resterebbe il peso delle correnti. Istituire l'Alta Corte non sarebbe difficile. Occorre coraggio politico. Ed è un'idea condivisa da moltissimi magistrati di tutte le giurisdizioni. Comunque l'eventualità che ci siano professioni ostili a una riforma, in linea generale, non può essere il motivo per rinunciarvi, se la riforma è giusta". Va detto che la riforma della responsabilità civile è passata nonostante il parere contrario dell'Anm. "La nuova disciplina in alcuni casi può creare situazioni pericolose. In particolare per i corpi numericamente più ristretti, come ad esempio il Consiglio di Stato, dove chi propone l'azione contro il giudice è portatore, inevitabilmente, di interessi economici enormi. Se voglio sbarazzarmi di un magistrato propongo un'azione di responsabilità civile contro una sua decisione e intanto ottengo di costringerlo ad astenersi. Fino a paralizzare il processo. Vanno prese contromisure per impedire le azioni pretestuose. E poi, ferma la risarcibilità del danno ingiusto subito dal cittadino, il luogo della responsabilità del giudice, in tutti i Paesi, è un rigoroso disciplinare. Se così com'è oggi non va, istituiamo l'Alta Corte". Giustizia: quel pm che infierisce sul suicida nel 1979 mi fece arrestare… ma poi si scusò di Tiziana Maiolo Il Garantista, 29 aprile 2015 "Cara signora, temo che per lei le cose si mettano male...". "Lei mi dovrà chiedere scusa...". Il dialogo, un po' surreale, si svolgeva in un ufficio del quarto piano del Palazzo di giustizia di Milano, dove c'era, e ancora c'è, la Procura della Repubblica più famosa d'Italia. Era il 1979, un secolo fa. Davanti a me un giovane sostituto di nome Corrado Carnevali, quasi omonimo di quello più famoso, non fosse stato per quella "i" finale che ne denota origini più padane che meridionali. Fatto sta che quel giorno, interrogata come teste nelle indagini sull'omicidio del magistrato Emilio Alessandrini, finii in manette al carcere di San Vittore. Le manette me le ha messe lui, il sostituto Corrado Carnevali, giovane Pm bolognese, oggi procuratore capo di Monza, che ha preso quel brutto scivolone sul suicidio del padre di un suo indagato. E che ieri ha provato ha spiegare la frase del giorno prima con una chiosa forse peggiore: "Vogliamo che ognuno faccia quel che vuole perché se viene scoperto qualche suo caro potrebbe compiere qualche gesto sciagurato?". Meglio tornare al 1979. Quando mi aveva arrestato, a me il pm Carnevali era parso una persona per bene, quasi imbarazzato quando il suo capo, il procuratore Mauro Gresti, gli aveva detto di far scattare le manette ai polsi di questa falsa testimone che ero io. Con gentilezza aveva allontanato fotografi e cameramen dalla mia faccia sconvolta, mi aveva protetta. E quando, due giorni dopo, e dopo il secondo interrogatorio in carcere, mi aveva scarcerata, aveva sussurrato: "Lei aveva ragione, le chiedo scusa". Per questo io non ritrovo, nelle parole di un procuratore capo che di fronte al suicidio di una persona che inveisce contro la malagiustizia prima di togliersi la vita dice "tanto dicono tutti così", il Corrado Carnevali che ho conosciuto tanti anni fa. Allora fu coraggioso, oggi no. La Procura di Gresti aveva gli stessi modi spicci di quella di Borrelli e anche di Bruti Liberati. Erano gli anni del terrorismo e anche della sovversione sociale, due fenomeni che i magistrati tendevano a equiparare, tanto che tentarono in ogni modo di coinvolgere Toni Negri nel rapimento del presidente Aldo Moro. Io ero cronista giudiziaria del Manifesto e seguivo tutte le inchieste dell'epoca. Avevo buoni rapporti quotidiani con tutti i magistrati milanesi. Di alcuni ero diventata amica. Perché divenni una testimone così importante da essere addirittura arrestata allorché la mia versione dei fatti disturbò i piani della Procura? Per aver partecipato a una cena di troppo. Era il 1978, proprio i giorni del rapimento Moro. La cena si svolse a casa di un mio amico Pm, Antonio Bevere, esponente di Magistratura democratica e direttore della rivista Critica del diritto, cui collaborava anche il professor Antonio Negri detto Toni, prestigioso docente dell'Università di Padova. Proprio a causa della presenza di quest'ultimo, alla serata partecipò anche un altro Pm, Emilio Alessandrini, giovane magistrato di grandi curiosità intellettuali, che aveva espresso il desiderio di conoscere il leader di Autonomia Operaia. Contando i rispettivi coniugi, eravamo in otto. E anche questo avrà importanza nell'inchiesta. Una serata un po' noiosa, nel mio ricordo, egemonizzata da Toni Negri, che avanzava le ipotesi più assurde sui rapitori di Moro, che lui individuava in "vecchi partigiani". Alessandrini ne pareva attratto. Ma tutto fu dimenticato fino a quando, meno di un anno dopo, il nostro amico Emilio fu assassinato da un commando di Prima Linea. La Procura di Milano (che in realtà non avrebbe dovuto nemmeno occuparsi del delitto) andò letteralmente in tilt, e alcuni giornali (sempre prima l'Unità, ovviamente), cominciarono a parlare della nostra cena. Che era diventata, nella fantasia del circo mediatico-giudiziario, la trappola tesa da Toni Negri, con la complicità di Bevere, ad Alessandrini per prendergli le misure e poi farlo ammazzare. Alla serata avevano preso parte in sei: i coniugi Alessandrini, i coniugi Bevere e i coniugi Negri. In sei? E noi? Stefano, mio marito, e io eravamo due giornalisti, lui lavorava all'Ansa. Non potevamo tacere. Così scrivemmo della nostra presenza, della serata normale e del fatto che l'iniziativa della cena era stata presa da Alessandrini. Ma Paola, la moglie di Emilio, sconvolta dal dolore, diceva che noi non c'eravamo. Così finimmo a San Vittore tutti e due, dopo interrogatori surreali, del tipo: che cosa avete mangiato? Mah, caponata, gatò di patate (Bevere è napoletano e cucina benissimo): sbagliato. Come eravate seduti a tavola? Mi faccia un disegno: sbagliato. Lei con che mezzo è arrivata alla cena? Mah, in auto con mio marito: sbagliato. "Le cose per lei si mettono male. Lei a quella cena non c'era, se lo è inventato per aiutare il suo amico Bevere...". In galeeeera! Volete sapere come è finita? Ci ha salvato Toni Negri, che nel frattempo era in carcere a Rebibbia per l'inchiesta "7 aprile" (da cui sarà assolto), che si era ricordato un particolare da me rimosso: mio marito era arrivato in ritardo perché seguiva un corso di vela. Solo loro due se lo erano ricordato, e non potevano essersi messi d'accordo. Vabbè, due giorni di galera non sono tanto, anche se da innocente. Ma da allora io non sono più tanto amica dei magistrati. E nessuno, come scrisse allora la rivista satirica Il Male, vuol più andare a cena a casa Bevere. Giustizia: l'arresto e la gogna sul web, ecco perché mio padre ha deciso di farla finita di Giuseppe Filetto La Repubblica, 29 aprile 2015 "Non collego il suicidio di mio padre al mio arresto, e sono convinto che i giudici svolgeranno il loro lavoro - dice Marco Ballario Menetto, il figlio arrestato di Francesco, il pediatra che non ha retto alla vergogna e si è gettato dal Ponte Monumentale di via XX Settembre, a Genova. Io e mia moglie dimostreremo la nostra estraneità ai fatti, ma sull'opportunità di applicare una misura cautelare abbiamo da lamentare. Quello che abbiamo subito, bisogna provarlo...". Il farmacista è nervoso, ha la faccia stanca di uno che non dorme da 48 ore e ha pianto. Puntate l'indice contro la procura di Monza? "Abbiamo ricevuto l'avviso di garanzia nel settembre del 2012, abbiamo continuato a lavorare, ci siamo anche sposati. Già tre anni fa ero stupito di essere indagato, figuriamoci quando ci è stato notificato l'arresto. Non mi aspettavo una misura così restrittiva, anche perché non siamo stati sentiti dai magistrati, né sono stati contattati i nostri avvocati". Arresti domiciliari perché la magistratura ha ritenuto sussistente la reiterazione del reato. Lei ha continuato ad acquistare farmaci di provenienza illecita. C'era il pericolo di fuga, per i pm. "Non capisco per quale motivo sarei dovuto scappare da Genova. E poi, da quelle ditte coinvolte nell'indagine dei Nas non ho più comprato. Avevo tagliato i ponti già da subito, con qualcuna già prima. Non avevano prezzi vantaggiosi". Eppure la accusano di avere acquistato farmaci rubati. "Secondo voi compro medicinali dal riciclaggio, poi faccio i bonifici bancari, registro le fatture e trasmetto i numeri di serie al Ministero della Salute? Tutti passaggi tracciabili". Quale è stata la sua reazione quando ha saputo che lei e sua moglie, Valentina Drago, eravate agli arresti? "Non essendo delinquenti di professione, bloccati in casa, senza poter telefonare, con i carabinieri che ti controllano a qualsiasi ora, che ti svegliano alle 3 del mattino per verificare se sei in casa, è devastante. Mi accusano di partecipare ad una associazione a delinquere. Noi, oltre ad avere la farmacia in via Bixio, siamo anche distributori e il giorno dopo il mio arresto abbiamo ricevuto le disdette di moltissimi ordini". E suo padre? "Non credeva a tutto ciò. Mi ha cresciuto e mi ha educato sui valori in cui credeva, mi faceva coraggio, aveva fiducia in me". Però non ha retto. "Tutti questi fatti hanno incrinato la famiglia, tutte le persone care hanno accusato un duro colpo. Vedere il figlio sbattuto in prima pagina come un delinquente, per noi è una gogna. Tanto che si è suicidato e mia madre stava per andargli dietro". Questa vicenda ha pesato sulla professione di Francesco Menetto? "Potete chiederlo a chi l'ha conosciuto - ripete, singhiozzando - era amato dai bambini e dai genitori: alle 3 di notte si alzava ed andava in visita domiciliare, in estate non faceva le vacanze per non lasciare i bambini, non andava al cinema per non spegnere il telefonino. Eppure, sui social network ha letto commenti di ogni genere: "Lucrano sulla vita degli altri", oppure "Chiudetegli la farmacia". Poi sono iniziate le telefonate offensive, del tipo: "Ma che vaccino ha usato per mio figlio?", "Ci prescrive farmaci rubati?". Accuse insopportabili". Sono cresciuti i sospetti anche sul suo lavoro di pediatra? Prima di rispondere il farmacista guarda la moglie, quasi cercasse l'autorizzazione. "L'ultimo colpo è arrivato la scorsa settimana: mio padre è rimasto un giorno intero senza essere chiamato dai pazienti, senza fare una visita. Non era mai accaduto". E sua mamma? "Non si aspettava questa batosta. Ieri sono andato a trovarla in ospedale, mi ha detto che voleva buttarsi anche lei: erano legatissimi. Non ho capito ancora cosa è accaduto domenica sera, non ho voluto chiederglielo, anche perché tuttora non ha realizzato". Giustizia: noi magistrati nel mirino, chiedo scusa alla famiglia ma non rinnego quella frase di Piero Colaprico La Repubblica, 29 aprile 2015 La foto ufficiale del presidente della Repubblica è ancora quella di Carlo Azeglio Ciampi, le nuove non sono mai arrivate. A sinistra della scrivania ci sono quelle di tre papi, Wojtyla, Giovanni XXIII e Francesco. Manca Benedetto XVI. Sulla scrivania, pile di fascicoli, e altri, con "firma urgente", ne