Si può diventare ex detenuti, ma figli di detenuti lo si resta per sempre Il Mattino di Padova, 27 aprile 2015 Quando abbiamo ricevuto la lettera della figlia di una persona che è stata detenuta tanti anni fa, ci ha colpito che a distanza di molto tempo quella figlia si senta ancora "inadeguata". Poi un altro figlio ci ha mandato una testimonianza ed il paradosso triste è che a distanza di trenta-quarant'anni ad accomunare questi figli c'è sempre anche la disumanità dei trasferimenti, e la poca considerazione per i famigliari. Sono state promesse "linee dirette" per i parenti che vogliono avere informazioni sui loro cari detenuti, si è fatta una nuova circolare che dovrebbe rendere più a misura di esseri umani i trasferimenti, ma tutto questo spesso resta sulla carta, e i figli poi si porteranno dietro per sempre la sofferenza che gli hanno causato i loro genitori, ma anche l'indifferenza e la freddezza con cui troppo spesso le istituzioni li hanno trattati. Bisognerebbe prendere esempio da altri Paesi che mettono le famiglie al centro dell'esecuzione delle pene, perché hanno la consapevolezza che il reinserimento delle persone detenute passa prima di tutto per un rafforzamento dei loro legami famigliari, e non per un sistematico logoramento dei loro affetti. È stato drammatico arrivare al colloquio e sentirsi dire che mio padre non era più lì Mi chiamo Erina, ho 56 anni. Due figlie, bravissime ragazze. Un nipotino stupendo. Io conduco una vita "quasi normale". Dico quasi, perché fondamentalmente, non mi sento come gli altri. Si, forse la definizione del mio stato d'animo è proprio questa. Ho un vuoto dentro che non sono mai riuscita a colmare, ancora oggi sento di essere stata molto condizionata dall'esperienza di mio padre in carcere per 15 anni, condannato a 17 per sequestro di persona. Fu clamoroso all'epoca anche perché credo il primo ed unico a Padova, era il 1974. La mia adolescenza e conseguente crescita ne hanno molto risentito, ed ancora oggi spesso mi sento "inadeguata". Secondo me, vivendo sensazioni come quella che si prova vedendo tuo padre portato via (era con me e mia sorella quando è stato arrestato), s'instaura mentalmente un conflitto che determina poi insicurezza futura. Da una parte c'è il tuo dolore per la mancanza di una guida, di un punto di riferimento, c'è la sensazione di pena che ti fa tuo padre ed il fatto che fondamentalmente ti dispiace per lui. Insomma il contrario di quando si è orgogliosi di qualcuno. Dall'altra parte si scatena una rabbia che a volte sento ancora oggi, per cui non essendo più sicura dei tuoi sentimenti, dal mio punto di vista, non ti senti più sicura di niente. Allora ecco i legami con persone sbagliate, non nel senso etimologico della parola, sbagliate per me. Solitamente una coppia si forma tramite un'alchimia, allora si amalgamano tutte le molecole giuste. Per me si sono amalgamate si, ma solo per la nascita delle mie figlie (avute da due compagni diversi); sono due splendide ragazze in tutti i sensi, ed hanno di me un'opinione positiva, spero! Io nelle relazioni mi appoggiavo troppo e mi sembrava di non avere personalità, quindi mi sentivo noiosa, pesante... come un macigno! Questa sensazione l'ho avuta poi anche in altre relazioni, infatti adesso sono sentimentalmente sola. Ho tanti amici, ma la coppia "classica" mi soffoca, sempre perché forse penso di essere io a soffocare gli altri. Probabilmente (e voglio essere introspettiva) la rabbia, la delusione, la paura insieme alla certezza dell'abbandono, (ci aggiungo anche il senso di colpa che non guasta), sommate invece a pietà, amore per tuo papà che resta sempre immenso, hanno determinato questa sensazione che negli anni non mi ha mai abbandonata. Quella di essere divisa in due. Mio padre è stato per un anno circa al Due Palazzi, al tempo carcere solamente giudiziario, poi in Piazza Castello, sempre a Padova, da dove improvvisamente, dopo qualche mese, è stato trasferito all'isola di Pianosa. È stato drammatico arrivare al colloquio quel giorno e sentirsi dire che lui lì non c'era più. Come allo stesso tempo non dimenticherò mai il senso positivo di condivisione provato poi nei tempi successivi quando lo si andava a trovare in quel contesto così diverso, dove i suoi compagni ci hanno sempre riservato attenzioni particolari. Un tentativo, forse, di rendere "quasi normale" una circostanza che era tutt'altro, addirittura a momenti grottesca. Ma ciò nonostante ricordo con grande tenerezza la loro gentilezza nei confronti miei, di mia sorella e di mia mamma, che sembrava partire proprio dal cuore. Per concludere, aggiungo che esperienze come la mia ti insegnano anche molto, se analizzi bene. A non stupirti negativamente più di niente, a non scandalizzarti e ad essere tollerante perché di errori ne siamo capaci tutti. A sdrammatizzare tutte le situazioni, a perdonare o meglio a cercare di perdonare e di essere comprensivi (io ci sto ancora provando, ma sono a buon punto!). Ad avere la forza di lottare e di andare avanti in questa vita, a reagire sempre ed a cercare il lato positivo in ogni situazione. Probabilmente è stato proprio questo che ha aiutato mio papà nei suoi anni di detenzione, oltre alla consapevolezza che noi c'eravamo sempre e non ci saremmo mai sognate di abbandonarlo. Erina F. La notizia del trasferimento di mio padre ci ha sconvolti Sono Vincenzo, figlio di Salvatore G. che é attualmente detenuto presso la Casa di Reclusione di Padova. Scrivo la presente per dire che mio padre sono oltre otto anni che è rinchiuso presso il suddetto istituto privato dell'affetto dei propri familiari che vivono tutti in Calabria. Mia madre, mio fratello ed io non sempre possiamo viaggiare dalla Calabria sino a Padova per le visite parentali ed è per questo motivo che io e la mia compagna, in attesa del primo figlio, abbiamo deciso di lasciare casa, il lavoro, gli amici ed i parenti per trasferirci qui a Padova, al solo scopo di poter essere più vicini a mio padre. Ci è costato molto poiché entrambi abbiamo lasciato il nostro lavoro, abbiamo trovato casa ed anche lavoro e, con fatica, ci stiamo pian piano abituando a questa nuova situazione. Tuttavia in un recente colloquio con mio padre ho saputo che egli sarà trasferito, se non ricordo male, al carcere di Sulmona quest'estate! La notizia devo essere sincero ci ha sconvolti, perché dopo tutto quello che abbiamo fatto per stare vicini a mio padre corriamo il rischio che sia stato tutto inutile. So che ha scontato quasi tutta la pena la cui fine è prevista per settembre 2017, e so anche che ha chiesto la liberazione anticipata e deve presentare istanza per il regime di semilibertà essendoci una ditta in Padova che è disposta ad assumerlo; non conosco i motivi per i quali si renda necessario il suo trasferimento visto che, per quanto ne so, la sua vita carceraria è eccellente, ma è certo che se tanto dovesse essere non solo il sacrificio mio e di mia moglie è stato inutile, visto che se torniamo giù non avremmo più neanche il nostro lavoro, ma mio padre non potrebbe più usufruire eventualmente del regime alternativo al carcere perché la ditta che è disposta ad assumerlo è a Padova e non a Sulmona. Mi rivolgo a chi conosce meglio la situazione del carcere di Padova per chiedere di intercedere al fine di scongiurare questo trasferimento, sperando sempre che quanto prima gli sia concessa la misura alternativa. Ringrazio molto per l'attenzione che vorrete dedicarmi. Vincenzo G. Giustizia: responsabilità dei magistrati, la Cassazione blocca la ricusazione "automatica" di Grazia Longo La Stampa, 27 aprile 2015 Responsabilità civile delle toghe, i giudici evitano il rischio paralisi dei processi: in caso di richiesta di risarcimento danni la sostituzione non è obbligatoria. Gli ultrà del garantismo e il partito "anti giudici" resteranno delusi. Un primo stop alla nuova legge sulla responsabilità civile dei giudici arriva dalla Corte di Cassazione: la ricusazione di un magistrato, nonostante sia stata avanzata richiesta di risarcimento danni, non è automatica. Una sentenza che farà da apripista contro ogni strumentalizzazione per cercare di ottenere la sostituzione di magistrati giudicanti ritenuti troppo scomodi. Ma anche un modo per evitare lungaggini processuali a dismisura. Gli Ermellini sono intervenuti in merito al ricorso di un avvocato, sotto processo a Pordenone, che aveva chiesto la ricusazione di un giudice nei confronti del quale aveva iniziato l'azione risarcitoria per "colpa professionale". Il caso è emblematico perché, al di là della vicenda specifica, sancisce un precedente di cui si dovrà tenere conto in tutte le future cause. La sentenza della Sesta sezione penale della Suprema Corte - presidente Stefano Agrò, relatore Carlo Citterio, fissa infatti due paletti insormontabili, due massime di diritto che influenzeranno le prossime richieste di ricusazione. Punto primo, si esclude che il magistrato nei confronti del quale un imputato avanzi domanda risarcitoria possa mai essere considerato "un debitore" dal momento che la domanda non è "diretta" ma è proposta nei confronti dello Stato. Punto secondo, si scarta l'ipotesi di ricusazione "automatica" del magistrato la cui condotta professionale sia stata oggetto di una domanda di risarcimento. Il verdetto della Cassazione "disinnesca" il rischio di paralisi dei processi e quello di ricusazioni a pioggia e impedisce che la nuova legge, in vigore dallo scorso 19marzo, possa essere usata dagli imputati per cambiare addirittura sede processuale usando come una clava la rimessione per "legittimo sospetto". Ma veniamo alla sentenza pilota. L'avvocato di Pordenone è stato chiamato alla sbarra per rispondere del furto, dalla cancelleria del gip, del suo verbale di sommarie informazioni e una lettera del pm. Uno dei documenti scomparsi venne poi recuperato, nel corso di una perquisizione, proprio nel suo studio. L'avvocato si difese sostenendo che era stata la cancelliera ad avergli consegnato senza richiesta la copia di quegli atti. Il suo studio venne posto sotto sigilli e per "una poi riconosciuta erronea lettura del verbale di perquisizione", il tribunale del riesame protrasse il sequestro che invece andava annullato. L'annullamento fu poi attuato, ma l'errore c'era stato. E per questo errore il legale ha chiesto il risarcimento dei danni ai tre giudici del riesame, uno dei quali è ancora titolare del suo caso. L'avvocato ha sostenuto che "non è mai giusto un processo in cui il giudice è anche debitore della persona che deve giudicare, tanto più se proprio per danni cagionati alla vittima alla sua mercé nell'ambito dello stesso processo". Ma la Cassazione ha fatto naufragare ogni sua speranza: "Il magistrato la cui condotta professionale sia stata oggetto di una domanda risarcitoria" non "assume mai la qualità di debitore di chi tale domanda abbia proposto" in quanto destinatario della domanda è sempre lo Stato. Di conseguenza: addio alla rimozione automatica di un giudice. Giustizia: convertito il Dl anti-terrorismo; più controllo e monitoraggio dei siti informatici di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 27 aprile 2015 È stato convertito, con modificazioni, il decreto legge 18 febbraio 2015 n. 7, diretto a rafforzare gli strumenti di lotta contro i