Giustizia: giudici e pm separati, dice Rawls, il filosofo della verità di Francesco Petrelli (Segretario Unione Camere Penali) Il Garantista, 28 aprile 2015 Non tutti lo conoscono ma John Rawls è considerato il più grande filosofo del diritto vivente. Nel suo lavoro più famoso, "Una teoria della giustizia" (1971), Rawls espone l'idea secondo la quale per conseguire un effettivo risultato di giustizia occorrerebbe prendere le relative decisioni collocandosi in una posizione di assoluta neutralità, calando sulla propria mente un "velo di ignoranza". Ma come sarà possibile realizzare una simile improbabile condizione? Ed in che cosa ci sarà di aiuto deliberare in tale poco plausibile condizione di cecità? Per quanto risulti difficile questa operazione, secondo il filosofo, solo spogliandosi della propria condizione personale, professionale, economica e sociale, e ponendosi in questo modo in una posizione di neutralità intellettuale, sarà possibile operare scelte riconducibili a un principio di giustizia. Il "velo di ignoranza", determinato da tale straniamento, ci impedirà infatti di conoscere quale sarà la nostra posizione personale all'interno del contesto rispetto al quale saremo chiamati a deliberare le nostre scelte politiche, costringendoci a decidere senza sapere se in quel contesto sociale o relazionare saremo i debitori o i creditori, gli amministratori o gli amministrati, i detentori del potere o gli emarginati. Se ignorerò, infatti, quale sarà nella società il mio posto, se sarò povero o ricco, se sarò detentore di mezzi di produzione o del tutto privo di capacità reddituale, potrò esercitare i miei criteri di giustizia con maggiore equidistanza e cercherò di realizzare quella formula che impedirà, qualunque sarà il mio destino, di essere vittima di un sistema iniquo. Quando si tratterà infine di organizzare i rapporti fra giudice e parti nel processo, dovremo dunque necessariamente collocarci nella posizione di colui che non sa se nel processo sarà il giudice, il pubblico ministero o l'imputato e dovremo scegliere, posti in quella posizione di indotta ignoranza, non condizionata dal pregiudizio che deriva dall'interpretare l'uno o l'altro dei ruoli processuali, che tipo di giudice vorremmo, amministratore di quale giustizia, che tipo di pubblico ministero, dotato di quali poteri, e che tipo di imputato, armato di quali garanzie. La questione non risulta indifferente, sia se si dovesse assumere il ruolo di giudice, sia quello di pubblico ministero o di imputato. Perché da imputato vorrei certamente un giudice imparziale, e un pubblico ministero dotato delle mie stesse armi, ma da pubblico ministero vorrei avere strumenti superiori a quelli dell'imputato, necessari a superare l'ostacolo costituito dalle sue garanzie e dotati dell'efficienza necessaria a dimostrare la sua colpevolezza. E da pubblico ministero desidererei un giudice certamente imparziale, ma proprio per questo non ostile all'accusa e consapevole della necessità di garantire in ogni caso l'efficacia della mia attività di contrasto al crimine. Da giudice, invece, vorrei avere poteri superiori a quelli delle parti, non essere costretto a vedere limitato lo spazio della mia cognizione. Desidererei interpretare la legge secondo il mio istinto e valutare le prove secondo la mia coscienza e la mia intuizione, senza dover essere guidato da regole probatorie e impedito da restrizioni. Per operare una scelta giusta in una tanto delicata materia dovrei dunque spogliarmi di ciascuna di queste posizioni e delle convinzioni che ad esse appartengono e, non potendo sapere se nel processo immaginario che mi devo configurare sarò il giudice, l'accusato o l'accusatore, dovrò scegliere la regola più giusta che sarà certamente quella che potrà valorizzare le qualità, potenziare le funzioni e tutelare le posizioni di ogni singolo soggetto processuale. Tale sarà la regola che senza danneggiare la funzione del giudice e l'efficienza dell'accusa, sarà comunque capace di tutelare la posizione dell'accusato, che nel processo è senz'altro la parte più debole. E per l'imputato si dovrà dunque apprestare un giudice non solo imparziale, ovvero indifferente all'oggetto del giudizio, ma anche terzo, ovvero sicuramente equidistante da entrambe le parti del processo. E dunque, per essere tale, certamente estraneo tanto al desiderio dell'imputato di essere assolto, quanto al desiderio dell'accusatore di ottenerne la condanna. La stessa metafora della "torta" utilizzata da Rawls al fine di esemplificare il significato della sua teoria ci offre una ulteriore convincente dimostrazione di come i soggetti responsabili di determinate attività processuali debbano essere strutturalmente separati. Applicando esemplarmente la sua teoria alla distribuzione delle porzioni di una torta, Rawls afferma che, al fine di evitare ingiustizie, chi taglia le fette deve essere necessariamente un soggetto diverso da colui che le distribuisce. In questo modo chi taglia dovrà necessariamente attenersi ad un criterio di equità e di giustizia, non sapendo a chi le porzioni saranno distribuite. Restando alla metafora sarà dunque necessario che chi taglia le fette e chi le distribuisce non siano mossi da un medesimo intento, ma lavorino in assoluta autonomia, perseguendo ciascuno un proprio fine differente. Non è qui, dunque, a ben vedere in discussione il problema ingenuo dell'eventuale amicizia o frequentazione fra pubblico ministero e giudice. Il problema si colloca sul più alto e differente livello della collocazione istituzionale dei due diversi attori pubblici del processo al fine di ottenere l'ineludibile risultato di giustizia, in quanto solo un giudice collocato in una posizione di terzietà e di alterità di obbiettivi rispetto ad entrambe le parti processuali rende possibile quel risultato. Ma se questo è un obbiettivo che trova nella logica dei fatti un evidente fondamento, allora la terzietà non potrà che essere perseguita attraverso una separazione degli ambiti ordinamentali, organizzativi e disciplinari cui appartengono il giudice e l'accusato. Perché solo attraverso tale separazione sarà preservata quella condizione essenziale che i pensatori dell'illuminismo, cultori della separazione dei poteri, chiamavano "inimicizia", ovvero quel sentimento che fa sì che un potere controlli l'altro, e che il titolare di un potere, non essendo mosso da alcun sentimento di "amicizia" ordinamentale nei confronti di un altro soggetto, possa sempre diffidarne, verificandone i metodi, falsificandone i risultati, non condividendone mai né gli scopi, né le passioni. Questo pensiero filosofico ci consegna dunque un modello concettuale che, applicato in concreto alla individuazione delle giuste prerogative dei soggetti che agiscono all'interno del processo penale, finisce con il confermare l'idea che un giudice terzo è una vera e propria condizione di giustizia, capace di garantire l'equilibrata suddivisione delle prerogative e dei poteri fra le parti processuali, e che la terzietà del giudice è dunque caratteristica intrinseca ed irrinunciabile del processo accusatorio, ed in tal senso unica garanzia della sua efficienza e della sua funzionalità. Garanzia, in particolare, del funzionamento di quella macchina gnoseologica, la più moderna e la più efficace di cui disponiamo, costituita dal contraddittorio. In questa ottica si vede bene come la separazione delle carriere di giudice e di accusatore non sia affatto un fine, ma esclusivamente un mezzo - ragionevole e praticabile - per raggiungere l'indispensabile obiettivo della terzietà del giudice, e come esso debba essere dunque correttamente valutato, non come un fine, ma solo come un mezzo per raggiungere il risultato politico di un necessario e più alto equilibrio ordinamentale. Giustizia: sì, anch'io sono garantista… possiamo discuterne? di Antonio Ingroia (ex magistrato) Il Garantista, 28 aprile 2015 Possibile in Italia affrontare temi delicati e cruciali come la cultura dei diritti in magistratura e la natura del garantismo, genuino o finto e peloso, che anima gli opinionisti di varia origine, fuori dallo schematismo degli schieramenti militanti da tifoseria scalmanata e dei cliché appiccicati ai vari protagonisti della scena politico-giudiziaria? Impresa ardua ma non impossibile, e quindi meritevole di un ennesimo tentativo. L'occasione deriva da un arguto articolo di Vincenzo Vitale pubblicato domenica scorsa su queste colonne dove, con aria scandalizzata, l'autore "scopre" che l'ex pm Ingroia, oggi avvocato, sarebbe improvvisamente diventato "garantista". Garantismo: parola dai significati più diversi a seconda dell'accezione datagli dall'esegeta di turno. A volte, garantista sarebbe chi sta dalla parte degli imputati a prescindere, meglio se ricchi e potenti. Altre volte, invece, credo più ragionevolmente, garantismo significa attribuire al diritto la primaria funzione di garanzia dei diritti di tutti i cittadini, i cittadini imputati, ma anche i cittadini vittime dei reati. In quest'ultimo garantismo io credo e perciò svolgo - indifferentemente - il ruolo di avvocato di imputati della cui innocenza sono convinto, come delle vittime dei reati che si costituiscono parte civile. Un garantismo, mi dispiace in questo dover nettamente smentire Vitale, che non rinnega in alcun modo ciò che pensavo e praticavo da pm, visto che mai ho fatto parte della "schiera di quanti consideravano delitto di lesa maestà ogni critica all'operato della magistratura ed in particolare delle Procure". Vero il contrario: mi sono sempre lasciato guidare dalle mie convinzioni, se adeguatamente sorrette dalle prove acquisite. Sulla scorta di queste convinzioni, giudiziariamente fondate, ho sostenuto sino in fondo l'accusa in alcuni processi, difendendo le mie posizioni e le condanne che ne sono scaturite, fino alle sentenze definitive, ricordo fra le tante le condanne di Dell'Utri e Contrada. Ma, d'altra parte, da magistrato non ho risparmiato critiche "garantiste" a certe decisioni giudiziarie, anche di qualche Procura. Penso, ad esempio, all'irragionevole custodia cautelare che Chicca Roveri subì perché ingiustamente accusata dalla Procura di Trapani di essere complice degli assassini di Mauro Rostagno, e fui io, da PM antimafia a Palermo, a chiedere ed ottenere l'archiviazione della sua posizione e della ed. "pista interna" ostinatamente perseguita dalla Procura di Trapani, e fui sempre io, invece, ad imboccare la pista mafiosa che ha portato di recente alla condanna in primo grado del killer e del mandante mafioso del delitto Rostagno. Basta leggere cosa scrissi in quei provvedimenti per rendersi conto come io non sia stato mai tenero -anche da PM - verso le "cantonate" di certi magistrati. E basterebbe leggere le tantissime archiviazioni (per fortuna rimaste segrete, a tutela della privacy degli indagati) da me firmate a chiusura di vari procedimenti penali avviati sulla base di denunce e dichiarazioni di pentiti ritenute non adeguatamente riscontrate. Ed ancora, per venire più da vicino rispetto al "caso" dei ed. "complici di Ciancimino", già da pm criticai l'accanimento, degno di miglior causa, che certe procure stavano scatenando contro Massimo Ciancimino da quando era divenuto testimone nell'indagine sulla trattativa Stato-mafia, ed anche in quel caso - da pm, non da avvocato - non risparmiai critiche a uffici di procura. Perciò, ed a maggior ragione, mi sento oggi del tutto coerente, nella nuova veste di avvocato, nel combattere analoghe battaglie di verità e giustizia, criticando da avvocato di parte civile della famiglia di Attilio Manca l'immobilismo investigativo della Procura di Viterbo che si è "bevuta" i peggiori depistaggi orditi in quel caso giudiziario per mascherare come suicidio un delitto di mafia e servizi segreti. Fino al punto di vedermi addirittura incriminato dai Pm di Viterbo per calunnia per le affermazioni pronunciate nell'espletamento del mio ruolo di avvocato difensore in aula, ragion per cui mi sarei atteso dalle vestali del garantismo ben altra solidarietà per la palese violazione del diritto di difesa insita in una siffatta incriminazione, ed invece solo silenzio. Ed ugualmente coerente con me stesso e col mio garantismo mi sento quando critico la magistratura romana per il protrarsi della custodia cautelare degli imputati di un presunto tentativo di riciclaggio, frutto di un processo tutto congetturale, qual è quello che ha dato origine al commento di Vincenzo Vitale. Non resta che domandarmi sconsolato quando riusciremo nel nostro Paese ad avviare un dibattito serio sulle regole e sulle garanzie nei processi, fuori dagli schematismi e dai personalismi (che importa se è Ingroia a sostenere una battaglia giusta, se è giusta?). Quel che so è che solo in quel giorno la cultura dei diritti nel nostro Paese sarà cresciuta. Ma temo che anche queste mie parole restino, ancora una volta, parole al vento. Giustizia: misure cautelari, il Tribunale del riesame è libero di correggere la motivazione di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 28 aprile 2015 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 27 aprile 2015 n. 17454. Il Tribunale del riesame è un giudice di merito e, come tale, ha il "potere-dovere" di correggere o integrare la motivazione, non solo in diritto, ma anche in fatto del provvedimento cautelare impugnato, confermando quest'ultimo - ove ne ricorrano le condizioni - con diversa motivazione. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza 27 aprile 2015 n. 17454, rigettando il ricorso di un uomo che, nell'ambito di un procedimento per mafia, aveva impugnato il sequestro preventivo subìto a causa della sproporzione tra il valore dei beni in suo possesso e le sue disponibilità economiche. In particolare, l'indagato aveva contestato che mentre il Gip aveva considerato lo squilibrio con riferimento al momento attuale, successivamente il tribunale aveva corretto la motivazione giustificando il sequestro con riferimento al momento dell'acquisto degli immobili. Il potere dovere del riesame. Per la Suprema corte il Tribunale del riesame, sebbene non possa mutare la natura del provvedimento sottoposto al suo sindacato e confermare così una misura cautelare reale per finalità diverse da quelle per le quali è stata disposta - trasformando, ad esempio, un sequestro preventivo in un sequestro probatorio, o in un sequestro conservativo, può invece integrare e correggere la motivazione del provvedimento impugnato non solo in punto di diritto - mutando, ad esempio, la qualificazione giuridica del fatto, ma anche relativamente alle questioni di fatto e agli apprezzamenti di merito, purché sulla scorta delle risultanze degli atti che sono ad esso sottoposti, essendo precluso al Tribunale del riesame l'esercizio di potere istruttorio volto all'acquisizione di nuovi elementi di prova. Ed il potere di integrare e correggere la motivazione discende dalla natura stessa di giudice di merito del Tribunale del riesame, che dunque ha un potere-dovere di analizzare nuovamente la vicenda. In questo senso, l'annullamento dell'ordinanza costituisce la extrema ratio delle determinazioni adottabili e può essere disposto solo ove il provvedimento impugnato sia mancante di motivazione in senso grafico ovvero, pur esistendo una motivazione, essa si risolva in clausole di stile e quindi in una motivazione apparente, ovvero nel caso in cui, sulla base di una completa rivalutazione del materiale probatorio ad esso sottoposto, ritenga che siano insussistenti i presupposti richiesti dalla legge per la emanazione della misura. Negli altri casi, il Tribunale del riesame non può annullare l'ordinanza impugnata della quale non condivida o ritenga erronee le valutazioni in fatto, senza prima aver verificato la possibilità che il provvedimento possa trovare idoneo fondamento giuridico e fattuale negli altri elementi - diversi da quelli indicati dal Gip - comunque emergenti dagli atti ad esso sottoposti. Ricorribilità in Cassazione. Con il secondo motivo, poi, il ricorrente aveva mosso censure inerenti la motivazione che però non essendo "meramente apparente" non è sindacabile in sede di legittimità. Infatti, conclude la Corte, "ai sensi dell'articolo 325, comma 1, Cpp, avverso i provvedimenti emessi dal Tribunale in sede di appello o riesame in materia di misure cautelari reali, il ricorso per cassazione è ammesso solo per violazione di legge, potendo in tale error iuris comprendersi solo la mancanza assoluta di motivazione o la motivazione meramente apparente, ma non l'illogicità manifesta della motivazione, quale può denunciarsi nel giudizio di legittimità soltanto tramite specifico e autonomo motivo di ricorso di cui alla lett. e) dell'art. 606 stesso codice". Giustizia: il Copasir "rapporti tra carceri e servizi segreti con metodi fuori norma" di Roberto Galullo Il Sole 24 Ore, 28 aprile 2015 Il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir), a fine marzo ha diffuso 31 pagine di relazione (approvata il 12 marzo) trasmessa alle presidenze delle Camere che è tutta da leggere (sul sito Copasir troverete la versione integrale). Forse è il caso, prima di vedere a quali conclusioni giunge il Copasir, raccogliere le idee su quanto emerso finora nella stessa relazione del Comitato parlamentare: 1) fino al 2007 (allorché sopraggiunse la legge di riforma) i rapporti tra servizi segreti e detenuti (quelli che interessano non sono ovviamente i ladri di pollo ma mafiosi e terroristi) erano all'insegna della "soggettività" e "discrezionalità" delle parti (!); 2) la magistratura identificava se stessa come unico (o, quantomeno, primo) sbocco naturale delle informazioni raccolte nelle celle; i Servizi segreti volevano invece interloquire solo con la politica; 3) per Giuseppe Pisanu (ex ministro dell'Interno) l'oggetto delle due operazioni era per lui misterioso e non aveva mai sentito parlare né di operazione "Farfalla" né di operazione "Rientro". 4) idem per Roberto Castelli (ex ministro della Giustizia); 5) Andrea Orlando, attuale ministro della Giustizia, parlando di "profili di irregolarità amministrativa" in riferimento alla gestione dell'Ufficio ispettivo, ha riferito che "fu riscontrata la presenza di articolazioni periferiche istituite presso i provveditorati regionali con provvedimento del direttore dell'ufficio ispettivo. Tali articolazioni sotto la direzione unica della struttura centrale risultavano avere il compito di svolgere analisi e monitoraggio dei detenuti sottoposti al regime di cui al 41-bis, sulla base di accordi intervenuti tra il Dipartimento e la Direzione nazionale antimafia. Non si può logicamente escludere che in tale attività, della quale non risultano tracce documentali, siano refluiti anche gli esiti di operazioni parallelamente svolte in collaborazione con le agenzie di sicurezza o dalle agenzie stesse"; 6) quest'ultima cosa viene confermata da Francesco Cascini, che nel 2007 ha sostituito Salvatore Leopardi a capo dell'Ufficio per l'attività ispettiva e il controllo del Dap; 7) l'operazione Farfalla "si sarebbe chiusa nell'agosto del 2004" per l'infondatezza dei presupposti, per la difficoltà di stabilire un rapporto fiduciario con i carcerati individuati e in particolare per l'impercorribilità di un'operazione caratterizzata da un'attività di contatto intermediata da personale del Dap privo di specifica formazione. Gli otto carcerati individuati per l'operazione nel documento del 24 maggio 2004, non sono mai divenuti dei fiduciari del Sisde. Insomma: un fallimento totale; 8) l'allora capo del Dap, Giovanni Tinebra, scrive testualmente il Copasir, "ne esce oscurato da un secco "non so e non sapevo" e da una frase, riferita in sede di audizione: "Il direttore si deve accontentare di farsi raccontare il succo, dare una delega e sorvegliare che tutto vada bene, e pregando Iddio che tutto vada bene". Ha precisato inoltre che: "Le relazioni con i Servizi, per restare vicini a quella che era la conformazione normativa dell'istituto, venivano curate e gestite da coloro i quali erano addetti ai servizi di polizia giudiziaria"": 9) lo stesso Tinebra, però, scrive sempre il Copasir nella sua relazione, verrà smentito in audizione da Salvatore Leopardi, come abbiamo visto ex capo del servizio ispettivo del Dap, che confermerà di aver più volte informato il Direttore del Dap sul prosieguo dell'operazione; 10) Solo a seguire queste sintesi c'è da perdere la bussola e domandarsi: "Ma chi seguiva e controllava cosa all'interno delle Istituzioni?". Domanda alla quale ne sorge una ancor più spontanea: "Oggi come vanno le cose?" (state certi che, a parole, è cambiato tutto). Le conclusioni del Copasir Con questi ulteriori quattro articoli che ho dedicato al cosiddetto protocollo Farfalla, attraverso la relazione del Copasir, ho voluto approfondire una tematica complessa, ambigua, per molti versi oscura, che i giornali, nelle scorse settimane, hanno disbrigato come una faccenda ordinaria di cronaca, anche se qualcuno ha tentato qualche timido scavo giornalistico. Non credo che sia così e le stesse conclusioni alle quale giunge il Copasir sono, a mio modesto avviso, inquietanti e devono porre legittime domande su quanti passi debba ancora compiere la democrazia italiana. Operazione Farfalla Scrive infatti il Copasir: "che per quanto riguarda l'operazione Farfalla lo scambio informativo tra il Sisde e il Dap è avvenuto per la maggior parte tramite comunicazioni date a voce, non codificate e non protocollate. Nessun documento di tale operazione risulta prodotto dal Dap, quasi non fosse stato mai archiviato alcunché oppure fosse stato distrutto l'archivio al cambio della dirigenza nel 2007. Il rapporto informativo instaurato tra i due organismi nell'operazione Farfalla è stato costruito solo sulla base di conoscenze personali tra i rispettivi dirigenti e direttori degli enti e non sulla base di regole precise, concordate e codificate. Non è stato pertanto rispettato l'articolo 6 della legge n. 801 del 1977 che recita "Il Ministro per l'interno, dal quale il Sisde dipende, ne stabilisce l'ordinamento e ne cura l'attività sulla base delle direttive e delle disposizioni del Presidente del Consiglio dei Ministri" e ancora "il Sisde è tenuto a comunicare al Ministro per l'interno e al Comitato esecutivo per i Servizi di informazione e sicurezza (Cesis) tutte le informazioni ricevute o comunque in suo possesso, le analisi e le situazioni elaborate […]" Nella raccolta di materiale sull'operazione Farfalla le informative sono poche e vaghe e la "cura delle attività" svolta dai Ministri dell'interno per il Sisde e della giustizia per il Dap appaiono, dopo i riscontri, non esistenti. Il Cesis, da parte sua, accenna solo nelle relazioni semestrali agli obiettivi strategici in tre righe molto generiche e non riconducibili all'operazione. Pur non rientrando nei compiti di questa indagine, risulta evidente che il Dap ha svolto un ruolo non consono alle sue prerogative e fuori dal perimetro assegnato - ruolo assimilabile a quello di una vera e propria struttura parallela di intelligence - con l'ulteriore aggravante di una carenza professionale di ricerca informativa e di una carenza organizzativa nel rapporto con i fiduciari e con il Sisde. Con queste premesse l'operazione Farfalla non poteva che risultare fallimentare, così come poi è stata, con il coinvolgimento di uomini del Dap, del Sisde e della magistratura che sono stati distolti da attività più utili e produttive per l'Italia e per i cittadini. L'assenza di riscontri documentali e la gestione poco trasparente dell'attività ha giustificato ricostruzioni e letture dietrologiche di deviazioni, calibrate ad una trattativa tra lo Stato e la criminalità. Ascoltare alcuni attori dell'epoca che, con le loro dichiarazioni, hanno certificato il giudizio di superficialità e pressapochismo sull'operazione, ha permesso di ricondurre la vicenda nell'alveo storico in cui si è svolta. In questo senso si segnalano due recenti provvedimenti della magistratura: il già ricordato rigetto della Corte d'appello di Palermo di acquisizione di nuove prove in merito all'operazione Farfalla in data 23 novembre 2014 e la sentenza della Procura di Roma del 13 febbraio 2015 di non luogo a procedere per prescrizione nei confronti del dottor Leopardi. Se dal punto di vista giudiziario l'operazione Farfalla non ha condotto ad alcuna condanna né ad altra sanzione, dal lato della vigilanza vanno ricordati la vaghezza e l'accentramento nella figura del Direttore della governance del Servizio e la struttura amicale data dal generale Mori all'operazione. Mori e Obinu, da una parte, Tinebra e Leopardi, dall'altra, erano stati colleghi ed avevano collaborato a Caltanissetta e poi, una volta ritrovatisi a Roma ai vertici del Sisde e del Dap, avevano ricostruito un gruppo di lavoro che operava con modalità di funzionamento che sfuggivano alle norme e che tutt'ora rimangono sconosciute anche a causa dei "non so", "non mi ricordo" e "nulla di scritto". Infine, occorre segnalare, in primo luogo, che sulla base di quanto emerso, non risulterebbero altre operazioni di natura analoga; in secondo luogo che le richieste specifiche di documentazione inoltrate agli organi giudiziari dal Comitato non hanno ricevuto sempre pieno riscontro e, in un caso, la documentazione trasmessa dalla Procura di Palermo è risultata contrastante con altra già acquisita dal Ministero della giustizia, in relazione ad intercettazioni effettuate utilizzando strutture del Dap". Alla fine della relazione si leggerà ancora: "Dall'indagine emerge un quadro complessivo caratterizzato da una gestione superficiale e da carenze organizzative aggravato da un'assenza di tracciabilità documentale che, oltre a non aver condotto a risultati di qualche utilità, ha reso possibili letture dietrologiche della vicenda, con riferimento a inesistenti "protocolli" piuttosto che a specifiche operazioni. Peraltro si sottolinea che gli organi giudiziari non hanno riscontrato elementi per promuovere azione penale". Operazione Rientro L'operazione Rientro fu avviata nel dicembre 2005 e si concluse nel luglio 2006 con la denuncia del fiduciario Antonio Cutolo (a capo della Nuova camorra organizzata) da parte del Dap, a Carabinieri e Polizia. L'operazione informativa (inizialmente denominata "Mascalzone latino") nacque dalla proposta del detenuto presso il carcere di Sulmona, Antonio Cutolo, al direttore dello stesso istituto, Giacinto Siciliano, che ne informò Salvatore Leopardi, all'epoca responsabile dell'Ufficio ispettivo e di controllo del Dap: la proposta era finalizzata a fornire elementi utili alla cattura di Edoardo Contini, all'epoca latitante di camorra e figura importante nella gerarchia criminale campana. L'Operazione Rientro, secondo il Copasir, si distingue dall'Operazione Farfalla sotto molti profili. Il Dap e il servizio non si sono attivati per individuare un soggetto da contattare, ma è stato quest'ultimo a proporsi autonomamente. Cutolo, affiliato alla Nuova camorra organizzata, aveva stabilito un rapporto fiduciario con il Dap, teso al conseguimento di notizie relative a dinamiche intramurarie. Il controllo diretto dell'autorità giudiziaria e le successive indagini sull'operazione non