porterà poco dopo un cancelliere: "Qui - dice Corrado Carnevali, procuratore capo di Monza - ogni anno apriamo 17mila fascicoli per quindici sostituti procuratori, uno ogni 70mila abitanti circa, ma lei non è qui per questo record negativo, immagino". Il caso è ormai noto, dottor Carnevali. Un genitore di 65 anni si suicida a Genova, dopo che su richiesta di questa procura il figlio farmacista viene messo agli arresti domiciliari. Prima di buttarsi da un ponte, il padre lascia scritto "Magistratura miope a volte uccide", e lei risponde "Ormai dicono tutti così". È una frase che rinnega? "Non la rinnego, ma il fatto è che ho risposto al telefono a una giornalista, ho fatto un lungo discorso che cominciava con il cordoglio, com'è comprensibile. Poi ho detto quello che pensavo, e sono le stesse cose che ha detto più autorevolmente il presidente della Repubblica Mattarella convocando il Csm dopo i tre omicidi dentro il palazzo di giustizia di Milano, e cioè che "i magistrati sono sempre in prima linea e ciò li rende particolarmente esposti, e anche per questo va respinta con chiarezza ogni forma di discredito nei loro confronti". In più, conosco le carte, sono convinto che il mio sostituto, che ha chiesto l'arresto del farmacista genovese, e che per esempio ha scoperto chi stava dietro il cosiddetto "caso Boffo", stia svolgendo un'inchiesta accurata, quindi perché "magistratura miope"? Gli avvocati dell'arrestato hanno fatto ricorso, gli arresti sono stati confermati, perché accusarci così? Noi ci occupiamo di reati, dobbiamo smettere forse d'indagare? Che cosa si vuole da noi delle procure?" È comunque il biglietto di un suicida. "Lo so e in 47 anni di magistratura mai m'è successo né di entrare in polemica né di essere travisato. Forse è un segno dei tempi che sono cambiati e quest'anno vado in pensione". Tempi cambiati come? "C'è un clima impensabile negli anni in cui mi sono occupato di terrorismo, quando sono stato in Corte d'appello durante Tangentopoli. Comunque, sappia che tutto volevo fare meno che offendere una persona che s'è tolta la vita, o i suoi familiari. È successo qualcosa andato ben al di là della mia intenzione". Ma il montare delle polemiche non l'ha colpita? "La verità? Mi ha chiamato mia figlia, in serata, ma insomma, mi sembrava esagerata, convinto com'ero di non aver detto niente di male. Non ho visto la tv, stamani non sono ancora riuscito a leggere i giornali perché s'è tenuta una riunione sulla manutenzione del Palazzo di giustizia e ho saputo in ritardo, e con sorpresa, che anche il viceministro alla giustizia Costa mi ha criticato. Se mi avesse fatto una telefonata, avrei detto subito che è stata estrapolata una piccola frase da un contesto più vasto in cui prevaleva il cordoglio. E se c'è da chiedere scusa chiedo scusa, ci mancherebbe. Ma in piena coscienza a tutto pensavo meno di poter aggiungere dolore a dolore, però…". Però? "Oggi vedo ribaltarsi il concetto stesso di giustizia. Come se fosse in atto una sorta di rivoluzione copernicana, per cui l'illegalità è sempre più diffusa, l'impunità sembra una regola e poi… ascolti, c'è una lettera, mandata qualche giorno fa in carcere all'uomo che ha sparato nel tribunale di Milano, che mi ha particolarmente colpito". Una lettera a Claudio Giardiello? "Sì, lettera anonima, il carcere ce l'ha mandata per competenza. Scritta da uno che gli dice che "almeno l'80% della gente è con te". E si congratula con questa frase: "Un magistrato in meno, qualcuno gli ha fatto capire come gira il mondo". Insomma, secondo l'anonimo i cittadini "sono esasperati" contro i magistrati che "non sono stati eletti dal popolo" e che "liberano i criminali e non arrestano gli zingari e i ladri di rame". La conclusione è: "Temete l'ira dei mansueti". Non credo che l'80% degli italiani stia con l'indagato detenuto nel carcere di Monza, sia chiaro, però…". Giustizia: il suicidio e la polemica… e se i magistrati la piantassero di commentare? di Filippo Facci Libero, 29 aprile 2015 No, non dovete smettere di indagare, forse dovete solo star zitti. Forse dovete piantarla, cioè, di rinfocolare polemiche inutili e di metterla ogni volta in termini semplicistici: come a dire che al mondo esista un solo modo di indagare e di procedere, il vostro. Un medico genovese si è suicidato perché il figlio era finito agli arresti per un'inchiesta della procura di Monza: e c'è il morto, c'è il suicidio, si sconfina nell'insondabile, c'è un ultimo biglietto che non dice neanche granché: "La magistratura miope a volte uccide". A parte che è vero, sono le parole di un disperato che sta per buttarsi da un ponte: a che serve commentare, se non a evidenziare che si è accusato il colpo? A che serve dichiarare a caldo che "dicono tutti così"? E a che serve dichiarare a freddo il giorno dopo - come ha fatto il capo della procura monzese - che "attaccare i magistrati ormai è diventato l'alibi di chi ha qualche altarino"? Che ce ne facciamo, di un alto togato che mette in alternativa secca che "i giudici facciano il proprio mestiere" oppure "liberi tutti", come a dire: prendere o lasciare? Fosse almeno una polemica nuova, beh, allora parleremmo di arroganza e di certa magistratura. Ma non è neanche così: di suicidi giudiziari ne abbiamo visti troppi. È debolezza. È cedimento. È incapacità di un saper tacere che dovrebbe rientrare tra i doveri più sensibili e solenni: solo così si evitano o minimizzano le strumentalizzazioni, solo così si evita che lo stolto getti il cadavere del suicida ai tuoi piedi, puntando il dito in un periodo in cui tutti puntano il dito su tutti. Anche perché la stampa, su queste cose, ci marcia: è prontissima ad attribuire un suicidio a precisi generi di causalità (tipo la crisi economica) facendo forzature immonde e dimenticando gli unici suicidi in sicuro aumento, in Italia, sono quelli in carcere. La stampa, come certi magistrati, è così: è pronta a incolpare o discolpare senza nessuna sfumatura. Prendete Mani pulite, visto che, tra una fiction e l'altra, è tornata di moda: dal 1992 al 1998 i suicidi "giudiziari" sparsi in giro per l'Italia furono 45, cifra tutt'altro che fisiologica: e ben 32 furono addensati dal 1992 al 1994, nel periodo in cui impazzava la carcerazione preventiva. Credete che la cosa fece in qualche modo riflettere? Era solo una gara a chi la sparava più grossa. Quando un dirigente politico di Lodi si uccise, a inizio inchiesta, la procura di Milano precisò che era "una delle tante persone ascoltate nell'ambito dell'inchiesta" e "non era inquisito". Poi però i giornali scrissero il contrario, perché c'era da tenere viva l'inchiesta e dire che sì, insomma, però il suicida era colpevole. Quando si sparò una fucilata il parlamentare Sergio Moroni, ricorderete, l'allora procuratore aggiunto milanese disse "c'è ancora qualcuno che si vergogna e si suicida", lasciando i cronisti esterrefatti. Quando ci furono i suicidi di Gabriele Cagliari e Raul Gardini, poi, il vicepresidente del Csm intervenne per dire "la custodia cautelare non si tocca" (anche se oggi i più convengono che in quel periodo se ne abusò) perché c'era da difendere una posizione politica: tanto che, secondo un sondaggio elaborato subito dopo i suicidi eccellenti, il 60 per cento degli italiani riteneva che l'uso della carcerazione andasse bene così. Siamo abituati a che tutto si tiene, anche un suicidio: può servire per dire che la magistratura è cattiva o può servire per dire che la magistratura aveva ragione. Un gioco stupido che avrebbe una soluzione: non giocare, non partecipare, non cedere, non prestarsi all'intervistina che prenderà le tue parole di magistrato e le stiracchierà sino a farne un titolo. C'è da tacere, cioè. C'è da esserne capaci. Giustizia: mostrare le immagini di Massimo Bossetti in manette, una inutile umiliazione di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 29 aprile 2015 Per una volta, partiamo dalla presunzione di colpevolezza. Proviamo a immaginare qui e ora, contro le garanzie costituzionali dovute a qualsiasi imputato sino a sentenza definitiva, che Massimo Giuseppe Bossetti sia senz'altro l'assassino di Yara Gambirasio. È del resto opinione condivisa. Alzi la mano chi pensa che il muratore di Mapello, incastrato dal Dna (solo nucleare) e appena rinviato a giudizio, non abbia ammazzato la piccola ginnasta di Brembate. Dunque abbiamo un mostro (non presunto, ricordate? Qui anzi ne presumiamo la colpevolezza) che s'è macchiato del reato più infame, contro una bambina. Un dissimulatore che possiamo perfino detestare. E, tuttavia, le immagini diffuse in tv l'altro giorno sul suo arresto nel cantiere di Seriate a giugno 2014 toccano dentro di noi una corda, lo vogliamo o no. Quell'uomo (un uomo, sì) fatto inginocchiare e ammanettato su un ponteggio braccia dietro la schiena, l'uomo cui sfilano gli stivali e che chiede "un po' d'acqua per favore", si riappropria, ci piaccia o meno, della sua umanità, un po' come accade in scala ben maggiore ai tiranni caduti. E ci mette in crisi. Non solo perché - come ricordano le Camere penali - la legge prescrive il rispetto della dignità degli arrestati (mostri compresi) almeno dall'immagine infame degli schiavettoni a Enzo Carra in avanti. Ma perché l'umiliazione del reo umilia il processo in sé, lo riduce a rito tribale, è un affronto alle stesse vittime e parti lese. Quelle immagini, divulgate da qualche investigatore ma pubblicate da giornalisti (con la stessa disinvoltura con cui si pubblicano intercettazioni privatissime aprendo così una disputa politica dove basterebbe un po' di sana deontologia), ci costringono a un'empatia che non vorremmo. E, ahinoi, ci insinuano persino una questione più subdola. Provate a rovesciare lo schema dialettico di queste righe. E a supporre, solo per un attimo e per amor di Costituzione, che quel colpevole da zoo possa essere, addirittura, innocente. Giustizia: 2.650 lavoratori "tirocinanti" a rischio. Il ministro Orlando: soluzione per tutti Il Manifesto, 29 aprile 2015 Per 2.650 lavoratori il rischio di essere licenziati dal primo maggio. Ma la protesta paga. Orlando li incontra e promette di salvarli. Per loro il primo maggio rischia di essere il giorno del licenziamento. Non la festa del lavoro. Dopo anni di lavoro passati a tenere in piedi i tribunali di mezza Italia e la disastrata giustizia italiana. Sono i tirocinanti della giustizia: 2.650 lavoratori impegnati da cinque anni in "tirocini formativi" negli uffici giudiziari della penisola. Pagati con rimborsi da fame: circa 300 euro al mese. Quando arrivavano. Ieri hanno deciso di far sentire la loro voce: alla mattina di fianco al ministero della Giustizia (a via Arenula) e il pomeriggio di fronte a Montecitorio (impegnato in tutt'altro), in entrambi casi sotto la pioggia. Una protesta che ha già dato i suoi frutti: il ministro Andrea Orlando li ha ricevuti e preso l'impegno di trovare "una soluzione per tutti". Con una bara di cartone con su scritto "giustizia", passata di braccia in braccia, i tirocinanti dei tribunali erano arrivati da tutta Italia. Lavoratori di tutte le