fenomeni di terrorismo internazionale. Non particolarmente significative sono le modifiche che hanno caratterizzato gli interventi in materia sanzionatoria penale. Infatti, a parte alcuni correttivi, le novità sono per lo più ispirate all'esigenza di puntualizzazione delle fattispecie incriminatrici ovvero a realizzare una migliore specificazione dell'ambito dei poteri di controllo anche preventivo sui siti informatici, ampliando gli strumenti di contrasto anche in via preventiva delle attività terroristiche. Integrazione delle misure di prevenzione e contrasto delle attività terroristiche. Di rilievo, per la prevenzione e il contrasto delle condotte strumentali all'attività terroristica che prevedano l'utilizzo degli strumenti informatici e telematici, vuoi direttamente per lo svolgimento dell'attività di cui all'articolo 270-bis del Cp, vuoi per le attività di pubblicizzazione, istigazione, apologia, reclutamento e simili, è la previsione di un sistema di costante monitoraggio dei siti utilizzati per tali attività. Un ruolo cardine è attribuito alla polizia postale che, giusta il disposto dell'articolo 2, comma 2, della legge in esame, è onerata del compito di predisporre l'elenco di questi siti, costantemente aggiornato, utilizzabile anche per le operazioni sotto copertura previste, per il contrasto dei delitti commessi con finalità di terrorismo, dall'articolo 9, comma 1, lettera b), della legge 16 marzo 2006 n. 146. Trattasi di un'attività di monitoraggio e raccolta utile sotto diversi profili. Certamente perché, proprio nell'ambito delle operazioni sotto copertura di contrasto del terrorismo, cui sono deputati gli "organismi investigativi della Polizia di Stato e dell'Arma dei carabinieri specializzati nell'attività di contrasto al terrorismo e all'eversione e del Corpo della Guardia di finanza competenti nelle attività di contrasto al finanziamento del terrorismo" (si veda articolo 9, comma 1, lettera b), della legge n. 146 del 2006), tra le attività facoltizzate per acquisire elementi di prova in ordine ai delitti commessi con finalità di terrorismo, rientra anche quella di "attivare o entrare in contatto con soggetti e siti nelle reti di comunicazione" mediante l'utilizzo di "indicazioni di copertura" (articolo 9, comma 2, della legge n. 146 del 2006). In realtà, l'utilità di tale attività va al di là delle operazioni sotto copertura, perché costituisce già di per sé strumento direttamente utilizzabile sia probatoriamente, per acquisire elementi spendibili in sede di investigazione, sia in via genericamente preventiva, per attivare una attività di interdizione dei siti utilizzati a fini di supporto del terrorismo. Le iniziative di contrasto informatico - Sotto quest'ultimo profilo, rilevanti, ma non sempre immediatamente chiare, sono le disposizioni contenute nei commi 3 e 4 dello stesso articolo 2 della legge di conversione. Il testo definitivo presenta, in vero, qualche modifica rispetto a quello dell'intervento di urgenza, ma restano alcuni dubbi interpretativi. Con la prima di queste disposizioni, è previsto l'obbligo per i fornitori di connettività di inibire, mediante gli opportuni strumenti di filtraggio, l'accesso ai siti come sopra individuati su disposizione dell'autorità giudiziaria procedente (la formula consente di ricomprendervi, in caso di indagini preliminari, lo stesso pubblico ministero). Non è però molto chiaro il contesto dell'intervento. Il riferimento all'autorità giudiziaria presuppone che vi sia in corso un procedimento penale e allora non si comprende quale spazio autonomo possa avere la disposizione a fronte di quanto previsto nel successivo comma 4. Del resto, l'intervento, come risulta palese dalla lettura combinata dei commi 2 e 3 dell'articolo 2 della legge in commento, può riguardare solo i siti "utilizzati per le attività e le condotte di cui agli articoli 270-bis e 270-sexies del Cp": ergo, ci si riferisce a situazioni in cui già in sede penale si procede per il reato di cui all'articolo 270-bis del Cp, in un contesto in cui, quindi, può utilizzarsi il più incisivo strumentario previsto dal comma 4 dello stesso articolo 2 della legge in esame. Ciò tacendo dal rilevare che la previsione normativa non dettaglia neppure le conseguenze che dovrebbe derivare a carico di chi contravvenga all'ordine di inibizione adottato dall'autorità giudiziaria; non potendosi in proposito richiamare per coerenza sistematica la sanzione amministrativa prevista dall'articolo 14-quater della legge 3 agosto 1998 n. 269. Molto più convincente ed efficace risulta, invece, la seconda previsione normativa, appunto contenuta nel comma 4 dell'articolo 2 della legge, laddove è attributo al pubblico ministero che procede per i delitti di cui agli articoli 270-bis, 270-ter, 270-quater e 270-quinquies del Cp, commessi con finalità di terrorismo, di ordinare, con decreto motivato, ai fornitori dei servizi di hosting o ai soggetti che comunque forniscono servizi di immissione e gestione, la rimozione del contenuto reso accessibile al pubblico allorquando sussistano concreti elementi che consentano di ritenere che le attività incriminate siano commesse proprio anche per via telematica. L'ordine deve essere adempiuto immediatamente e comunque entro quarantotto ore, mentre, in caso di inosservanza, l'autorità giudiziaria può provvedere a disporre l'interdizione al dominio internet nelle forme e con le modalità del sequestro preventivo (articolo 321 del Cpp). Ciò significa che, mediante il ricorso al sequestro preventivo, è possibile anche l'oscuramento di un sito web, con l'unica eccezione che si tratti della pagina web di una testata giornalistica telematica regolarmente registrata (in tal senso, oltre che nella stessa relazione di accompagnamento, anche la sentenza delle sezioni Unite, 29 gennaio 2015, Fazzo e altro, a oggi ancora non depositata, ma la cui anticipazione è nel senso che non è possibile, fuori dei casi previsti dalla legge, il sequestro preventivo della pagina web di una testata giornalistica telematica registrata, evidentemente dovendosi valorizzare l'applicazione anche a tali prodotti editoriali, in applicazione dell'articolo 21 della Costituzione, delle guarentigie previste per la stampa). In definitiva, la disposizione normativa, ponendosi in linea con la giurisprudenza prevalente (recepita dalla citata decisione delle sezioni Unite), conferma che gli spazi comunicativi sul web, non essendo giornali, non godono della speciale protezione prevista per la libertà di stampa. Ciò sul rilievo che l'articolo 21 della Costituzione, dopo l'affermazione di carattere generale sulla libertà di manifestazione del pensiero, riserva la disposizione limitativa sul sequestro alla sola manifestazione del pensiero che avvenga attraverso la stampa. Conseguentemente non trova applicazione per blog, mailing list, chat, newsletter, e-mail, newsgroup, messaggi istantanei, ecc. la tutela costituzionale di cui al comma 3 dell'articolo 21 della Costituzione, e i suddetti siti sono quindi certamente sequestrabili. Ne consegue l'ammissibilità del sequestro preventivo (mediante oscuramento), qui nel caso in cui il contenuto sia ritenuto strumentale alla commissione di delitti con finalità di terrorismo. Unica eccezione a questo potere d'intervento riguarda i giornali telematici, regolarmente registrati (in questo senso, come detto, anche la citata decisione delle sezioni Unite). Le garanzie costituzionali previste dall'articolo 21, terzo comma, della Costituzione e dalle norme attuative della legge ordinaria (articoli 1 e 2 del Rdl 31 maggio 1946 n. 561), in tema sequestro della stampa, sono quindi estensibili ai giornali telematici, editi mediante tecnologia elettronica e diffusi attraverso la rete, con la conseguenza che il riconosciuto generale divieto del sequestro preventivo della stampa (essendo ammesso dalla richiamata normativa solo il sequestro probatorio nei casi di stampa clandestina e delle pubblicazioni oscene) deve valere anche per la stampa telematica, in ossequio al principio della libertà di manifestazione del pensiero. Un'importante modifica, in sede di conversione, ha caratterizzato l'ambito di operatività di tale incisivo potere di intervento. Si prevede, in ossequio al principio di proporzione e adeguatezza, che l'interdizione e la rimozione dei contenuti debbano essere disposte solo nei limiti di quanto necessario, senza inutili eccessi. Cosicché, viene previsto che i provvedimenti cautelari interdittivi, laddove tecnicamente possibile, debbano garantire la fruizione dei contenuti presenti sul sito che siano estranei alle condotte illecite, derivandone, per l'effetto, che laddove sufficiente, la stessa rimozione dei contenuti debba limitarsi a quelli illeciti, quando il sito sia riconducibile a terzi estranei alle attività incriminate (articolo 2, comma 4, della legge in esame). La legge di conversione si caratterizza per due ulteriori specificazioni. La prima riguarda l'indicazione (preferenziale) degli organi di polizia deputati ad attivare tale strumentario: si precisa che l'autorità giudiziaria procedente debba avvalersi preferibilmente della polizia postale. La formulazione della norma, proprio con l'utilizzazione dell'avverbio "preferibilmente", non ha una significativa valenza precettiva e, in tutta probabilità, proprio per tale ragione, la modifica specificativa è inutile. La seconda riguarda il sistema di controllo pubblico sulle attività di monitoraggio, realizzata attraverso la previsione che dei provvedimenti adottati, sia di monitoraggio dei siti che di interdizione e di rimozione, debba darsi notizia in un'apposita sezione della relazione che il ministro dell'Interno presenta annualmente al Parlamento una relazione sull'attività delle forze di polizia e sullo stato dell'ordine e della sicurezza pubblica nel territorio nazionale (è la relazione prevista dall'articolo 113 della legge 1° aprile 1981 n. 121). Sembra evidente che tale notizia debba essere limitata alle attività ostensibili, rispetto alle quali, cioè, non ostino esigenze investigative. Pur nel silenzio della norma, deve ritenersi infatti che i provvedimenti adottati nell'ambito di procedimenti penali, possano essere menzionati solo previo il nulla osta dell'autorità giudiziaria procedente, a meno che non ci si limiti a una elencazione generica rilevante solo a fini statistici. L'inserimento dei dati nella relazione annuale è stato previsto, in sede di conversione, anche per l'elenco della black list dei siti monitorati dalla polizia postale, secondo la disciplina dettagliata nel sopra richiamato articolo 2, comma 2. Le intercettazioni preventive. In un'ottica squisitamente di prevenzione, si segnala un intervento ampliativo realizzato, con l'articolo 2, comma 1-quater, della legge in commento, sulla disciplina delle intercettazioni preventive (articolo 226 del decreto legislativo 28 luglio 1989 n. 271). Di immediato rilievo è la previsione ampliativa dei presupposti per attivare lo strumento intercettivo (introdotta dall'articolo 2, comma 1-quater, della legge in esame, che sul punto innova il disposto del comma 1 dell'articolo 226): ne è consentito il ricorso non più solo quando sia necessario per l'acquisizione di notizie concernenti la prevenzione dei delitti di cui agli