hanno fatto emergere conseguenze a carico degli uomini e dei dirigenti dei Servizi coinvolti. La documentazione relativa all'operazione Rientro, in possesso dell'Agenzia e del Dap, è stata interamente acquisita alla Procura della Repubblica di Roma e depositata nel fascicolo dell'inchiesta condotta da Maria Monteleone, procuratore aggiunto e da Erminio Amelio, sostituto procuratore. L'operazione ebbe inizio il 24 novembre 2005 presso la sede del Dap dove si incontrarono Leopardi e l'allora colonnello Pasquale Angelosanto, a ciò autorizzato dal generale Mario Mori. Le prime notizie relative alla latitanza di Contini, fornite da Siciliano insieme ad altri funzionari della Polizia penitenziaria, facevano riferimento a un rifugio che Contini avrebbe avuto in Abruzzo. Su tale informazione, data a voce, esiste peraltro una relazione di servizio del Sisde, depositata agli atti, secondo cui le notizie apparivano "macroscopicamente generiche" e di "difficile utilizzazione investigativa". Nel dicembre 2005 il Dap, attraverso un funzionario, consegnò al Sisde (al colonnello Angelosanto, direttore del Raggruppamento operativo centrale) un documento senza data e senza protocollo che fa riferimento "ad un rapporto di tipo fiduciario tuttora in corso con una fonte di settore qualificata". Alla consegna della nota, in cui si "ripetevano le notizie date a voce nel novembre", il Raggruppamento operativo centrale non era ancora a conoscenza di chi fosse la fonte confidenziale; inoltre, si richiamava l'attenzione su persone che erano a capo di clan camorristici già noti agli investigatori. Si accennava altresì alla faida della cupola di Secondigliano causata dallo sfaldamento di questi gruppi criminali. Anche questa nota, tuttavia, riportava notizie molto generiche, di nessun valore informativo e spessore operativo. Nel maggio 2006, il Dap comunicò al Sisde ulteriori informazioni relative al filone Contini "con riferimento al padre di un agente di polizia che sarebbe stato solito ospitare il latitante". Dopo alcuni verifiche, tuttavia, venne accertato che il soggetto indicato da Cutolo non aveva nessun tipo "di collusione o sospetti indizianti". Il colonnello Angelosanto manifestò, con una nota inviata al direttore, i suoi dubbi, non solo sull'attendibilità della fonte ma anche sulla credibilità delle notizie: nel caso specifico Cutolo utilizzava l'informazione per calunniare la famiglia del poliziotto. Venne chiesto dal Sisde un incontro con lo stesso fiduciario del Dap, che ancora non era conosciuto dal Servizio, per poterne valutare le finalità. L'incontro, concordato con il Dap, si svolse il 12 giugno 2006 all'esterno del carcere, durante un permesso premio, con lo scopo di ascoltare direttamente dalla fonte le notizie già transitate dalla Polizia penitenziaria. Vi parteciparono un funzionario del Dap e uno del Sisde; quest'ultimo comunicò di aver avuto una "bruttissima impressione del soggetto", sia per le notizie date che per l'atteggiamento avuto. A seguito dell'incontro venne redatta dal Sisde una nota con la quale si chiuse l'"operazione Rientro" per inaffidabilità della fonte fiduciaria. Il 28 luglio 2006 il Dipartimento di pubblica sicurezza venne informato dal Sisde, attraverso una nota del Centro di Napoli, di reati commessi dalla fonte fiduciaria nel periodo dal 12 giugno al 20 luglio. "Per quanto concerne l'operazione Rientro - si legge nella relazione conclusiva del Copasir - i dubbi sono circoscritti all'operato del Dap e del suo dirigente, Leopardi, mentre per quanto riguarda il lavoro del Sisde, a seguito delle audizioni e dei documenti, si evince che si è svolto "nei percorsi della legge", secondo quanto riferito in audizione da Monteleone e Amelio. Va inoltre segnalato che, sia nella fase di indagine che in quella dibattimentale del procedimento in corso a carico di Leopardi e altri, nessun agente è mai stato rinviato a giudizio né alcuna struttura del Sisde o dell'Aisi è mai stata coinvolta. E ciò, sia prima dell'opposizione del segreto di Stato, il 14 maggio 2010, confermata dal Presidente del Consiglio il 7 marzo 2011, che successivamente alla cessazione dello stesso, disposta il 23 luglio 2014. Dalla documentazione si rileva, altresì, che il colonnello Angelosanto, interessato già nella prima nota, aveva evidenziato, pur non conoscendo la fonte, la scarsa attendibilità delle informative e la modalità di adesione al programma fiduciario che gli risultava "alquanto strano". L'operazione Rientro, per la parte di competenza del Servizio, può essere considerata una normale operazione con i corretti passaggi e le opportune verifiche". Giustizia: "Colpa delle toghe" e si uccide dopo l'arresto del figlio. Il Pm "Lo dicono tutti" di Erika Dellacasa Corriere della Sera, 28 aprile 2015 Il figlio farmacista era agli arresti domiciliari dall'inizio di aprile per un reato pesante, aver trafficato in medicinali antitumorali rubati e potenzialmente pericolosi. Francesco Menetto, 65 anni, medico pediatra con studio in un elegante quartiere borghese nel centro di Genova, non ha mai creduto alle accuse avanzate dalla Procura di Monza ma non ha retto a quella che il figlio stesso definisce "una terribile umiliazione". Nella notte di domenica dopo aver cenato con il figlio e la nuora nella villa di famiglia è uscito dicendo di dover fare una visita urgente a un piccolo paziente. Invece insieme con la moglie è arrivato in auto fino al ponte monumentale che attraversa la via principale, via XX Settembre, e si è lanciato nel vuoto. Era l'una e mezza di notte. Poco prima aveva inviato un sms al figlio Marco, invitandolo a guardare in un cassetto di casa. Marco vedrà il messaggio a tragedia ormai compiuta e troverà nel cassetto una lettera di scuse e alcune disposizioni testamentarie. Anche la madre voleva uccidersi ma ha avuto un momento di esitazione, si è allontanata per alcuni minuti. Poi è tornata sul ponte dove l'hanno vista gli agenti avvertiti da alcuni passanti che un corpo era a terra senza vita. Quando ha scorto gli agenti ha scavalcato la balaustra: "L'abbiamo letteralmente presa per i capelli, mentre era nel vuoto" scrivono i poliziotti nella relazione. Ora è ricoverata in stato confusionale. Nell'auto del dottore gli agenti hanno trovato un biglietto: "La magistratura miope a volte uccide". Il procuratore capo di Monza Corrado Carnevali ha dichiarato che "ormai dicono tutti così. Non c'è altro da commentare". Il viceministro della Giustizia Enrico Costa le ha definite "parole fuori luogo". Ieri mattina la Procura di Monza ("sono umanamente colpita" ha detto il pm Franca Macchia) ha dato parere favorevole alla scarcerazione di Marco Menetto, l'istanza era stata presentata dall'avvocato difensore Umberto Pruzzo. Il gip ha firmato l'ordinanza. Ieri il farmacista è tornato un uomo libero ma disperato: "Mio padre era un uomo buono, onesto, non ha mai preso neanche una multa. Era un medico per passione, viveva per il suo lavoro e la famiglia. Quello che è accaduto a me l'ha stroncato, si è sentito umiliato. Non mi dava colpe per quanto mi era successo, io con questa vicenda non c'entro nulla. Lui non ha retto a questa bufera. Non ho mai sospettato che potesse arrivare a questo. Non me l'ha fatto capire". Il farmacista trentasettenne era stato arrestato insieme alla moglie, farmacista anch'essa, ma il Tribunale del Riesame di Milano aveva già rimesso in libertà la donna per "mancanza dei gravi indizi". L'indagine che ha portato a 19 arresti in diverse regioni, condotta dai Nas di Milano, ruota attorno a un traffico di medicinali costosi (anche 10 mila euro a confezione), in particolare antitumorali che venivano rubati e poi affidati a un "riciclatore" per fornirli di una nuova veste commerciale (con l'aiuto anche di farmacisti), per essere spediti in ospedali in Germania, Olanda, Bulgaria e Montenegro. L'indagine, scattata nel 2012, era rimasta ferma quasi tre anni per l'avvicendarsi dei pm titolari. Giustizia: se il giudice conosce il codice ma non la pietà di Marco Imarisio Corriere della Sera, 28 aprile 2015 Traffico in medicinali antitumore rubati e potenzialmente pericolosi. È l'accusa per l'arresto del figlio di Francesco Menetto, 65 anni, pediatra genovese, suicidatosi domenica notte. In auto un biglietto: "La magistratura miope a volte uccide". Il procuratore capo di Monza che guida l'inchiesta, Corrado Carnevali: "Ormai dicono tutti così". Parole "fuori luogo" per il viceministro della Giustizia Enrico Costa. "Ormai dicono tutti così". E infatti viene da pensare che certi pubblici ministeri sanno a memoria il diritto penale ma scordano la pietà. Ma ecco che subito subentra un implicito senso di colpa. A pronunciare quella frase è stato il procuratore capo di Monza Corrado Carnevali. Pare non abbia nascosto "sconforto e dispiacere" per la sorte del padre genovese, al quale avevano arrestato un figlio coinvolto in un presunto traffico di farmaci antitumorali, che si è lanciato da un ponte dopo aver lasciato un biglietto dove accusava la magistratura. È pur sempre esponente di quella categoria che ha spesso supplito alle carenze della politica e si è trovata esposta a dure critiche. Inutile rifare la storia di Mani Pulite, in tempi di fiction c'è già stata occasione per l'amarcord. L'implicita benevolenza verso gli scivoloni della magistratura fa parte del recente Dna mediatico del nostro Paese. Forse il dottor Carnevali è sotto stress per l'eccessiva mole di lavoro che grava sugli uffici giudiziari; forse è la conseguenza del clima ostile denunciato dalle toghe. Infine, vagliata ogni ipotesi, pur considerando il passato professionale del magistrato, l'unica conclusione possibile riporta al pensiero iniziale. Quella frase è una vergogna senza alcuna giustificazione. Le parole sbagliate nel momento sbagliato. Oltre a dimostrare l'incapacità di capire l'essenziale di certi drammi, innalzano l'autodifesa della propria funzione fino all'oscuramento di concetti sacri come il rispetto della vita e della morte altrui. Un magistrato è prima di ogni cosa un essere umano. Per quel poco che vale, anche lui, come tutti noi quando commettiamo errori, potrebbe e dovrebbe chiedere scusa. Giustizia: le parole sbagliate del procuratore di Piero Colaprico La Repubblica, 28 aprile 2015 Il senso della misura una volta era importante e spiace che l'abbia perso, almeno ieri, un magistrato come Corrado Carnevali, uomo tutto d'un pezzo, carriera cristallina. Nessun essere umano può entrare nel suicidio di un altro. Uccidersi è qualche cosa che sfugge alle regole razionali. Alle regole che ci aiutano a distinguere bene e male. Ma quando un padre si uccide e lascia un biglietto con su scritto "magistratura miope a volte uccide", come si può replicare, come ha fatto il magistrato, "ormai dicono tutti così"? Dovrebbe prevalere il senso della pietà e il silenzio sarebbe appropriato: anche se si reputano ingiuste, non si risponde alle parole di un uomo che si toglie la vita. Nessuno può entrare nella storia drammatica di una famiglia flagellata già in passato da un altro suicidio. Ma certo il medico di Genova e sua moglie dovevano essere profondamente sconvolti dall'inchiesta sul figlio, un farmacista messo agli arresti domiciliari accusato di una truffa sui medicinali: la coppia aveva addirittura progettato un doppio suicidio. Dovevano mettere fine insieme alle loro vite, immaginando forse così di rendere ancora più eclatante la loro protesta contro la magistratura. Fortunatamente, la donna si è poi sottratta a questo patto di morte con il marito. Con il dolore, con la sofferenza psichica, hanno spesso a che fare i magistrati, specie quelli che si occupano di diritto penale. Non si danno ragioni e torti, come nel civile. Non si "paga" e non si risarcisce come nel commerciale. Il diritto penale ha a che fare con la carne, il sangue, il dolore, gli anni di carcere. Il penale indaga sull'essenza più oscura degli esseri umani. Il dottor Carnevali la conosce, si è occupato di malavita organizzata, di corruzione, di gang, di colletti bianchi, di omicidi. Stupisce allora che il procuratore capo di Monza si sia lasciato andare a parole così inopportune, anche se poi sono state temperate dalla frase "siamo profondamente dispiaciuti". Certo in quel "dicono tutti così" c'è il segno di un clima, di un Paese che ha visto intorno alla magistratura una battaglia di delegittimazione potente e insistita, che ha visto molti politici dare sempre e comunque la colpa alla magistratura, accusare i giudici di complotti politici, parlare di "toghe rosse", di procure come "cellule tumorali", di inchieste come soprusi. E c'è una magistratura che si chiude a riccio, esasperata, come si è visto due settimane fa, quando Claudio Giardiello ha ucciso tre persone, tra le quali un giudice, dentro il palazzo di giustizia di Milano. Molti dicevano la stessa cosa che ha detto ieri il procuratore monzese, "Ci colpiscono perché siamo nel mirino". Un eccesso di vittimismo? C'è stata in Italia una complessa opera di reciproche delegittimazioni che negli ultimi vent'anni, quelli dominati da Silvio Berlusconi come attore protagonista dello scontro con la magistratura, hanno portato a una nebbia sempre più fosca e a un conflitto strisciante: ma nessun clima può giustificare una reazione così sbagliata, niente dovrebbe far dimenticare l'umanità e il rispetto della vita. Forse nemmeno questo suicidio accompagnato dalla mancanza di pietas servirà a cambiare di qualche virgola il clima di questo inizio di millennio. O forse potrebbe avviare una riflessione collettiva. L'importante sarebbe almeno non dimenticare, ma anche questa amnesia