età, dai 30 ai 60 anni, che chiedono di restare al loro posto, perché ciascuno di loro rischia di andare a casa. "Siamo entrati nei Palazzi di Giustizia - spiega Felice Pizzuti, tirocinante al Tribunale civile di Roma - con un progetto per cassaintegrati. Impiegati nei tribunali con un rimborso spese. Io, ad esempio, percepivo 10 euro al giorno per 36 ore settimanali". "Ma la speranza, per ciascuno di noi - prosegue Pizzuti - era quella di un'opportunità, uno spiraglio, una volta terminata la cassa integrazione. Anche perché se ci hanno impiegato è perché ce n'era effettivamente bisogno. E invece, finito l'ammortizzatore sociale si torna a casa. E di questi tempi, con questa crisi senza precedenti, non è semplice". Sono i cosiddetti lavoratori svantaggiati, ex cassintegrati, lavoratori in mobilità e disoccupati, "utilizzati" con la forma del tirocinio ma in modo improprio, "per non dire vero e proprio lavoro nero", mascherando veri e propri rapporti di lavoro subordinato. "Fino ad oggi gli interventi fatti sono stati insufficienti - afferma Nicoletta Grieco della Fp Cgil, volti a mettere i lavoratori gli uni contro gli altri, e non funzionali a mandare avanti la macchina della giustizia". Il presidio aveva come scopo quello di chiedere al governo e al ministro Andrea Orlando "investimenti sul personale che comprenda la contrattualizzazione dei precari e la riqualificazione del personale giudiziario - continua Grieco - non si può disperdere un personale formato e qualificato, eppure utilizzato sotto forma di lavoro nero e mal pagato. Così come non è possibile privilegiare alcune categorie, rispetto ad altre, visto che stiamo parlando per la gran parte di lavoratori svantaggiati. E la risposta del ministro pare incoraggiante. "Il ministro Orlando ha incontrato una delegazione dei precari della giustizia - riferiscono i sindacati - e ha assicurato loro che non verrà lasciato indietro nessuno. Si partirà quindi dai primi mille da impiegare negli uffici dei processi per poi coinvolgere anche le regioni per la restante parte e garantire una soluzione per tutti". Giustizia: Cassazione; ok utilizzo dati rubati come elemento di prova contro evasori fiscali di Valerio Stroppa e Cristina Bartelli Italia Oggi, 29 aprile 2015 La lista Falciani è utilizzabile dal fisco italiano. I valori collegati al diritto alla riservatezza e al segreto bancario "sono sicuramente recessivi di fronte a quelli riferibili al dovere inderogabile imposto a ogni contribuente dall'articolo 53 della Costituzione". Ossia l'obbligo di pagare le tasse secondo la propria capacità contributiva. E non rileva nemmeno il fatto che i dati siano stati originariamente trafugati da un ex dipendente della banca Hsbc, in quanto l'amministrazione finanziaria italiana li ha ricevuti dalle autorità francesi a seguito di corretta applicazione della vecchia direttiva sullo scambio di informazioni (direttiva 77/799/Cee) e della convenzione bilaterale: l'eventuale responsabilità penale dell'autore materiale del furto di dati rileverà semmai nel paese di commissione dell'illecito, mentre in Italia è compito del giudice nazionale stabilire se la lista è utilizzabile o meno. Ad affermarlo è la Corte di cassazione, che con le ordinanze n. 8605/15 e n. 8606/15 di ieri fornisce il primo orientamento sulla controversa questione della lista Falciani. L'elenco dei 7 mila clienti italiani della filiale di Ginevra della Hsbc è stato sottratto dall'informatico Hervé Falciani, ma, una volta acquisito dalla magistratura transalpina, la sua trasmissione ai verificatori italiani è avvenuta secondo le ordinarie regole sulla cooperazione amministrativa. Nelle due cause finite al vaglio del Palazzaccio, alcuni correntisti erano stati raggiunti da un accertamento relativo ai capitali detenuti in Svizzera e non dichiarati nel quadro RW di Unico. In giudizio, però, i contribuenti avevano avuto ragione sia in primo grado dalle Ctp di Como e Lecco sia in appello dalla Ctr Lombardia. In un caso i giudici di merito avevano motivato facendo riferimento alla decisione del Gip di Pinerolo che, nel disporre l'archiviazione per il reato di dichiarazione infedele a carico di un contribuente terzo, aveva anche ordinato la distruzione degli atti derivati dalla lista (si veda ItaliaOggi del 6 ottobre 2011). In un altro caso veniva richiamata un'analoga decisione assunta dalla Corte d'appello di Parigi. Un orientamento errato, secondo i giudici di legittimità, in quanto il Gip di Pinerolo "ebbe a pronunciarsi su mezzi di prova rispetto ai quali nessun elemento è stato esposto dal giudice di appello". A parere della Cassazione, né la direttiva europea sullo scambio di informazioni né la giurisprudenza della Corte di giustizia Ue affermano, come invece ha ritenuto la Ctr, che l'autorità italiana avesse un "obbligo di verifica circa la provenienza e l'autenticità della documentazione trasmessa". L'amministrazione finanziaria non aveva quindi alcun onere di indagare la genesi della lista Falciani, anche perché i documenti acquisiti hanno natura di atti amministrativi ed "esulano dalla disciplina relativa alle rogatorie". Così come non vi è alcun diritto del contribuente "a essere preventivamente informato". Ma il principio di diritto affermato nelle pronunce di ieri è la prevalenza del dovere di pagare le tasse sul diritto alla riservatezza. Entrambi trovano fondamento nella carta costituzionale ma, secondo gli ermellini, il principio di capacità contributiva previsto dall'articolo 53, unito "all'altrettanto cogente obiettivo di realizzare una decisa lotta ai paradisi fiscali, giustifica l'utilizzabilità delle prove acquisite dall'amministrazione con le modalità qui esaminate". Un commento sulla sentenza arriva dall'avvocato Asa Peronace che ha assistito uno dei contribuenti in giudizio: "Le conclusioni sono ispirate a esigenze di puro gettito, non sfugga il fatto che siamo nella fase "calda" delle adesioni dei contribuenti alla procedura della voluntary disclosure, e assolutamente non condivisibili sul piano squisitamente giuridico". E non solo. Guardando al futuro e agli effetti delle due sentenze nei rapporti fisco/contribuente l'avvocato Peronace evidenzia che: "Il principio di diritto sancito dalla Corte di cassazione ha notevolmente rinforzato i poteri di controllo dell'amministrazione finanzia, riducendo, di riflesso, le "armi" difensive a disposizione del cittadino e lasciando al contribuente accertato esclusivamente la possibilità di contestare la pretesa erariale sul piano del puro merito. Pertanto i soggetti titolari di disponibilità estere "occultate" al fisco e, ad oggi, non controllati dall'Agenzia delle entrate, dovranno considerare con ancora più attenzione l'opzione di aderire alla collaborazione volontaria". Lettere: puniamo i pm che sbagliano o vincerà la giustizia fai da te di Davide Giacalone Libero, 29 aprile 2015 La giustizia è raffigurata talora bendata e talora vigile, ma sempre con la bilancia più in alto della spada. L'equilibrio prima della forza. La garanzia prima della punizione. La nostra giustizia fa precedere la spada alla bilancia, la punizione al giudizio. Non le basta essere cieca, pratica anche l'insensibilità. In poche ore una collana di fatti, che è una catena al collo di tutti. Stiamo ancora aspettando che il presidente della Repubblica intervenga, come è necessario. Stiamo ancora aspettando una risposta alle domande: come è possibile che la Cassazione pensi di dirimere un conflitto giurisprudenziale con un comunicato stampa, insultando i giudici autori delle sentenze? E come è possibile che in quello neghi l'esistenza di alcune massime, elaborate dalla Cassazione stessa? Nessuno creda che la faccenda si possa chiudere sol perché il silenzio di quasi tutti l'accompagna. Nessuno creda che il tacere, increscioso e imbarazzante, dell'informazione sia capace di silenziare le coscienze. Restiamo in attesa. Nel frattempo apprendiamo che Gai Mattiolo, stilista, è innocente del reato ascrittogli. La procura aveva chiesto di condannarlo a 4 anni e 4 mesi di galera. Il tribunale ha sentenziato: "il fatto non sussiste". Non ci fu bancarotta, non ci furono distrazioni, non ci furono falsi. Nessuno degli imputati è colpevole. Sussiste un fatto, però: Mattiolo ha subito quattro mesi di custodia cautelare, ha vissuto sette anni da imputato. La procura non avrebbe dovuto indagare e accusare? Certo che deve, se pensa di averne gli elementi, ma ora sappiamo, per certo, che il giudice che dispose gli arresti commise un gravissimo errore. E sappiamo che un processo con prove documentali non può arrivare sette anni dopo (infatti il giudizio vero è stato veloce). E ancora siamo solo al primo terzo. Se qualcuno non paga, per questi errori, tutto il resto perde dignità e credibilità. Prima di apprendere l'assoluzione di Mattiolo abbiamo potuto vedere il filmato dell'arresto di un muratore. Colpevole? Innocente? Lo stabilisca il processo. Ma perché vengono diffuse, dopo un anno, le immagini dell'arresto? C'entra qualche cosa che si era alla vigilia dell'udienza preliminare? Perché era la vigilia. Ed è uno schifo. Una pressione che falsa la giustizia. Toccherebbe al Csm chiedere di sapere chi ha fornito quel filmato e perché ha scelto quella data. Il colpevole va condannato, ma lo spettacolo dell'uomo braccato e spaurito è l'opposto di quel che rende legittimo un verdetto. Quel filmato ancora scorreva e scorre, nel mentre un padre decide di suicidarsi per la custodia cautelare cui è sottoposto il figlio. Scandagliare l'animo e la mente è impresa temeraria. Esprimere giudizi è privo di senso. Un suicidio di quel tipo è l'eco di uno sconvolgimento che, fortunatamente, non si trova nelle successive parole del figlio. Se, però, il morituro lascia scritto: "La magistratura miope talora uccide", la magistratura seria tace. Invece un procuratore ha sostenuto: "Oramai dicono tutti così". E lui chi crede di essere, se gli altri sono "tutti"? Chi gli ha assegnato il diritto di ultima parola? No pago, ha aggiunto: "Il copione è sempre lo stesso: atteggiarsi a vittime della malagiustizia e qualcuno ci crede sempre. Queste cose, purtroppo, succedono quando ci sono tanti soldi in ballo. Quando arriviamo noi e blocchiamo il denaro proveniente da attività illecite chi non può più fare la vita di prima ci attacca". Ma quel signore si è ammazzato. E quello che parla fa l'accusatore! La spada prima della bilancia. E gli sembra pure giusto. Se queste condotte non vengono punite poi è normale che ciascuno si scelga la propria, seguendo deontologia o esibizionismo, a seconda dei gusti. Arturo Diaconale presenta in Campania una lista "Vittime della Giustizia e del Fisco". Il fatto è che le "vittime" non sono quelli che incappano nel tritacarne, ma rutti. Una società senza giustizia funzionante è profondamente corrotta. Lettere: il caso Yara dimostra che la gogna è diventata un nuovo grado di giudizio Il Foglio, 29 aprile 2015 Le immagini dell'arresto di Bossetti, indagato per l'omicidio di Yara Gambirasio, erano nell'esclusiva disponibilità della procura di Bergamo e della