articoli 407, comma 2, lettera a), e 51, comma 3-bis, del Cpp, ma anche quando tale necessità acquisitiva riguardi i delitti di cui all'articolo 51, comma 3-quater, del codice di procedura penale (si tratta dei delitti consumati o tentati con finalità di terrorismo), se commessi mediante l'impiego di tecnologie informatiche o telematiche. La previsione assume particolare rilievo con riferimento ai reati di cui agli articoli 270-quater, 270-quater.1, e 270-quinquies del Cp, se e in quanto commessi con le modalità e i mezzi sopra indicati. Viene inoltre prevista la possibilità per il procuratore di autorizzare, per un periodo comunque non superiore a ventiquattro mesi, la conservazione dei dati acquisiti, anche relativi al traffico telematico: ciò in deroga alla previsione generale, contenuta nel comma 3 dell'articolo 226, secondo cui va ordinariamente disposta l'immediata distruzione dei supporti e dei verbali delle operazioni intercettive. Infine, nella consapevolezza delle difficoltà connesse alle esigenze di traduzione delle attività intercettate, è stabilita l'estensione a dieci giorni del termine, ordinariamente fissato in cinque giorni, per il deposito presso il procuratore che ha autorizzato le operazioni intercettive del verbale e dei supporti, quando appunto emergono problematiche connesse alla traduzione delle conversazioni. Giustizia: la retromarcia sull'omicidio stradale, è già sparito "l'ergastolo" della patente di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 27 aprile 2015 Nel disegno di legge scompare il ritiro a vita della patente: era previsto nei casi gravi. Dietrofront sull'omicidio stradale? Dov'è finito l'ergastolo della patente? Niente ritiro a vita, neppure nei casi più gravi, ma soltanto la sospensione (da cinque a dodici anni): così nel testo del disegno di legge sul reato di omicidio stradale e nautico, depositato ieri in commissione Giustizia a Palazzo Madama dal relatore Giuseppe Luigi Cucca (Partito democratico). Dopo essere stata garantita (ai parenti della vittime), minacciata (ai pirati della strada) e promessa (all'opinione pubblica), la sanzione più severa sembra rientrata. Tremila morti e duecentocinquantamila feriti l'anno sulle strade, un terzo riconducibili a alcol e droga, forse non sono abbastanza. Le manifestazioni di marzo in 24 città italiane, nemmeno. Eppure non sembravano esserci dubbi, ascoltando testimonianze come quelle raccolte dalla redazione romana del Corriere della Sera. Come non essere d'accordo, davanti agli striscioni portati dalle associazioni di famigliari delle vittime? "Non sono state uccise dal destino, ma dall'incuria e dall'indifferenza". Incuria e indifferenza: due parole che, ovviamente, la politica (bipartisan) rifiuta. I motivi dell'inversione sarebbero altri. L'ergastolo della patente - spiega il relatore Cucca, avvocato, sardo di Bosa - è improponibile perché "un simile meccanismo sanzionatorio, per la definitività dei suoi effetti, non appare difendibile sul piano della legittimità costituzionale". Oh, bella: e perché? Secondo quale raffinato principio giuridico deve tornare a guidare chi, ubriaco fradicio o drogato, falcia un bambino sulle strisce pedonali? Non è che, sotto sotto, qualcuno pensa: una bevuta, poi una distrazione, può capitare. Perché mai la punizione deve durare tutta la vita? Dieci mesi fa, su queste pagine, abbiamo raccontato una sequenza terribile: diversi bambini uccisi sulle strade italiane, nel giro di poche ore. Uno di loro - il più piccolo - si chiamava Gionatan La Sorsa. Non aveva ancora tre anni. È stato falciato una domenica di giugno, sotto gli occhi dei genitori e del fratellino, a Ponte Nuovo (Ravenna), e trascinato per ottanta metri. L'uomo che ha fatto questo, e poi è scappato, si chiama Krasimir Dimitrov e ha 38 anni. Il Corriere di Romagna racconta com'è andata: "Dopo aver passato il pomeriggio al bar, Dimitrov venne accompagnato a casa dagli amici. Non si reggeva in piedi dopo aver bevuto almeno dieci birre e alcuni gin-fizz, ma prese le chiavi della sua auto, una Mercedes Clk intestata alla madre ma di fatto nella sua disponibilità. In quelle condizioni si mise alla guida, falciando il piccolo Gionatan davanti agli occhi dei genitori e del fratello (...) Dimitrov venne rintracciato trenta ore più tardi dagli agenti della squadra di pg della polizia stradale. L'auto, che nel frattempo era stata accuratamente lavata, corrispondeva a quella descritta dai testimoni e ripresa dalle telecamere. Quando le forze dell'ordine bussarono alla sua porta, Dimitrov era nuovamente ubriaco". In agosto, due mesi dopo il fatto, Krasimir Dimitrov era già ai domiciliari. In dicembre ha patteggiato una pena di 2 anni, 9 mesi e 10 giorni. Il tribunale di Ravenna, nella sentenza, ha parlato di "condotte dal carattere odioso" in un contesto caratterizzato dal "più totale disprezzo per la vittima". Spiega il giudice come si è arrivati al calcolo della pena: 1 anno e 8 mesi per omicidio colposo, 3 mesi e 10 giorni per guida in stato di ebbrezza (aggravata dall'incidente), 10 mesi per fuga. Oggi l'omicida è libero, ha come unico obbligo la firma in caserma. Risarcimenti? Niente da fare. L'investitore era assicurato con una compagnia bulgara, che apparentemente non ha soldi. Deve tornare a guidare, il signor Dimitrov? Alcuni parlamentari italiani pensano che applicargli "l'ergastolo delle patente" sia eccessivo? Invitino in commissione Giustizia al Senato Fabiola Solito, la mamma di Gionatan, e lo spieghino a lei. Certo, al testo della legge sono possibili emendamenti. Il relatore Cucca sostiene che il primo sarà suo: revoca della patente, non semplice sospensione, per chi commette certi reati (in sostanza, sarà necessario rifare l'esame). Altri ricordano che, comunque, con le nuove regole, la sanzione diventerà penale, non amministrativa; e scatterà anche in caso di applicazione della condizionale. D'accordo. Ma la sorpresa, e la preoccupazione, restano. Il governo sembrava deciso; la politica, per un volta, compatta. "Tra i nostri obiettivi del Patto di Governo fino al 2018, la proposta di una legge per introdurre una nuova fattispecie di reato: il reato di omicidio stradale. Perché la licenza di guida non si può trasformare in licenza di uccidere!". Così ha detto il leader Ncd e ministro dell'Interno, Angelino Alfano, alla direzione nazionale del partito, il 23 febbraio. Lo stesso ministro, al Tg5, il 24 marzo: "È il momento di costruire una fattispecie di reato nuova, che abbia maggiore capacità sanzionatoria e serva da deterrente per indurre chi guida ad avere timore delle sanzioni". Questo è il punto. Per dissuadere, in molti casi, la legge non può soltanto convincere: deve spaventare. Ecco perché l'omicidio stradale va introdotto e sanzionato adeguatamente: anche con la perdita definitiva della patente. Chi guida ubriaco fradicio, o drogato, deve sapere cosa rischia. Oggi non è così e, apparentemente, continuerà a non essere così. È vero: altri Paesi europei non arrivano a prevedere "l'ergastolo della patente" (Germania, Regno Unito, Francia). Ma hanno una giustizia efficiente e pene certe. In Italia, nella terra delle leggi impotenti e delle infinite scappatoie, si aprono invece varchi enormi. E dentro quei varchi passano il signor Dimitrov e tanti come lui. È questo che vogliamo? Giustizia: Cassazione; l'abuso sul web è vero abuso, niente sconti per i molestatori on line di Giacomo Galeazzi La Stampa, 27 aprile 2015 Sentenza della Suprema Corte: "Non serve il contatto fisico, nessuna attenuante per chi adesca i minori in Rete". Orchi reali o virtuali non fa differenza: gli abusi sui minorenni vanno puniti allo stesso modo. Stesse pene, pari severità. "Gli atti sessuali non sono meno gravi se commessi sul web", stabilisce la Cassazione. Anzi, la violenza che arriva dal pc può essere più pericolosa di quella a scuola o per strada. Con questa motivazione la Suprema Corte ha rigettato quasi interamente il ricorso presentato da un ultracinquantenne campano accusato di atti sessuali con una minorenne "mediante l'utilizzo di social network, webcam e collegamento in videochiamata". La patologia da social network espone i minori a rischi. La sentenza redatta da Vincenzo Pezzella equipara per la prima volta la realtà di ogni giorno e la Rete. Crolla il muro di ipocrisia. Non serve il contatto fisico: nessuna attenuazione di responsabilità per chi abusa di minori su Internet. Nel caso specifico, quindi, soltanto per un capo di imputazione (prostituzione minorile) la Corte d'appello di Napoli dovrà rideterminare la pena inflitta al cyber-pedofilo. Per il resto è stata confermata la condanna a nove anni di reclusione. Una svolta. Violenza subdola on line. Il reato riguarda "la condotta posta in essere attraverso il pagamento di ricariche telefoniche" per indurre la ragazzina "ad inviargli foto in abiti succinti e video osé". Secondo la Cassazione "la violenza che arriva attraverso il computer, raggiungendo il bambino all'ora in cui è nella propria stanza a giocare con gli amichetti, può essere anche più subdola e pericolosa di quella cui può essere esposto a scuola, in palestra, per strada o tra la gente". Si tratta nello specifico di minori dai 9 ai 15 anni. Infatti "un bambino è sottoposto ad una vigilanza e ad una protezione familiare e sociale che inevitabilmente, invece, si allenta quando il minore è nel chiuso della sua stanza, apparentemente al sicuro dalle insidie degli estranei". Ecco che allora, osservano i giudici della Terza sezione penale, "la violenza o gli atti sessuali virtuali con minorenni non sono necessariamente caratterizzati da una minore gravità rispetto a quelli reali". Un segnale forte. Una sentenza che "scongiura sottovalutazioni, il virtuale è reale e l'infanzia è vittima", commenta don Fortunato Di Noto, fondatore della Onlus "Meter" contro la pedopornografia. La Suprema Corte lancia l'allarme nei confronti dell'abuso dei social network e mette nero su bianco tutta la preoccupazione per lo "strumento telematico diventato di uso comune anche per i minori". E la guardia non va mai abbassata quando si tratta di abusi, atti sessuali, molestie on line. Malati di Internet Un'analisi inquietante del fenomeno. Si usano computer, tablet, lo smartphone, per raggiungere gli amici, ma anche per studiare, giocare, tenersi informati. "Che piaccia o no - denunciano gli "ermellini" - i social network costituiscono una forma di socializzazione che si è affiancata, quando non li ha patologicamente sostituiti, ai tradizionali strumenti con cui si allacciavano e intrattenevano rapporti interpersonali". Piccoli "malati di Internet" alla mercé di web-predatori seriali. Giustizia: un segnale forte dalla Cassazione, ma patologica è la violenza, non il web di Gianluca Nicoletti La Stampa, 27 aprile 2015 È senza dubbio un segnale di civilizzazione digitale quello che si legge nella sentenza della Suprema Corte. Gli ermellini prendono atto che ogni connessione equivale a una relazione, come pure è stato ribadito che le protesi elettroniche sono oramai la modalità più usuale per entrare in contatto tra esseri umani. Di conseguenza dobbiamo smetterla di fare distinzioni obsolete tra "virtuale" e concreto: le nostre vite, nel bene e nel male, sono coinvolte nella stessa maniera, sia