generale è diventata una caratteristica italiana: qui la memoria viene mantenuta soprattutto dalle vittime. Giustizia: Luigi Manconi "frase prepotente, spero che quel magistrato non l'abbia detta" La Repubblica, 28 aprile 2015 "Mi auguro con tutto il cuore che le parole del procuratore siano state male interpretate. Perché non è affatto vero che "dicono tutti così". È vero, piuttosto, che tantissimi soffrono per i ritardi e gli abusi della giustizia, ma a togliersi la vita è fortunatamente solo un piccola parte". Così il presidente della Commissione Diritti Umani, Luigi Manconi, sulle dichiarazioni del procuratore di Monza. Senatore, a sentire quelle parole, non si direbbe. "Sono molti coloro che la vita se la tolgono quando sono detenuti. Che siano colpevoli o innocenti, tale è l'insensatezza e la disumanità della condizione carceraria, che il numero di suicidi continua a essere elevatissimo. E crescono i suicidi tra i poliziotti penitenziari". Ma torniamo a quelle dichiarazioni. "Se quelle parole fossero state davvero dette, si confermerebbe un atteggiamento non raro di scarsa sollecitudine e di ridotta sensibilità nei confronti degli indagati, innocenti fino a prova contraria. Il farmacista era ai domiciliari, altra forma di privazione della libertà. Ecco, non tutti coloro che detengono il potere, terribile e delicatissimo, di limitare la libertà di qualcuno, sembrano rendersi conto che si tratta di un atto capace di provocare conseguenze profonde e irreversibili. Può rivelarsi indispensabile, in determinate circostanze: e bene ha fatto il Parlamento a renderle più stringenti e tassative. Ma resta una misura da adottare con la massima prudenza. Prudenza che non si concilia con quelle parole, se davvero fossero state pronunciate". Giustizia: il Pm "dispiace, dispiace, ma che dovremmo fare… smettere di indagare?" di Marco Menduni Secolo XIX, 28 aprile 2015 "Dispiace, dispiace... però sono cose sempre accadute. Ci ricordiamo di Mani Pulite, dei suicidi eccellenti? Che cosa dovremmo fare noi magistrati? Smettere di indagare su chi commette degli illeciti?". Corrado Carnevali sta seduto nel suo ufficio al secondo piano del tribunale dietro a una scrivania sepolta dai fascicoli. Da 47 anni è in magistratura, da cinque alla guida della procura brianzola. Non recede di un passo dalla stringata dichiarazione del mattino, appena informato della tragedia di Genova e del biglietto trovato nell'auto del medico suicida: "Ormai dicono tutti così, non c'è altro da dichiarare". Il viceministro della Giustizia Enrico Costa reagisce subito: "Di fronte a questo tragico gesto, che mi ha profondamente turbato, spero che le parole riportate come pronunciate dal procuratore non siano state riportate in modo corretto, perché diversamente sarebbero parole fuori luogo". Carnevali allarga le braccia: "Mi dispiace per quello che è accaduto, ma ci dobbiamo mettere d'accordo. Vogliamo dei giudici che facciano il loro mestiere, che provino a fare un po' di pulizia in questo Paese? 0 invece liberi tutti, che ognuno faccia quello che vuole perché se viene scoperto o lui o qualche suo caro potrebbe compiere qualche gesto sciagurato?". Carnevali sfoglia il fascicolo dell'inchiesta. La commenta: "Il lavoro dei Nas è stato impeccabile, vorrei poterlo illustrare a chi crede forse vero quel che c'è scritto su quel bigliettino, che la magistratura è miope. Ormai è diventato l'alibi di tutti coloro che hanno qualche altarino, attaccare i magistrati. Il copione è sempre lo stesso: atteggiarsi a vittime della malagiustizia e qualcuno ci crede sempre". Attacca ancora, il procuratore capo: "Queste cose, purtroppo, succedono quando ci sono soldi, tanti soldi in ballo. Poi, quando arriviamo noi, quando blocchiamo il denaro proveniente da attività illecite, chi non può più fare la vita di prima ci attacca: mi hanno rovinato i magistrati!". Non parla, Carnevali, solo del suicidio di Genova. La collega dell'inchiesta sul traffico di farmaci, Franca Macchia, è la stessa pm che nelle ultime settimane ha avuto tra le mani il caso di Claudio Giadiello, l'autore della strage nel palazzo di giustizia di Milano. L'inchiesta è toccata a lei, di un altro distretto giudiziario, come le norme impongono quando è coinvolto un magistrato. Coinvolgimento che, stavolta, è significato la morte del giudice Ferdinando Ciampi, ucciso dalle pallottole del killer. Chi la conosce bene, sa quanto per lei è duro dover fare il suo lavoro, quello del pm, quando la vittima è un collega e un amico. Nelle ultime settimane era visibilmente turbata. Ieri mattina la notizia del suicidio di Francesco Menetto l'ha lasciata per qualche minuto senza parole. Dopo, un commento a mezza voce: "Ho saputo, mi hanno informato. È un momento terribile di un periodo terribile". Poi chiusa nel suo ufficio, insieme al procuratore capo, infine in macchina verso Milano, per una riunione. Nel chiostro del bel tribunale di Monza tutti la considerano un magistrato di grande esperienza. Sua, insieme al collega Walter Mapelli, l'inchiesta sulla "tangentopoli rossa" che ha travolto l'ex dirigente del Pd Filippo Penati. Ma anche una iper garantista: "Fa sempre tutto con scrupolo fin eccessivo, prima di chiedere una custodia cautelare ci pensa non una ma dieci volte. Dispiace sia capitato a lei". Le dà man forte anche il capitano Paolo Belgi, comandante dei Nas di Milano: "Se c'è un'inchiesta lineare, dove tutte le responsabilità sono state sistemate al loro posto, è questa. La nostra impostazione è stata recepita da un pm di grandissima esperienza e confermata dal gip. Certo, di fronte a queste tragedie c'è tutta la possibile partecipazione umana. Ma noi abbiamo lavorato con scrupolo certosino e non abbiamo commesso errori". Giustizia: Massimo Bossetti a processo, il 3 luglio prima udienza per l'omicidio di Yara di Armando Di Landro e Giuliana Ubbiali Corriere della Sera, 28 aprile 2015 Lui ai legali: "Sono innocente, fateglielo capire". Respinta la richiesta avanzata dalla difesa di annullare e ripetere le analisi sui reperti genetici. Massimo Bossetti è sulla sedia degli imputati, alla destra del giudice dell'udienza preliminare Ciro Iacomino. Jeans e giubbino beige, è rivolto verso i suoi avvocati e quelli delle parti civili. Riesce appena a scorgere il pm Letizia Ruggeri, la più vicina a lui, perché in mezzo ci sono gli agenti di polizia penitenziaria. La nuova fase dell'indagine comincia qui, secondo piano del palazzo di giustizia, corridoio blindato da carabinieri e guardie. Alle 14.15 il gup decide: Bossetti andrà a processo il 3 luglio, per l'omicidio di Yara Gambirasio e per la calunnia a Massimo Maggioni, collega verso cui indirizzò i sospetti in un interrogatorio. L'imputato alza gli occhi al soffitto e poi li abbassa verso terra. Prima che gli agenti lo riportino in carcere ai suoi avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini dice: "Andate avanti". Prima dell'udienza li aveva pregati: "Sono innocente, fateglielo capire". Invece il pilastro del Dna ha retto ancora, dopo che per cinque volte i giudici di diverso grado hanno negato la scarcerazione del carpentiere di Mapello. Ora quell'elemento ha superato il vaglio del gup, che ha respinto ogni colpo della difesa per far crollare l'asse portante dell'inchiesta. Il primo, chiedere la nullità della relazione del Ris: è fondamentale per l'accusa, perché spiega che in un piccolo quadratino di stoffa, dove i leggings e gli slip di Yara sono stati tagliati con una lama, c'è un profilo genetico maschile. Ribattezzato Ignoto 1 nel 2011, quel Dna ha preso il nome di Massimo Bossetti nel 2014. Per la difesa, però, la relazione non vale perché per una questione di procedura è una consulenza del pm, quindi di parte. Ma il gup ha confermato quanto avevano già deciso altri giudici: il pm poteva scegliere lo strumento che voleva, quella consulenza non si butta. Altro tentativo. Allora si approfondisca una serie di dubbi con l'incidente probatorio, un esame a cui anche la difesa può partecipare con i suoi consulenti, dicono gli avvocati: in pratica occorre ripetere il test del Dna ripartendo dalle tracce sui vestiti. La richiesta non è di poco conto, perché per gli esami in laboratorio serve tempo e senza rinvio a giudizio Bossetti sarebbe tornato libero il 16 giugno per scadenza dei termini. Gli avvocati elencano anomalie e verifiche a loro giudizio trascurate. A partire dall'argomento già speso senza successo nelle richieste di scarcerazione: sugli indumenti di Yara c'è il Dna nucleare ma non anche quello mitocondriale di Bossetti. Poi le altre questioni: "C'è uno spermatozoo sulle parti intime della vittima (un dubbio sorto nel 2012 da un'immagine al microscopio smentita poi scientificamente ndr), un secondo Dna ignoto sugli slip che per il Ris non è interpretabile mentre per la nostra consulente sì, tracce pilifere sulla vittima che non appartengono a Bossetti, il Dna sulla manica del giubbotto attribuito all'insegnante di ginnastica della vittima senza approfondimenti, così come per quello su un guanto della bambina e su una salvietta nel campo". In aula il pm replica che è stato già tutto approfondito e sull'ulteriore traccia sugli slip rimarca: "Se c'è un altro soggetto, aprirò un altro fascicolo". Come dire che le accuse su Bossetti non vengono spostate di una virgola. Un ragionamento condiviso dal giudice, chiamato a decidere se c'erano elementi per processare il carpentiere e non per indagare su alt re persone. Pesante l a reazione della difesa: "La verità fa paura. Abbiamo chiesto l'incidente probatorio senza temere che potessero emergere elementi a nostro sfavore. Siamo amareggiati perché tra i motivi per respingerlo il giudice ha indicato anche la scadenza dei termini di carcerazione". Si torna dunque al giorno in cui, dopo 4 anni, il caso ebbe la svolta più importante. Il venerdì, a cena da amici, la pm ricevette una telefonata dal suo consulente Carlo Previderè, dell'Università di Pavia: "Abbiamo trovato il Dna della madre di Ignoto 1". Il giorno dopo un ufficiale dei carabinieri seguì Bossetti in un centro commerciale sperando bevesse un caffè, per prendergli il Dna. Invece fu necessario mascherare il test con un controllo stradale. Poi, le manette. Giustizia: Ucpi "il filmato dell'arresto di Massimo Bossetti? carne fresca per i media" Il Garantista, 28 aprile 2015 "La messa in onda, dopo lungo tempo dai fatti ma (non a caso) pochi giorni prima della celebrazione dell'udienza preliminare, delle crude immagini dell'arresto di Massimo Bossetti, presunto innocente fino a sentenza definitiva, non è che la ennesima dimostrazione del degrado di buona parte della informazione giudiziaria italiana". Così in una nota l'Unione Camere penali (Ucpi), intervenuta sulla diffusione del filmato che riprende il carpentiere, accusato di aver ucciso Yara Gambirasio, nel momento in cui, lo scorso 16 giugno, le forze dell'ordine lo raggiungono nel cantiere dove lavorava e gli mettono le manette ai polsi. I penalisti prendono una posizione molto dura sull'episodio e, nel comunicato messo a punto con l'Osservatorio Media e processo, osservano: "Il limite massimo del degrado è già stato da tempo raggiunto e superato, e non sarà oramai la trasmissione di immagini di simili "contributi informativi", da parte dell'oramai sperimentato circo mediatico giudiziario, ad incrementarne in maniera sensibile la brutale arroganza". "Le immagini che abbiamo visto - prosegue la nota - sono infatti soltanto la riprova del cinismo di buona parte della informazione italiana, che tratta gli esseri umani come trofei da inchiesta giudiziaria e di chi, ricoprendo ruoli pubblici delicati e funzioni giudiziarie di rilievo, non ha nessuna remora a dare in pasto agli ‘informatori carne fresca per l'esibizione muscolare quotidiana e per tentare di condizionare la giurisdizione". Parole di una durezza senza precedenti, per un organismo come l'Ucpi che rappresenta a livello istituzionale e politico tutta l'avvocatura penale italiana. "La gogna dell'uomo inginocchiato, impaurito, le frasi smozzicate diffuse in forma di colonna sonora, superano e prevaricano evidentemente la dignità dell'uomo, l'inutilizzabilità processuale dei contenuti, la verginità cognitiva del giudice", si legge ancora nella nota, "e si fanno beffe di ogni legge che vieta, come abbiamo più volte inutilmente ricordato e denunciato, la diffusione delle immagini di uomini in vincoli". E invece non solo Bossetti è stato mostrato mentre viene raggiunto e poi ammanettato, ma sono state lasciate in sottofondo le parole degli agenti che dicono tra loro "sta scappando", nonostante il muratore fosse semplicemente affaccendato nel suo lavoro. Ma certo quell'esclamazione aiuta a corroborare la rappresentazione di un colpevole assoluto. "Di fronte all'ennesima barbarie -conclude il comunicato dell'Ucpi - l'avvocatura penale italiana si rivolge a tutti coloro che hanno a cuore lo Stato di diritto per respingere questo modo di fare informazione, ed invita tutti i cittadini all'imminente convegno di Torino (8 e 9 maggio) sull'informazione giudiziaria in Italia per discutere pubblicamente delle cause, dei pericoli e dei rimedi possibili a questa degradante distorsione dei media e del processo". Giustizia: accordo tra Dap e Acli per supporto in materia previdenziale ai detenuti Ansa, 28 aprile 2015 Il patronato Acli si mette a disposizione dei detenuti, in accordo con il Dap, per fornire assistenza previdenziale a chi non può dialogare con l'Inps. L'istituto di previdenza è, infatti, ormai completamente informatizzato e ciò rappresenta una criticità per i detenuti che non possono