polizia giudiziaria. Sono finite in tv e sui siti online in concomitanza con l'udienza preliminare in cui il gup ha deciso il rinvio a giudizio del muratore per il prossimo 3 luglio in Corte d'assise. A protestare sono esclusivamente i penalisti in un comunicato in cui si scrive di "massimo degrado dell'informazione giudiziaria". Parole giuste e sacrosante, che però hanno il torto di prendersela solo con chi pubblica, solo con una parte del circo mediatico-giudiziario. C'è un problema enorme, emerso non solo in questo caso, per chi le informazioni e le immagini le passa ai giornalisti al fine di celebrare i processi sui media prima che nelle aule. Quelle immagini, video e sonoro risalenti al 16 giugno 2014 nel cantiere in cui Bossetti lavorava, in un paese civile dovrebbero restare nel cassetto anche dopo l'eventuale condanna in Cassazione dell'imputato. Nessuna pena è comprensiva di gogna mediatica. Abbiamo assistito invece a una prova di inciviltà a livello giuridico, politico e umano da parte di chi indagando dovrebbe tutelare i diritti delle persone. Ci sarebbe materia per accertare quanto è accaduto sia da parte del Csm a livello disciplinare, sia da parte della procura di Venezia competente sulle vicende dei magistrati in servizio a Bergamo. La credibilità della giustizia italiana è molto bassa anche per fatti come questo. Ma non succederà nulla. Bossetti, colpevole o innocente che sia, non è nessuno e la sua immagine viene "elargita" in pasto a un'opinione pubblica già molto forcaiola e reazionaria, soprattutto per i comportamenti di magistrati, media e politica. Frank Cimini Risponde il direttore Claudio Cerasa La verità è che la gogna mediatica è diventata un vero e proprio grado di giudizio. E come ogni grado di giudizio ha una sua condanna, che in questo caso coincide con la condanna a essere sputtanati, per tutta la vita, e a prescindere da come andranno i successivi gradi di giudizio. Lettere: alle radici delle torture italiane di Sergio Segio Il Manifesto, 29 aprile 2015 Se Genova del luglio 2001, con il suo carico indelebile di torture, cicatrici nei corpi e ferite nella memoria, costituisce un indubbio spartiacque nella storia recente italiana, Napoli, marzo 2001, costituisce la prova generale della "macelleria messicana". Nel primo caso il premier era Silvio Berlusconi, nel secondo Giuliano Amato. Governi di orientamento e composizione dunque differenti, ma con un tratto unificante: il capo della polizia in entrambe le occasioni era Gianni De Gennaro; il quale proseguirà la sua carriera al vertice dei servizi segreti, poi quale sottosegretario di Stato per la sicurezza della Repubblica e, attualmente, come presidente di Finmeccanica. Di Genova 2001 si è tornato a parlare, grazie alla Corte europea per i diritti umani, sino a ripescare dal dimenticatoio, tardivamente e svogliatamente, la proposta di introduzione del reato di tortura nel codice penale. Della sua prova generale è, invece, andata persa ogni memoria. Eppure, anche lì, nella caserma Raniero, fu istituita un'apposita "stanza delle torture", mentre i manifestanti, già feriti e percossi, furono addirittura prelevati dagli ospedali e dal pronto soccorso per essere condotti in quell'infame luogo, tanto che i poliziotti vennero imputati anche di sequestro di persona. Inutile dire che alla fine nessuno fu condannato e che il capo della polizia solidarizzò con gli agenti accusati. La rimozione di quegli avvenimenti è probabilmente facilitata dalle ipocrisie di certa sinistra e dalle sue lunghissime code di paglia. Ma, soprattutto, cancellare le tracce e il ricordo di tali misfatti serve a impedire interrogativi sul filo, nero e sotterraneo, che lega prima e seconda Repubblica nonché governi di opposte maggioranze. Uno "Stato nello Stato" la cui finalità, naturalmente, è il potere e la propria continuità; strumenti e condizioni per assicurarla sono l'incontrollabilità e, appunto, l'impunità. Uno dei volti e delle ricorrenze di questo potere è l'utilizzo della tortura: uno strumento che abbisogna di omertà, per quanto riguarda la catena operativa, e di incondizionata copertura per quanto riguarda l'aspetto politico. È stato così a Genova, con il rifiuto di istituzione di una commissione di inchiesta e con il vicepresidente del Consiglio Gianfranco Fini presente nella sala operativa della Questura di Genova durante i fatti e con il ministro della Giustizia Roberto Castelli in visita a Bolzaneto mentre erano in corso le torture. È successo lo stesso a Napoli, con membri di governo e vertici della polizia A solidarizzare pubblicamente con i poliziotti imputati. Era successo negli anni Ottanta del secolo scorso, quando solo i Radicali e rari giornalisti ebbero il coraggio di denunciare le torture allora accadute. I "Garage Olimpo" non erano solo in Argentina. Davanti al documentato dossier del partito Radicale il presidente del Consiglio allora in carica, Giovanni Spadolini, definì i numerosi episodi di tortura "palesemente inverosimili", arrivando a ipotizzare che la denuncia fosse una strategia messa in campo dalle organizzazioni armate, come "ultima carta per accreditare l'immagine di uno Stato torturatore e seviziatore, tendenzialmente autoritario". Era il 1982. Uno dei parlamentari radicali, Marco Boato, concluse amaramente: "è la prima volta che la tortura viene denunciata come pratica sistematica, senza suscitare, salvo rarissime eccezioni, né proteste, né condanne, né inchieste amministrative". Un'assenza di reazioni che è stata anche in seguito, e permane, una costante. Giacché va garantito che quell'armadio della vergogna rimanga sigillato, a tutelare impunità di Stato e continuità di carriere. Benevento: a 80 anni muore d'infarto in cella, quando la giustizia è senza cuore di Damiano Aliprandi Il Garantista, 29 aprile 2015 Era un detenuto di 80 anni, malato, ed è morto perché il suo cuore non aveva retto. E accaduto il 19 aprile scorso nel carcere di Benevento. Si chiamava Ettore Bruscella e fu condannato all'ergastolo per aver ucciso la vigilia di Natale del 2011 una donna e due dei suoi figli, per contrasti di vicinato. C'è un luogo comune dove si pensa che ad una certa età, non si va più in carcere. Un luogo comune che nasce, molto probabilmente, dal buon senso. Le patrie galere creano disagi, malattie e turbe psichiche ai detenuti giovani, figuriamoci nei confronti dei detenuti che superano i 70 anni. Eppure non sono pochi coloro che vi sono ristretti. Secondo i dati più recenti del ministero della Giustizia, su un totale di 53mila e 92 detenuti, ben 3.572 sono anziani. La composizione della popolazione carceraria, è il riflesso della crisi sociale che stiamo vivendo. Sempre più anziani si danno al crimine perché la necessità di superare le ristrettezze economiche può spingere a commettere reati. Si arriva così a casi drammatici e ai limiti del grottesco, come quello del pensionato genovese che, per arrotondare il suo reddito, si era ridotto a custodire un chilo di cocaina per conto di una gang di spacciatori albanesi. Al di là degli episodi di cronaca, le dimensioni sociali del fenomeno sono notevoli: nel 2011, ultimo anno per cui sono disponibili i dati Istat, gli over 65 hanno commesso circa 38mila reati in Italia, con una distribuzione quasi omogenea tra Nord e Sud, a riprova del fatto che si tratta di crimini dovuti alla condizione di necessità individuale più che alla diffusione della criminalità nel territorio. Le cifre fornite dall'Istat indicano che 4mila persone in età pensionabile sono state denunciate per "minacce e le ingiurie" e circa 2mila per "lesioni dolose e furti". La maggior parte, circa 16mila, però, rientra nella categoria degli altri delitti, per esempio la detenzione di stupefacenti. E questo perché, per via dell'età, è un reato più accessibile perché non richiede una elevata prestanza fisica. In Italia, è sempre più facile che un ultra settantenne finisca in carcere e il giudice di sorveglianza sempre più spesso non concede gli arresti domiciliari. Il carcere, però, non è un luogo adatto per soddisfare le esigenze dei detenuti anziani e, in media, ogni 17 detenuti, uno muore dopo i settant'anni. La Comunità di Sant'Egidio da tempo denuncia la situazione spiegando che in carcere mancano beni essenziali per gli anziani come pannoloni, carrozzine e ausili per la respirazione. Negli Usa il dibattito è in corso, e stanno prendendo provvedimenti tipo l'obbligo della libertà vigilata per i detenuti anziani che non abbiano commesso reati violenti. E questo dopo gli interventi della commissione Onu sui diritti e il dossier redatto dall'Unione americana per le Libertà Civili il quale denuncia che sono 125 mila in questo momento nelle carceri americane, il 300 per cento in più dal 1980. Secondo il rapporto ogni detenuto anziano costa alle casse degli Stati d'America ed al Governo federale circa 68mila dollari a fronte dei 34mila che vengono spesi per un detenuto più giovane. Inoltre esistono ampie prove che questi carcerati non rappresentano più un pericolo per la società o in maniera molto lieve. L'Unione americana per le libertà civili sostiene che senza interventi urgenti nel settore, i detenuti over 55 nel 2030 saranno 400mila ed a quel punto ci sarà un enorme problema per le casse federali e per il budget del sistema penitenziario americano. Negli Usa c'è almeno l'intenzione di affrontare questo argomento. Da noi, il ministro Orlando cosa dice? Padova: congelata la decisione di chiudere la Sezione Alta Sicurezza del carcere di Alberta Pierobon Il Mattino di Padova, 29 aprile 2015 È stata congelata la decisione di chiudere la Sezione Alta Sicurezza che occupa un piano della casa di pena Due Palazzi. Mesi fa il Dap (Dipartimento dell'amministrazione carceraria, una branca del ministero della Giustizia) aveva annunciato la chiusura della sezione, dando come ultima data il 30 aprile. Ma, anche su forte e ragionata sollecitazione di Ristretti Orizzonti che si occupa di comunicazione dentro e fuori il carcere e dove operano molti detenuti, la chiusura è stata bloccata. Sono un centinaio circa i detenuti sottoposti al regime di alta sicurezza a Padova, regime che contempla due alternative: una più restrittiva (ex capi mafia) che riguarda 37 persone e una un tantino meno restrittiva (riguarda una settantina di detenuti). Il congelamento della chiusura della sezione e del relativo trasferimento dei detenuti nei carceri di provenienza (solo una persona è già stata trasferita) è vincolato alla valutazione della situazione dei cento detenuti per stabilire quelli che possono essere declassificati. Ovvero passare in regime di media sicurezza o comune. Ornella Favero, che con la sorella Rossella è l'anima di Ristretti Orizzonti, fa l'esempio di un detenuto con 29 anni di galera alle spalle, prima in regime di 41 bis (carcere duro), poi 15 anni di alta sicurezza: "Non è pericoloso, che senso ha? Va declassificato". Senza contare, nel caso della chiusura della sezione, che i detenuti sarebbero stati trasferiti e costretti a interrompere i percorsi di studio (anche universitari) e