quando digitiamo, sia quando qualcuno ci tiene il fiato addosso. Merita invece una riflessione quell'accenno al fatto che i social network avrebbero sostituito "patologicamente" le precedenti maniere di allacciare rapporti interpersonali. La tecnologia non è una malattia che divora l'umanità, noi ci evolviamo proprio perché siamo animali tecnologici, è sempre avvenuto dal pollice opponibile in poi. Ci siamo evoluti e quindi usiamo macchine che ci espandono nelle nostre relazioni, ma non per questo ci stiamo allontanando da uno stato felice di esistenza, in cui l'infanzia era maggiormente salvaguardata dalle "tradizionali forme di socializzazione", che non tenevano certo i ragazzi alla larga da degenerati e molestatori. Chi abusa di minori via computer è lo stesso che batteva i giardinetti, le scuole, i campetti parrocchiali. I giovani non vanno "disarmati" dei loro smartphone, ma piuttosto addestrati a gestirsi l'ombra digitale, come una volta si spiegava di non accettare caramelle dagli sconosciuti. Giustizia: economia governata dal Tar? se la PA ha difficoltà economiche non paga i debiti di Alessandro De Nicola La Repubblica, 27 aprile 2015 Mai come in questo periodo si ha l'impressione che l'apparato statale sia prigioniero della propria inefficienza e dell'incapacità della classe politica di ridurre la spesa pubblica. La delega fiscale, che ha preso forma nei tre decreti delegati approvati dal Consiglio dei ministri, è ancora un Vaso di Pandora e i giudizi sul modo in cui viene affrontata l'annosa questione dell'abuso di diritto sono contrastanti. Nel frattempo ci pensano i giudici, nel bene e nel male, a scardinare alcune certezze. Molti lettori si ricorderanno la sentenza della Corte Costituzionale di febbraio che ha dichiarato illegittima la nomina di 767 dirigenti dell'Agenzia delle Entrate, in quanto promossi senza rispettare i principi normativi che regolano l'iter di carriera e prevedono concorsi pubblici. Oltre allo scandalo provocato dal constatare che i controllori della probità fiscale degli italiani a casa propria distribuivano prebende all'italiana, subito si pose il problema se ali atti firmati dai dirigenti illegittimamente nominati avrebbero potuto essere dichiarati nulli. Si rischiano difatti migliaia di accertamenti vaporizzati dalla mancanza di poteri di chi li aveva disposti. Quando mai! La direttrice dell'Agenzia, Orlandi, e - con minore veemenza - il ministro Padoan subito avvertirono i contribuenti di non "sprecare i propri soldi" iniziando ricorsi inutili perché gli atti erano validi, anzi validissimi. Malauguratamente in Italia tuttora esistono persone disposte ad investire il proprio denaro per far valere i propri diritti e così un contribuente monzese ha ottenuto una sentenza dalla Commissione tributaria provinciale di Milano che sembra smentire le granitiche certezze del governo e dei suoi burocrati. I giudici ambrosiani, infatti, hanno ritenuto che un avviso di accertamento firmato da un presunto dirigente il cui nome risultava nell'elenco di quelli individuati dal Consiglio di Stato tra i promossi irregolarmente sia invalido. Tali atti devono essere firmati da personale di "carriera direttiva" e tale non era il funzionario nel caso di specie. Orbene, una sentenza da sola non costituisce un precedente inespugnabile ed è possibile che altri magistrati esprimano pareri diversi. I responsabili politici e dell'amministrazione, però, è bene che d'ora in poi si limitino a profondersi in sentite scuse per il malfunzionamento della Pubblica amministrazione e non si ergano da imputati a giudici. Un caso inquietante emerge invece dal Tar di Roma. A fronte della legittima richiesta di una ricorrente di vedersi liquidato un indennizzo dovuto dal ministero della Salute a partire dal 2009, i togati capitolini hanno stabilito che in effetti il diritto al risarcimento non si poteva negare, ma senza gli interessi di mora. Invero, il codice del processo amministrativo (c.p.a.) stabilisce che il resistente (la Pa) non deve pagare somme di denaro quando "ciò sia manifestamente iniquo" o "non sussistono altre ragioni ostative". Ebbene tali ragioni sono state individuate nelle oggettive condizioni economiche ("debitamente documentate") in cui versa il ministero, nonché "la notoria situazione di congiuntura che ha imposto severi tagli alla spesa pubblica onde evitare la paventata insolvenza degli enti pubblici". A leggere questo passo si rimane sbalorditi. Dimentichiamoci un momento la valutazione bizzarra che il Tar compie sui "severi tagli alla spesa" (ma che ne sa? Negli anni la spesa corrente non è mai diminuita), in ogni caso il principio è strabiliante: i pubblici amministratori non sanno tenere i conti in ordine e quindi è giusto che non paghino i debiti? Lo sgomento aumenta quando si capisce che questa linea di pensiero non è nuova poiché già altre decisioni del Tribunale amministrativo avevano sancito il principio nel 2014 e nel 2012. Si tratta però di una discrezionalità intollerabile: in primis non possono essere giudici amministrativi a decidere quando esistono "oggettive condizioni economiche" che impediscono di pagare. Di oggettivo non c'è nulla in una valutazione siffatta. Inoltre, uno squilibrio tra lo Stato creditore che esige dal cittadino il dovuto ed uno debitore che se non ha il denaro non paga, non solo ferisce il senso di giustizia ma rischia di creare una catastrofe. Chi comprerebbe più i titoli del debito pubblico italiano o degli enti locali se un domani, appellandosi all'art. 114 del c.p.a., la Regione X o il Comune Y potessero rifiutarsi di pagare gli interessi? Chi parteciperebbe agli appalti pubblici, correndo questi rischi rispetto ai propri compensi (speriamo che nessuno straniero legga questa sentenza)? È probabile che l'interpretazione che i giudici amministrativi hanno dato della norma sia distorta e, appunto, "manifestamente iniqua". Se ci fossero dubbi intervenga subito il governo o il Parlamento a rimediare ad una simile stortura. E, ancora una volta, profonde scuse per come viene trattato il cittadino e il principio disuguaglianza di fronte alla legge non sarebbero sgradite. Giustizia: codice tributario, no all'abuso del diritto se l'operazione non ha alternative di Marco Nessi Il Sole 24 Ore, 27 aprile 2015 Non può essere considerato un comportamento in abuso di diritto il conferimento d'azienda in una newco seguita dalla cessione delle quote di quest'ultima, a condizione che l'operazione sia supportata da valide ragioni economiche. A ribadire questo principio è stata la Ctr Lombardia nella sentenza 390/1/2015 depositata il 10 febbraio 2015 (presidente Chindemi, relatore Fucci). Il caso. Il contenzioso ha riguardato la ripresa a tassazione di un'operazione di conferimento di un ramo d'azienda effettuata a favore di una società veicolo di nuova costituzione (in inglese, newco), a cui ha fatto seguito la cessione delle quote di quest'ultima società a favore di una società terza interessata all'ingresso nel settore del fotovoltaico. L'ufficio, richiamando l'ormai classico articolo 20 del Dpr 131/1986, ha accertato una maggiore imposta di registro (nonché ipotecarie e catastali) in misura proporzionale: secondo l'amministrazione finanziaria la complessiva operazione posta in essere avrebbe in realtà avuto la finalità di dissimulare la reale volontà delle parti di porre in essere una cessione d'azienda priva di valide ragioni economiche. L'appello. Dopo un primo grado di giudizio favorevole alle società ricorrenti, l'ufficio ha proposto appello e ribadito la legittimità della propria pretesa impositiva. La Ctr, però, ha confermato le conclusioni dei giudici di primo grado. In particolare, i giudici d'appello hanno riconosciuto la piena legittimità dell'operazione dal punto di vista economico, dato che la stessa era stata attuata per raggiungere finalità realmente volute e meritevoli di tutela, certamente diverse dalla pura cessione d'azienda. Inoltre è stato ricordato che gli effetti giuridici ed economici che derivano dalla cessione di quote sono ben diversi da quelli prodotti dalla cessione d'azienda. Pertanto non è possibile confrontare queste due operazioni. Infatti, l'acquisizione delle quote della newco ha permesso alla società acquirente di divenire di fatto socia dell'attività, con conseguente segregazione e limitazione del relativo rischio impresa (rischio che era effettivamente esistente, considerato che l'investimento ha consentito all'acquirente di investire in un campo particolare come quello del fotovoltaico). Le argomentazioni. Inoltre, la Commissione regionale ha evidenziato che: la costituzione della società veicolo era stata effettuata in un periodo non sospetto proprio allo scopo di segregare il rischio di impresa e favorire in questo modo l'ingresso di terzi nel settore fotovoltaico (infatti, queste società erano in grado di gestire al meglio sul piano economico il progetto imprenditoriale, potendo ottenere specifici finanziamenti destinati all'operatività nel settore); le società veicolo erano state pienamente operative nel periodo successivo all'operazione (e non consolidate o incorporate in altre realtà); l'ufficio non ha individuato uno strumento giuridico alternativo in grado di raggiungere gli stessi obiettivi economici prodotti dall'operazione contestata. Sulla base degli elementi sopra illustrati, il collegio d'appello ha quindi respinto l'appello presentato dall'ufficio, non rinvenendo la tenuta di un comportamento volto a ottenere (in via prevalente o esclusiva) un indebito risparmio d'imposta da parte delle società accertate. Verona: detenute pronte al "Riscatto", Cooperativa realizza raffinati prodotti di pelletteria di Alessandra Gaietto L'Arena di Verona, 27 aprile 2015 Il laboratorio ha già realizzato dei prodotti per Vinitaly e ora punta a espandere la sua attività con la riparazione di calzature. Il lavoro come strumento di riscatto, di riscoperta della propria capacità di essere auto nomi ed utili, ed insieme come occasione per acquisire competenze, spendibili dopo la fine della detenzione. Parte da questi obiettivi uno dei progetti di lavoro per le detenute del carcere di Montorio, cui sta lavorando la Cooperativa Riscatto. Si tratta di un laboratorio di pelletteria, per la produzione di oggetti curati, all'insegna di quel made in Italy che, unico, per la maestria della lavorazione e la cura artigianale, può fare concorrenza a produzioni industriali a basso costo. L'idea nasce dall'incontro di un imprenditore affermato, Mario Gastaldin, noto come Cordovano, con il mondo del carcere. Cordovano per i veronesi è un nome noto: forte della sua dalla passione per il commercio della pelletteria di lusso, diventa dal 76 punto di riferimento per clienti raffinati. InvicolettoScala7 Cordovano decide di aprire il suo laboratorio, per dedicarsi esclusivamente alla produzione di pelletteria di lusso su misura. "Dovevo fare dei gadget per Vinitaly e cercavo una cooperativa per contenere la spesa. Un amico mi ha consigliato di rivolgermi al carcere. Detto, fatto", spiega Gastaldin. "Nel reparto femminile di Montorio ho trovato una grande voglia di fare e di partecipare da parte di molte detenute; mi hanno colpito moltissimo. Diciamo che mi ha preso quella che chiamano "carcerite": l'emozione