dialogare telematicamente. Le domande di prestazioni previdenziali, assistenziali e a sostegno del reddito, vengono infatti recepite dall'Inps in formato digitale, e il cittadino recluso non può presentare la propria domanda di pensione, l'istanza per il riconoscimento dell'invalidità civile, l'autorizzazione per gli assegni al nucleo familiare. Solo nel 2013 sono state attivate dal Patronato Acli 4.497 pratiche, a favore di 2.443 persone, attraverso una rete territoriale diffusa in 71 province italiane, dove con propri operatori e volontari è presente all'interno di case circondariali e di reclusione; in molte situazioni collabora direttamente con le gli educatori, le associazioni attive nelle carceri o con gli uffici dei Garanti, attività che in alcuni casi proseguono da oltre 20 anni. L'Accordo quadro che sarà sottoscritto con il Dap il 29 aprile e Patronato Acli ha l'obiettivo di sviluppare ulteriormente la collaborazione con l'Amministrazione Penitenziaria dei servizi a favore dei detenuti. Le attività di consulenza, di assistenza e di tutela a favore dei detenuti, volte al conseguimento delle prestazioni in materia di previdenza, socio-assistenziali e del Servizio sanitario nazionale hanno infatti anche funzione sociale, e sono finalizzate a favorire il processo di integrazione, facilitando l'inclusione sociale e lavorativa, anche in contrasto al fenomeno della recidiva e costituiscono uno strumento di tutela dei valori fondamentali della persona. "La popolazione carceraria, più degli altri cittadini, accusa un deficit di consapevolezza di quelli che possono essere i propri diritti previdenziali e socio-assistenziali - sottolinea Paola Vacchina, Presidente Nazionale del Patronato Acli. Il Patronato Acli ha scelto di dedicarsi ad un'attività che, in base al meccanismo di finanziamento degli istituti di patronato, ha un valore economico più che modesto, ma porta con sé un patrimonio, che è quello dato dal suo valore sociale: la tutela dei valori fondamentali della persona". L'accordo sarà presentato nel corso di una conferenza stampa il 29 aprile al Museo Criminologico, in Via del Gonfalone a Roma da Luigi Pagano, Vice Capo Vicario del Dap, Roberto Piscitello Calogero, della Direzione Generale Detenuti e trattamento, Paola Vacchina - Presidente Nazionale Patronato Acli. Giustizia: Cgil; a rischio circa 3mila lavoratori precari, garantiscono continuità dei servizi Ansa, 28 aprile 2015 I lavoratori cosiddetti "tirocinanti della Giustizia" sono 2.650 ex cassintegrati, lavoratori in mobilità, disoccupati ed inoccupati, che dal 2010 ad oggi hanno usufruito dei tirocini formativi negli uffici giudiziari del nostro Paese. Sono le cifre fornite dalla Cgil, in vista della manifestazione domani a Roma dei precari della Giustizia. Il loro impiego - spiega il sindacato - ha garantito la prosecuzione delle attività negli uffici giudiziari, tamponando le carenza di organico: ad oggi, infatti, vi sono circa 9.000 posti scoperti sul territorio nazionale, con punte del 30% in alcuni grandi uffici. L'attività dei tirocinanti spiega il sindacato, "inizialmente è stata retribuita con un'integrazione all'ammortizzatore di circa 240 euro mensili; poi, dal 2013 i tirocinanti hanno svolto la formazione direttamente con il Ministero della Giustizia in virtù di un apposito emendamento alla legge di stabilità", che ha previsto "un finanziamento di 7.500.000 euro per circa 3.000 lavoratori". Nella legge di stabilità 2013 il finanziamento è salito a 15.000.000 euro e le ore da effettuare sono state raddoppiate. Ma nel 2014, a causa di una cattiva gestione da parte del Ministero e della misteriosa scomparsa dei fondi - poi recuperati grazie all'intervento del sindacato, sono state espletate solo 300 ore. Le restanti 160 sono state rimandate al 2015 dal decreto milleproroghe, che ha spostato la dead line dal 31 dicembre 2014 al 30 aprile 2015. Ad oggi sono previste solo 110 ore fino a fine mese e ne mancano ancora 40 all'appello: l'equivalente di circa 1 milione di euro, risorse che al momento non possono essere utilizzate per la mancanza dei necessari strumenti legislativi". Lettere: io sì che ero un "pericoloso maoista" di Fausto Cerulli Il Garantista, 28 aprile 2015 In sei mesi ebbi la condanna definitiva per oltraggio al Papa. Nella mia città esisteva allora un gruppo che si faceva chiamare cattolici progressisti, sulla scia del troppo dimenticato Dom Franzoni, abate di S. Paolo a Roma che già con quel Dom al posto di Don suonava male agli orecchi di certa Chiesa conservatrice. Francesco era ancora da venire. Qualcuno di quel gruppo mi chiese di scrivere un qualcosa che deprecasse leggermente il fatto che il Papa allora in carica, quel Paolo VI che dopo si sarebbe assunta in parte almeno la responsabilità della fine di Moro, si recasse in pompa magna in Sud America a benedire i generali che ammazzavano gli oppositori e li facevano sparire. A quel tempo militavo, brutto termine ma si diceva così, in un partito di estrema sinistra e non me la sentii di rifiutare l'invito. Scrissi allora che i cattolici, nel recarsi alla Santa Messa, dovevano scegliere tra il Cristo che scacciava i mercanti dal tempio e il papa che andava a benedire gli assassini di Città del Messico, o qualcosa del genere, è passato tanto tempo. I cattolici che si erano rivolti a me, fecero del mio scritto un manifesto e lo incollarono sulle porte delle chiese di tutto il circondario. Ovviamente il manifesto suscitò un manifesto scandalo. Il clero si indignò. Soltanto un sacerdote coraggioso lo lesse alla messa di mezzogiorno in Duomo, la più affollata, e si spinse a dire che era d'accordo. Dopo qualche giorno fu trasferito. Ma torniamo al manifesto. Il Vescovo di allora denunciò santamente l'affissione del manifesto alla Procura, che si mise in moto con la giusta rapidità per individuare il colpevole. Qualche giorno dopo mi recai per caso al locale commissariato per una questione, se ben ricordo, di passaporti. Il Commissario mi disse che era stato appurato che ero stato io il colpevole della faccenda del manifesto, ma aggiunse che se avessi ammesso la mia colpa tutto sarebbe stato insabbiato, per disposizione del questore che allora era un parente di mia madre. Firmai la confessione, convinto dalle parole del Commissario, dimenticando che prima faceva il ladro, poi la spia, ora fa il Commissario di polizia, come si diceva allora nei cortei. Il giorno dopo, infatti, i giornali locali uscirono con un titolone che spiegava come e quando era stato scoperto il maoista - proprio così - autore del manifesto. Da allora la giustizia prese a fare il suo corso, fui interrogato dal Giudice Istruttore, allora non esisteva il Gip. Spiegai che non era mia intenzione recare offesa al Pontefice, e che comunque pensavo di avere il diritto di esprimere le mie opinioni. Il Giudice Istruttore si mostrò convinto. Tanto convinto che tre giorni dopo mi rinviò a giudizio davanti alla Corte d'Assise del capoluogo di provincia. Corte di Assise, con tanto di giuria popolare, perché a quel tempo l'oltraggio al Papa, equiparato all'oltraggio al Capo dello Stato, era considerato grave almeno quanto un omicidio, e dunque la competenza ere della Corte di Assise. Il processo di primo grado fu brevissimo, ricordo che mi stavano a lato, quasi per paura che fuggissi, due carabinieri con tanto di pennacchio e spadino, come nelle illustrazioni di Pinocchio. Quattro ore di Camera di Consiglio e una condanna a nove mesi di reclusione, che se fossero stati undici non avrei goduto neppure della sospensione condizionale. Inutilmente il mio avvocato sostenne che l'accusa a me rivolta urtava contro la libertà di espressione e sollevò sottili questioni di legittimità costituzionale. Troppo sottili per quella giuria popolare che - lo seppi dopo - era costituita, per puro caso ovviamente, da una maggioranza di baciapile. Questo accadeva nel mese di giugno, naturalmente facemmo appello contro la sentenza, se non altro per guadagnare tempo contando sulle lungaggini della giustizia. Ma quella volta la giustizia volle il suo corso di corsa e a settembre dello stesso anno si svolse il processo di appello. Sentenza confermata. Come vuole il gioco facemmo ricorso in Cassazione. In genere tra l'appello e la Cassazione, allora come ora, passava almeno un anno. Fecero un'eccezione, essendo il mio delitto eccezionale. A dicembre la Cassazione confermò le precedenti condanne. Da giugno a dicembre tre gradi di giudizio e pregiudizio. Ho appreso con qualche soddisfazione che il mio processo risulta essere uno dei più rapidi della storia giudiziaria italiana, roba da guinness dei primati. Ora la mia fedina penale è macchiata da quella condanna. Potrei smacchiarla chiedendo la riabilitazione, ma ad essere sinceri considero quella macchia come una medaglia. Una medaglia al valore. Laico. Toscana: non più a Solliccianino, per gli ex internati individuate residenze alternative Adnkronos, 28 aprile 2015 Non più "Solliccianino" tra le strutture individuate come alternative all'ospedale psichiatrico giudiziario. Gli internati dell'Opg di Montelupo che necessitano di sorveglianza intensiva verranno ospitati nel Padiglione Morel dell'ospedale di Volterra. È stata individuata inoltre un'ulteriore struttura intermedia a Firenze, a Villa Guicciardini, di proprietà della Madonnina del Grappa, sulla collina di Montughi. La modifica dell'elenco delle residenze sanitarie destinate ad accogliere i pazienti internati, nel percorso di superamento dell'Opg, è stata approvata stamani con una delibera della Giunta regionale. A fine marzo, la giunta aveva individuato una serie di residenze destinate ad accogliere i pazienti internati nell'Opg di Montelupo. Tra queste, anche l'Istituto Mario Gozzini, a Sollicciano (conosciuto come "Solliccianino"), destinato appunto agli internati che necessitano di sorveglianza intensiva. Ma a livello regionale sono intervenute ulteriori analisi tecniche, che hanno portato all'individuazione di nuove soluzioni. In particolare, appunto, il Padiglione Morel dell'ospedale di Volterra (già individuato in precedenza anche come struttura intermedia). E, per i residenti nel comune di Firenze, Villa Guicciardini, in via di Montughi. La delibera impegna sia la Asl 5 di Pisa che la Asl 10 di Firenze ad eseguire le analisi di fattibilità per gli interventi di adeguamento e l'attivazione delle due strutture. Con le modifiche apportate stamani, dunque, questo il quadro delle residenze individuate a livello regionale come alternative all'Opg: Residenza per l'esecuzione delle misure di sicurezza detentive "Padiglione Morel" Ospedale di Volterra - Asl 5 Pisa (sorveglianza intensiva); Struttura Psichiatrica Residenziale "Le Querce" Firenze - Asl 10 Firenze (struttura intermedia); Struttura Psichiatrica Residenziale "Villa Guicciardini" Montughi Firenze - Asl 10 Firenze (struttura intermedia); Comunità Terapeutica "Tiziano" Aulla - Asl 1 Massa e Carrara (struttura intermedia); Modulo residenziale "Morel" Ospedale di Volterra - Asl 5 Pisa (struttura intermedia); Modulo residenziale "I Prati" Abbadia S. Salvatore - Asl 7 Siena (struttura intermedia); Modulo residenziale in struttura terapeutico riabilitativa di Arezzo - Asl 8 Arezzo (struttura intermedia). I pazienti di altre regioni verranno presi in carico dalle rispettive Regioni. Emilia Romagna: la Garante; sconcerto e preoccupazione per l'estradizione fi Pizzolato Ristretti Orizzonti, 28 aprile 2015 Desi Bruno, Garante delle persone private della libertà personale della Regione Emilia-Romagna, esprime "sconcerto e preoccupazione" per la decisione del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, di consentire l'estradizione in Brasile di Henrique Pizzolato, attualmente in carcere a Modena. "La preoccupazione - spiega la Garante - è soprattutto legata alle condizioni di vita all'interno delle carceri brasiliane, ripetutamente denunciate come inumane e degradanti da organismi internazionali e di tutela dei diritti umani. La speranza- prosegue Bruno- è ormai riposta nella decisione della Corte europea dei diritti dell'uomo che potrebbe sospendere il decreto del ministro della Giustizia che accorda al Governo della Repubblica federativa del Brasile l'estradizione di Henrique Pizzolato, al momento detenuto presso la Casa circondariale di Modena". Civitavecchia (Rm): detenuta suicida, direttrice carcere condannata per omicidio colposo di Giulio De Santis Corriere della Sera, 28 aprile 2015 Si tolse la vita impiccandosi in cella, dopo aver tentato il suicidio un'altra volta, nella stessa settimana. Una morte annunciata quella di Anna Toracchi, donna affetta da sindrome bipolare, per cui l'allora direttrice del carcere di Civitavecchia, Patrizia Bravetti, non avrebbe disposto un regime di sorveglianza adeguato a scongiurare la tragedia. Ora le scelte operate dal funzionario sono state giudicate come un errore di valutazione dal giudice monocratico Monica Ciancio, che ha condannato la Bravetti a un anno di carcere, con l'accusa di omicidio colposo. Lo stesso verdetto di condanna a dodici mesi di reclusione è stato pronunciato dal magistrato nei confronti di Marco Celli, comandante delle guardie del penitenziario, e di Cecilia Ciocci, responsabile del reparto femminile del carcere. Il giudice, invece, ha assolto Paolo Badellino, lo psichiatra che aveva in cura la donna poiché il medico, dopo aver segnalato le problematiche comportamentali, consigliò alla direttrice di ricoverare la Toracchi in un ospedale psichiatrico. Ai familiari della giovane - assistiti dagli avvocati Valerio Aulino e Alessandra Pietrantoni - il magistrato ha