di lavoro. Ora per molti finirà la vita in regime di alta sicurezza. Milano: dalla cella alla Fiera, l'Expo assume cento detenuti di Antonino Ulizzi Il Garantista, 29 aprile 2015 Saranno impiegati nel facchinaggio e nell'accoglienza. E ci sarà uno spazio per i prodotti fatti dietro le sbarre. Saranno cento i detenuti delle carceri milanesi che lavoreranno all'Expo. L'accordo è stato concluso dal Provveditorato dell'amministrazione penitenziaria (Prap) di Milano e la società Expo spa. A darne notizia è stato il provveditore Aldo Fabozzi durante l'incontro "Il carcere e la città", nell'ambito del Forum delle Politiche sociali. Come stabilito dall'intesa siglata da Prap ed Expo, l'amministrazione assumerà per la manifestazione 100 detenuti che saranno impiegati in svariati settori che vanno dal facchinaggio all'accoglienza dei visitatori. I carcerati "verranno pagati a mercede, con uno stipendio inferiore di un terzo rispetto ai contratti collettivi nazionali, nome previsto dalla legge 354 del 1975", spiega Luigi Palmiero, responsabile del settore lavoro in carcere all'interno del Prap. Al lavoro, nel sito di Expo, ci saranno anche 100 detenuti, uomini e donne, italiani e stranieri che daranno supporto alla logistica, all'accoglienza e all'assistenza ai visitatori, secondo le provenienze geografiche. È quanto è stato stabilito nel Protocollo d'intesa per Expo 2015 sottoscritto ieri dal presidente del Tribunale di Sorveglianza, Pasquale Nobile de Santis e dal provveditore regionale dell'amministrazione penitenziaria per la Lombardia Aldo Fabozzi. I cento detenuti sono stati "adeguatamente e preventivamente formati", si legge nel protocollo. Non solo. Sono diverse le iniziative previste per la partecipazione dei condannati in espiazione pena ad Expo 2015. A San Vittore, il primo maggio, si terrà una mostra dei prodotti realizzati presso le carceri e la ripresa diretta, dal Teatro alla Scala, della Turandot. Il carcere di Bollate parteciperà all'esposizione proponendo ogni venerdì i manufatti realizzati nei penitenziari italiani e terrà spettacoli teatrali e un convegno, tutti aperti alla città. A giugno e luglio, inoltre, Opera realizzerà spettacoli teatrali presso il Teatro Minotti di Milano. A Expo, il 16 giugno, verrà allestito un convegno sui prodotti agroalimentari del carcere, rappresentazioni teatrali, una sfilata di capi d'abbigliamento del progetto Sigillo e presso il Padiglione Italia, dall'8 al 13 settembre, sarà allestito uno stand dei prodotti realizzati nel laboratorio "Libera scuola di cucina" di San Vittore, Inoltre, l'accordo prevede come accennato che l'amministrazione penitenziaria organizzi all'Expo un convegno sul tema dell'inclusione sociale che vedrà la partecipazione del ministro della Giustizia Andrea Orlando, mentre in dirittura d'arrivo sono cambiate le carte in tavola per quanto riguarda lo spazio che avrebbero dovuto avere le cooperative sociali che lavorano in carcere all'interno della Fiera lombarda. Preso atto che il ministero della Giustizia non disponeva di fondi da destinare all'iniziativa, gli spazi espositivi delle cooperative saranno ricavati al carcere di Bollate, a poca distanza da Rho. All'interno di Expo, saranno esposti i prodotti realizzati dai detenuti di San Vittore insieme alla Libera scuola di cucina. Il Padiglione nasce per dare risalto alle attività produttive legate al cibo e all'ambiente che si realizzano nelle carceri italiane, al fine di abbassare le recidive dei detenuti che sono rimessi in libertà. Lo spazio espositivo potrà essere visitato dalle 15.30 alle 18.00 a partire dal primo maggio, e coinvolgerà comuni cittadini, ma anche imprenditori, ristoratori, commercianti, amministratori pubblici con l'obiettivo di far conoscere la produzione di qualità delle carceri italiane e instaurare possibili partnership e accordi commerciali. Milano: tra San Vittore, Opera e Bollate, al via anche l'Expo dei detenuti di Luca Zanini Corriere della Sera, 29 aprile 2015 Nel 1° Raggio del carcere di San Vittore la giornata "Pensando ExpoSitivo": 25 penitenziari offrono al pubblico le loro produzioni; dai dolci al vino, dal cachemire a borse in pvc e mobili. E nel carcere vicino alla fiera mostre d'arte, concerti, mercatini, visite guidate. Due importanti iniziative legano Expo 2015 al mondo del sociale e ai progetti di reinserimento: un'esposizione di prodotti realizzati nelle carceri di tutta la penisola, in quello che sarà l'altro Padiglione Italia, dentro a San Vittore; e una serie di mostre d'arte, concerti, mercatini e visite guidate nel penitenziario di Bollate. Entrambe ben si inseriscono nel solco dei progetti volti al recupero sociale e lavorativo dei detenuti (dei quali, 100 avranno un impiego nell'Esposizione Universale). Nella casa circondariale in zona Sant'Ambrogio si tiene il primo maggio - in parallelo all'inaugurazione Expo 2015 - una mostra temporanea (che sarà seguita da mercatini periodici nel carcere di Bollate) di prodotti legati al cibo e all'ambiente, tutti realizzati nelle strutture penitenziarie italiane: 25 realtà made in jail saranno esposte a "Pensando ExpoSitivo", nel Primo Raggio. Quella di San Vittore sarà una vetrina dedicata all'economia penitenziaria - sono 35 gli istituti di pena coinvolti dai progetti più importanti (guarda la mappa interattiva) - "che non solo produce e genera posti di lavoro per i detenuti ma, in raccordo con le istituzioni, consente di realizzare quell'intervento di inclusione sociale che mira complessivamente all'abbassamento della recidiva". Grazie al protocollo siglato tra Expo 2015 spa, Magistratura di Sorveglianza Milanese e Amministrazione Penitenziaria sono già al lavoro uomini e donne (detenute o in misura alternativa alla detenzione), che per sei mesi svolgeranno attività di informazione, accompagnamento dei visitatori agli ingressi, biglietterie, snodi di controllo e altro. Ma Milano scommette di più. La città vuole dare continuità al lavoro dei detenuti intrapreso grazie ad Expo. L'idea di "Pensando ExpoSitivo" è nata da un progetto della A&I, una onlus costituita nel ‘92 da educatori, psicologi, assistenti e operatori sociali, con il proposito di studiare nuove forme di intervento nell'ambito dell'offerta dei servizi sociali. L'obiettivo dell'Expo dei detenuti è convincere i protagonisti dell'esposizione universale (imprenditori, ristoratori, commercianti, amministratori pubblici, cittadini) a visitare il carcere nel cuore di Milano - e in seguito i mercatini di Opera - per toccare con mano quanto si produce oltre le sbarre, assaggiare cibi e vini creati dai detenuti, e magari concordare strategie commerciali e stabilire contatti utili per proseguire una collaborazione futura, creando - si spera - nuove opportunità lavorative per il reinserimento di chi lascerà le celle con un bagaglio di formazione e competenze lavorative maturato in detenzione (secondo i dati ufficiali, chi è impegnato in attività lavorative durante la detenzione ha, fuori dal carcere, una recidiva del 2% a fronte di una del 70%). Ma anche per "dare commesse alle produzioni dei penitenziari". Il Padiglione Italia a San Vittore sarà aperto al pubblico dalle 15,30 alle 18,00 di venerdì 1° maggio. A San Vittore ci saranno, tra gli altri prodotti che vengono realizzati negli istituti di pena italiani, quelli alimentari: la rivista web "Detenzioni" ha recentemente ricordato come nella nostra penisola dietro le sbarre ci sia una fiorente industria del cibo, dai biscotti di Siracusa e Verbania al cioccolato di Busto Arsizio, ai formaggi sardi di Is Arenas; dalle uova delle quaglie allevate a Opera ai vini di Velletri e del carcere piemontese di Alba. Ogni produzione ha un suo nome, spesso evocativo, come il novello Fuggiasco che si vendemmia nei pressi della casa circondariale dei Castelli Romani, o i dolci della Banda Biscotti di Verbania, il miele e l'olio di Galeghiotto a Isili e Mamone, il Caffè Lazzarelle di Napoli, dove l'omonima coop produce anche tè all'interno del Carcere Femminile di Pozzuoli (materie prime biologiche e del commercio equo, lavorate da detenute con regolare contratto). Miscele di qualità arrivano anche dalla cooperativa Pausa Caffè, nata nel 2004 nella Casa Circondariale di Torino: in torrefazione vanno chicchi di Huehuetenango (presidio Slow Food) del Guatemala e della Sierra Cafetalera in Costa Rica. Apprezzato il lavoro dei 120 detenuti impegnati nel carcere di Padova, una ventina solo occupati dalla pasticceria che sforna i Panettoni di Giotto: 70 mila l'anno, distribuiti in 200 negozi. Mini panettoni vengono prodotti anche dai detenuti di Busto Arsizio grazie al laboratorio di cioccolateria e pasticceria "Dolci in Libertà", creato nel 2010, che partecipa anche ad Expo 2015 nel cluster Cocoa & Chocolate. Nella casa circondariale di Monza, invece, è attivo il laboratorio di pasta fresca Verde Grano, che produce ravioli ripieni di verdure di stagione, tagliatelle ma anche biscotti con farine bio e integrali, e taralli dolci senza uova e senza burro. I prodotti carcerari sono meno spendibili degli altri nel settore sociale e per vendere, per essere competitivi, vengono realizzati con la massima qualità. In Italia esistono numerose associazioni di volontariato che operano nelle carceri: tra le più ramificate c'è Sapori Reclusi nata per "riunire uomini e donne che vivono nascosti agli occhi dei più con il resto della società". Il cibo è per Sapori Reclusi un pretesto "per entrare laddove solitamente si trovano barriere fisiche o mentali, porte chiuse, ovvero nell'intimità delle persone, per ascoltarle e capirle al di là di stereotipi e preconcetti". C'è, dicevamo, la Banda Biscotti, che "produce biscotti all'interno del multiforme mondo della pena" e crea "golosità artigianali da dietro le sbarre, impiegando materie prime accurate" negli istituti di pena di Verbania e Saluzzo. C'è la cooperativa sociale Agroromano che inserisce i carcerati procurando loro lavoro. Ci sono i ragazzi di Alice, associazione costituita nel 1992 nel carcere di San Vittore a Milano che qui come a Opera forma le detenute per le professioni di stilista, sarte, responsabile del negozio. E di maglieria si occupano le ragazze detenute a Verziano (Brescia), che producono la linea di cachemire "Carpe Diem". Ci sono poi i volontari di Campo dei Miracoli che in Puglia, nella Casa Circondariale di Trani, hanno insegnato ai detenuti produrre artigianalmente taralli salati. Oppure la cooperativa Apriti Sesamo che nella Casa Circondariale di Alghero ha creato un'officina di stampa e serigrafia, una falegnameria, una legatoria, e perfino un laboratorio elettrico per le luminarie natalizie. E per tornare al tema gastronomico, patatine fritte, pizzette, pasta e dolci, aperitivi, piatti salati sono le prime cose che assaggeranno i visitatori a San Vittore, dato che qui la "Libera scuola di cucina" già coinvolge le ospiti donne della Casa circondariale. Parallelamente al Padiglione Italia in carcere, la Libera scuola continuerà a proporre appuntamenti all'interno di uno dei giardini più antichi e segreti di Milano, il