di vedere persone alla ricerca di un'occasione, per le quali il lavoro era un miraggio, mi ha fatto sentire che dovevo fare qualcosa. Ho visto tra l'altro che alcune detenute erano informate di pelletteria e ho deciso d'istinto: facciamo un laboratorio di pelletteria in carcere, puntando sul made in Italy, il lavoro di qualità. Che richiede dedizione e tempo. E i detenuti, di tempo, ne hanno molto. Ho visto che hanno anche la voglia di imparare, cioè la dedizione. E ho trovato ascolto e consenso nella direttrice, la dottoressa Maria Grazia Bregoli, che ha messo a disposizione un laboratorio di 60 metri quadri nella sezione femminile. E così è nata la cooperativa Riscatto, che ho fondato con due detenute. Molti mi hanno aiutato: il notaio Buoninconti ad esempio ha rinunciato al suo onorario per l'atto di costituzione della cooperativa. Un altro contributo importante è arrivato dal Banco Popolare". Si tratta di Michele Massaro, meglio noto come "Gaio il Calzolaio", che ha il suo negozio in via Spolverini 10. Massaro, colpito dai progetti di lavoro in carcere, entrerà a far parte di Riscatto con un corso in cui insegnerà i segreti per essere buon calzolaio. "Credo che in tre mesi le detenute possano imparare molte tecniche, e che sia una buona occasione". Cosa manca? Le ordinazioni. Gli ingredienti per il successo ci sono tutti. Riscatto ha già creato anche una sua linea (vedi su Facebook "Progetto Riscatto"), e a breve è attesa l'apertura in pieno centro, non lontano dal negozio di Cordovano, di una vetrina che esporrà i prodotti del brand, realizzata grazie al sostegno della Popolare. Non è detto che questo spazio non possa diventare anche il luogo in cui i veronesi consegneranno le loro scarpe per riaverle, sistemate a dovere nei laboratori del carcere, dopo 24 ore. "Adesso noi ci rivolgiamo a tutti quei soggetti, come enti e aziende pubbliche, imprenditori e aziende private, società calcistiche che spesso hanno bisogno di ordinare gadget, anche pubblicitari, per diverse occasioni", spiega Gastaldin. "Non chiediamo contributi in denaro, ma l'occasione di farci lavorare. Siamo pronti a realizzare campioni e preventivi, sicuri che saranno convincenti". Anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando, quando è venuto a Verona circa un mese fa per un convegno proprio sul mondo del carcere, ha ricevuto in omaggio una cartellina personalizzata realizzata da Riscatti. Milano: Expo, a Bollate e San Vittore i padiglioni dei detenuti di Alice Martinelli Corriere della Sera, 27 aprile 2015 Expo 2015 si avvicina e anche San Vittore avrà la sua esposizione. Si tratta di uno speciale "padiglione Italia" allestito all'interno della struttura penitenziaria per esporre il frutto delle attività legate al cibo e all'ambiente, realizzate nelle carceri italiane. Cittadini, imprenditori, ristoratori e commercianti potranno visitare il Padiglione, ribattezzato "Primo Maggio-Primo Raggio", dalle 15.30 alle 18.00 previa autorizzazione. L'obiettivo non è solo dare visibilità alle attività portate avanti dai detenuti ma anche assaggiare i prodotti e concordare possibili strategie commerciali. Expo 2015 sarà così un momento importante anche per chi, in carcere, è impegnato durante tutto l'anno in attività di riabilitazione ed inclusione sociale. Anche l'istituto penitenziario di Bollate, per tutto il periodo di Expo, aprirà al pubblico spazi di esposizione e vendita di prodotti, visitabili da giugno, ogni primo venerdì del mese, iscrivendosi al sito www.carcerebollate.it. Spoleto (Pg): detenuto appicca incendio in carcere, evacuata un'ala della struttura di Pamela Bevilacqua www.spoletonline.com, 27 aprile 2015 Sabato sera movimentato nel carcere di Maiano, dove un detenuto ha appiccato il fuoco. Il fumo ha invaso l'intera ala che è stata sgomberata. I tre agenti della penitenziaria intervenuti per gestire la situazione, sono rimasti intossicati dal fumo e sono dovuti ricorrere alle cure del pronto soccorso dell'ospedale di Spoleto. Erano da poco passate le 19 di ieri sera, quando il detenuto, usando il fornelletto che ha in cella per cucinare, dà fuoco al materasso. Nel giro di poco la cella viene invasa da una colonna di fumo. Fumo che si espande per una intera zona del carcere. Immediata l'evacuazione e l'intervento di tre agenti per ripristinare la situazione di emergenza. Sappe: grande professionalità poliziotti penitenziari "Un detenuto italiano di 24 anni, con evidenti problemi psichici, ha appiccato un incendio nella cella dov'era detenuto, dando fuoco a tutto quello che vi era all'interno", spiega Donato Capece, segretario generale Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo della Categoria. "Sono stati momenti di grande tensione e pericolo, gestiti però con grande coraggio e professionalità dai poliziotti penitenziari. Prima hanno salvato la vita al detenuto che aveva dato fuoco alla cella, poi con l'ausilio di 2 estintori e dell'idrante hanno domato le fiamme in circa 15 minuti, e poi hanno provveduto a far uscire i detenuti dalle altre celle del Reparto detentivo che erano invase dal fumo. I ristretti, 30 persone, sono state portate nel cortile dei passeggi dove hanno atteso un'ora prima che la situazione tornasse alla normalità. Tre poliziotti penitenziari, feriti e intossicati dall'incendio e dal fumo spigionato, hanno dovuto far ricorso alle cure sanitarie presso il locale nosocomio di Spoleto. Poteva essere una tragedia, sventata dal tempestivo intervento dei poliziotti penitenziari di servizio nel Reparto e dal successivo impiego degli altri poliziotti penitenziari in servizio nel carcere. Sono stati bravi i poliziotti penitenziari in servizio nel carcere umbro a intervenire tempestivamente, con professionalità, capacità e competenza". "Spoleto non è un carcere semplice, operativamente parlando: stiamo parlando di una realtà con una presenza media di 500 detenuti - erano 495 il 31 marzo scorso", aggiunge il Segretario regionale umbro del Sappe Fabrizio Bonino. "Basta leggere gli eventi critici accaduti nel penitenziario nei dodici mesi del 2014: 4 tentati suicidi di detenuti sventati per fortuna in tempo dalla Polizia Penitenziaria, 44 episodi di autolesionismo, 23 colluttazioni e 2 ferimenti. Ed è grave che ad aver posto in essere il gravissimo fatto di Spoleto sia lo stesso detenuto che a Terni aveva aggredito un Ispettore di Polizia Penitenziaria. È inaccettabile tutto questo". Capece evidenzia infine come l'incendio sventato a Spoleto è "sintomatico del fatto che le tensioni e le criticità nel sistema dell'esecuzione della pena in Italia sono costanti. E la situazione è diventata allarmante per la Polizia Penitenziaria, che paga pesantemente in termini di stress e operatività questi gravi e continui episodi critici". Velletri: Fns-Cisl; detenuto colpisce con un pugno assistente capo, che finisce in ospedale www.castellinews.it, 27 aprile 2015 Costantino (Fns-Cisl): "Detenuti del genere devono essere gestiti dal personale sanitario e non certo dalla penitenziaria". Ancora un'aggressione al carcere di Velletri, sempre ai danni di un agente della Polizia Penitenziaria. "Apprendiamo che oggi alle 19 è stato aggredito un Assistente capo presso il reparto 4B del carcere di Velletri con un pugno sulla tempia da parte di un detenuto. Scongiurato il peggio - scrive in una nota Massimo Costantino, Segretario regionale Fns Cisl - grazie all'intervento di altri detenuti. L'allarme del piano, sembra, che non ha funzionato, il detenuto marocchino che ha aggredito il personale di polizia penitenziaria, si trovava nella sezione protetta. L'allarme non si è attivato: non funzionava il pulsante. Il detenuto che sembrerebbe fosse psichiatrico non doveva stare in una sezione a regime aperta. Per la Fns Cisl - ha concluso Costantino - occorre far chiarezza al più presto. Detenuti del genere, se confermato che fosse sottoposto ad osservazione psichiatrica, devono essere gestiti dal personale sanitario e non certo dalla penitenziaria. L'assistente capo da quanto appreso è stato portato all'ospedale per una Tac". Nuoro: quindici detenuti in marcia tra i boschi cercano la libertà di Luca Fiori La Nuova Sardegna, 27 aprile 2015 Il pellegrinaggio voluto dalla Confraternita di San Jacopo. Protagonisti alcuni carcerati in un percorso nel Nuorese. A piccoli passi verso la libertà. Un cammino di cinque giorni tra i boschi del Nuorese, facendo tappa nei santuari di Fonni, Bitti, Gavoi e Lula, passando per Nuoro e il monte Ortobene con gli zaini in spalla e l'emozione di condividere gioie e dolori lontano dalle quattro mura della cella. Avrà una particolarità la trentina di persone che oggi si metterà in cammino da Fonni, per un pellegrinaggio che ricorda in piccolo quello più famoso verso Santiago de Compostela: circa la metà dei pellegrini sono persone detenute nelle carceri di Badu e Carros e Mamone. Il progetto nasce dalla collaborazione tra il capitolo sardo della Confraternita di San Jacopo di Compostella e il Ministero di Grazia e Giustizia e prende spunto da precedenti esperienze condotte dalla Confraternita in altre regioni d'Italia a partire dal 2011, quando 30 persone detenute effettuarono un pellegrinaggio lungo la via Francigena. L'esperimento fu un successo, così si è pensato di replicarlo in Sardegna. In questo caso i pellegrini percorreranno 140 chilometri in cinque giorni su strade asfaltate, sentieri e strade di penetrazione agraria. Per una settimana assaporeranno la libertà e la gioia di camminare insieme. La notte saranno ospitati nei locali messi a disposizione dalla Diocesi di Nuoro. I dodici detenuti sono stati scelti dall'amministrazione penitenziaria: per poter lasciare le celle e mettersi lo zaino sulle spalle hanno ottenuto un permesso premio di una settimana. Durante il cammino affronteranno insieme le difficoltà di un viaggio che andrà vissuto con assoluto spirito "pellegrino", portando nello zaino solo quello che è necessario, dormendo nelle strutture dell'accoglienza esistenti e condividendo insieme agli accompagnatori ogni aspetto del cammino in regime di austerità e condivisione. Le spese di organizzazione relative al trasporto dei pellegrini, vitto, alloggio (dove non fornito dalle comunità locali) e soprattutto di equipaggiamento delle persone detenute sono state sostenute interamente dalla Confraternita di San Jacopo di Compostella. Alcune delle comunità coinvolte nel progetto hanno partecipato con un contributo. "Per questo - aggiunge Antonio Porcheddu - è giusto ringraziare l'associazione Camminantes per le tracce del cammino, il comitato e il priore di San Francesco di Lula, gli amici di Sarule, i frati francescani di Fonni, il comitato di Gavoi e la diocesi di Nuoro". Prima della partenza i pellegrini sono stati muniti di zaino, sacco a pelo, scarpe e calze da trekking, magliette sportive, pantaloni, giacca a vento, torcia, telo doccia, ciabatte, biancheria e un kit per l'igiene intima. Al termine del pellegrinaggio verrà concesso dalla Diocesi di Nuoro un documento, il "testimonium", che attesta l'avvenuto pellegrinaggio. Durante il cammino i detenuti potranno muoversi in libertà, ma dovranno rispettare alcuni orari: la sveglia la mattina suonerà presto in modo da mettersi in cammino non più tardi delle 7 e alle 22.30 tutti a dormire. Il