riconosciuto una provvisionale di 10 mila euro. La tragedia risale alla mattina del 20 giugno del 2009, quando le guardie carcerarie aprirono la cella dove era detenuta la Toracchi e la trovarono impiccata alla finestra. Tragedia non inattesa. Solo tre giorni prima, la donna, 35 anni, aveva cominciato a battersi la testa contro il muro per protesta. A rendere ancora più amara la disgrazia, la circostanza che il 13 giugno la Toracchi aveva provato a suicidarsi proprio impiccandosi con il cavo della televisione. Nonostante i segnali mostrati dalla detenuta, la direttrice si limitò a stabilire un regime chiamato "grande sorveglianza" che prevedeva un controllo della detenuta a intervalli di dieci minuti. Tempo sufficiente alla donna per suicidarsi. Civitavecchia (Rm): gli avvocati della difesa "sentenza ingiusta, ricorreremo in appello" www.civonline.it, 28 aprile 2015 Condanna ad un anno per la direttrice di Borgata Aurelia, un Commissario ed un Ispettore di Polizia Penitenziaria. I tre sono accusati di omicidio colposo per il suicidio di una detenuta avvenuto nel 2009. Assolto lo psichiatra. Gli avvocati difensori sorpresi dalla decisione del giudice: pronti a ricorrere in Appello una volta lette le motivazioni. Sentenza di condanna ad un anno per i vertici del carcere di Borgata Aurelia accusati di omicidio colposo per la morte della detenuta Alessia T. che si suicidò all'interno della struttura il 20 giugno 2009, impiccandosi con i suoi stessi slip, dopo che già per due volte aveva tentato di togliersi la vita. Era infatti sottoposta a sorveglianza speciale, ma, secondo l'accusa, avrebbe dovuto essere sottoposta ad un controllo a vista 24 ore su 24. Ad essere condannati sono stati la direttrice del carcere Patrizia Bravetti, l'ispettore responsabile del settore femminile Cecilia Ciocci ed il commissario facente funzione degli agenti di custodia Mario Celli. Assolto, invece, lo psichiatria Paolo Badellino. "Aspettiamo le motivazioni della sentenza - ha commentato l'avvocato Gianni Pane, difensore insieme al collega romano Francesco Bianchi della direttrice del carcere - per ricorrere poi in Appello. Civitavecchia è stato l'ultimo anello di una catena che non ha funzionato, da Rebibbia e fino al Dap. In questo caso stavamo parlando di un malato/detenuta, e non di una detenuta/malata. Ma a quanto pare l'aspetto custodiale ha prevalso su quello terapeutico ai fini della sentenza". "La ragazza - come infatti ha sottolineato l'avvocato Ludovico D'Amico, legale di Celli - andava curata prima di tutto, in un posto idoneo diverso dal carcere. Una volta lette le motivazioni impugneremo la sentenza, assolutamente ingiusta". "Una sentenza che ci ha sorpresi, che ci lascia perplessi - hanno aggiunto gli avvocati Pier Salvatore e Francesca Maruccio, difensori dell'ispettrice Ciocci - ma che con molta tranquillità potrà essere oggetto di un'ampia revisione con il riconoscimento delle nostre ragione. La mia assistita ha ampiamente dimostrato la propria irresponsabilità in ragione delle condotte effettivamente poste in essere, nella qualità e nelle funzioni svolte all'interno del carcere. Non bisogna dimenticare che ci troviamo di fronte a strutture piramidali, nelle quali ognuno è competente per la funzione ed il ruolo che gli è stato addebitato". Una sentenza, quella del giudice Ciancio che, accogliendo in pieno la tesi del sostituto procuratore Alessandro Gentile, secondo gli stessi avvocati non tiene conto di una serie di questioni; dall'inadeguatezza della struttura carceraria per un detenuto del genere, ad esempio, fino alla carenza di personale più volte lamentato da più parti. Soddisfatta l'avvocato Anna Maria Guerri, legale di Badellino. "Giustizia è stata resa - ha commentato - il dottor Badellino aveva consigliato la sorveglianza a vista per la donna. Anche il pm, alla luce di un iter processuale minuzioso, ha chiesto l'assoluzione per il mio assistito. Siamo quindi molto soddisfatti". Salerno: detenuti in ospedale "peggio del carcere, non c'è campanello per chiedere aiuto" di Angela Caso La Città, 28 aprile 2015 Per i detenuti ricoverati presso la sezione detentiva dell'ospedale Ruggì di Salerno è "come essere condannati al 41 bis". A denunciarlo è il segretario provinciale dell'associazione radicale "Maurizio Provenza" Donato Salzano che ieri ha voluto incontrare il sindaco Enzo Napoli per sensibilizzarlo sulla questione dei livelli essenziali di assistenza ai carcerati partendo dal noto caso di Carmine Tedesco. L'uomo, in stato di detenzione, morì il 14 novembre del 2012 mentre era ricoverato presso la sezione del Ruggì per una grave forma di diabete. Secondo la vedova Anna Sam-martino ci sarebbero stati gravi inadempienze da parte dei medici, tali da provocare la morte del marito. Il prossimo 14 maggio ci sarà l'udienza a seguito della seconda opposizione alla richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura. In vista di questo appuntamento, una delegazione dei Radicali - accompagnati dalla vedova Tedesco e dal suo legale - ha voluto aggiornare il sindaco sulla situazione. "La sezione detentiva del Ruggì - ha spiegato sempre Salzano-funziona a metà. Dei dodici posti letto a disposizione, solo sei sono funzionanti, Ma non basta. Non ci sono campanelli per chiamare gli infermieri nel caso in cui ci si sente male; basti pensare che quando Tedesco ebbe un peggioramento ci si rese conto della situazione solo perché aveva fatto rumore cadendo a terra nel tentativo di chiedere aiuto, Poi non c'è un medico h 24 e dì notte e nei festivi il personale deve arrivare dal reparto di Medicina generale che sta dall'altra parte dell'ospedale, Manca persino la televisione". Il sindaco Napoli ha ascoltato con attenzione i rappresentanti della delegazione per poi assicurare un suo interessamento. "Insieme all'assessore Nino Savastano e al consigliere comunale Angelo Caramanno verranno intraprese tutte le iniziative necessarie per garantire i diritti civili ed umani a tutti i cittadini a partire dai più deboli" ha detto. Infatti, l'assessore alle Politiche sociali si è già messo in moto affinché la prossima settimana si riesca ad organizzare una riunione con i vertici dell'Asl e del Ruggì proprio per discutere del rispetto dei livelli essenziali di assistenza. "Dobbiamo ammettere - ha detto Salzano - che l'Amministrazione è sempre stata molto vicina alle problematiche legate alla detenzione. Abbiamo sottoposto il caso Tedesco perché è emblematico della violazione di una serie di diritti garantiti. In tal senso abbiamo incontrato anche il vescovo e il procuratore; l'unica a non volerci ricevere è stata la presidente del Tribunale di Sorveglianza Maria Antonia Vertaldi. Ora il sindaco, nel suo ruolo di più alta autorità sanitaria in città, deve chiedere conto alle istituzioni competenti e, in generale, farsi carico della questione dei diritti umani". Ma l'incontro è stato anche l'occasione per discutere di altri temi cari ai radicali. In particolare, l'avvocato Fio-rinda Mirabile, rappresentante dell'associazione "Nessuno Tocchi Caino", ha fatto presente come ancora non sia stata istituito in tutto il sud peninsulare un Icam, ovvero una struttura alternativa al carcere per le madri detenute dove è possibile crescere i propri figli fino ai sei anni. Si tratta di una possibilità garantita da una legge del 2014 approvata dall'allora ministro della Giustizia Rosanna Cancellieri. L'avvocato ha quindi chiesto se, in un prossimo futuro, si possa sondare la possibilità di realizzare un Icam a Salerno che serva tutto il Mezzogiorno, magari realizzandolo all'interno di un immobile di proprietà del Comune, così come fatto da alcune amministrazioni del Nord Italia. Anche su questo punto, sia il sindaco che l'assessore hanno dato massima disponibilità ad un dialogo. Sassari: Osapp; preoccupazione per arrivo di detenuti in regime 41bis, manca il personale Ansa, 28 aprile 2015 "Con l'arrivo a Bancali dei detenuti sottoposti al regime carcerario del 41 bis ci sarà uno stravolgimento degli assetti operativi per il personale di polizia penitenziaria, con tutto ciò che ne consegue in termini di pubblica sicurezza", è il timore sollevato da Domenico Nicotra, segretario nazionale aggiunto dell'Osapp, l'organizzazione sindacale degli agenti di Polizia penitenziaria. "Ispettori e sovrintendenti saranno impiegati in funzioni di cancelleria nei numerosi processi che si svolgeranno in videoconferenza coi tribunali di tutta Italia - spiega Nicotra - ma già senza contare queste nuove incombenze a Bancali si registra una carenza complessiva di oltre 45 unità, a questo punto occorrono provvedimenti urgenti". La preoccupazione dell'Osapp è riassunta nella lettera che il segretario generale aggiunto ha inoltrato ai vertici del Dap, al Provveditorato regionale dell'amministrazione penitenziaria, alla direzione del carcere di Bancali e al segretario regionale dell'Osapp. Firenze: fuori dal carcere, quasi come a casa. Spazio di accoglienza della Diaconia Valdese www.altracitta.org, 28 aprile 2015 Una mansarda luminosa con quadri alle pareti, due camere, un comodo divano e un grande orso di peluche: si presenta così il nuovo spazio di accoglienza della Diaconia Valdese Fiorentina, pensato per detenuti in permesso premio, con familiari al seguito. La Mansarda del Melograno è l'ultimo tassello del Progetto Carceri dei valdesi, che nello stesso edificio gestiscono già un altro appartamento destinato alle detenzioni domiciliari. "Nelle carceri toscane ci sono molte persone la cui famiglia vive altrove - ci spiega Mara Ceccatelli, referente del progetto. Quando viene concesso loro un permesso premio, di fatto non sanno dove poter trascorrere il tempo con i partner o coi figli, a meno di non pagarsi una stanza d'albergo. Il nostro intento è offrire un posto dove possano sentirsi a casa e ricreare un legame con la famiglia, importante soprattutto dove ci sono bambini. All'arrivo, ricevono le chiavi d'ingresso: da quel momento sono responsabili e autonomi nella gestione dello spazio secondo il regolamento interno". L'alloggio inaugurato oggi è il primo di questo tipo a Firenze e vuole essere un po' un'esperienza pilota: "Noi investiamo su quei progetti che riteniamo necessari, nella speranza che attecchiscano, ovvero che sia poi la mano pubblica a intervenire in modo più strutturale - dichiara Gabriele De Cecco, responsabile area adulti della Diaconia. Non ci interessa sostituirci allo Stato, anzi la nostra è una sussidiarietà polemica, per così dire, una testimonianza attiva". La Mansarda, così come tutto il Progetto Carceri, è completamente autofinanziata con i fondi dell'otto per mille della Chiesa Valdese, ed ha un costo di circa 45mila euro l'anno. Allo stesso indirizzo si trova già dal 2013 la Casa del Melograno, che può ospitare fino a 8 uomini in detenzione domiciliare. I principi base sono gli stessi: autonomia e responsabilità. Trattandosi di soggiorni più lunghi e di convivenze tra sconosciuti, con retroterra anche molto diversi, da parte delle operatrici è necessario un lavoro molto impegnativo. "Ci incontriamo spesso con gli ospiti per capire come vanno le cose - racconta Lelia Pelaia, educatrice. Per chi magari ha passato 20 anni in carcere, non è facile riprogrammarsi, imparare di nuovo a gestire il proprio tempo, prepararsi a tornare fuori. Ma questa è un'occasione importante e unica per farlo". E i rapporti col vicinato, ci sono mai stati problemi? "Mai, rispondono Lelia e Mara. Abbiamo avuto la fortuna di un ospite molto comunicativo che ha fatto amicizia con tutti… anche grazie alla sua bella gatta che scorrazza per i giardini!". La Casa e Mansarda del Melograno sono a Firenze in zona Stadio. Per altre informazioni è possibile scrivere a dvfareacarceri@diaconiavaldese.org. Savona: Sappe; detenuto straniero affetto da tubercolosi… roba da terzo mondo Comunicato Sappe, 28 aprile 2015 "È indispensabile che la Direzione attivi la procedura di controlli medici per il personale che ha avuto contatti col detenuto". "Ma che fine hanno fatto le promesse assicuratrici per garantire un maggiore livello di prevenzione a favore della Polizia Penitenziaria che opera negli istituti liguri". A porsi questa domanda è il Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria, che prosegue. "È roba da terzo mondo, se accertata, la notizia che un detenuto straniero recluso per minacce e resistenza nell'istituto di Savona sia affetto da tubercolosi. È indispensabile che la Direzione attivi la procedura di controlli medici per il personale che ha avuto contatti col detenuto". "Ma - continua il segretario Lorenzo - è da terzo mondo che nel carcere di Savona come in altri istituti liguri, non ci siano adeguate dotazioni di protezione individuali per proteggere il poliziotto nelle sue attività ordinarie, come la perquisizione o, in casi limiti, in interventi con presenza di sangue o di pericolo immunologico". "Così come, prosegue il segretario regionale Lorenzo, non vi è nessun protocollo d'intesa con le strutture sanitarie locali, nessun corso di preparazione su come intervenire in presenza di detenuti con sospetti casi di malattie a rischio contagio. Tutte "dimenticanze" che questo sindacato non accetta e le rappresenterà a livello ministeriale. Sul fronte della sicurezza, in Liguria si fa acqua da tutte le parti". "Il 30 aprile alle ore 10, una delegazione visiterà l'istituto di Savona per appurare di persona le condizioni di lavoro del personale della sicurezza, ricordando che l'istituto è privo di Direttore, quello attuale è in "part time" con l'istituto di Chiavari. Questo non collima con il concetto di