giardino della Sezione Femminile. Si tratta dei "Sanvi-Tour", serie di incontri con aperitivo: un'occasione speciale per visitare, con l'accompagnamento e la guida di persone detenute, il cuore pulsante dell'Istituto: la rotonda al centro dei sei raggi del carcere. La scuola organizza eventi didattici (simulazione di buffet, cene, compleanni, feste a tema) dove le donne coinvolte acquisiscono competenze per il mondo della ristorazione. Gli aperitivi si terranno (anche in caso di maltempo) alle 19 e 30. La capienza massima è di 70 persone e le iscrizioni si effettuano sul sito della onlus A&i (collegati). Le date degli aperitivi in carcere durante Expo sono: 14 e 26 maggio; 11 e 30 giugno; 9 e 30 luglio; 27 agosto; 10 e 24 settembre; finale di stagione l'8 ottobre. Quanto all'offerta di Bollate una serie di mostre animerà la casa di reclusione che si trova vicinissima al sito di Expo. Con "Jail Expo", dal prossimo 8 maggio e fino al 31 ottobre, il penitenziario diverrà una galleria d'arte con artisti, principalmente provenienti dall'Accademia di Brera, che insieme ai detenuti coloreranno i muri del carcere con una ventina di pannelli. Ogni venerdì il pubblico potrà assistere a vere e proprie mostre, ma potrà anche acquistare cibo preparato dai detenuti ad una delle bancarelle del mercatino o assistere ad eventi e concerti serali o ancora partecipare ad una delle viste guidate all'interno del carcere - dalle 10 alle 12 - tradotte in italiano, inglese, spagnolo, francese e perfino in arabo e cinese. Saranno gli stessi detenuti, provenienti da vari Paesi del mondo, a mostrare ai visitatori come si vive in questa struttura penitenziaria. Le visite vanno prenotate con almeno 48 ore d'anticipo sul sito del Carcere di Bollate. Foggia: l'Associazione Radicale "Mariateresa di Lascia" in visita al carcere di Lucera www.radicali.it, 29 aprile 2015 L'associazione radicale di Foggia "Mariateresa di Lascia" nell'occasione dell'anniversario della liberazione del nostro paese ha deciso di effettuare una visita presso la Casa circondariale di Lucera proseguendo la propria azione politica rivolta alla tutela dei diritti umani. Ad effettuarla una delegazione composta da Anna Rinaldi, presidente dell'associazione, Norberto Guerriero, Segretario,download e da Ivana De leo membro dell'associazione e impegnata nella battaglia sulle carceri. I radicali da anni denunciano l'emergenza del nostro sistema giudiziario per il quale invocano, come necessario ma non sufficiente, un organico provvedimento d'amnistia ed indulto che possa ridurre la mole dei procedimenti penali e civili pendenti, primo passo per una riforma complessiva del sistema. Le denunce, purtroppo sempre più solitarie, dei radicali e le condanne in sede europea subite dall'Italia per tortura, hanno determinato nell'ultimo anno qualche timido seppur incoraggiante miglioramento della condizione delle nostri carceri. Questo leggero trend positivo di miglioramento è stato registrato anche nella visita condotta dai radicali foggiani presso la casa circondariale di Lucera. Dopo anni di sovraffollamento, dopo la pesante condanna in sede di giurisdizione europea con il caso Torregiani, oggi l'amministrazione penitenziaria è attenta affinché ogni detenuto abbia garantiti almeno 3 metri quadrati di spazio vitale nella cella. Nella Casa circondariale di Lucera attualmente, con una popolazione di 137 detenuti, si riescono a garantire anche oltre 4 metri quadrati. Si potrebbe erroneamente immaginare che la situazione d'emergenza sia superata. Purtroppo no. Nonostante gli sforzi profusi dall'amministrazione del carcere, a Lucera permangono molteplici criticità. La struttura, ricavata dalla ricoversione di un convento del ‘700 nel centro della città, è un vecchio rudere fatiscente inadatto a garantire condizioni dignitose di vita al suo interno. Spazi angusti, resi ancor più scuri da "gelosie" che impediscono l'ingresso della luce, dove abbondano le barriere architettoniche mentre mancano i più elementari dispositivi di sicurezza e prevenzione. Le celle hanno bagni a vista privi di finestre e divisi dal resto dell'ambiente con semplici tramezzi. L'arredamento delle celle è vecchio e malconcio, le docce sono esterne e, per stessa ammissione dell'amministrazione carceraria, gelate. Infatti nonostante oltre 11mila euro spesi fino ad ora, l'impianto idraulico e la caldaia sono troppo vecchi per garantire acqua calda corrente in tutto il carcere. Anna Rinaldi, presidente dei radicali foggiani afferma che "Sorge il dubbio di come la pena carceraria, costituzionalmente destinata alla rieducazione e al reinserimento sociale, possa assolvere la propria funzione se un detenuto è costretto a vivere in un ambiente così degradante". Un'altra rilevante criticità che vive il carcere di Lucera, nonostante l'impegno dell'amministrazione, è l'allarmante condizione cui sono costretti gli operatori e la polizia penitenziaria. Il personale sanitario impiegato è insufficiente e si registra una sistematica scarsità di farmaci in quantità e qualità, in molti casi per far fronte a medicinali più specifici l'amministrazione ricorre ad un fondo comune caritatevole. La polizia penitenziaria, che dovrebbe avere 105 unità in servizio, registra giornalmente quasi il 50% di defezioni anche a causa di una media di età oltre i 50 anni, molto alta ed incompatibile con le caratteristiche usuranti delle mansioni. Per il segretario dei radicali foggiani, Norberto Guerriero, "vanno denunciate con forza le condizioni inumane nelle quali sono costretti a lavorare gli agenti a loro volta veri e propri reclusi". I radicali foggiani riconoscono gli sforzi che in questi ultimi anni l'amministrazione del carcere di Lucera ha posto in essere per migliorare la condizione di vita della propria popolazione e dei propri operatori. Questa è solo la prima di una serie di visite che i radicali foggiani svolgeranno nelle prossime settimane presso le strutture detentive di capitanata, auspicando che le amministrazioni comunali, a partire da quella di Foggia, introducano la figura del Garante comunale del detenuto, prevista dall'ordinamento penitenziario ma rimasta in molti comuni lettera morta. Napoli: il Tar ordina il reintegro dell'ex direttrice, assolta da procedimento disciplinare di Gianluca Abate Corriere del Mezzogiorno, 29 aprile 2015 "Il carcere di Poggioreale è tra quelli italiani che presentano maggiori criticità", annunciò il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria in una laconica nota del 28 aprile 2014 con la quale annunciava il futuro cambio al vertice. Teresa Abate, la direttrice, fu rimossa (prima del minimo di tre anni di permanenza previsto dalla legge) nel periodo delle polemiche su sovraffollamento, scarsa igiene, malati non curati adeguatamente, suicidi e presunte violenze, in riferimento ai pestaggi che sarebbero avvenuti nella cosiddetta "cella zero". Determinante, in particolare, fu la relazione della Commissione libertà civili del Parlamento europeo, che dopo un'ispezione effettuata il 28 marzo 2014 e guidata dal socialista spagnolo Juan Fernando Lopes Aguilar definì "medioevale" la situazione del carcere. Esattamente un anno dopo, ieri, un tribunale ha deciso che invece Teresa Abate deve tornare al suo posto, ordinando al ministero della Giustizia di "eseguire la sentenza". E le osservazioni critiche degli europarlamentari? C'è spazio anche per quelle, nel provvedimento del Tar Campania. Ché Teresa Abate, nel frattempo, è stata sottoposta a procedimento disciplinare. "Ma è stata completamente prosciolta". La sentenza - depositata il 24 aprile scorso - è stata emessa dalla settima sezione del Tar Campania, composta dai giudici Alessandro Pagano (presidente), Marina Perrelli e Luca De Gennaro (estensore), che hanno annullato il decreto con il quale l'11 luglio 2014 il Ministero trasferì l'ex direttrice e nominò al suo posto Antonio Fullone. Teresa Abate - difesa dal professor Antonio Palma e dagli avvocati Francesco Rinaldi e Carolina Felicella - fu rimossa prima della scadenza minima del termine (il 22 maggio 2015, perché fu nominata il 22 maggio del 2012) con quello che il Tar definisce "un provvedimento non accompagnato da alcuna motivazione, e dunque palesemente viziato". E a nulla è valsa la difesa del Ministero, secondo il quale l'ex direttrice avrebbe manifestato verbalmente il proprio consenso al cambio di incarico: "Tale consenso - scrivono i giudici - non risulta agli atti", e comunque "l'accordo andava stipulato in forma scritta a pena di nullità" (così come "sommario ed eventuale" viene ritenuto il riferimento al "riordino delle sedi dirigenziali"). Decisivo, poi, il tema delle presunte responsabilità della ex direttrice, non citate dal ministero della Giustizia nel decreto di destinazione a nuovo incarico ma prodotte come prova davanti al Tar nel corso del contenzioso. I giudici definiscono "irrilevanti gli atti difensivi con i relativi allegati critici sull'attività dirigenziale svolta, peraltro controbilanciati da documentazione di segno opposto". Rilevano che "la motivazione postuma è inammissibile, perché la stessa deve precedere e non seguire un provvedimento amministrativo". E, soprattutto, sottolineano che "la contestazione principale che emerge dagli atti, attinente alle problematiche sorte e riscontrate nell'ambito di una visita di una delegazione di parlamentari europei, è stata oggetto di completo proscioglimento disciplinare", deciso dallo stesso Dap con un decreto il 20 gennaio 2015. Antonio Palma, l'amministrativista che ha assistito l'ex direttrice, spiega che ora "la sentenza verrà notificata al ministero della Giustizia, il quale dovrà adempiere all'ordine dei giudici" perché "non è emerso alcun addebito per un dirigente che ha fatto sempre il suo dovere". Lei, Teresa Abate, della sentenza ha saputo al telefono. E - dice al Corriere del Mezzogiorno - "ho accolto quella decisione come un atto di grande giustizia per l'enorme lavoro svolto quando a Poggioreale c'erano tremila detenuti. Un periodo che non ha alcun precedente nella storia delle carceri italiane". Napoli: Rita Bernardini (Radicali) "è assurdo, tocca al Dap scegliere chi nominare" di Gianluca Abate Corriere del Mezzogiorno, 29 aprile 2015 Rita Bernardini, segretaria dei Radicali, una vita a indagare sulle condizioni delle carceri e sul rispetto dei diritti dei detenuti. Il Tar ha reintegrato l'ex direttrice di Poggioreale: decisione giusta? "No, ma non lo dico in riferimento alla persona". E a cosa si riferisce allora? "Non capisco perché il Dap, il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, non possa decidere liberamente chi mettere a dirigere un istituto. Se è il Tar a decidere chi ci può stare e chi no, significa che il Dap non amministra nulla. Ma in che mondo viviamo?". Sa benissimo che esistono delle norme. E quelle regole, secondo i giudici, sono state violate. "Già, ma sono regole che imbrigliano la gestione. Il Dap deve essere libero di scegliere quale sia il direttore migliore nel posto migliore". Dice che quella del Tar va considerata come