percorso partirà dal santuario dei Martiri di Fonni e si concluderà a Lula il primo maggio, passando per Gavoi, Sarule e Nuoro dove, il mercoledì 29 aprile alle 17 verrà celebrata la messa presso il santuario di Santa Maria della Neve alla presenza del vescovo monsignor Mosè Marcia e delle autorità locali. Venezia: un detenuto a "colloquio" con il proprio cagnolino di Giorgio Cecchetti La Nuova Venezia, 27 aprile 2015 Santa Maria Maggiore. Richiesta soddisfatta dopo tante richieste e lunghe attese: "Ma ha dovuto mettere la museruola: non è abituato e non ha potuto farmi festa". Anche a Santa Maria Maggiore, come è accaduto in altre carceri, un detenuto ha potuto rivedere il proprio cane. Insomma, gli è stato concesso un "colloquio" con la bestia che evidentemente ama. Ma il veneziano M.Z., in carcere per una rapina ad un supermercato da un anno e dieci mesi, è rimasto deluso e con una lettera a la Nuova racconta perché. "Ho fatto tante domande scritte, alla direttrice, al comandante della Polizia penitenziaria, al brigadiere e all'ispettore", scrive, "sono stato più volte a colloquio con il garante dei detenuti, dopo cinque-sei mesi la direttrice mi ha risposto che dovevo portarle i certificati di salute e delle vaccinazioni del cane, che ho consegnato. Poi ho aspettato un altro mese e mezzo e finalmente ho avuto il colloquio". Ma M. non è rimasto contento, soprattutto dopo la trafila che ha dovuto sopportare: "La sera prima che mi preparo a vedere il mio cane il brigadiere mi dice che il colloquio durerà al massimo dieci-quindici minuti, poi un altro brigadiere mi informa che il cane dovrà stare al guinzaglio e con la museruola". Ma è andata ancora peggio: "Il colloquio con il mio cagnolino", spiega, "che è un beagle è poi durato pochissimi. Io posso capire la preoccupazione degli agenti, che temono possa morsicare, ma io lo volevo vedere senza museruola, così mi poteva abbaiare, mi poteva ascoltare quando parlavo, mi poteva fare le feste. Invece mi ha sì riconosciuto, ma era più interessato a cercare di togliersi la museruola anche perché non è abituato a portarla". Inoltre, M.Z. riferisce che l'incontro è avvenuto la domenica "perché in questo modo il cane non crea scompiglio e fastidi nel parlatorio, visto che negli altri giorni ci sono i detenuti che hanno i colloqui con i loro cari. Comunque - prosegue - mi aspettavo un po' più di tempo a mia disposizione. Io lo attendevo purtroppo per niente perché il cane non mi ha fatto le feste, ma sono contento di averlo visto e sono nello stesso tempo deluso e rammaricato dopo tutti quei mesi in attesa del colloquio". M.T. giudica quello che ha subito un ‘ingiustizia, ma quello che aveva chiesto, in fondo, lo ha ottenuto anche se non nelle condizioni migliori. Lui chiede di poterlo riprovare in una situazione meno stressante per il suo beagle, in modo che possa prestare attenzione al suo padrone. In fondo, la pena che i detenuti devono scontare è quella di perdere la libertà e non è previsto che debbano perdere dignità, affetti e tutto il resto. Chissà che con le sue insistenze e il nostro aiuto M.T. riesca a farcela. Cinema: un film sulla storia di Mina Verde, torturata e bruciata dalla camorra di Gianluca Abate Corriere del Mezzogiorno, 27 aprile 2015 Il protagonista sarà Fortunato Cerlino, il boss Savastano della serie "Gomorra". Sarà Fortunato Cerlino - l'attore che impersona il boss Pietro Savastano nella serie di Sky Gomorra - il protagonista del film su Gelsomina Verde, torturata e bruciata durante la fida di Scampia alle 00.35 del 22 novembre 2004 dagli uomini del clan Di Lauro che volevano sapere da lei dove si nascondesse uno Scissionista. Il progetto cinematografico, ideato da Gianluca Arcopinto e diretto da Massimiliano Pacifico, è del Collettivo Mina, il laboratorio nato a Scampia che vede impegnati i ragazzi delle Vele. La vittima di quella barbarie sarà interpretata da Maddalena Stornaiuolo. La tragica fine di Mina fu raccontata anche in due episodi di Gomorra la serie. Molti, in quell'occasione, si chiesero se fosse una vicenda vera o inventata. E, per questo, il 5 giugno 2014 decidemmo di raccontarla un'altra volta. La ripubblichiamo qui sotto. Per non dimenticare. L'idea di (ri)scrivere la storia di Gelsomina Verde, la ragazza torturata e bruciata durante la faida di Scampia, m'e venuta guardando le due puntate della serie Gomorra dedicate al suo caso. Anzi, ad essere più precisi, m'è venuta leggendo le decine di tweet di chi chiede se la vicenda è vera, quali sono i dettagli, che fine ha fatto il processo. Ho pensato, leggendo quei messaggi, che molti, troppi, questa storia non la conoscono o non la ricordano. E, dunque, che è giusto raccontarla di nuovo. Ché quello di Mina non è un semplice omicidio di camorra. È un manifesto della barbarie. E non va dimenticato. Mai. Serviva un mostro, per uccidere Mina. E, non a caso, "mostro" era il soprannome che a Scampia avevano affibbiato a Ugo De Lucia, killer del clan allora guidato da Cosimo Di Lauro, "uno che fa paura solo a guardarlo", lo Stachanov del delitto capace di commettere tre omicidi in appena 14 ore e 20 minuti. Il primo alle 10.15, l'ultimo alle 00.35. Ricordatela, quest'ora. È quella in cui Mina sarà bruciata. È il 22 novembre. Il lunedì è appena iniziato. Corre l'anno di camorra 2004. Mina è (era) Gelsomina Verde. Ha ventidue anni, i capelli neri lisci, un sorriso che mette in mostra i denti candidi e una passione per i cerchi, quei grandi orecchini che conserva in una scatola nella sua stanza. Lavora in una fabbrica di pelletteria. Ed è una ragazza "a posto". Forse è per questo che, dopo un po', interrompe la sua relazione con Gennaro Notturno. L'ha amato, Mina. Ma poi lui è entrato nel Sistema, ha fatto un paio di lavoretti, qualche viaggio, ha scalato la gerarchia. E così la storia è finita, anche perché la situazione sentimentale di Gennaro è complicata. Ora Gelsomina, quando finisce il turno, non corre più da lui. Si dedica al volontariato, piuttosto. E aiuta anche gli ex detenuti. Uno di loro, Pietro Esposito, sarà proprio quello che la tradirà. Lo chiamano Kojak, ché ha il cranio rasato come l'attore del telefilm. Ha trentott'anni, e fa il criminale da quando ne aveva sedici. Tentato omicidio, spaccio di droga, furto, ricettazione, detenzione di armi, rapina. Roba da stare in cella a lungo, e infatti Pietro Esposito in carcere ci sta. Solo che poi, il 19 novembre, esce. Scarcerato grazie all'indultino, sperando che fili dritto. Lui, invece, fila dritto dai suoi vecchi complici. Rientra nel Sistema. E, due giorni dopo, il clan gli affida una missione. Sarà l'ultima. Deve attirare Mina in trappola, Pietro Esposito. Ché lui è uomo fedele al clan Di Lauro, e quel clan ora vuole sapere dove si sia andato a nascondere Gennaro Notturno, uno che con il fratello Vincenzo è passato dalla parte di quelli che chiamano Scissionisti o Spagnoli, perché il loro capo s'è rifugiato in Spagna. Gelsomina, con Gennaro, non c'entra più nulla. Non lo frequenta, non lo vede, non lo sente. I boss, però, sono convinti che sappia dove si trova. E decidono di farla parlare. Il problema, per loro, è che "Mina ha paura di Ugo De Lucia anche se lo vede da lontano", e allora per aggirare l'ostacolo chiamano Kojak. La conosce, sono amici. Così, quando la chiama e le dice che è appena uscito dal carcere, Gelsomina accetta subito di vederlo. Lui, a quell'appuntamento, la "intrattiene". Poi va via. Quello che segue è lavoro per Ugo De Lucia. Il mostro. La tortura per ore, il killer del clan Di Lauro. Vuole sapere chi è questo Gennaro Notturno, uno che a Scampia è arrivato da Barra, e quelli della paranza neppure sanno che faccia ha. E poi vuole un indirizzo, un quartiere, un luogo. Mina, però, dov'è il suo ex fidanzato non lo sa. O forse lo sa ma non lo vuole dire, ché lei e Gennaro non s'ameranno più, ma condannarlo a morte no. Resiste a tutto. I calci, i pugni, le sevizie. È una tortura che immaginare è impossibile. E, se siete tra quelli che hanno parlato di "pugno nello stomaco" dopo aver visto le due puntate di Gomorra su Sky, bè allora sappiate che il pm che indagò sul delitto le definisce "edulcorate". La storia di Mina, quella vera, è la cronaca di un martirio. E si conclude con un colpo di pistola alla nuca. Gli altri, quelli non li sentirà. E non saprà mai neppure che il mostro dopo la infila in una Fiat Seicento e brucia il suo cadavere all'interno dell'auto per cancellare le tracce dello scempio. Se la storia non fosse già schifosa di suo, bisognerebbe aggiungere anche che Gelsomina ha accudito i figli dell'uomo che l'ha tradita (Esposito) e ha fatto da baby sitter al nipote del suo carnefice (De Lucia). Quattro giorni dopo, il 26 novembre 2004, i carabinieri fanno irruzione a via Parascandolo, rione Perrone, Scampia. C'è la casa di Pietro Esposito, lì. E l'arrestano. Kojak, seduto davanti al pm Giovanni Corona, tenta l'ultima difesa: "Io con questa storia non c'entro nulla". È una balla che non regge. Dopo cinque giorni, il direttore del carcere di Poggioreale Salvatore Acerra telefona al magistrato. È mezzanotte e mezzo. E, per la prima volta, gli dà del tu: "Giovanni vieni, Esposito si è pentito". Mezz'ora dopo - quando entra nel penitenziario illuminato a giorno - Corona passa tra due ali di agenti della polizia penitenziaria. Applaudono, ché la storia di Mina è roba dura da mandar giù anche per chi con l'orrore ci convive per lavoro. Pietro Esposito, nella sala degli interrogatori, aspetta il pm. "Io sono solo un mariuolo, non un camorrista". Racconta tutto, il pentito. Solo che, quando il 7 dicembre polizia e carabinieri vanno a arrestare Ugo De Lucia, non lo trovano più. È fuggito, prima che dalla giustizia, dalla vendetta degli Scissionisti. S'è rifugiato in Slovacchia. E lì, il 23 febbraio, lo scova la polizia. Lo fermano mentre rientra in albergo a Poprad, un posto sbagliato per andare a parlare di morte e cadaveri tra i turisti dell'Est. Ha ventisei anni, capelli rasati, jeans e giubbotto di pelle nera e lo sguardo perso nel vuoto. Non grida, il mostro. Lui che, invece, dopo ogni omicidio amava urlare "ho fatto un altro pezzo". I pezzi sono i nemici eliminati. Sono persone. Il pezzo è anche Gelsomina Verde. Il resto, è storia giudiziaria. Il 4 aprile 2006 Ugo De Lucia viene condannato all'ergastolo, Pietro Esposito a 7 anni e 4 mesi (poi ridotti a 6 in appello) perché "non voleva uccidere la ragazza". Il 12 dicembre 2008 condannano all'ergastolo anche Cosimo Di Lauro, accusato di essere il mandante dell'omicidio, e lo stesso Di Lauro risarcisce con 300.000 euro la famiglia di Gelsomina. La sentenza, però, viene ribaltata in appello, e il 12 aprile 2012 il boss viene definitivamente assolto. (Post scriptum. Marco D'Amore, in tv, ha vestito i panni del carnefice di Mina, che in "Gomorra" è Manu. Fa l'attore, è il suo lavoro. Ma, questa volta, è stato più difficile del solito. "Ho sofferto profondamente a girare quella scena". Ché, per certe storie, non basta un telecomando a spegnere il ricordo dell'orrore). Immigrazione: la "zona grigia" che l'Europa non vuol vedere di Gianni Riotta La Stampa, 27 aprile 2015 Migliaia di studenti tedeschi marciano a Berlino chiedendo solidarietà e giustizia per immigranti e rifugiati. Lo striscione del pacifico corteo