attenzione verso i problemi penitenziari della Liguria", conclude il Sappe. Terni: Compagna (Ncd) in visita al carcere "bilancio è positivo, ma serve più personale" di Noemi Matteucci www.umbria24.it, 28 aprile 2015 Soddisfazione del parlamentare di Ncd: "La gestione della struttura la allontana dall'area del malessere. Necessario differenziare tra custodia cautelare e detenuti con sentenze". Una visita da parte di un parlamentare presso una casa circondariale è un diritto, ma anche un dovere: per queste ragioni, nella mattinata di lunedì 27 aprile il senatore di Nuovo Centro Destra Luigi Compagna, insieme a Luigi Mazzotta, presidente dell'associazione Per La Grande Napoli (Radicali italiani), hanno effettuato una visita ispettiva presso le carceri di Vocabolo Sabbione. Detenuti da diverse realtà Terni è vicina a Roma e il carcere umbro è "interessante e articolato per la composizione dei suoi ospiti". Così ha esordito il senatore Compagna parlando dei risultati, molto positivi, della visita effettuata. "La provenienza dei detenuti -ha spiegato il parlamentare- non è quella del malessere sociale e della delinquenza umbri, ma questi arrivano da altre realtà, anche lontane: in particolare, sono stato colpito dal fatto che Nicola Cosentino fosse stato trasferito a Terni e ho reputato giusto effettuare un incontro con la direttrice della struttura, Chiara Pellegrini, e il comandante della Polizia penitenziaria, Fabio Gallo". Condizioni soddisfacenti Come ha spiegato Compagna, le condizioni della struttura sono molto soddisfacenti, perché "si allontanano dall'area del malessere". Fra i detenuti, nonostante la presenza di un 10% di stranieri, non si creano condizioni di insofferenza razziale. La logistica è buona, così come lo sono le condizioni in cui gli stessi detenuti vivono in cella: tra di essi, molti alloggiano da soli, mentre altri arrivano a un massimo di tre individui. Lo stesso è stato rilevato per la situazione sanitaria interna al carcere, che grazie "all'impegno e alla solerzia degli operatori funziona in modo pronto ed efficiente". "Forno solidale" e personale Due sono state le sottolineature del senatore Campagna: in primis, un appello alla Regione per l'investimento di maggiori risorse per portare a termine il progetto della panetteria solidale, facendo così "veri passi in avanti in tema di diritto al lavoro", quindi un auspicio, quello di poter vedere in futuro aumentate le unità di personale, al fine di garantire un funzionamento ancor più organizzato del carcere, specialmente con una migliore distribuzione fra gli addetti alle custodie cautelari e a chi è detenuto dopo l'emanazione di una sentenza. Roma: apre V Salone della Giustizia, tre giorni di dibattiti, tra i temi riforma e corruzione Ansa, 28 aprile 2015 Riforma della giustizia, ambiente e legalità, mafia, corruzione: saranno questi alcuni dei temi al centro del quinto Salone della giustizia che si apre oggi a Roma, nel Salone delle Fontane all'Eur. Alla tre giorni ricca di dibattiti, convegni e seminari, in cui la politica, le istituzioni e le professioni si confronteranno, il Capo della Stato, Sergio Mattarella, ha concesso l'Alto patronato. L'ingresso all'iniziativa, diretta soprattutto ai giovani, è gratuito. Negli appuntamenti in programma il ministro Andrea Orlando affronterà il tema della riforma della giustizia, il ministro Marianna Madia quello della Pubblica amministrazione. Federica Guidi, ministro dello Sviluppo economico, che si è detta "molto lieta di partecipare al Salone, il più grande evento sulla giustizia italiana", tratterà insieme al collega Pier Carlo Padoan, ministro dell'Economia, il rapporto scottante tra giustizia e impresa (in Italia occorrono in media 608 giorni per avere una sentenza di primo grado in campo civile; in Lussemburgo ne bastano 53). Angelino Alfano, ministro dell' Interno, discuterà di criminalità organizzata, mentre i temi del disagio giovanile, della medicina difensiva, della tutela della salute e del risparmio saranno affrontati dagli specialisti del settore in workshop collaterali. Al Salone saranno presenti come sempre rappresentanze della Corte costituzionale, del Consiglio superiore della magistratura, del Consiglio di Stato, dell'Anm, del notariato, dei commercialisti, dei giornalisti e degli avvocati. Tra le personalità presenti, John Philips, ambasciatore Usa in Italia; Alessandro Pansa, capo della Polizia; monsignor Vincenzo Paglia, presidente del Pontificio consiglio per la famiglia; Giovanni Legnini, vicepresidente del Csm; Anna Finocchiaro, presidente della commissione Affari costituzionali; Filippo Marvasi, presidente del Tribunale delle imprese; Guido Alpa, presidente del comitato scientifico di questa rassegna. Grazie a un accordo con il Gruppo 24 Ore, i convegni principali saranno trasmessi in diretta sia su www.ilsole24ore.com sia su www.iuschannel.tv mentre l'Ansa, media partner ufficiale, diffonderà in tempo reale le principali notizie di questa quinta edizione su www.ansa.it. Bari: i figli dei detenuti baresi andranno dal Papa, l'incontro a Roma il 30 maggio di Angela Balenzano Corriere del Mezzogiorno, 28 aprile 2015 Lettera di monsignor Ravasi alla direttrice del carcere. Il viaggio con il "treno dei bambini" fino alla stazione ferroviaria della Città del Vaticano. Papa Francesco incontrerà i figli dei detenuti e delle detenute del carcere di Bari. Un treno speciale con centinaia di bimbi a bordo (di età compresa tra 0 e 12 anni) partirà il prossimo 30 maggio dalla stazione centrale di Bari per arrivare direttamente nella piccola stazione del Vaticano. Si chiamerà il "Treno dei bambini" e sarà messo a disposizione da Trenitalia. È un evento unico e speciale. Il primo al Sud e fortemente voluto dal Papa. Il 14 aprile scorso il cardinale Gianfranco Ravasi ha inviato una lunga lettera alla direttrice della casa circondariale di Bari, Lidia De Leonardis per ufficializzare l'iniziativa e l'invito del Papa. "Il Cortile dei Gentili (si tratta di uno spazio di incontro e dialogo nella città del Vaticano, un'immagine che rinvia all'antico Tempio di Gerusalemme, ndr) ha accolto l'invito di Sua Santità Papa Francesco - scrive il cardinale - a impegnarsi nelle situazioni più disagiate. Quest'anno abbiamo pensato di progettare un'iniziativa per i bambini che vivono con le loro madri una quotidianità fatta di carcere e allontanamento dagli altri fratelli e a quelli che vivono la separazione dalla loro mamma perché si trova in un penitenziario. Tramite un percorso di "pedagogia culturale" si cercherà di trasmettere messaggi umani e spirituali ai bambini che ne sono completamente privi". Una realtà con la quale la direzione del carcere di Bari e lo staff dell'area educativa si scontrano ogni giorno. Nei colloqui frequenti con i detenuti e con i loro familiari. Scrive ancora il cardinale: "Oltre ai bambini sarebbe importante avere con loro il numero più grande possibile di mamme detenute". In Vaticano andranno però solo i bimbi accompagnati dal genitore libero o comunque da un accompagnatore da individuare tra i familiari più stretti. Bari sarà l'unica città del Sud a partecipare alla speciale giornata con il Papa. Insieme alla case circondariali di Roma, Civitavecchia e Latina. Il progetto è stato organizzato dal cappellano della casa circondariale di Rebibbia, Don Pier Sandro Spriano con il coordinamento del Provveditorato pugliese. "Siamo molto onorati di partecipare a questa lodevole ed emozionante iniziativa - spiega la direttrice del carcere di Bari, Lidia De Leonardis - cercheremo di coinvolgere il maggior numero di bambini anche dagli istituti di Turi e Altamura. Ora siamo in piena fase organizzativa". Il treno speciale partirà da Bari alle 6 del 30 maggio e raggiungerà la stazione del Vaticano intorno alle 10.40. La ferrovia vaticana è tra le più brevi del mondo: è lunga poco più di un chilometro di cui solo 200 metri sono in territorio Vaticano. I piccoli con i loro accompagnatori raggiungeranno la sala "Nervi" dove a mezzogiorno in punto accoglieranno Papa Francesco con tanti aquiloni colorati. Dopo l'incontro ci sarà un pranzo al sacco che potranno consumare nei giardini dell'area vaticana. Il treno speciale ripartirà nel pomeriggio per essere di ritorno a Bari in serata. Il tema della giornata è legato al "Volo" spiega ancora il cardinale nella sua lettera "come simbolo dei possibili passaggi tra l'interno del carcere, dove vivono le mamme e l'esterno dove stanno i figli". "L'iniziativa proposta dal Santo Padre - spiega Tommaso Minervini, responsabile dell'area educativa della casa circondariale di Bari - è nel solco del significato più profondo di questo momento storico: l'incontro e l'opportunità del cambiamento. Oltre agli aspetti puramente organizzativi, proveremo ad approfondire, sul piano pedagogico questa grande e originale opportunità. È una grande possibilità di riflessione profonda attraverso l'incontro con i bambini". Libri: "La dolce evasione", ricette e racconti di un cuoco detenuto di Ambra Notari Redattor Sociale, 28 aprile 2015 L'autore è Gazmend Kullav, albanese, che nell'istituto penitenziario della Dozza (Bologna) ha scoperto la passione per la cucina. Il libro sarà presentato domani nell'ambito dell'evento di chiusura di "Fuori e dentro". "La dolce evasione: ricette dal carcere" è un libro di ricette e racconti, legati le une agli altri. L'autore è Gazmend Kullav, autore della rubrica di cucina del settimanale ‘Ne vale la penà del carcere bolognese. Gaz ha 43 anni, viene dall'Albania. È un detenuto della Dozza e il suo fine pena si sta avvicinando. Gaz, oggi, è uno dei cuochi del carcere: stando in istituto ha scoperto una passione, quella per la cucina, una passione che prima non conosceva. "Adesso che si avvicina la libertà, sa per certo che vuole continuare a fare il cuoco - spiega Valentina Rizzo, volontaria del Poggeschi per il Carcere, ma è ben cosciente di quante difficoltà lo aspettano. Ha cominciato a cucinare per i compagni di cella, poi per la sezione. Adesso lo fa per tutto il carcere". Così nasce l'idea di raccogliere alcune sue ricette in un libro, che sarà presentato mercoledì 29 aprile alle 20 all'Ortica di via Mascarella: l'occasione sarà la giornata conclusiva della rassegna "Fuori e Dentro. Un altro sguardo sul carcere" organizzata da una rete di associazioni legate al volontariato penitenziario, guidate da VolaBo (Centro servizi per il volontariato di Bologna). All'appuntamento sarà presente anche Matteo Guidi, studioso e autore del libro "Cucinare in massima sicurezza". "Gaz sarà presente, ha accumulato un sacco di permessi", conferma Valentina. "Dal libro di Gaz si percepisce un gran senso di sacrificio - continua: quello di cucinare in spazi angusti, con strumenti spesso non adeguati, considerato ciò che non si può portare in carcere. Ma c'è anche una grandissima inventiva: per esempio, inventarsi un forno per far lievitare i dolci con la carta stagnola e uno sgabello". Ogni ricetta è accompagnata da un breve racconto, che la contestualizza e ne spiega il significato. I dolci di Gaz, spiega, sono zuccherosissimi, fatti e decorati con sciroppi e miele: "Anche dalla scelta degli ingredienti si capisce molto sulla sensibilità di Gaz, sempre alla ricerca della convivialità. Fa l'impossibile per mettersi a disposizione degli altri". C'è "il dolce del permesso" fatto con le mandorle e le noci, pensato il giorno del permesso - appunto - di fare volontariato in una comunità; c'è la "torta Cristina" dedicata alla professoressa vegana di inglese, con lo sciroppo alla pera e quello alla fragola; c'è "l'amicizia in carcere", con la frutta secca e la crema pasticcera; c'è la "torta alle noci per la festa del papà": "Quando Gaz la prepara, il pensiero corre a suo figlio, in Albania. Si sveglia la mattina, e pensa a quanto gli manca, a quanto è bello, ogni tanto, ricevere una sua lettera. In carcere, soprattutto in occasioni di ricorrenze e feste comandate, si respira una grande nostalgia: perché la detenzione la scontano anche le famiglie, soprattutto i figli. Così, quando cucina la torta per il papà, è per tutti un momento di riflessione: tutti pensiamo ai nostri padri, e molti anche ai propri figli". All'evento del 29 sarà possibile acquistare "La dolce evasione: ricette dal carcere" (offerta libera): tutto il ricavato sarà reinvestito nelle attività della redazione di "Ne vale la pena": "Magari, potremo fare stampare anche qualche copia in più da distribuire in carcere. Ne sarebbero orgogliosissimi". Immigrati: caserme o scuole in disuso per la prima accoglienza? Un vertice al Viminale di Daniela Casciola Il Sole 24 Ore, 28 aprile 2015 Si svolgerà il prossimo 7 maggio un vertice, convocato dal ministro Alfano con le Regioni e l'Anci per fare il punto sull'emergenza profughi. Lo ha annunciato il sindaco di Torino e presidente dell'Anci, Piero Fassino, che ha visitato il Centro Fenoglio di Settimo Torinese, dove sono ospitati dalla Croce Rossa circa 180 profughi. La convocazione del vertice segue la richiesta di una cabina di regia, avanzata la scorsa settimana dal sindaco Fassino e dal presidente della Regione Piemonte, e della Conferenza delle Regioni, Sergio Chiamparino (si veda il Quotidiano degli enti locali e Pa del 22 aprile 2015). Nel corso dell'incontro verrà fatto il punto sulla proposta di utilizzare le caserme dismesse per ospitare i profughi e dei fondi necessari per consentire agli enti locali di far fronte all'emergenza. Al termine della visita al centro Fenoglio, Fassino ha ribadito la necessità di creare degli "hub di accoglienza", le caserme dismesse appunto, come "luoghi di passaggio