un'ingerenza? "Sì. E dico anche che in Italia abbiamo un'amministrazione gestita senza alcun buon senso. Tutto resta fermo perché ogni spostamento sembra un delitto, poi - per una volta che questo spostamento lo fanno - interviene la giustizia e lo annulla. Assurdo. E le valutazioni, si badi, sono relative". Cioè? "Un direttore può andar bene in un certo carcere in un determinato periodo. Non esiste un giudizio assoluto". È il caso di Poggioreale? "Ho visitato quel carcere molte volte. È una struttura che ha sempre avuto mille punti oscuri, a partire dalla famigerata cella zero. E io ho sempre avuto la fortissima sensazione che alcuni padiglioni fossero governati dalla camorra, piuttosto che dall'amministrazione penitenziaria". Che c'entra l'ex direttrice del carcere con tutto ciò? "Nulla. So che ha avuto addebiti disciplinari, ma alla fine è stata prosciolta. Forse però il Dap - anche in considerazione della riduzione della popolazione carceraria - ha voluto dare all'istituto una gestione un po' diversa". La sua suona come un'accusa, senza prove, a Teresa Abate. "Non la conosco, quindi non potrei mai giudicarla. Conosco però l'attuale direttore, Antonio Fullone. E lo conosco molto bene". Crede sia un dirigente migliore? "Non faccio paragoni, ma so qual è il suo valore. È un direttore che quando era a Lecce, pur nelle difficoltà estreme, si è mostrato molto attento ai detenuti e alla loro rieducazione. È un grande, insomma. Ed è evidente che un dirigente con una mentalità così aperta tenda a non fare del carcere quel luogo oscuro che s'è rivelato essere Poggioreale". Napoli: Riccardo Polidoro (Ucpi) "il problema è il carcere, non chi lo deve dirigere" di Gianluca Abate Corriere del Mezzogiorno, 29 aprile 2015 Riccardo Polidoro, responsabile dell'"Osservatorio carcere" dell'Unione nazionale delle Camere penali italiane. Il Tar ha deciso che l'ex direttrice di Poggioreale Teresa Abate deve tornare al proprio posto. Scelta giusta o così si condiziona l'autonomia decisionale dell'amministrazione penitenziaria? "Direi né l'una né l'altra". Perché? "Perché questo è un ragionamento che parte dalle persone". Beh, c'è un direttore in servizio e uno che è stato appena reintegrato: da cosa dovremmo partire? "Il problema è il carcere, non le persone che lo devono dirigere". Cioè? "Poggioreale andrebbe chiuso. E anche subito". Addirittura? "Certo, è una struttura che non ha alcuna possibilità di diventare un carcere che rispetti la normativa prevista dall'ordinamento penitenziario". Veramente in queste ore chi spinge per la conferma di Antonio Fullone (e dunque contro il reintegro di Teresa Abate) fa notare che nel frattempo le condizioni sono migliorate perché il numero di detenuti si è ridotto. Non è un buon segnale? "Innanzitutto va precisato che è vero che i numeri sono scesi, ma Poggioreale resta sempre sovraffollato". E poi? "Il numero di detenuti è calato in tutt'Italia, non solo a Napoli. Quindi non ci vedo nulla di clamoroso". Il motivo? "Ci sono stati moltissimi trasferimenti in altre carceri, fatti tra l'altro senza rispettare le regole della residenza. E ciò è avvenuto in molti casi anche a Poggioreale. A questo vanno aggiunte le scarcerazioni dovute alla dichiarazione di incostituzionalità della legge Giovanardi e all'ampliamento del range della liberazione anticipata, che è stata aumentata a 70 giorni per ogni sei mesi trascorsi in carcere". Insomma, non è merito del nuovo direttore? "Chiariamoci, quando ci sono i presupposti un buon dirigente fa la differenza. Ma a Poggioreale non esistono le condizioni per fare bene il direttore". Cos'è che ancora non va? "Tutto. La struttura, che nonostante il restauro di alcuni spazi presenta ancora padiglioni fatiscenti. L'unica cucina che esiste e che dovrebbe sfornare pasti per migliaia di detenuti, con il risultato che il cibo è immangiabile e viene buttato, perché lo consumano solo il 5% dei reclusi. E poi le 22 ore trascorse in cella, illegali. Tornassero oggi, i parlamentari europei direbbero le stesse cose di un anno fa". Genova: a Pontedecimo detenuta dà fuoco alla cella, evacuato un piano del carcere www.genovatoday.it, 29 aprile 2015 "Una detenuta italiana, ubicata al piano terra del reparto femminile del carcere di Genova Pontedecimo, prima si è barricata dentro la camera poi ha appiccato il fuoco". Così Fabio Pagani, segretario Uil penitenziari "Ieri alle ore 18 circa una detenuta italiana, ubicata al piano terra del reparto femminile del carcere di Genova Pontedecimo, prima si è barricata dentro la camera poi ha appiccato il fuoco". Così Fabio Pagani commenta il grave episodio di domenica e aggiunge "è opportuno sottolineare non solo l'efficacia e il tempismo dell'operazione di salvataggio della detenuta e dello spegnimento dell'incendio posto in essere dai poliziotti penitenziari di Pontedecimo, da evidenziare è il coraggio del personale intervenuto che, non ha esitato a porre a rischio la propria incolumità pur di salvare la vita della detenuta e delle detenute ristrette al piano terra, tra le quali una di loro è in stato di gravidanza". "Evacuato il piano - prosegue il sindacalista messo a rischio dai fumi tossici sprigionatisi a causa delle intense fiamme, i detenuti sono stati raggruppati e messi in sicurezza all'interno del cortile passeggi. Mentre l'amministrazione penitenziaria dimostra, a tutti i livelli, di non essere capace di recuperare capacità di attenzione e sensibilità verso le difficoltà operative del personale penitenziario, la polizia penitenziaria continua a salvare vite umane. Pertanto intendiamo far giungere ai colleghi di Pontedecimo il nostro convinto plauso e i sentimenti della nostra ammirazione". Modena: "Trasparenze 2015" porta anche due spettacoli nel carcere di Sant'Anna www.laprimapagina.it, 29 aprile 2015 Spettacoli, concerti e laboratori. Nuovi spazi e nuovo pubblico per una selezione della scena contemporanea in luoghi teatrali ed extra-teatrali di Modena, con il teatro che entra in carcere con due spettacoli per i detenuti e la cittadinanza al Sant'Anna. Il Festival Trasparenze, nell'ambito della rassegna Andante, si svolge a Modena dal 7 al 10 maggio a cura del Teatro dei Venti (direttore artistico è il regista Stefano Tè) con il sostegno di Fondazione Cassa di risparmio di Modena, Comune di Modena e Regione Emilia-Romagna. Il programma e gli obiettivi sono stati presentati, a Palazzo Comunale da Stefano Tè in una conferenza stampa alla quale hanno preso parte anche il vicesindaco e assessore alla Cultura Gianpietro Cavazza, la direttrice del S. Anna Rosa Alba Casella, e la consigliera d'amministrazione della Fondazione Stefania Cargioli. Il centro delle iniziative è il Teatro dei Segni, con il parchetto prospiciente, in via San Giovanni Bosco 150, attuale sede delle attività della Compagnia "Teatro dei Venti" che nel 2015 compie dieci anni. Appuntamenti anche nella Casa circondariale di Sant'Anna e negli spazi di Drama Teatro (via Buon Pastore, 57) e Cajka - teatro di avanguardia popolare (via della Meccanica, 19). Giunto alla sua terza edizione, il Festival Trasparenze continua a portare il teatro nei luoghi della vita sociale, aprendo il suo programma con due spettacoli all'interno del Carcere di Modena. Si tratta di "Stasera sono in vena" di Oscar De Summa (7 maggio ore 18.30) e di "Ulisse - indagine su un uomo al di sopra di ogni sospetto" di "Scenica Frammenti" (8 maggio ore 18.30). Gli spettacoli sono stati selezionati per chiamata diretta della Direzione Artistica e attraverso un Bando che ha visto protagonista la "Konsulta": un gruppo di ragazzi tra i 16 e i 25 anni che negli anni si è consolidato come avanguardia del pubblico attivo. Leviedelfool con "Luna Park", Gli Omini con "La famiglia Campione" e Vico Quarto Mazzini con "Amleto Fx", sono le tre compagnie entrate nel cartellone del Festival attraverso il Bando e la visione della "Konsulta". Il Festival sarà anche un'occasione per presentare nuove produzioni: il 7 maggio la compagnia Lo Sicco/Civilleri, dopo una residenza artistica a Modena debutterà in prima nazionale con lo spettacolo "Boxe", una produzione Fondazione Teatro della Toscana in collaborazione con Associazione Uddu, Scenica Frammenti e Teatro Biblioteca Quarticciolo; il 9 maggio ci sarà il debutto di Industria Indipendente con "I ragazzi del cavalcavia"; mentre il 10 maggio Teatropersona presenta in anteprima il suo nuovo lavoro "L'ombra della sera". Completano il programma i Sacchi di Sabbia con "Sandokan", Mario Barzaghi / Teatro dell'Albero con la dimostrazione di lavoro "Il tallone d'Achille del Kathakali", Nerval Teatro con "Canelupo Nudo", Teatro Akropolis con "Morte di Zarathustra" e Vittorio Continelli con "Discorso sul mito", accompagnato in una performance musicale da LeCanaglie (un progetto dell'attore e musicista Massimiliano Setti di Carrozzeria Orfeo). Spazio agli intervalli musicali dal pomeriggio e ai concerti serali con La Banda di Piero, La Rappresentante di Lista, Le Canaglie, Eusebio Martinelli & Gipsy Orkestar. Immigrazione: anche l'Onu contro Renzi "distruggere i barconi non serve" di Luca Kocci Il Manifesto, 29 aprile 2015 "Distruggere i barconi non è la strada giusta, bisogna fermare gli scafisti che li usano". Anche il segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon, boccia come inutile e pericolosa l'idea di bombardare le navi e le barche che partono dall'Africa settentrionale, soprattutto dalla Libia, cariche di uomini, donne e bambini diretti in Europa e che molto spesso approdano a Lampedusa o sulle coste della Sicilia. Lo ha fatto ieri, in Vaticano, dove ha incontrato papa Francesco prima di partecipare al seminario internazionale, organizzato dall'Accademia per le scienze sociali, sul tema "Proteggere la terra, nobilitare l'umanità. Le dimensioni morali dei cambiamenti climatici e dello sviluppo sostenibile". Nel Mediterraneo muoiono in troppi, ormai è diventato "un mare di lacrime", ha detto Ban Ki-moon, secondo quanto riferisce la Radio Vaticana. "A morire sono i poveri e i vulnerabili, che fuggono da guerre, povertà e persecuzioni, la priorità è proteggere le loro vite e la dignità umana", quindi "distruggere i barconi non è la strada giusta", ha puntualizzato il segretario generale delle Nazioni unite, che ha sollecitato l'apertura di corridoi umanitari (una proposta analoga è arrivata anche dalla Federazione delle Chiese evangeliche in Italia). Anche se poi ha indicato come possibile soluzione, senza fornire spiegazioni più precise, il pattugliamento dei mari, così come fu la missione "Atalanta" dell'Unione europea, 2008, per sconfiggere la pirateria lungo le coste della Somalia. "Ascoltate tutte le parole di Renzi dell'ultima settimana e ascoltate le parole di Ban Ki-moon, è facile constatare come in queste ultime vi sia molta più politica e geopolitica, molta più concretezza e pragmatismo, molta più razionalità e lungimiranza di quanto se ne ritrovi nelle dichiarazioni e negli atti del governo italiano", ha commentato il senatore del Pd Luigi Manconi. "Anche perché - ha spiegato Manconi - nonostante