annuncia "Oggi Lezione di Diritto Politico" e, figli dell'era globale e social, i ragazzi intonano in inglese "Canta forte e sostenuto, il rifugiato è benvenuto". A 70 anni dalla fine della guerra mondiale, grazie a loro, la Germania torna leader spirituale d'Europa, un giorno di Romanticismo. Gli studenti di Berlino ripropongono la domanda del Santo Padre: "Che fare?", davanti alla biblica ondata di migrazione, due-tre milioni di esseri umani, che guerre, carestie, clima, sogno di vita migliore, spingono da Africa e Medio Oriente al largo nel Mediterraneo. Se accendete un talk show o un sito web, gli slogan, fast food del pensiero, sono serviti: Bombardare, Blocco navale, Tolleranza zero per gli illegali, Accogliere tutti, Schiudere le frontiere, Compassione contro profitti. Nella realtà, invece, non esiste soluzione unica, diretta, solo piani complessi e difficili. Il "blocco navale militare", per esempio, sarebbe illegale, impossibile da attuare e innescherebbe ammutinamenti nella Marina davanti all'ordine di sparare contro la legge del mare. La dimensione tragica deve restare punto di partenza, nel 2014 3000 annegati, nel 2015 almeno 1500, in 16 mesi tre Titanic naufragati sulle nostre coste. L'Europa insiste "il controllo delle frontiere è responsabilità nazionale" e bissa la squallida performance degli Anni Novanta con la guerra nei Balcani. Ogni Paese fece i propri interessi, lasciando marcire le deportazioni, finché gli Usa non intervennero. Le carte, gli appelli, la retorica dell'Unione, grondano compassione, solidarietà, benevolenza. Gli intellettuali, a destra e sinistra, sono lesti a condannare gli americani per il muro nel deserto messicano e i milioni di clandestini, ma dimenticano la realtà. 41,3 milioni di emigranti vivono in America, record storico; un emigrante su cinque al mondo, il 20%del totale, sbarca negli Usa che hanno solo il 5% degli abitanti della Terra; gli emigranti sono 13% dei 316 milioni di cittadini Usa, con i figli arrivano a 80 milioni, 25% della popolazione. Gli Usa si dilaniano sul tema, la riforma dell'emigrazione è campo di battaglia nella corsa alla Casa Bianca 2016, l'Europa è inerte Ponzio Pilato. Spera, come davanti a Milosevic, al fondamentalismo islamico, a ogni emergenza, che anche la tragedia emigrazione venga infine assorbita da una pubblica opinione estenuata da anni di crisi economica. Contro quest'inerzia, politica e morale, protestano i ragazzi di Berlino, avanguardia della generazione Erasmus, pur consapevoli che la Germania accoglie più rifugiati di tutti nell'Unione. Una strategia geopolitica è indispensabile contro la calamità geopolitica che mette in marcia quelli che un tempo Frantz Fanon chiamava "Dannati della Terra". Per disegnarla servono lo sforzo congiunto, la fantasia, di politici, urbanisti, economisti, diplomatici, Difesa, uomini di fede. Servono sì azioni militari, sul modello della campagna che ha ridimensionato i pirati del Corno d'Africa, raid contro il racket, contro le milizie che li proteggono, contro i banditi-guerriglieri-terroristi che li scortano nel deserto, contro i porti del traffico, anche con droni, per dare il senso che l'Ue fa serio. Ma in parallelo serve un Piano Marshall, dal respiro decennale, in cui coinvolgere altre potenze - per esempio la Abi, Banca di sviluppo asiatico promossa dalla Cina che può intervenire nel Medio Oriente - dando alternative alla rotta disperata dei gommoni. Gli Usa destinarono al Piano Marshall il 4% del loro Pil: noi quanta ricchezza siamo disposti a investire per la pace del Mediterraneo? Si mette in mare il ceto medio africano, depauperando la classe dirigente locale e rallentando la positiva crescita del continente che, non dimenticatelo, il Fondo monetario calcola nei Paesi del sub Sahara al 5% nel 2014 e 5,75% nel 2015. Blitz e piani di crescita non fermeranno però le ondate e lì l'Europa deve stimare gli ingressi, razionalmente, senza alzare i già rabbiosi umori populisti. Illudersi che siano l'Onu o gli americani a risolvere per noi il dilemma è ipocrita. Quando rileggiamo, nel 2015 le memorie 1945 di padri e nonni, vediamo amaro il ricordo "di chi restava a guardare", davanti ai treni piombati verso i lager, ai rastrellamenti, ai comizi dei dittatori, alla raccolta delle vittime. Indignarsi è facile per noi nel tinello del XXI secolo, opporsi a mani nude alla violenza richiede coraggio fuori dal comune. I libri che diamo in lettura agli scolari deprecano gli ignavi di allora: e noi? L'Europa decida quel che vuole, per calcolo elettorale, convenienza del momento, paura di agire, egoismi. Ma tutti saremo giudicati con la stessa severità con cui Primo Levi inchiodava "la zona grigia" dei lager tra vittime e oppressori. Il prossimo Titanic che scomparirà nelle acque delle vacanze, mentre ci commuoviamo cambiando canale senza far poi nulla, ci renderà "zona grigia". Non aspettiamoci dunque pietà da chi ci giudicherà. Immigrazione: cure urgenti anche ai migranti non in regola con il permesso di soggiorno di Tiziana Krasna Il Sole 24 Ore, 27 aprile 2015 La sezione II-quater del Tar Lazio, con sentenza 15 aprile 2015 n. 5617, si è pronunciata sulla possibilità - regolamentata dall'articolo 35 del Dlgs n. 286 del 1998 - di ricevere, pur se non in regola col permesso di soggiorno, nei presidi pubblici ed accreditati, le cure ambulatoriali ed ospedaliere urgenti o comunque essenziali, ancorché continuative, per malattia e infortunio, osservando che l'articolo 35 del Testo unico si limita a contemplare la somministrazione di cure mediche urgenti anche a favore dello straniero che si trova in posizione irregolare, ma non impone il rilascio di un permesso di soggiorno (cfr. Consiglio di Stato, n. 8055 del 15 novembre 2010). Come ha evidenziato anche la giurisprudenza civile, chiamata a pronunciarsi sulla garanzia della temporanea inespellibilità delineata dall'articolo 35 del Testo unico (si vedano Cassazione, n. 7615 del 4 aprile 2011 nonché n. 1531 del 24 gennaio 2008), inoltre, la norma in esame copre solo quegli interventi che, successivi alla somministrazione immediata di farmaci essenziali per la vita, siano indispensabili al completamento del primi o al conseguimento della loro efficacia, nel mentre restano esclusi quei trattamenti di mantenimento o di controllo che, se pur indispensabili ad assicurare una spes vitae per il paziente, fuoriescono dalla correlazione strumentale con l'efficacia immediata, dell'intervento sanitario indifferibile ed urgente. Ed invero, ha aggiunto la Suprema corte, non si tratta di escludere dall'area degli obblighi costituzionali della Repubblica - nel campo della salute - prestazioni o controlli altrettanto necessari ma destinati alla indeterminata reiterazione perché assicurino effetti quoad vitam: si tratta di distinguere tra (articolo 35) interventi indifferibili (anche se di consistenza temporale non irrilevante) che rendono inespellibile lo straniero irregolare che di essi necessiti ed interventi sanitari che qualunque straniero può fruire in Italia ove chieda ed ottenga, previa valutazione dell'autorità amministrativa, il previsto permesso di soggiorno per cure mediche (Testo unico, articolo 36). Il caso. Nella specie, nell'ambito di una vicenda che lo stesso organo giudicante non esita a definire complessa, si controverteva, in particolare, in ordine al rigetto dell'istanza - avanzata da un cittadino dello Zimbabwe - volta al rilascio di un titolo di soggiorno per cure mediche. Argomenti, spunti e considerazioni. La conclusione del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio persuade. I giudici amministrativi laziali hanno infatti colto e sviluppato la distinzione, già fatta propria dalla Corte di cassazione, fra gli interventi indifferibili (anche se, eventualmente, di consistenza temporale non irrilevante) che rendono inespellibile lo straniero irregolare che di essi necessiti (articolo 35 citato) e gli interventi sanitari che qualunque straniero può fruire in Italia ove chieda ed ottenga, previa valutazione dell'autorità amministrativa, il previsto permesso di soggiorno per cure mediche di cui all'articolo 36 del decreto legislativo n. 286 del 1998 (in tal caso, più esattamente, una volta ottenuto uno specifico visto di ingresso per ricevere tali cure in Italia, si può ottenere il relativo permesso di soggiorno). Nella specie, superata la condizione di emergenza sanitaria verificatasi nel 2012, l'autore stesso dell'istanza affermava di seguire regolarmente la terapia e di doversi sottoporsi a visite di controllo destinate a durare per tutta la vita o per buona parte della stessa, collocando di conseguenza la fattispecie al di fuori dei confini propri della situazione di cui al citato Testo unico, articolo 35, come sopra inteso dalle corti giudicanti. Indonesia: esecuzione capitale di 9 stranieri entro 72 ore, consegnata notifica ai detenuti Ansa, 27 aprile 2015 Ignorando la pressione della comunità internazionale, l'esecuzione di nove stranieri - tra cui un francese e due australiani - condannati per spaccio di droga in Indonesia avverrà entro i prossimi tre giorni. Lo hanno annunciato le autorità di Giakarta, consegnando ai prigionieri la notifica "delle 72 ore" dalla fucilazione. Delle procedure d'appello presentate rimane in piedi solo quella del francese Serge Atlaoui sulla quale domani si pronuncerà la Corte Suprema. La Francia che ha minacciato conseguenze diplomatiche. I detenuti - tre nigeriani, due australiani, una donna filippina, un brasiliano, un francese, un ghanese e un indonesiano - sono stati condannati negli ultimi dieci anni per traffico di stupefacenti in Indonesia, dove per tale reato è prevista la pena di morte. Il caso ha complicato le relazioni diplomatiche in particolare con Parigi, Canberra e Manila, dopo che in gennaio la fucilazione di altri cinque detenuti stranieri aveva provocato reazioni diplomatiche da parte dell'Olanda e del Brasile. La linea dura sul traffico di droga è stata decisa dal nuovo presidente indonesiano Joko Widodo, dopo che per anni l'Indonesia non aveva portato a termine nessuna esecuzione. Widodo ha definito la questione della droga "un'emergenza nazionale", citando statistiche secondo cui ogni giorno nel Paese 40 indonesiani muoiono per le conseguenze del consumo di stupefacenti. Eritrea: in 2.000 scappano ogni mese, l'ex colonia italiana diventata la prigione d'Africa di Alessandra Coppola e Michele Farina Corriere della Sera, 27 aprile 2015 "Dolce vita": è il marchio di certe camicie che si vendono in Eritrea. A produrle è una ditta italiana. Dà lavoro a oltre 500 persone. Fabbrica ad Asmara, capitale della nostra ex colonia da cui scappano duemila persone al mese, secondo le stime dell'Alto commissariato Onu per i Rifugiati. Una settantina al giorno. Non c'è luogo al mondo che non sia in guerra e che registri un esodo così massiccio e continuato. Sei milioni di abitanti. Il 20 per cento è già partito. Ma non sempre è arrivato. In 350 sono morti solo nell'ultimo naufragio. Descriverla come una prigione a cielo aperto, la Nord Corea africana del dittatore un tempo marxista Isaias Afewerki, è un luogo comune. Così comune che diventa normale dimenticarselo. Roma è la capitale che, tra mille difficoltà, vanta i migliori rapporti diplomatici con la