durante la fase intermedia tra lo sbarco e la destinazione finale nei Comuni per fare un primo screening e smistare poi i profughi in centri più piccoli". Fassino, ha aggiunto che, a questo scopo, possono essere utilizzati anche ospedali dismessi oppure scuole non più utilizzate. Tre step per la prima accoglienza (sbarco, caserma, comune); la formazione per garantire "prospettive esistenziali" sia per chi resta sia per chi andrà via; una spinta alla macchina burocratica; risorse adeguate: è questo il piano per l'immigrazione dell'Anci che Fassino porterà al Governo il 7 maggio. Tutto questo sarà valutato dalla cabina di regia che dovrà guidare gli interventi in modo coordinato. In primo piano, il nodo delle risorse: "magari venissero dalla Ue, noi siamo più che favorevoli. Il Governo si sta battendo per questo". "È finito il tempo di interventi sporadici e di programmi europei ad hoc. Il problema deve essere risolto con un approccio europeo e con il coinvolgimento degli enti locali", lo ha detto Carla Rey, Segretario generale dell'Aiccre (Associazione italiana per Consiglio dei Comuni e delle Regioni d'Europa) che insieme ad Emilio Verrengia, Segretario generale aggiunto, ha partecipato all'incontro dei Segretari generali delle Sezioni nazionali che si è svolto a Vienna nei giorni scorsi (21 e 22 aprile). Da Vienna, dove si è tenuta anche la riunione delle Città capitali, è stata espressa solidarietà all'Italia ed è partita forte la richiesta di non lasciare soli gli enti locali, che sono i primi a dover gestire l'emergenza migrazione. Il tutto si concretizzerà tra l'altro, con un Comitato direttivo specifico sulla questione migrazione ed accoglienza. L'appuntamento è a Monaco i prossimi 24 e 25 giugno. L'Aiccre ha ribadito l'urgenza di progettare piani di pace e di assistenza allo sviluppo per il Medio Oriente e l'Africa. La normalizzazione politica e la stabilizzazione economica permetterebbero di porre sotto controllo i flussi migratori e offrirebbero, tra l'altro, una grande leva di crescita per l'Europa, con la partecipazione a progetti educativi, infrastrutturali, energetici, agroalimentari e industriali concordati con le autorità locali. Gli Enti locali, infine, "devono essere coinvolti anche costituendo dei partenariati per la migrazione e l'integrazione tra città e regioni dei paesi di origine e di destinazione, al fine di assicurare una gestione più decentrata delle migrazioni". Droghe: Antigone; condannato giovane che coltiva 4 piante marijuana per madre malata Adnkronos, 28 aprile 2015 Gonnella, legge ingiusta e disumana, va cambiata subito. Un giovane romano di 25 anni ha subito una condanna a un anno di carcere per avere coltivato marijuana per finalità terapeutica. Alla madre, affetta da gravi patologie, il medico aveva infatti prescritto derivati cannabinoidi. Non essendo riuscito a ottenerli per vie legali, il giovane ha deciso di produrli da solo, coltivando 4 piante di marijuana. A denunciare il caso è Patrizio Gonnella, presidente dell'associazione Antigone, che parla di "ingiustizia e disumanità dell'attuale legge sulle droghe", chiedendo immediati interventi di modifica. "In totale buona fede il giovane ha palesato in rete i suoi disagi nell'approvvigionamento del farmaco - riferisce Gonnella. Ha messo su poche piantine per curare, somministrare la cura alla madre ed è stato condannato perché ritenuto spacciatore di professione. Nonostante sia stata prodotta copiosa documentazione in ordine alle circostanze sopra descritte, a partire dalla prescrizione medica dei derivati cannabinoidi e dall'avvio della procedura di importazione, è giunta la condanna. Così all'ingiustizia di una donna che non può curarsi si aggiunge quella del figlio condannato". "Nelle motivazioni seppur succintamente si ammette che vi siano nobili motivi della detenzione di marijuana autoprodotta per provvedere a procurare la sostanza stupefacente necessaria alla madre", ricorda il presidente di Antigone che ribadisce il suo appello: "La legge sulle droghe va radicalmente cambiata. Non è possibile in un solo colpo rovinare due vite nel nome di un proibizionismo violento cieco e sordo". Indonesia: pressioni per fermare esecuzioni, ma pronte bare per 8 condannati stranieri Adnkronos, 28 aprile 2015 Sulla pena di morte Giacarta va avanti per la sua strada. Mentre cresce la pressione internazionale per fermare le esecuzioni dei nove detenuti condannati per reati di droga, otto dei quali stranieri, le autorità indonesiane hanno già preparato le bare. Lo riferisce un fotografo locale raccontando che nove casse avvolte in un panno bianco sono state portate da una chiesa locale alla stazione di polizia di Cilacap, presso l'isola prigione di Nusakambangan, dove i detenuti verranno giustiziati. L'ufficio del procuratore generale ha detto che ai prigionieri e alle loro famiglie è stata annunciata l'imminente esecuzione, ma ha rifiutato di fornire una data. Secondo l'avvocato della filippina Mary Jane Veloso, l'esecuzione avverrà domani. Sul caso il presidente delle Filippine Benigno Aquino ha detto che il presidente indonesiano Joko Widodo è stato "comprensivo" quando ha sollevato il caso in una breve chiacchierata al vertice dei leader dell'Asean a Kuala Lumpur e che avrebbe consultato il procuratore generale sulle questioni giuridiche. Nel frattempo, si moltiplicano gli appelli nazionali e internazionali per una sospensione del verdetto. Una petizione online chiede a Joko di mostrare misericordia per Veloso ha raccolto quasi 8.500 firme. Mentre il profilo Twitter del presidente indonesiano è stato inondato di messaggi di connazionali e stranieri che implorano clemenza. Tra i detenuti di fronte al plotone di esecuzione ci sono anche due australiani, la cui esecuzione imminente ha provocato uno scontro diplomatico tra Giacarta e Canberra. Il primo ministro australiano durante il fine settimana ha anche scritto nuovamente al presidente indonesiano implorando clemenza per i due connazionali condannati. Mentre il ministro degli Esteri australiano Julie Bishop si è detta "profondamente costernata" dal fatto che l'Indonesia ha ignorato la richiesta di rinviare l'esecuzione della coppia perché in coincidenza con le celebrazioni dell'Anzac day, in onore dei caduti australiani e neozelandesi della I guerra mondiale. Gli altri sono quattro nigeriani, un indonesiano e un brasiliano che, secondo la famiglia, è malato di mente. Il francese Serge Atlaoui ha invece ottenuto una momentanea sospensione della sentenza in attesa dell'esito della sua ultima richiesta di appello. Domenica scorsa, il presidente Joko si è rifiutato di rispondere alle domande circa le esecuzioni previste, dicendo tutti i quesiti devono essere indirizzati all'ufficio del procuratore generale. Secondo Amnesty International le esecuzioni pregiudicherebbero seriamente la credibilità dell'Indonesia sul tema dei diritti umani a livello regionale e globale. "Nonostante la disperazione di questa situazione, l'esperienza passata ci mostra c'è ancora tempo per fermare le esecuzioni e porre fine alla pena di morte in Indonesia e altrove", ha detto Amnesty. Mentre il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon ha esortato Giacarta a prendere in considerazione una moratoria sulla pena di morte, spiegando che i reati legati alla droga in genere non sono considerati "crimini molto gravi". "Secondo il diritto internazionale, se alla fine si fa ricorso alla pena di morte, dovrebbe essere comminata solo per i crimini più gravi, in particolare quelli che riguardano l'omicidio volontario, e solo con le adeguate garanzie", ha detto un portavoce delle Nazioni Unite. Nozze per un australiano in attesa di fucilazione Uno dei due contrabbandieri di droga australiani in attesa di esecuzione in Indonesia, Andrew Chan, si è sposato ieri in una cerimonia privata organizzata nel carcere di Nusakambangan, dove potrebbe essere fucilato entro domani assieme ad oltre otto detenuti di cui sette stranieri. Chan, 31 anni, si è unito in matrimonio con la fidanzata Febyanti Herewila, alla presenza della famiglia e degli amici più cari. I suoi famigliari e quelli dell'altro australiano, Myuran Sukumaran, sono stati assediati dai reporter al loro arrivo al carcere di massima sicurezza, dove hanno rinnovato gli appelli alla clemenza del presidente indonesiano Joko Widodo. Le autorità hanno consegnato domenica la notifica "delle 72 ore" dall'esecuzione a nove dei dieci trafficanti di droga in lista di esecuzione, esentando il francese Serge Atlaoui per concedergli un'altra udienza di appello. Nonostante le proteste della comunità internazionale, e in particolare delle minacce francesi, australiane e filippine di conseguenze diplomatiche, l'Indonesia non ha mostrato finora segni di ripensamento circa la fucilazione dei condannati, arrestati in diversi casi di contrabbando di droga negli ultimi dieci anni. Giordania: cento sostenitori Isis in sciopero fame in carcere, lamentano maltrattamenti Ansa, 28 aprile 2015 Circa cento prigionieri sostenitori dell'Isis sono in sciopero della fame nel carcere giordano di massima sicurezza di Mowaqer per protestare contro le condizioni di detenzione, secondo quanto riferito da attivisti e avvocati. "I detenuti descrivono le loro condizioni come disumane e accusano le autorità di regolari soprusi e di mettere alcuni di loro in isolamento", ha detto l'avvocato Abdul Kader al Khatib. Il carcere di Mowaqer si trova a Est di Amman ai margini del deserto. Alcuni attivisti hanno riferito che secondo i detenuti le guardie impediscono le regolari visite dei familiari e le ore d'aria. I prigionieri lamentano anche che le celle sono estremamente fredde d'inverno e calde d'estate. La maggior parte dei prigionieri sono stati arrestati dopo avere manifestato pubblicamente sostegno allo Stato islamico o avere combattuto nelle sue file in Siria. Le autorità in Giordania sono spesso accusate di maltrattamenti sui detenuti, ma il governo afferma di rispettare gli standard internazionali. Marocco: 12 detenuti si cuciono occhi e bocca per protesta contri i maltrattamenti Ansa, 28 aprile 2015 Si sono cuciti bocca e occhi in segno di protesta contro il trattamento che ricevono dagli agenti penitenziari del carcere di Juribga, circa 200 chilometri a sud della capitale Rabat. Protagonisti del gesto, dodici detenuti. Lo ha reso noto il quotidiano locale Al Masae, spiegando che i prigionieri considerano "umiliante" il trattamento quotidiano che ricevono in carcere. In particolare accusano alcuni funzionari di dare un'interpretazione "indebita" di una nota amministrativa sul ripristino dell'autorità del personale carcerario, che avrebbe portato a una "legalizzazione" dei maltrattamenti nei confronti dei prigionieri. Uruguay: protesta ex prigionieri Guantánamo chiedono aiuti e ricongiungimento familiare Reuters, 28 aprile 2015 Continua a complicarsi il caso dei sei ex detenuti di Guantánamo accolti in Uruguay. Tre membri del gruppo hanno iniziato un sit-in davanti all'ambasciata degli Stati Uniti a Montevideo, esigendo assistenza economica e ricongiungimento familiare. Il governo - sempre più in imbarazzo - ha replicato che per ottenere l'assistenza richiesta i sei devono sottoscrivere e concordare impegni e regole. Al loro arrivo in Uruguay nel dicembre scorso, gli ex detenuti - un palestinese, un tunisino e 4 siriani - hanno espresso la loro gratitudine al presidente José "Pepe" Mujica, sottolineando di non volerlo deludere. A metà febbraio, però, la situazione ha iniziato a deteriorarsi: uno degli ex prigionieri, Abu Waed Dhiab, ha visitato Buenos Aires per chiedere che altri paesi accolgano ex reclusi di Guantánamo - creando un incidente diplomatico - e si è lamentato di essere "uscito da una prigione per entrare in un'altra". La situazione si è calmata grazie all'intervento solidale di Mujica, che ha visitato gli ex prigionieri, ospiti di una casa della centrale sindacale Pit-Cnt. Ma venerdì scorso alcuni di loro hanno cominciato un sit in davanti all'ambasciata americana, dormendo di notte all'aperto in sacchi a pelo. Quattro membri del gruppo hanno diffuso un comunicato nel quale sostengono che gli Usa "devono fornirci quanto necessario per portare avanti una vita normale" e accusano il Sedhu (Servizio Ecumenico per la Dignità Umana) e il governo di volergli fare firmare documenti con contenuto diverso a quello convenuto. L'ambasciata americana si è limitata ad indicare che esistono meccanismi stabiliti per chiedere un incontro con i suoi funzionari e che i giardinetti davanti alla sua sede - dove si sono istallati i manifestanti - sono uno spazio pubblico aperto a tutti. Questo ha lasciato in una posizione scomoda il governo. Il ministro degli Esteri, Rodolfo Nin Novoa, ha chiarito oggi che l'"Uruguay non ha intenzione di abbandonare" gli ex detenuti di Guantánamo. Nessuno interverrà - ha assicurato - per interrompere la loro protesta e che, anzi, un funzionario li aiuterà a formulare per iscritto le loro rivendicazioni, perché possano essere presentate formalmente all'ambasciata Usa. Ma il capo della diplomazia uruguaiana ha dichiarato che per ricevere l'assistenza che esigono, gli ex prigionieri devono firmare dichiarazioni nelle quali si impegnano ad imparare lo spagnolo e a cercare lavoro, come prima tappa per poter ottenere il ricongiungimento con le loro famiglie. Il governo del presidente Tabaré Vazquez - che nel marzo scorso ha sostituito Mujica - ha dichiarato che l'Uruguay non intende accogliere altri ex detenuti di Guantánamo, perché "non dispone né della cultura né delle infrastrutture necessarie per accoglierli".