ciò che si affannano a dire gli zelanti corifei, è emersa limpidamente la distanza tra la strategia dell'Italia e dell'Europa e quella delle Nazioni unite. Per quel che vale, io sto con Ban Ki-moon. E non con i piccoli ammiragli in pedalò e con gli invecchiati giocatori di battaglia navale. Anche perché, messi tutti gli scafisti nelle condizioni di non nuocere, sappiamo che non una vita umana verrà per ciò stesso salvaguardata: migranti e richiedenti asilo moriranno un po' più in là: nel deserto, nel Sinai, nei lager della Libia". Da parte vaticana, l'incontro fra Francesco e il segretario generale dell'Onu è racchiuso in un breve comunicato della Sala stampa della Santa sede: Ban Ki-moon ha manifestato al papa "la sua gratitudine per aver accettato di rivolgersi all'Assemblea delle Nazioni unite il prossimo 25 settembre, gli ha espresso l'attesa per il suo discorso in tale occasione e per la sua prossima enciclica, e gli ha illustrato alcuni punti dell'attuale impegno delle Nazioni unite a proposito non solo delle questioni ambientali, ma anche dei migranti e delle drammatiche situazioni umanitarie nelle aree del mondo colpite da conflitti". La sintonia fra Onu e Vaticano pare però più profonda di quanto emerga dalla scarna nota della Santa sede, poiché il secco no alla distruzione dei barconi da parte di Ban Ki-moon è esattamente quanto aveva detto pochi giorni fa monsignor Veglio, "ministro" vaticano per le migrazioni, bocciando senza appello i risultati del vertice europeo sui migranti: "Bombardare i barconi in un Paese è un atto di guerra". Nel colloquio fra il papa e il segretario dell'Onu oltre che di migrazioni si è parlato anche di ambiente - che era il tema dell'incontro promosso dall'Accademia per le scienze sociali -, e Ban Ki-moon ha dato una notizia, da molti attesa: papa Francesco ha terminato di scrivere la sua enciclica sull'ecologia, ora è in fase di traduzione nelle varie lingue, "uscirà a giugno". Immigrazione: la Corte di Giustizia Ue dice no al carcere per "soggiorno irregolare" di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 29 aprile 2015 La reclusione di un cittadino di un Paese terzo in una situazione di irregolarità, perchè rientrato nel territorio italiano, è incompatibile con il diritto Ue. Questa volta è l'Avvocato generale Szpunar della Corte di giustizia Ue (causa C-290/14) a rilevare il contrasto della normativa italiana sull'immigrazione con la direttiva 2008/115 sul rimpatrio di cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare. A chiedere l'intervento della Corte è stato il Tribunale di Firenze chiamato a decidere sul caso di un cittadino albanese che, espulso nel 2012, non si era allontanato subito dal territorio, rientrando in Italia nel 2014. L'uomo era stato arrestato per violazione del Dlgs 286/98 per il reato di reingresso clandestino. Nessun dubbio, per l'Avvocato generale, che la misura della detenzione è in contrasto con la normativa Ue: tenendo conto che il divieto di ingresso ha natura accessoria rispetto al fine principale, che è quello di far cessare il soggiorno, la detenzione blocca la realizzazione dell'obiettivo. Di qui la conclusione che la reclusione finalizzata all'esecuzione di un divieto di ingresso incide negativamente sul rimpatrio ed è così contraria alla direttiva 2008/115 che, inoltre, non prevede la reclusione come sanzione penale per il soggiorno irregolare proprio perché la detenzione va ammessa solo per reati non connessi all'irregolarità del soggiorno. Se le conclusioni venissero accolte, il legislatore italiano dovrebbe mettere nuovamente mano all'articolo 13 del Dlgs 286/98. Pakistan: Amnesty International; da reintroduzione pena morte uccisi 100 detenuti La Presse, 29 aprile 2015 Le autorità del Pakistan hanno raggiunto un "traguardo vergognoso" portando a termine la centesima condanna a morte dopo l'annullamento della moratoria della pena capitale, deciso lo scorso dicembre in seguito all'attacco a una scuola di Peshawar. È la denuncia di Amnesty International, contenuta in un comunicato pubblicato sul proprio sito web. "Raggiungere un traguardo così vergognoso in soli quattro mesi dimostra che le autorità pakistane non hanno alcun rispetto per la vita umana", ha detto David Griffiths, vice direttore di Amnesty per l'area dell'Asia-Pacifico. "Inoltre, in molti casi, le sentenze dei giudici pakistani non soddisfano i requisiti minimi stabiliti dal diritto internazionale", ha aggiunto. La centesima condanna a morte eseguita è stata quella di Munit Hussein, a cui era stata inflitta la pena capitale per avere ucciso suo nipote e sua nipote. Il Pakistan aveva introdotto la moratoria nel 2008, ma ha disposto il suo annullamento parziale dopo l'attacco talebano a una scuola di Peshawar, in cui morirono 148 persone, 132 delle quali bambini. In seguito la moratoria è stata annullata completamente, il che ha permesso al governo di eseguire la condanna a morte nei confronti di qualunque tipo di detenuto. "I crimini gravi come l'omicidio o il terrorismo sono totalmente riprovevoli, ma uccidere in nome della giustizia non ha alcun effetto dissuasivo", ha detto ancora Griffiths, sottolineando: "Chi commette questi crimini deve essere giudicato in processi equi, senza che si ricorra alla pena di morte". Indonesia: fucilati otto detenuti condannati per traffico di droga, graziata una donna Corriere della Sera, 29 aprile 2015 Esecuzione di massa per due australiani, quattro africani, un brasiliano e un indonesiano. Graziata l'unica donna, filippina. Tra scene strazianti e assaliti dai giornalisti, i familiari dei due australiani, Andrew Chan e Myuran Sukumaran, sono arrivati a Cilacap, la città portuale da cui si arriva a Nusakambangan dove hanno visitato per l'ultima volta di loro cari; e Chan lunedì ha sposato la sua fidanzata, suo ultimo desiderio. I condannati a morte in Indonesia possono chiedere un padre spirituale nelle loro ultime ore, ma secondo la stampa australiana le richieste di Chan e Sukumaran sono state respinte perché le autorità indonesiane hanno voluto scegliere loro chi potessero vedere. La procedura per questo genere di esecuzioni è rigidamente scandita. I condannati vengono prelevati dalle celle nella prigione di massima sicurezza e portati nella giungla, sempre sull'isola di Nusakambangan, in una zona il cui nome suona più o meno "valle della morte": indossano tute bianche (simbolo dell'oltretomba) e vengono poste di fronte al plotone di esecuzione. Possono scegliere se avere gli occhi bendati, sedere, inginocchiarsi o rimanere in piedi. Poi ognuno ha tre minuti di tempo per raccogliersi, prima che un medico gli metta una croce nera sul petto. Il plotone è composto da dodici uomini, ma nove sparano a salve e solo tre di loro avranno i fucili armati. Se i medici confermano che qualcuno dei condannati è ancora in vita, il comandante del plotone spara il colpo finale. L'Australia ha messo in campo una vigorosa campagna per salvare i due connazionali, che sono nel braccio della morte da quasi un decennio. Si sono mobilitate celebrità, tra cui il premio Oscar Geoffrey Rush (che in un video ha chiesto al premier Tony Abbott di volare in Indonesia per un ultimo tentativo); e il ministro degli Esteri, Julie Bishop, ha chiesto lunedì una sospensione in attesa che si conoscesse l'esito di un'inchiesta per corruzione sui due giudici che hanno presieduto il caso. Ma il presidente Joko Widodo ha respinto la richiesta. La legislazione antidroga indonesiana è una delle più severe al mondo e il presidente Widodo, che ha fatto della lotta alla droga una battaglia personale, ritiene che l'emergenza è tale da richiedere la pena capitale per i condannati. Nel gruppo sull'orlo del patibolo c'era fino a sabato anche un francese, Serge Atlaoui, 51 anni, ma l'intervento all'ultimo minuto del presidente, Francois Hollande, che ha minacciato ritorsioni diplomatiche, è riuscito a sfilarlo dalla "black list". Kazakistan: cinque poliziotti della questura di Roma indagati per il caso Shalabayeva di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 29 aprile 2015 L'accusa dei pm: "Hanno trattato la pratica in maniera fin troppo burocratica, inducendo in errore i responsabili della prefettura e i magistrati". Cinque avvisi di conclusione delle indagini preliminari che preludono a cinque richieste di rinvio a giudizio per altrettanti poliziotti che nel maggio 2013 prestavano servizio all'ufficio immigrazione della questura di Roma: l'ex dirigente Maurizio Improta, oggi questore di Rimini, il suo vice di allora, un ispettore e due assistenti. Finisce così l'inchiesta della Procura di Roma sull'espulsione in Kazakistan di Alma Shalabayeva, la moglie del dissidente Mukhar Ablyazov del quale le autorità di quel Paese avevano chiesto l'arresto in quanto latitante. Lui non si trovò, la donna sì, insieme alla figlia di 4 anni; aveva con sé un passaporto falso della Repubblica Centrafricana: per questo gli inquirenti si apprestano a chiedere il processo pure nei suoi confronti. Fu un caso politico-diplomatico-poliziesco che sfiorò il ministro dell'Interno Alfano ed è costato il posto al suo ex capo di gabinetto Giuseppe Procaccini, nonché il pensionamento anticipato di qualche settimana del caposegreteria del Dipartimento della pubblica sicurezza. Poi il decreto di espulsione fu annullato e la Shalabayeva ottenne un tardivo asilo politico (quando già era in Svizzera), Ablyazov fu arrestato in Francia dov'è tuttora detenuto in attesa di estradizione. Quasi due anni d'indagine hanno indotto i pubblici ministeri di Roma (che diedero il nulla osta al rimpatrio) ad addossare ogni responsabilità ai funzionari di polizia, accusandoli di aver trattato la pratica in maniera fin troppo burocratica, inducendo in errore i responsabili della prefettura e i magistrati che firmarono l'espulsione della moglie del dissidente kazako. Improta e i suoi colleghi devono rispondere di falso ideologico, per non aver indicato ciò che secondo i pm sapevano (lo status di perseguitata nel Paese che la rivoleva indietro e la disponibilità di risorse economiche) e di omissione d'atti d'ufficio, per non aver trasmesso ai magistrati tutte le informazioni acquisite sulla vera identità di Alma Shalabayeva, con le quali il giudice di pace avrebbe potuto prendere una decisione diversa dall'espatrio. È la versione del presidente del tribunale di Roma, che denunciò "una mancata trasmissione di atti che ha avuto gravissime conseguenze". I poliziotti - a cominciare da Improta, ascoltato come testimone - hanno sempre sostenuto il contrario, insistendo sul fatto che mai, fino all'allontanamento dall'Italia, la moglie del "latitante" kazako spiegò che nel suo Paese rischiava persecuzioni, e che era sua intenzione chiedere asilo politico. L'ufficio immigrazione - hanno spiegato - riservò un diverso trattamento al cognato della signora, fermato con lei, perché riuscì a dimostrare di avere titolo di rimanere nell'area Schengen, mentre sulla Shalabayeva c'erano solo informazioni riferite dalla Squadra mobile e dalla Digos, relative al passaporto falso.