linda Asmara dove i palazzi ricordano Latina e nei bar ti versano ancora il Punt e Mes in versione africana. Ragioni storiche, culturali. Il popolo eritreo è meraviglioso. Ma in Eritrea la dolce vita è soltanto il marchio di una camicia. Per questo Almas, 29 anni, è scappata con la figlia. Ha lasciato la sua terra coi genitori quando era piccola. È cresciuta in Sudan, alla periferia di Khartum, ha sposato un connazionale. Quando lui è morto, non sapeva come sfamare la bimba. Girava voce che in Libia si trovasse lavoro. Non sapeva che c'era il caos? "No, non lo sapevo - dice al Corriere. Non avevo scelta". Il 15 novembre scorso, tratta con dei passeur e parte. "Quando ho superato il confine ho capito che c'era la guerra". I trafficanti la portano ad Agedabia, in Cirenaica. Ma poi le dicono le strada è chiusa, impraticabile: deve andare a Tripoli. Lì trova lavoro come badante: "Ma non si poteva vivere, bombe e spari ovunque, faceva paura". Gli 800 dinari guadagnati li usa, allora, per pagarsi un passaggio in mare, assieme alla figlia. Almas dice che "i veri trafficanti non si vedono", le persone con le quali ha trattato erano "aiutanti", parlavano il tigrigno, forse erano pure eritrei. In mare, racconta, è stata fortunata, un giorno e mezzo di navigazione soltanto, a bordo di un gommone stipato di 200 africani, fino all'Italia, pochi giorni fa. Cosa volete che sia, restare pigiati su un barcone, per chi magari ha sofferto la tortura dell'otto. Altro nome italiano, come dolce vita. Nella posizione dell'otto, il torturato in Eritrea viene messo a faccia in giù sotto il sole cocente, mani e piedi legati dietro la schiena. Lo racconta al Corriere Mike Smith, al telefono da Sidney. Veterano della diplomazia australiana, ha guidato la commissione d'inchiesta Onu sull'Eritrea istituita dal Human Rights Council: 400 fuggiaschi (gli ultimi scappati dall'Eritrea a febbraio), 140 testimonianze scritte, rapporto finale presentato a Ginevra due mesi fa. La storia che gli è rimasta più impressa è quella di un giovane di 32 anni, che chiameremo Issa, incontrato in un campo profughi in Africa. "Un giorno i militari sono andati a prenderlo nel suo villaggio". Quel giorno è entrato nel meccanismo infernale del "servizio militare" permanente. Una specialità eritrea per tutti i ragazzi e le ragazze dai 16 anni in su. La generazione dei warsai, cresciuti nell'Eritrea indipendente. Ma non libera. Entri nei campi militari e ne esci vecchio. Prima l'addestramento, poi lavori forzati secondo i voleri degli ufficiali. Agricoltura, infrastrutture Issa ha fatto il bracciante, 7 giorni su 7. Per 10 anni. La sua gioventù, la sua dolce vita. Una volta ogni quattro anni gli permettevano di tornare a casa. Guadagnava 500 nafka, meno di 10 euro. Finché riceve la lettera della sorella: "Hanno arrestato tuo fratello, torna". Lui va al villaggio, cerca di capire dov'è il ragazzo, perché l'hanno preso. Gli ordinano di tornare al suo posto, se non vuole farsi arrestare. Al campo viene punito. Cinque giorni la tortura dell'otto, un paio di volte al dì gli slegano un braccio per un sorso e un boccone. Un giorno che è di turno alla frontiera, prova a scappare. Gli va bene. Non gli sparano come succede ad altri. Entra nella schiera infinita dei Segre-dob, "coloro che attraversano il confine". "Quell'uomo è il simbolo dell'Eritrea - dice Smith. Alla fine mi ha chiesto cosa avremmo fatto per lui, ho risposto che potevamo almeno far conoscere la sua storia. "Per me sarebbe già molto", ha sorriso prima di scomparire nella polvere del campo". Cosa volete che sia, per i Segre-dob come Issa, sopportare i trafficanti di uomini fino alle coste libiche. Lui con "gli schiavisti" è cresciuto a casa sua. Non ha soldi per proseguire l'odissea. Un posto su un barcone forse sarebbe già un miraggio. Un miraggio anche per le 400 persone prigioniere a Misurata, in Libia, da mesi. Soprattutto eritrei. Lo denuncia don Mussie Zerai, riferimento in Europa di tutti i Segre-dob. In 60 viaggiavano verso Tripoli, avevano già pagato 1.600 dollari a testa per arrivare al porto. Scortati dai trafficanti sono stati fermati da un'altra banda, c'è stata una sparatoria (tre eritrei morti). Gli assalitori si sono accaparrati la "merce umana", portandola in una "prigione" di Misurata. Lì c'è una donna libica che convoca i migranti uno alla volta: se vogliono essere liberati devono pagare altri 2.000 dollari, devono chiamare familiari o amici ai quali vengono date indicazioni su dove spedire il "riscatto". Cinquanta donne sono state portate via e non si sa che fine abbiano fatto. Eccola, la dolce vita degli eritrei prima di incontrare il Mediterraneo. Mario Giro, sottosegretario agli Esteri, dice che il governo italiano fa della questione dei diritti umani una questione centrale nel dialogo con Afwerki. Il regime ha annunciato che ridurrà il servizio nazionale a 18 mesi. La gente non si fida, dice Smith. Asmara dovrebbe fare un gesto concreto, forte, come per esempio cominciare a liberare una parte dei 10 mila prigionieri politici. Finlandia: il carcere "aperto" dove i detenuti pagano l'affitto e hanno le chiavi della cella www.globalvoicesonline.org, 27 aprile 2015 Trovare i detenuti della prigione di Kerava, in Finlandia, è semplice, basta seguire il sentiero alberato e aprire la porta della serra. "È abbastanza rilassante vivere qui" mi racconta Hannu Kallio, un trafficante di droga, detenuto a Kerava. "Abbiamo anche i coniglietti". 70 sono i detenuti di questa prigione che, ogni giorno, vanno a lavorare nella serra. Oggi invasano delle piantine, in vista della grande vendita di primavera. E sì, c'è un recinto pieno di coniglietti: ci passano il tempo e se ne prendono cura. Ci sono anche le pecore. In questo carcere non ci sono cancelli, serrature o uniformi: è un carcere aperto. Tutti i detenuti hanno fatto domanda per venirci. Ricevono 8$ l'ora, hanno il cellulare, fanno la spesa in città e hanno diritto a tre giorni di riposo ogni due mesi. Pagano l'affitto, possono scegliere di andare all'università in città piuttosto che lavorare e ricevere il contributo di sussistenza. A volte, con i supervisori, vanno in campeggio o a pescare. I detenuti sanno che non è difficile scappare: "Puoi andare, se vuoi" dice Kallio "però se scappi, torni in galera. Allora meglio stare qui". Ogni primavera, centinaia di persone vengono alla prigione di Kerava per fare dei picnic, per passeggiare con gli animali e per comprare le piante coltivate dai detenuti. Le prigioni all'aperto in Finlandia esistono dagli anni trenta. All'epoca erano più che altro dei campi di lavoro. Oggi sono considerate l'ultimo passo della pena prima del ritorno alla vita civile. "Non vogliamo sbattere in galera le persone per il resto della loro vita," dice Tapio Lappi-Seppälä, capo dell'Istituto di Criminologia dell'università di Helsinki, "perché, in quel caso, si dovrebbe investire molto ed essere certi che esista una reale possibilità di riabilitazione." Non è sempre stato così. Fino a pochi decenni fa la Finlandia aveva uno dei più alti tassi di reclusione in Europa. Poi, negli anni sessanta, alcune ricercatori scandinavi hanno studiato la relazione tra l'efficacia della pena detentiva e la relativa riduzione del tasso di crimine. La conclusione dimostra che la pena detentiva non aiuta a diminuire i crimini. "Per la prima volta un'analisi critica ha dimostrato che le pene detentive non funzionano realmente" sostiene Lappi-Seppälä. Durante i successivi trent'anni, la Finlandia ha a poco a poco rimodellato la politica detentiva. Al termine di questo periodo di "decarcerazione" la Finlandia aveva il più basso tasso di detenzione in Europa. Lappi-Seppälä aggiunge inoltre che i reati non sono aumentati. Ed è sempre lui a sostenere che: "L'esperimento in Finlandia ha dimostrato che è assolutamente possibile interrompere la reclusione per i due terzi della popolazione carceraria, senza influire sull'andamento dei reati del paese". Il graduale reinserimento nella vita normale, offerto dalle carceri aperte, ha davvero funzionato. Se, stando ai dati dell'Agenzia delle Sanzioni Criminali, un terzo dei detenuti in Finlandia è rinchiuso in carceri di questo tipo, è anche vero che questi ultimi difficilmente ritornano sulla cattiva strada. Il tasso di recidività è infatti sceso del 20% circa. Le carceri aperte costano meno. Esa Vesterbacka, capo dell'Agenzia delle Sanzioni Criminali, sostiene che eliminando i costi dei sofisticati sistemi di sicurezza e del personale (mettendoli in strutture che sono essenzialmente dormitori) il costo per detenuto scende di almeno un terzo. Ovviamente, non è il risparmio la ragione principale di questo tipo di carceri, ma come dice Vesterbacka : "Oggi se si può risparmiare è meglio". Tra le principali attrazioni turistiche di Helsinki c'è persino un carcere aperto sull'isola di Suomelinna. L'isola fa parte del Patrimonio Mondiale Unesco e brulica di turisti in estate. E c'è solo una staccionata a separare la prigione dalla zona con appartamenti residenziali e musei. I detenuti del carcere di Suomelinna vivono in un dormitorio di colore blu che assomiglia ad una casa. Solo una staccionata separa la prigione dal resto dell'isola, già popolare destinazione turistica. "Non capisci davvero che stai camminando nel bel mezzo di un carcere," dice Lappi-Seppälä. "Non ci pensa nessuno e non credo che neanche i turisti americani trovino la cosa pericolosa". Anche la popolazione locale sembra essere d'accordo. Parlando dell'argomento con i residenti di Kerava e Suomelinna, soprattutto riguardo al pericolo di condividere la città con dei detenuti, la maggior parte di loro rimane perplessa. Alcuni rispondono che addirittura i detenuti contribuiscono a migliorare la vita della comunità restaurando dimore storiche o pulendo spazi pubblici. Sarebbe interessante chiedersi come questo sistema possa funzionare in altri paesi. In particolare, negli Usa che hanno il numero più alto di detenuti al mondo. Heather Thompson, un professore di storia della Temple University, studioso della carcerazione di massa e della vita dei detenuti, sostiene che sia difficile da immaginare, in quanto gli Usa non ne stanno proprio parlando. "Abbiamo appena realizzato che c'è un problema di sovraffollamento nelle carceri. Dovremmo ancora capire quali siano le attuali condizioni di reclusione, la reale esperienza di vita delle persone nelle carceri così che queste possano tornare alla fine della loro pena ad essere degli esseri umani". Quando ho parlato con Hannu Kallio nel carcere aperto di Kerava, stava per scontare gli ultimi mesi di carcere a casa, lavorava per un'azienda di riciclo e viveva con sua moglie, le sue figlie e un Jack Russell terrier. Un uomo di nome Juha (non ha voluto dirmi il suo cognome) è in attesa del suo primogenito. Sta scontando l'ergastolo, ma per la maggior parte delle volte, questa pena in Finlandia si tramuta in un totale di 10-15 anni di reclusione. "È una cosa importante, quella che mi sta accadendo" mi racconta Juha, "ma non so quando uscirò. Praticamente, sarà la madre a crescerlo". Juha non è sicuro quando potrà tornare a casa dalla sua famiglia, ma sa che alla fine tornerà. E per uno che è stato condannato all'ergastolo in un carcere di massima sicurezza, è tanto.